Tra le lucciole che rendono sopportabile il buio. “Fuori non è ancora così. Voci da una classe multietnica” di Miriam D’Ambrosio. Recensione di Davide Toffoli

Undici anni fa usciva un libro di poco più di novanta pagine: Fuori non è così di Miriam D’Ambrosio, pubblicato per la Collana Centocinquanta della Barbera Editore. Un breve viaggio in ventiquattro piccole tappe, intrise di sogni, passioni e paure, all’interno di quel “recinto magico” nel quale può trasformarsi una qualsiasi classe delle nostre scuole, laddove presenza, entusiasmo e motivazione di docenti e studenti riescono a convergere in quella sorta di “non luogo” privilegiato che è, a dire il vero, la conoscenza della vita stessa. Oggi, dal seme di quel delizioso fiore, è nata una nuova pubblicazione di quegli splendidi frammenti di anime, grazie all’editore Florindo Rubbettino, con l’aggiunta di nuovi capitoli che vanno ad impreziosire, senza scalfirne l’intensità, il racconto di quella quotidiana esperienza didattica.

Come ebbi già modo di scrivere, si tratta di un racconto leggero e sottile, che trasuda atmosfere familiari a tutti coloro che hanno varcato la soglia di una qualsiasi delle nostre classi e che le hanno vissute “dall’interno”, raccogliendo ogni istante come se si trattasse sempre del più prezioso. Una sorta di “collezionismo”, nel quale si fanno strada vitalissimi personaggi reali, deboli e coraggiosi al tempo stesso, che racconta un mondo, troppo spesso dimenticato e messo in secondo piano, che nutre e aiuta a crescere un numero inquantificabile di persone, al di qua e al di là dalla famigerata “cattedra”.

Il lavoro dell’autrice si rivela una preziosa rassegna di piccoli eroi del quotidiano, chiamati a galleggiare sulla precarietà del presente e a ritagliarsi, mai senza sforzo, il proprio posto nella vita; a questi piccoli eroi la “prof” (come si definisce, quasi a sottolineare un ruolo mai come adesso così sottoposto a continui tagli, imposizioni e ritagli) suggerisce letture e personaggi, danzando tra un romanzo ed un testo teatrale, proponendo assaggi mirati di vite appese ad un filo, dove il lieto fine (per quanto pesantemente auspicato) non è affatto scontato.  

Un vero viaggio nella dimensione umana, che riesce a ripercorrere indelebili tappe della letteratura, con il coinvolgimento e la discrezione dei suoi grandi momenti, con la passione riservata al mistero quasi sacro della “prima volta”: l’amicizia raccontata attraversando le pagine di Pasolini e di Uhlman; il difficile rapporto con il padre, evocato ed affrontato sulle suggestioni di poeti come Leopardi, Saba o Sbarbaro; e ancora lezioni d’amore, con l’impronta pesante di Giulietta e Romeo o di Paolo e Francesca, dove si attraversa la tragedia, sballottati verso il dubbio e la passione irrefrenabile, feriti dal tradimento del fratello Gianciotto; la convivenza impossibile con la tremenda gelosia di Otello; l’immancabile e troppo spesso da noi trascuratissimo tema del “doppio”, dove si fatica a riconoscere dentro di sé un Mister Hyde da tenere a bada o un Minotauro da affrontare.

Un libro che nasce dall’amore e dall’equilibrismo quotidiano di una Professoressa (la maiuscola è d’obbligo) che ha scelto di non cedere all’immobilismo, continuando a leggere, vivere, rileggere e sognare, ma soprattutto che punta a condividere tutto questo con le persone, adulte e meno adulte, che le si affidano. Perché “Raccontare la bellezza dell’essere umano non è solo una scelta, è necessità. Lo stupore deve accompagnarci, è una specie di guida che non dà mai niente di scontato”. È la chiave di lettura più preziosa da condividere con i ragazzi.

E questi ragazzi vengono da Ghana, Costa d’Avorio, Senegal, Marocco, Egitto, Algeria, India, Pakistan, Filippine, Ecuador, Albania, Romania, Italia. Strabordanti di sogni e paure, sono qui in un istituto professionale, soprattutto per imparare un mestiere, ma ecco che le ore di Italiano si trasformano in un indelebile momento di condivisione. Miriam D’Ambrosio, nonostante il prevalente quasi costante grigiore della Val Padana, apre finestre davanti a loro, spalancandole sui colori del mondo, senza obbligare nessuno ad uscire, ma insegnandogli a nutrirsi di sguardi, riflessioni e racconti.

Seguirli in queste pagine e in questi oltre undici anni è toccare con mano la vita che scorre, avvertirne il cuore pulsante, osservarne i volti sempre nuovi che scrivono, pensano e parlano di Dorian Gray, seguono l’Innominato nella sua tormentata notte, giudicano i migranti di Sciascia, incontrano Pin nel suo rifugio, un sentiero dei nidi di ragno dove stare al riparo dalla realtà, tra le lucciole che rendono sopportabile il buio.

DAVIDE TOFFOLI


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“Le Istantanee di un Atmonauta” di Domenico Guida. Recensione di Fiorella Cappelli

Con la silloge Le Istantanee di un Atmonauta (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2024) l’autore, Domenico Guida, si presenta al lettore prendendolo teoricamente per mano conducendolo, mediante un percorso tematico, alla scoperta di un ideale viaggio sensoriale tra parole, profumi, musica e immagini elaborate, su un pentagramma di diversi versi sciolti e liberi, mostrandosi abile nell’arte della “Retorica” con un linguaggio evocativo-figurativo, servendosi di molteplici figure: di suono, di significato, di costruzione atte a creare svariati effetti per il tramite di versi modulati in un concetto d’insieme: l’io  e te, il “Noi”.

Il poeta, musicista, scrittore e cantautore, definisce la sua opera composta, con la frase, nel sottotitolo di copertina, riportata a caratteri leggeri, chiari, in corsivo Raccolta di pause e poesie aprendo la sua anima anche al dialogo con se stesso, nella profondità del suo “io”, nello spazio-tempo del “qui e ora”, atto a fermare il momento, l’istante fatto di respiro e tempo: un’istantanea che lascia traccia, impronta, forma nella voragine più profonda del suo essere, con il suo linguaggio dell’amabilità che, nell’espressione multiforme, avvalendosi dei quattro elementi e i cinque sensi fusi tra loro, si fa viatico di vibrazioni di quell’istante cristallizzato ed ecco allora che il suo mezzo espressivo apre a un linguaggio  universale e “la verità del poeta” traspare nel dare colore ai toni di grigio.

Con Le Istantanee di un Atmonauta Guida si offre al lettore con la sua silloge svelandoci il suo “Alter-ego”: Atmo, un personaggio di sua creazione (materializzatosi in una graphic novel e facente parte, insieme al libro e al concept-album, del suo ultimo progetto “Retorika”). Atmo, capace di “lasciarsi andare e fluttuare veloce ed alto, decide di navigare l’aria ed il tempo… fuggevole” (scrive il poeta), ma anche per intraprendere un volo “dagli occhi al cuore” occorre avere un punto di partenza e questo il Guida lo sa bene perché inizia il suo viaggio dai riferimenti certi con la lirica “A mio Padre”, una dedica al suo “eroe/impavido, guerriero/; ed ecco, il prosieguo, /tu ed io in successione come un verso/…Un cuore grande come il tuo/… trabocca da ogni dove…”.

