N.E. 02/2024 – “Poesia e anima”, poesia di Maria Pellino

Nonostante i frantumi violati

che l’esistenza custodisce,

l’eco della poesia

risuona reduce tra le ferite

di un silenzio mai appagato.

La fragilità che pullula

dentro il calice insaziabile

dell’anima

fa sgorgare sublime un canto

dalle maree del firmamento,

una voce d’infinito

che intinge il suo pennello

nelle crepe dell’universo

del proprio sentire.

La poesia è una coltre

di eterno che ammanta l’anima

e la fa vibrare di impalpabile grazia.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Sacro vuoto”, poesia di Tiziana Colusso

Sacro vuoto, pharmakos, ultima

salute, refrigerio delle chiese

spoglie, dei templi zen bianchi e neri

come fotografie dell’anima.


Il sacro sovraccarico di ori

e d’azzurro delle chiese barocche

chiude l’anima sazia d’indulgenze

in molli, mortifere prigioni.


Per i tristi canarini da miniera

il sacro è ctonio, l’anima cieca

nell’antro oscuro cerca il punctum

nel quale il dolore s’illumina.


I templi dei viaggiatori, stanze

da preghiera multiconfessionali

sono soste dell’anima spersa

tra stazioni, aeroporti, frontiere.


Ma il succo del pensiero, aspro

e volatile, evapora presto

dai luoghi deputati del sacro

e dalle liturgie codificate.


È soltanto nell’acqua che oramai

riesco a pregare, confondendo

le lacrime con le gocce salate — 

vuoto non vuoto, fluidissima luce.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Una preghiera al vento”, poesia di Michela Zanarella

Dura il tempo di un silenzio

una preghiera al vento

a riconoscere lo spirito delle cose

la salvezza è perdonare

il male del mondo

poi c’è la vita condivisa

tra gli agguati del buio

e quello che i bambini ancora sanno fare

stupirsi del volo degli aerei

come un segno sacro

credere che esista un profondo in ogni anima

anche dove la luce diserta.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Se fossimo vetro”, poesia di Simone Principe

Se fossimo vetro

staremmo attenti

a sbatterci contro l’un l’altro

faremmo scorta di umanità

come una colonia di formiche fa scorta di cibo

ci guarderemmo per vedere “simili”

non “quegli altri”,

tra le crepature che non taglierebbero nessuno

poiché la pelle è solo un lusso su cui speculare

tolta siamo nudi davanti alla miopia della disuguaglianza

ingenuamente cattiva.

Se fossimo…

ma non siamo

sperando di poter essere

granelli di quarzo

sciolti prima, solidi poi

diventare magari un ampio vaso

dove la natura può riporre il nuovo fiore

della inumata pace.

Per ora attraverso un vetro frantumato

non mi riconosco

buco nero di me.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Preghiera”, poesia di Antonietta Siviero

Divelta di Abramo la tenda,

di Esaù le lenticchie, ora,

son bombe a grappolo e fosforo bianco,

di piombo le lacrime sul muro del pianto.

SIGNORE, afflato d’amore,

fa che ogni ribelle diventi fratello,

ridonaci il canto e la speranza,

la dolcezza del bacio rubato,

facci riscoprire il calore dell’abbraccio che

le anime rinsalda,

l’incanto di una notte stellata

con occhi nuovi guardata,

la tenerezza di mani intrecciate

nel mare della vita.

E TU, MARIA, dell’ALTISSIMO

FIGLIA, SPOSA e MADRE,

TU VERGINE, peregrina tra ulivi e spade,

TU, in fuga nel deserto in cerca di riparo e salvezza,

ascolta il lamento che più alto

delle bombe al cielo si leva,

la preghiera di figli viandanti in cerca di pace.

MADRE, che della CROCE il dolore hai vissuto,

delle croci di guerre raccogli le schegge che

le ossa han trafitto,

TU, nuova Arca dell’Alleanza,

sull’altare sacrificale a GESÙ CROCIFISSO, offrile,

in frammenti iridati, tramutali,

nel preziosissimo tabernacolo del

TUO cuore, serrale,

in CORPO di CRISTO, trasformale.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “L’itinerario spirituale di Vittoria Colonna”, saggio di Graziella Enna

Nella civiltà umanistico-rinascimentale iniziò un processo di emancipazione femminile in virtù del quale molte donne furono istruite al livello degli uomini. Alcune riuscirono ad acquisire una profonda cultura unita alla volontà di ribellarsi ai pregiudizi misogini che le avevano relegate in una posizione subalterna. L’educazione impartita alle donne era tradizionalmente basata su attività considerate utili da svolgersi nell’obbedienza, nell’abnegazione e nel silenzio. Nonostante questi presupposti poco edificanti, alcune donne provenienti dall’aristocrazia e alla nobiltà minore integrata nelle corti, si riscattarono e divennero poetesse stimate e apprezzate come Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara e molte altre.

Com’era prevedibile, la congerie maschile continuò a nutrire ostilità nei confronti di quelle donne che, tramite la scrittura, vagheggiavano di mostrare la loro anima e il loro mondo interiore abbandonando “l’ago e il fuso” strumenti fin dal medioevo simboli