Nell’emozione che il lettore raccoglie, ogni parola, ogni riferimento creano colore, evocano immagini, Lidia Tavani, che ne ha curata l’introduzione, tra gli svariati temi affrontati da Guida nel suo tomo, sceglie quello dell’istante e dell’istinto senza pero tralasciare l’intensità del sentimento ed “il ritmo dei fonemi” che accompagna tutta l’opera.

FIORELLA CAPPELLI


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“Il piano inclinato” di Roberto Alajmo. Recensione di Gabriella Maggio

Il titolo dell’opera, Il piano inclinato (Sellerio), immette il lettore, attraverso una metonimia, nell’universo diegetico dell’opera, evidenziato anche dall’immagine di copertina di Markenzy Julius Cesar connotata di forte espressività. Il piano inclinato su cui si muove il giovane Ousmane costituisce anche un fondale di palcoscenico, una delimitazione drammaturgica che dà corpo all’allegoria sottesa alla narrazione, alla quale rimanda la prima frase del testo: “Chiamiamolo Ousmane”. È un avviso al lettore, la comunicazione esplicita del patto narrativo che dà al protagonista Ousmane il ruolo di rappresentante di tutti gli altri minori non accompagnati che compiono lo stesso itinerario di migrazione.

Ousmane ha deciso di lasciare Kalabougou, nel Mali, per cercare fortuna altrove, in quello che chiamerà il “nuovo mondo”, secondo il consiglio che gli ha dato il padre in punto di morte: “aprire una finestra”. Ousmane sa di affrontare una grande avventura, di stare su un piano inclinato, ma non riesce a immaginare se sarà in salita o in discesa: “Ousma aveva sedici anni, e a sedici anni si ha una percezione abbastanza confusa dei fatti che accadono, anche quando accadono molto vicino.”.

Il romanzo è duro e rivendicativo. Roberto Alajmo racconta il fallito percorso di formazione on the road dell’ingenuo Ousmane nella spietata società odierna, nell’amara consapevolezza delle “occasioni mancate” della politica nei confronti degli immigrati, lasciati in un vuoto disperante dopo l’accoglienza iniziale.

Nel nuovo mondo in cui arriva, Ousmane non riesce a dare le risposte “giuste” alle domande che gli sono poste, a volte neppure riesce a rispondere, soltanto dopo molte delusioni e amarezze, oltrepassa, senza accorgersene “la soglia di consapevolezza… che marca la differenza fra quello che prima no e adesso invece sì… Ancora ha un’idea abbastanza vaga di cosa fare, ma è molto deciso a farlo.”. Trovandosi nella terra di nessuno, in attesa che la Commissione gli conceda il permesso di soggiorno, il ragazzo avrà il coraggio di rivendicare la propria dignità e dare un senso alla sua vita. Alajmo narra con vigore, alterna il ritmo lento, a quello concitato, la terza persona, all’indiretto libero. Senza facili cedimenti sentimentali dà vita a un personaggio fragile, combattuto: “Se ci riflette sopra si vergogna di certi suoi pensieri egoistici, cerca di scacciarli. Poi però pensa che finché prova vergogna è autorizzato a credere che il ragazzo ingenuo che era non è stato del tutto cancellato…”. Il piano inclinato è certamente un libro oggi necessario, aderente alla realtà, affronta, senza gli abusati cliché pietistici, il tema dei migranti, dà voce alla loro rivendicazione della propria dignità umana, non tace sulle mancanze e sulle ipocrisie del “nuovo mondo”.

GABRIELLA MAGGIO


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“Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini. Recensione di Gabriella Maggio

Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024) di Antonio Franchini è un romanzo che affronta diversi temi così intimamente legati da richiedere un lettore molto attento. La storia si svolge tra Napoli e Milano, viste attraverso le impressioni e le esperienze dei protagonisti. Il tema dominante è il racconto della vita e del carattere della madre dello scrittore-narratore, Angela Izzo, orgogliosamente “sgherra “e “sannita” e per questo violenta e volgare nel linguaggio, piena di pregiudizi, avversa a tutto e a tutti: “Non concede mai al vento della sua avversione un rifugio, ma gli lascia davanti una prateria dove soffiare senza requie. Ha bisogno di odiare come di respirare, sente di non esistere se non si contrappone”.

Angela è rappresentata attraverso i ricordi e le emozioni negative che suscita nel figlio: “Mi ha dato un’educazione a rovescio: i valori ai quali si ispira o li esprime in una forma riprovevole o sono disvalori veri e propri. Detestare è il verbo preciso…”. Ma nel romanzo non c’è soltanto l’emotività propria del memoir, lente deformante dei fatti realmente vissuti dal figlio-narratore. Attraverso l’espressionismo del linguaggio napoletano, intrecciato ad un uso sobrio dell’italiano, il lettore trova una riflessione sul mondo contemporaneo.

Attraverso il comportamento di Angela lo scrittore analizza le relazioni familiari, prive di manifestazioni d’affetto e di comprensione. La madre e la nonna stabiliscono rapporti di sopraffazione sugli altri familiari simili a quelli della malavita. Il padre, estraneo alla violenza femminile, vive in un mondo suo, tranquillo e silenzioso, segnato dai lutti familiari.

La famiglia di Angela si può definire borghese, ma rivela la crisi della borghesia cittadina nell’imitazione del linguaggio e degli atteggiamenti della “plebe”, come per esorcizzarne la paura, rinunciando ad un ruolo sociale progressista. Emblematico è il dialogo tra Angela e la vicina che le chiede: “Tuo marito ti picchia? E mentre lei (Angela) mormora un no confuso, quell’altra ribadisce: “E allora vò dicere ca   nun te vò bene!”. Ed anche l’analisi di Zappatore di Mario Merola: “In realtà, l’ingratitudine filiale è solo il tema apparente di Zappatore, perché ciò che la canzone ostenta è soprattutto la fierezza del contadino, la sua superiorità morale sul signore, una  supremazia ribadita dalla posa guappesca (“senza cercà ‘o permesso abballoi’ pure), dall’imposizione di sé e del suo mezzo, dal rovesciamento per cui “Vossignuria se mette scuorno’e nuje/Pur ‘i’ me metto scuorno ’e’ ossignuria”, che è la stessa cosa del “loro schifano a  me, io schifo a loro” di Angela….Questo senso d’inferiorità dello zappatore, che si rovescia nel suo contrario, è lo stesso di tutto il Sud”.

Dal racconto risulta evidente che Angela è sì spontaneamente se stessa, con tutte le sue contraddizioni, ma è anche il “personaggio” che lei stessa s’è cucito addosso, forse per la simpatia che le sue espressioni suscitano negli amici e nei conoscenti o forse per ritagliarsi un ruolo autonomo e non succubo nel rapporto con gli altri.  Tuttavia la simpatia non riesce a conservarla a lungo perché prima o poi prevale la sua indole di “sgherra”. In fondo non le interessa quello che di lei pensano gli altri, tanto è concentrata su se stessa, sul suo risentimento: “Angela si aggira in questo magma combustibile con uno stoppino sempre acceso in mano e solo con l’imbarazzo della scelta su dove innescarlo”. Eppure Angela è un punto fermo nella vita dei familiari, soprattutto dei figli che le saranno vicini quando si trasferisce a Milano: “Eppure non sappiamo che cos’è, in realtà, questo lungo, occulto bisogno dell’approvazione di un genitore, fosse pure un mostro, avvinto a noi più strettamente proprio in ragione della sua mostruosità…”. Il soggiorno milanese dei personaggi offre l’occasione per affrontare il tema del rapporto sud nord. Angela naturalmente rifiuta di accettare il diverso modo di relazionarsi con gli altri, ostinandosi a non comprendere il modo altrui di concepire la vita. Però, sebbene continuino le incomprensioni, il rapporto tra madre e figlio in qualche modo si addolcisce.  Romanzo complesso e stratificato, dunque, è “Il fuoco che ti porti dentro” scritto con grande abilità nel comporre e intrecciare i temi e i piani temporali, nel tenere vigile l’attenzione del lettore, che pure rintracciando qualche aspetto di sé (in fondo de nobis fabula narratur) non riesce ad abbandonarsi alla storia narrata, ma resta sempre vigile e attento.

GABRIELLA MAGGIO


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“La biblioteca dei fisici scomparsi” di Barbara Bellomo. Recensione di Gabriella Maggio

Il mitico cenacolo dei fisici di via Panisperna, la misteriosa scomparsa di Ettore Majorana, una storia d’amore contrastato dalla famiglia, ma invincibile, un padre tiranno, nel contesto della storia italiana tra la fine degli anni ‘20 e gli anni ‘50 costituiscono i temi dell’avvincente romanzo di Barbara Bellomo La biblioteca dei fisici scomparsi, edito da Garzanti.

Un romanzo storico che mescola microstoria e Storia, invenzione e fatti, mette Barbara Bellomo sulla linea segnata da altre scrittrici siciliane come Goliarda Sapienza, Maria Attanasio e Simona lo Iacono. Il romanzo si sviluppa tra passato e presente, quasi un diario dei fatti essenziali che segnano la vita di Ida Clementi, la bibliotecaria di via Panisperna.

Contravvenendo al divieto paterno di lavorare, grazie all’incontro con l’illustre Orso Maria Corbino, amico del padre, Ida ottiene il posto di bibliotecaria che la mette al fianco dei più grandi fisici italiani del tempo. In particolare diventa amica di Ettore Majorana con cui condivide l’origine siciliana e la passione per la letteratura: “Signorina Clementi, lo sa che mi piace parlare con lei di letteratura?”.

Majorana farà da tramite con Alberto Guarneri, suo collega quando frequentava la facoltà di ingegneria e amico sincero. Tra Ida e Alberto è amore a prima vista, assoluto: “Come ferro e calamita”. Ma il severo avvocato Clementi impedisce con la complicità della moglie e del figlio che quest’amore possa continuare e impone a Ida il matrimonio con Raffaele Braschi. Ida cede affranta, convinta che Alberto si sia innamorato di Giulia.

Nel 1938, quando Ida sta per lasciare Roma e trasferirsi col marito a Torino, apprende dalla stampa la misteriosa scomparsa di Ettore Majorana. La notizia la rattrista molto e le fa sentire più vivo l’amore per Alberto, di cui non ha avuto più notizie.

Dopo la parentesi della Seconda Guerra mondiale negli anni ’50 a Torino Ida incontra per caso Giulia, la promettente studentessa di via Panisperna di cui era stata tanto gelosa da ritenerla responsabile dell’allontanamento di Alberto. Il colloquio con la donna la rassicura: “Credevi davvero  avessi sposato Alberto?… nella sua testa c’eri tu… mi sembrava di competere con un fantasma”. Giulia continua accennando al fatto che probabilmente Majorana e Alberto vivono a Buenos Aires e frequentano il salotto culturale delle sorelle Cometta Manzoni.

Ida comincia le sue ricerche con determinazione e nello stesso tempo conduce un’analisi interiore rigorosa che la porta allo svelamento di sé e dell’inganno perpetrato dalla sua famiglia.  Riacquista il coraggio e lo spirito libero di quando era la giovanissima bibliotecaria di via Panisperna.

I luoghi sono molto importanti secondo Fernand Braudel e nella narrazione di Barbara Bellomo hanno un ruolo fondamentale, non sono soltanto una scenografia della vita di Ida, ma tappe fondamentali e significative delle sue attese e speranze deluse a Roma, spente a Torino, rinate con ostinazione ribelle a Catania, realizzate a Buenos Aires. I luoghi sono memoria, identità, relazioni orizzontali tra viventi e relazioni verticali con i morti.

La biblioteca dei fisici scomparsi vuole esprimere anche o soprattutto che le scoperte della meccanica quantistica, realizzate in via Panisperna, dimostrano la perdita di oggettività nell’interpretazione dei fenomeni fisici e l’inquietudine per la destabilizzazione gnoseologica che ne deriva. Per questo l’opera, pur dialogando con la tradizione italiana del romanzo storico, chiama in causa i grandi autori siciliani: L. Pirandello, V. Brancati, L. Sciascia dotati di una particolare intelligenza sensibile che ha permesso loro di vedere oltre i dubbi, le paure, le incertezze degli uomini. Nel tessuto linguistico chiaro ed essenziale della narrazione s’inseriscono espressioni dialettali come lessico familiare.

GABRIELLA MAGGIO


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“Virdimura” di Simona Lo Iacono, recensione di Gabriella Maggio

Ciò che rende la Sicilia una dimora letteraria unica e veramente speciale è il racconto ininterrotto e serrato che i suoi scrittori ne hanno fatto con maggiore intensità e con una pronuncia sempre più riconoscibile, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento per arrivare ai giorni nostri. Una realtà di frontiera, a cavallo di culture diverse, che è un crogiuolo di esperienze esistenziali e storiche, è stata proposta, per forza di scrittura, come metafora del mondo attraverso una varietà di voci e di sguardi acuminati e dolenti costituendo una tradizione forte e vitale. (Domenica Perrone- “In un mare d’inchiostro- ed. Bonanno).

In questa dimora letteraria si colloca l’opera di Simona Lo Iacono, voce intensa e originale della narrativa contemporanea non soltanto siciliana. Da Le Streghe di Lenzavacche del 2016 a Il morsodel2017, al Mistero di Anna del 2022 fino al recentissimo Virdimura la scrittrice siracusana narra la Sicilia attraverso la storia di donne “contro corrente” dotate di uno sguardo divergente sul mondo, fedeli alle storie et alla fantasia et alla pietate, seguendo la strada tracciata da Corrada Assennato. “Forte come le mura che cingono Catania. Verde come il muschio che affiora dal duro… ti chiamerai Virdimura” con queste parole il medico Urìa dà il nome a sua figlia dopo una lunga ricerca del “segno” propizio alla scelta di un nome non casuale, legato alla sacra liturgia della natura. Insegna alla figlia, come ha promesso alla madre, morta nel partorirla, le cose che “reputava importanti nella vita, stare con le persone che leggono, che amano, che hanno compassione”. Virdimura è nata nella Catania nel XIV sec. da una donna ebrea impura  e con coraggiosa determinazione   comprende che deve   dedicarsi come il padre Urìa  a  curare i diseredati,  creature fraterne, cariche di mistero, consapevole che  l’arte medica non cura soltanto il corpo ma anche l’anima con l’ascolto  e la compassione. Non c’erano solo le piante a fornire la cura, le insegnava Urìa, ma la musica. Il ritmo. Il bagno in mare. La conversazione con i poeti. L’osservazione delle stelle.

Nel 1376 Virdimura  è  la prima donna ad ottenere “ licencia praticandi in scientia medicine circa curas phisicas corporum humanorum, maxime pauperum” davanti alla Commissione di giudici presieduta dal Dienchelele. Di questa antica donna medico l’Archivio di Stato di Palermo conserva  un documento assai scarno, quello  in cui  le si conferisce la licencia.  

Simona Lo Iacono ricrea con fine sensibilità ed empatia la storia di Virdimura dall’epilogo, dal racconto di sé che la donna fa ai giudici che l’esamineranno nell’arte medica. Virdimura, come Urìa  ed il marito Pasquale, vive in armonia con la natura e gli uomini, lontana dalla città  talvolta ostile, dove regnano l’avidità ed i pregiudizi. Tutti e tre avvertono lo grido degli ultimi che sale dalla terra, e si mettono al loro servizio.

La Catania di Virdimura era la più bella delle città. Popolosa. Gloglottante. Colma di ebrei, musulmani, arabi, cristiani. Nessuno parlava una sola lingua, masticavamo un po’ tutti i dialetti…non diversa dalle città d’oggi multietniche. Da quel tempo antico a noi moderni giunge un messaggio, un invito a considerare preziosa la nostra vita, a viverla con consapevolezza attraverso lo studio, l’amore, la compassione, prendendoci cura dell’altro soprattutto se è debole, senza dimenticare “la sacra liturgia della natura”.

La frase di Veronica Roth, in limine, è emblematica e guida il lettore nell’interpretazione attualizzante: “Ma ora ho imparato un’altra cosa. Possiamo guarire, se ci curiamo a vicenda”. Nel  romanzo Virdimura  senza fratture né conflitti conquista la propria identità e la sua reale  parità con gli uomini. Mentre intorno a lei le altre donne sono succube di pregiudizi di uomini autoritari. Il convincimento che l’uomo è un essere confinato che cerca eternamente di sconfinare  è la filosofia  sottesa  alla storia  e fa da freno e da guida al comportamento dei personaggi principali.  Un alone di favola avvolge la narrazione per la continua allusione a un sapere antico e saggio che lega l’uomo all’uomo e  alla natura; per il senso del viaggio che con le diverse esperienze che offre ai personaggi maschili, Urìa, Josef, Pasquale, li forma e ne mette in luce la tempra che oggi possiamo definire eroica;  per il luogo separato dalla città  dove  vive la  protagonista sulla riva del mare, presso  una saia, e organizza nella sua  casa –laboratorio-ospedale-biblioteca, un asilo per chi ne ha bisogno, offrendo in maniera disinteressata le sue cure, frutto di  un sapere armonioso e vitale acquisito  studiando  le piante e  le pietre; per la lingua poetica  con intarsi dialettali e di italiano antico.

GABRIELLA MAGGIO


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Gabriella Maggio su “Il ritorno di Omero” di Dante Maffia

Chiunque possieda un numero sufficiente di libri da porsi il problema della loro sistemazione, sa che la questione non è affatto peregrina. Aveva ragione quel bibliotecario che asseriva solenne: le biblioteche sono governate da una scienza in sé e per sé, non c’è nulla da fare!( Marco Filoni, Inciampi, Italo Svevo 2019).

Alcuni giorni fa mentre cercavo un libro nella mia biblioteca ho trovato, incollato  ad un grosso volume, Le famose concubine imperiali  a cura di Ludovico Di Giura, ed. Arnoldo Mondadori 1958,  un fascicolo azzurro, in parte ingiallito. Era Il ritorno di Omero di Dante Maffia, scritto nel 1982 e pubblicato nell’’84 nei Sedicesimi di Letteratura, n.5, supplemento a “Periferia”, n.20 , Cosenza, con prefazione di Giulio Ferroni. Il fascicolo contiene sedici brevi poesie che trattano di come Dante Maffia, riviva la poesia dell’antico Omero. 

È opinione condivisa  che la poesia sia un luogo fatto di memoria e di sentimenti, un continuo colloquio interiore del poeta con se stesso  e con i propri autori; che sia un modo  di essere  nel  mondo  e cercarne la verità. Chi come Dante Maffia  è nato  sulle sponde del Mare Ionio, nell’antica Magna Grecia, percepisce nell’anima  la  presenza del confine  geografico e letterario con la Grecia. Separazione  e  nello stesso  tempo collegamento, ma soprattutto per i poeti autentici come Dante Maffia  irrinunciabile invito a fare  poesia, a ridefinire la propria identità culturale e umana. Mescolando  la propria  voce poetica a quella dell’antico Omero, Dante Maffia  rielabora il  mito  del cieco cantore in maniera originale facendo riferimento alle inevitabili “modificazioni” del mito  stesso, generate dal susseguirsi degli accadimenti, che ne scandiscono la distanza, e nello stesso tempo definendo  le “persistenze”: “c’è sempre qualcuno che porta i miei occhi ,/qualcuno che dice ciò che ho detto”, in nome dell’universalità della poesia teorizzata da Aristotele  nella  “Poetica”.

Tra i due poeti c’è uno scambio fecondo d’identità per cui Omero versus Dante può dire: “Scendo nelle profondità del vento,/aspiro il nettare dolce del trapasso,/ muto di conoscenza in conoscenza,/ mi trovo in ogni forma, in fasi alterne/ di secoli bugiardi, di deliri”.

Il poeta Dante Maffia

L’esperienza personale di Dante Maffia,  che intreccia  quotidiano, ricerca esistenziale e  desiderio  di autenticità umana, è resa sulla pagina  filtrata dalle trasparenze mitiche che avvolgono Omero:  non avere nessuna patria , il proprio maledetto vagare. L’Omero  di Dante Maffia arriva  per mare,  remando “su una piccola barca… non è cieco,  cerca un tempo/ ignoto alle pupille, ma nel cuore impresso”. Come acutamente nota Giulio Ferroni nella prefazione questo Omero è simile a Caronte, è  un traghettatore che unisce le due rive non dell’Acheronte, ma  del Mare Ionio, accompagnando  il compimento della poesia dell’audace Maffia.

Leggendo i versi de Il ritorno di Omero qua e là traspare sia la mediazione culturale dell’Alighieri, che tuttavia non osava identificarsi con i poeti antichi, accontentandosi di essere “sesto tra cotanto senno” o di gareggiare con Ovidio e Lucano come nella iactatio del canto XXV dell’Inferno e di Ugo Foscolo che in quel mare greco ebbe “la culla”. Il “signore dell’altissimo canto / che sovra li altri com’aquila vola”, secondo le parole dell’Alighieri nel IV canto dell’Inferno, ha abbandonato il nobile castello,  ora  si contamina con l’identità incerta, del poeta contemporaneo, si frantuma per esprimere i sentimenti degli uomini d’oggi, velleitari che posano a eroi “Sminuzzato e rifatto in particole,/in diseguali miti/inseguo me stesso”. I traguardi sono perduti. Di questi tempi  si è  “Eroi solo per un giorno” come dice David Bowiein Heroes.

Il poeta Omero/Dante resta nella zona d’ombra dell’esserci:”Potessi ancora diventare Ulisse…Ritroverei la forza del mio canto…” Insieme agli eroianche il canto epico  che li ha creati  cede  nei versi  del  poemetto all’elegia  del “primo fiato d’erba…dei colori dell’aprile”. La “parola risolutrice” dev’essere cavata dal buio del cuore  con fatica  simile  a quella  del minatore che estrae la materia preziosa dalle cavità della terra. E non è più certa la fama, quella che  arriva a chi viene dopo e lo  nutre   come il  frutto maturo che si disfa  nella terra  e si fa nuovo cibo. Ma come il giovane Holden nel romanzo di Salinger si chiede dove vadano le anatre quando gela il laghetto di Central Park, Dante Maffia/Omero si chiede: “Dove sono i miei versi ?…La mia parola chissà/ se come frutto si dissolve/ o resta al fondo/ di simboli segreti…” Eppure  Maffia sa di germogliare  dal quel seme dell’antico Omero e non ostante tutto si apre alla  fiducia: “Perché la parola vince, apre le tenebre…non s’arrende all’inerzia della carta”. E ne è consapevole. Nel suo solitario raccoglimento il poeta trova difesa e consolazione nell’affascinante viaggioculturale che salda passato e presente, nel convincimento della centralità della Grecia nella stratificazione culturale  dell’occidente. La  sua  ardita operazione culturale consiste nella  traslitterazione del mondo epico in elegia. Il passato assoluto, i miti destinati a  compimento, il paradigma dei valori accettati e condivisi si problematizzano e frantumano, diventando ricerca e domanda di senso.  È acuta la consapevolezza di un’unità irrimediabilmente perduta nel mondo contemporaneo, proposta nella ripresa del mito di Eurinome e Ofione:  “Eurinome trasale, la sua carne / s’apre alla demenza”.

Il ritorno di Omero è  un’opera  di forte  impatto emotivo  ancora oggi, strutturata su una vasta cultura rivissuta con  piena consapevolezza di ciò che necessariamente muta e ciò che resta, pur nella incessante metamorfosi  odierna:  il canto dei poeti. Il ritmo dei  XVI  componimenti  è fluido, le immagini visive e sonore  si susseguono senza interruzione. È frequente l’uso dell’enjambement che  dà risalto alle parole, mentre la sintassi semplice asseconda il movimento espansivo del pensiero, dal mito alla quotidianità.

GABRIELLA MAGGIO


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N.E. 02/2024 – Recensione a “Erotanasie”, poema a due voci scritto da Giannino Balbis ed Emanuela Mannino. A cura di Ornella Mallo

Il poema a due voci di Giannino Balbis ed Emanuela Mannino, ha un titolo altamente suggestivo: Erotanasie. Deriva dalla fusione di due sostantivi di origine greca: Eros, che significa amore, e Thanatos, che significa morte. Nella prefazione i due autori fanno presente che l’allusione al termine “Eutanasia” è voluta, anche se vaga. Vedremo poi perché. Intanto è immediato il richiamo a Freud e alla teoria da lui esposta nel saggio Al di là del principio di piacere, incentrato sui temi dell’Eros e del Thanatos, ossia sulla “pulsione di vita” e sulla “pulsione di morte” che, pur opposte e contrastanti tra loro, presiedono alle dinamiche comportamentali di tutti gli individui. In questo testo il padre della psicoanalisi moderna si ispira a Empedocle e al conflitto psicologico in termini dualistici, preconizzato dal filosofo greco, tra la forza aggregante della Philia, ossia dell’Amore, e la forza disgregante del Neikos, ossia dell’Odio, che produce distruzione e morte.
Per cui, se da una parte Eros ci spinge verso l’Altro, e ci porta a creare con lui un’unità simbiotica, dall’altra Thanatos suscita in noi atteggiamenti respingenti e demolitivi, per cui tendiamo ad allontanarci  riducendo in macerie la relazione. Non solo. Per Freud Thanatos, nel suo significato primigenio di morte, esprime anche il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba.

Eros e Thanatos sono la scaturigine degli “aporemi del cuore” di cui parlano Abbagli Insonni e Costanza, i due protagonisti dell’opera. La morte aleggia per tutto il poema: viene individuata come evento tranciante della relazione amorosa che i due personaggi hanno avuto in vita, e da cui è nato un figlio, dal nome emblematico di “Astrolabio”. Emblematico non solo per il suo significato di carpitore di stelle, [da astron, stella, e lab, radice del verbo greco lambano, che significa acchiappare, prendere], indicativo della funzione tutelare della relazione da lui assolta mentre i protagonisti erano in vita: “Astrolabio / piange lontano /[…] ed io / inerme madre / l’abbraccio forte”, scrive Costanza; ma anche per essere il nome proprio del figlio di Abelardo ed Eloisa, passati alla storia per la forza dirompente della loro passione dagli esiti infausti.

Balbis e Mannino, nel loro poema, non solo li citano espressamente, ma continuamente fanno riferimento ad altre figure storiche, che si sono distinte per i loro amori tanto intensi quanto infelici: Isabella di Morra e Diego Sandoval, Susette Gontard e Hoderlin, Giulietta e Romeo, Orfeo ed Euridice, la Baronessa di Carini ed Emily Dickinson, giusto per fare qualche esempio. Tutti amanti che, per ragioni molteplici e diverse, non hanno potuto realizzare sulla terra il loro ideale di amore. La domanda che sembrerebbero allora rivolgere gli autori del poema a sé stessi e al lettore è: se in vita è difficilissimo, se non addirittura impossibile, realizzare un progetto amoroso, dopo la morte sarà possibile?

Il quesito su cui si impernia tutta l’opera è preannunciato nella prefazione scritta dai due poeti. In essa spiegano che i protagonisti dopo la morte raggiungono l’Eterno, e da lì si scrivono in versi. Perché il legame tra i due, non è solo dato dall’Eros che intensamente persiste, seppure come ideale, e dal figlio Astrolabio, “monco di albero padre”; il legame risiede nella Poesia, valore indiscusso grazie al quale il loro amore sopravvive alla morte: “io sposo a te di versi / […] tu sposa mia di rime”, asserisce Abbagli Insonni. Se tutto viene meno, restano in piedi soltanto i versi, che non saranno erosi dal tempo. Sono l’emblema dell’Eterno, limbo del “tutto-nulla” in cui “cerca riposo / – fuggendo immaginando – /” l’infelicità dei due protagonisti.

Abbagli Insonni, nell’incipit del poema, parla di una “nebbia di tempo” che li “avvolge e non dirada.”  Scriveva Joe Bousquet: “La morte è la solitudine delle persone amate, / questa nebbia intorno a loro che nessuna / tenera parola può attraversare. / La morte è il dolore e la disperazione / nelle stesse parole che furono l’ebbrezza / della felicità. La morte sono i pianti che / sgorgano ascoltando una / parola che voleva dire amore.”

Leggendo più approfonditamente l’opera, emerge come la morte fisica non abbia che conclamato quella morte spirituale che era stata inferta al rapporto dai due amanti mentre erano in vita. I versi infatti sono pervasi dallo struggimento che i protagonisti provano per non essere stati capaci di difendere il loro amore, e in questo si sentono vicini a tutti gli amanti della storia, accomunati dalla stessa sorte. Scrive Costanza ad Abbagli Insonni: “quanto dolore salmastro / tra gli amanti ignoti / quanta malinconia sparsa / nell’Eterno dei perché recisi dal silenzio.” E in altri versi afferma: “Sì, amato mio, / forse avremmo dovuto lottare / contro i cinici cieli aggrottati / e le comari nuvole accigliate / contro ai venti negri di invidia, / e le lingue nemiche / persino le malelingue amiche.” Abbagli Insonni le fa eco: “È questa allora / la pena degli amanti maledetti, / colpevoli non già d’amarsi a scandalo / dei falsi moralisti, / ma di scoprirsi inetti alla difesa / del proprio santo amore.” È il rimprovero che più frequentemente muovono a sé stessi gli amanti quando elaborano il lutto per la fine del loro amore: “Il mio amore di te non si ama”, annotava Kafka nei suoi diari, citazione quanto mai espressiva di quel Thanatos latente che uccide l’Eros.

L’Eros pervade il poema nella stessa misura in cui lo pervade il Thanatos, e si esplica in due sentimenti fortemente presenti nelle epistole che si scambiano i due protagonisti: il sentimento dell’Assenza, da cui scaturisce il desiderio di rivedersi per insufflare vita in sé stessi e nel loro amore; e quello dell’Attesa, provato nella sua urgenza carnale da Abbagli Insonni, che inizialmente alimenta la speranza di possedere nuovamente la sua amata, mentre Costanza appare subito mistica nel suo dire, e si mostra rassegnata alla definitività del loro addio.

A proposito del tormento inflitto dall’Assenza, scrive Abbagli Insonni: “È questa / la nostra dannazione? / Questa nebbia / che della tua presenza… (sei qui, sento / di te ogni palpito, vedo il tuo corpo / fremere, e le tue labbra aprirsi, / vedo i tuoi occhi ridere, / respiro il tuo profumo) / che della tua presenza / fa disperata assenza?” Sull’Assenza, detta “Erwartung”, in “Frammenti di un discorso amoroso” Roland Barthes scriveva: “Il discorso dell’Assenza è un testo con due ideogrammi: vi sono le braccia levate del Desiderio, e vi sono le braccia tese del Bisogno”. Quello di Abbagli Insonni è l’Hímeros greco, ossia il desiderio pressante della carne; quello di Costanza è il Pothos, ossia il bisogno spirituale dell’amato lontano, misto al senso di dolorosa rassegnazione all’impossibilità di un ricongiungimento. Ragion per cui lei scrive: “Aspettami, senza aspettare – / come s’aspetta il / suggello dell’onda / sull’orme del dipinto desìo / radice di china di mare, dall’Eterno mondo / dei ritorni di Chi / s’è appartenuto / oltre i navigli delle ombre.” E aggiunge: “Va’, amatissimo mio, va’ / lasciami qui / a riprendermi le verità / taciute al mio seno: / donna senz’uomo donna senz’Eterno / donna / in attimi d’Inferno / donna senza – / donna diamante / amante di insondabili vuoti / che nel vuoto / riempie già.”

Si conferma nella morte il senso di solitudine già provato in vita per il mancato appagamento dei propri bisogni. Ed emerge la risposta al quesito circa la possibilità di una realizzazione dell’amore dopo la morte: venendo meno la fisicità, l’amore non potrà essere vissuto concretamente. I due amanti restano lontani. Scrive Abbagli Insonni: “noi, amata mia, / non fummo […] servi del dio Amore ma servitori al mondo / che volle giudicarci… / Per questo ora ci amiamo / separati dal mare / che non fu mai solcato. / E solamente in sogno / possiamo l’uno all’altra ritornare.”

Gli ultimi versi del poema spiegano il richiamo all’eutanasia, anticipato dai poeti nella prefazione. Scrive Costanza: “Leggero appare l’abbandono / e soave il canto di nuovo amore.” L’accettazione dell’impossibilità di riaversi rende dolce la morte del loro amore fisico. Resta eterno l’amore spirituale, che non è che un anelito mistico, intriso del ricordo idealizzato dell’altro. Ragion per cui vale la pena concludere le nostre riflessioni su Erotanasie con i versi di Emily Dickinson, la cui vita è “presa in prestito” dai due amanti come esempio di amore irrealizzato, e che esplicitano il senso essenziale di Erotanasie: “Chi è amato non conosce morte, / perché l’amore è immortalità, / o meglio è sostanza divina. / Chi ama non conosce morte, / perché l’amore fa rinascere la vita / nella divinità.”

Da un punto di vista squisitamente formale, il poema risponde a criteri classici, il lessico è molto elegante e ricercato. Le due parti, quella di Abbagli Insonni e quella di Costanza, sono perfettamente integrate. I versi sono di struggente bellezza e intensità nella resa del dolore per il distacco, e della malinconica accettazione dell’invivibilità dell’amore. Da leggere.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“E la chiamarono Vigata. La Sicilia nel cuore” di Pasquale Hamel. Recensione di Gabriella Maggio

La nostra epoca, ha messo in discussione la rilevanza e il concetto stesso di passato e di conseguenza anche della memoria. Tutti gli eventi, i sentimenti, le emozioni della vita sono oggi riferite a un incessante presente, disancorato dal passato, che pure è l’unico dato di fatto che ci appartiene. Non sorprende quindi che uno scrittore che va oltre le apparenze, e soprattutto uno storico come Pasquale Hamel, abbia interesse a valorizzare la memoria e ricostruire un mondo che gli è caro per motivi biografici, legati all’infanzia ed alla giovinezza.

Hamel in E la chiamarono Vigata vuole ricreare sulla pagina il senso e il sapore di un luogo vero, vissuto, dove si interconnettono vicende umane e luoghi. Porto Empedocle è nella sua narrazione un luogo antropologico, quello che, secondo M. Augé, è «simultaneamente principio di senso per chi lo abita e principio di intellegibilità per chi lo osserva», perché detiene tre caratteristiche fondamentali: identità, relazione e storia I luoghi parlano e hanno molto da raccontare. Per gli antichi, non a caso, ogni luogo era abitato da uno spirito guardiano, il Genius Loci, che bisognava conoscere, rispettare e a cui ci si doveva rivolgere per avere il permesso di attraversare il luogo che custodiva. Oggi pochi usano il nome originario del luogo “Porto Empedocle” perché nell’immaginario comune prevale il nome di Vigata, datogli da Andrea Camilleri nei romanzi del commissario Montalbano. Nome condiviso anche dal pubblico dei non lettori per l’omonima fortunata serie televisiva. Questo spiega il titolo scelto da Pasquale Hamel E la chiamarono Vigata, dove il passato remoto chiamarono indica un’azione avvenuta un volta per tutte, irreversibile. Sono i libri che creano il mondo, diceva J.L. Borges. E la chiamarono Vigata raccoglie quaranta bozzetti, brevi racconti realistici, che con vivacità impressionistica descrivono una situazione, un carattere, un personaggio che ha colpito l’immaginazione di Hamel e che hanno caratterizzato Porto Empedocle nel ‘9oo.

Nel paese lo scrittore ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza: “un luogo che non mi ha visto neppure nascere ma dove ho vissuto, fra grandi tensioni emotive e forti affetti familiari, gli anni dell’infanzia e della mia adolescenza… snodo da cui guardare la complessità delle vicende del mondo”.

Se i Siciliani sono gli unici eccentrici italiani gli empedoclini incarnano in molti casi la iperbole dell’eccentricità. Questa particolare eccentricità siciliana va cercata nella storia locale come dice Sciascia e ribadisce Hamel che scrive che: “Gli empedoclini sono sempre stati uomini del fare”, hanno dato vita a “una piccola città, carica di positiva originalità”, tuttavia non sono sfuggiti alla sicilianitudine.

Questa è la condizione dei Siciliani anche secondo D.H. Lawrence, che però la chiama la “difficoltà” perché ne fiacca l’energia eccezionale”. Nei bozzetti si coglie proprio l’impossibilità dei personaggi a realizzare il proprio obiettivo per deficienze proprie o per impedimenti sorti nel contesto in cui operano. Quanto accade a Fofò, animatore culturale, è emblematico delle difficoltà che si frappongono all’energia eccezionale di tutti gli empedoclini.

Il lettore si ritrova in un microcosmo che, col senso e col senno di oggi, diviene rappresentativo dell’umana complessa fragilità di tutti i tempi, osservata e studiata dall’occhio acuto dell’autore che vuole comporre non soltanto un mosaico locale, soddisfacendo così la sua volontà di ricordare, ma fare riferimento a un mosaico più ampio di “storia civile” dell’Isola.

Le pagine scorrono veloci e ariose per l’affettuosa ironia che le connota e per lo stile asciutto, dove le espressioni dialettali hanno il sapore del linguaggio dell’anima.

GABRIELLA MAGGIO


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N.E. 02/2024 – Le “Poesie mistiche” di Rumi. Recensione di Laura Vargiu

Affrontando il discorso sull’affascinante connubio di poesia e spiritualità, il pensiero non può non correre alla tradizione poetica sufi di ambito islamico. Al suo interno spicca in particolare l’opera di Rumi, tra i massimi poeti mistici della letteratura persiana.

Una breve, ma necessaria premessa: il sufismo, la corrente mistica dell’Islam, affonda le sue radici in un’epoca assai lontana, man mano che prese a diffondersi la nuova fede a partire dalle grandi conquiste arabe; sufi è il mistico musulmano, così chiamato per via degli indumenti di lana ruvida indossati dai primi asceti (la parola araba sūf, infatti, significa “lana”). La poesia sufi si contraddistingue per il suo messaggio di pace universale, l’amore verso Dio, cui ci si rivolge in maniera incessante, e la sua contemplazione, lungo un percorso ascetico e spirituale che conduce l’uomo a prendere coscienza della propria dimensione cosmica. In generale, si tratta di un tema alquanto complesso, nonché di nicchia, ma ciò non impedisce di leggere con estremo piacere le importanti opere letterarie nate in seno appunto al sufismo. E tra queste, come anticipato sopra, non può mancare quella di Rumi.

“Dopo la morte, non cercare la tomba mia nella terra: nel petto degli uomini santi è il sepolcro mio!”

Nato in una famiglia di lingua persiana in territorio afghano agli inizi del nostro XIII secolo, Jalal ad-Din Muhammad Balkhi meglio noto con il nome di Rumi, fu teologo e poeta, nonché fondatore della confraternita sufi dei famosi dervisci danzanti. A parte una serie di spostamenti in varie località del mondo islamico in determinati periodi della sua esistenza, egli visse a Konya, nell’attuale Turchia, dove morì nel 1273. 

Due sono le sue opere principali, entrambe di notevoli dimensioni: il lungo poema a rime baciate denominato Masnavi e il Dīwān; un breve, ma significativo estratto di quest’ultimo titolo è rappresentato dalla raccolta antologica Poesie mistiche, pubblicata agli inizi degli anni Ottanta dalla casa editrice Rizzoli a cura e traduzione di Alessandro Bausani (1921-1988), nome senza dubbio tra i più importanti dell’orientalistica italiana.

Il Dīwān (Canzoniere) di Rumi è costituito da un numero impressionante di odi per un totale di circa cinquantamila distici distribuiti in numerosi volumi. L’opera, per forma e contenuti, rientra nei canoni classici della lirica persiana, riprendendo metri e simboli a essa tutt’altro che estranei. Un’emozione particolare, tuttavia, permea i versi del poeta che risuonano con pregevole originalità, mentre spezzano rigidità per così dire tecniche e conducono – come sottolinea il curatore dell’antologia – “a licenze poetiche non sempre perfettamente «canoniche»”.

“[…] O viandante! Non legare il cuore a nessuna dimora,/ perché soffrirai quando te ne strapperanno via./ E poi che tante dimore hai percorso/ da quando eri goccia di sperma fino all’adolescenza,/ prendile a scherzo, che a scherzo le possa lasciare:/ rinuncerai a poca cosa e alto compenso ne avrai!/ Prendi invece sul serio Colui che ti ha preso sul serio;/ Primo è Lui ed ultimo: cerca Lui solo! […]”.

L’Islam, cultura alla quale Rumi appartiene per nascita, in queste pagine è presenza certa e costante attraverso riferimenti espliciti (come alla Fātiha, sura aprente del Corano, alla qibla, la direzione verso cui il devoto musulmano prega ogni giorno, o ancora alla Ka’ba meccana stessa) che contribuiscono a dar vita a scenari orientali di notevole fascino in un intreccio di immagini variegate che abbracciano distese di cieli e deserti, colori di aurore e tramonti, ombre di carovane, voli di falco e profumi di giardini fioriti; quello di Rumi, popolato tanto da maestri spirituali quanto da cammellieri, è un mondo semplice dove l’anelito verso il divino si mostra quasi assillante. Le odi in questione, come del resto la poesia sufi in generale, fanno però propria anche la tolleranza in materia religiosa, tant’è che alla morte del poeta, secondo gli studiosi, presero parte ai funerali sia i musulmani che le comunità di ebrei e cristiani di Konya.

“Vieni, deh vieni! ché da quando partisti più non mi resta né ragione né fede,/ e ogni calma e ogni pace partirono da questo povero cuore.”

La scrittura di Rumi si rivela intrisa di una spiritualità profondissima; un senso di devozione autentica e sincera che, inoltre, si prodiga dispensando consigli: tra i vari, evitare l’attaccamento alle cose materiali, viaggiare anzitutto dentro se stessi, addirittura non intraprendere lunghi viaggi (all’epoca ancor più lunghi e rischiosi) per andare in pellegrinaggio nella lontana Arabia, malgrado l’hajj alla Mecca – da compiersi almeno una volta nella vita – sia uno dei pilastri fondamentali dell’Islam.

“O gente partita in pellegrinaggio! Dove mai siete, dove mai siete?/ L’Amato è qui, tornate, tornate!/ L’Amato è un tuo vicino, vivete muro a muro:/ che idea v’è venuta di vagare nel deserto d’Arabia?”

Nell’insieme, un’opera poetica antica che, grazie al lavoro di selezione e traduzione di Alessandro Bausani, riesce ancora a offrire un testo molto interessante e coinvolgente anche al lettore di oggi. Un classico della letteratura persiana (e mondiale) intramontabile!


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Meraviglie” di Simone Magli, recensione di Lorenzo Spurio

La nuova pubblicazione del poeta pistoiese Simone Magli, Meraviglie (Antipodes, 2023), contiene una cinquantina di testi brevi dal taglio prettamente esistenziale, spesso connotati da una forte carica simbolica. Quest’opera, che segue le precedenti L’ultimo ermetico (Puntoacapo, 2021), Imparando (Puntoacapo, 2021) e La solitudine di certi voli (I.S.R.Pt Editore, 2022), prosegue, come naturale percorso, nell’approfondimento intimo delle vicende esperenziali del Nostro mediante un eloquio per lo più breve, spesso emblematico, fondato sulla sua canonica predilezione per il frammento e per forme tendenzialmente succinte. Non è un caso che Magli sia un apprezzato aforista e un haijin; quest’ultima definizione individua anche la corrispondenza con un’altra sua importante propensione, ovvero quella d’imprimere immagini in maniera istantanea e assai vivida. È, infatti, un apprezzato fotografo e questa sua abilità, travasata in ambito scrittorio, fa di lui un destro e avvincente costruttore di versi brevi, spesso lapidari e imprevisti, in cui è contenuto un messaggio polisemico. Qualcosa che è presente e detto con vocaboli scelti con attenzione e qualcos’altro – vuoi per libera associazione, per rimando, per implicazioni di varia tipologia – a cui si allude e che a volte può essere inferito o, comunque, fatto oggetto di libera appropriazione dal lettore. La costruzione dei significati – come molta critica ha spesso enfatizzato – deriva dall’interazione operante e robusta che il lettore mette in campo all’atto della fruizione di un’opera che l’autore ha prodotto. Ciò appare tanto più vero leggendo i versi di Magli.

Una meritata attenzione va posta tanto sul titolo dell’opera quanto sull’immagine di portata. Il titolo, Meraviglie, richiama subito a un mondo altro, una sorta di surrealtà, in cui coesistono oggetti ed esperienze impraticabili nella vita ordinaria. Il meraviglioso richiama velocemente a un mondo di molteplici possibilità, di magia, di difficile raggiungimento con i capisaldi della normale logica, uno spazio incontaminato da categorie di sorta dove tutto è potenzialmente possibile. È un fantastico positivo che Magli ci descrive richiamando alcuni elementi naturali che hanno in sé straordinarietà, bellezza, rarità e, in quanto tale, incomprensibilità e impossibilità di raggiungimento. Fenomeni come l’equinozio, il passaggio della luna, i moti ondosi del mare, ma anche il fioccare della neve, sono episodi in sé abbastanza rituali e comuni che hanno, però, del meraviglioso. Così come lo è il mondo della musica e, chiaramente, quello della poesia di cui Magli si “serve” e fa dono.

L’inconsueta immagine di copertina (con un probabile ammicco alla metafisica di De Chirico) ci propone alcune scale che, dal basso, salgono verso una posizione apicale. L’elemento – che è contraddistinto per avere una posizione centrale e una colorazione gialla – si trova al centro e fa da contrasto ai toni della campitura di sottofondo che fa pensare tanto all’immensità di un mare quanto all’indefinitezza di un cielo con squarci cromatici dorati. Opera di Giacomo Niccolai – come specifica il colophon – ben si coniuga ai motivi trainanti di questo piccolo libro.

Nelle sue nuove liriche Magli pala dell’esigenza di una condivisione concreta con l’altro, in quella “eleganza d’incontrarci” (15). Le sue riflessioni partono da un’esperienza concreta dei fatti, da una coscienza matura con la quale dialoga e arriva a partorire contenuti senz’altro interessanti. Le divagazioni che i versi propongono sono i rovelli esistenziali e gli assilli, i dubbi ricorrenti e le nevrosi comuni che, a diversa altezza, ci concernono tutti. L’autore parla di “nuovi mondi” (16) quelle realtà parallele dove con il pensiero è possibile vagare e compiere l’impossibile: “ho tracciato / l’universo” (16).

Il meraviglioso è riconducibile a situazioni di svago, fuga dalla razionalità, rincorsa delle curiosità, tentativo di appellarsi a dubbi insondabili, magie illusorie ed epifanie coinvolgenti. Il tutto non sfocia in tessiture fantastiche perché si riconnette alla natura dell’uomo, forte della sua esperienza sensibile e del suo essere illuminato: “quanto è vasto il cielo / di un uomo” (27) scrive in “Stasera” dedicata a un imprecisato Davide.

La meraviglia si riconnette anche allo stupore che si prova, al fascino del perduto, al mondo incontaminato dell’infanzia con le sue narrazioni favolistiche e tempi rilassati, col sogno che ripropone il bello ormai lontano; ecco perché alcuni versi non possono esimersi da questa tendenza volta al recupero come quando, testualmente, Magli si trova in una condizione dettata “a cercare l’infanzia” (46).

Sono versi piacevoli, i suoi, che non navigano a vista, piuttosto tendono a sfiorare l’impossibile, riconducendo l’uomo dinanzi all’invisibile e alla meraviglia alla sua natura di transeunte e imperfetto. C’è spesso una situazione di limite che viene proposta, non solo una demarcazione temporale, un qualcosa – frattura, confine, limbo – che individua i contorni dei mondi paralleli, quello reale e gli altri, infiniti e approdabili solo con la mente. Non è un narrare in versi l’irreale, piuttosto è la possibilità di riscoprire la meraviglia nell’ordinario. Un fantasticare lieve e cosciente, che avviene sempre ad occhi aperti. “Poi è sceso qualcuno / e mi ha salvato la vita” (40): è il segno di una presenza che si fa essenza. Quest’ultima interviene in maniera concreta e illuminante, ed è capace di attuare il cambiamento in maniera salvifica. La stasi dei giorni è frantumata dalla capacità di visione e dalla sensibilità del Nostro.


Questi testi vengono pubblicati nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionati dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

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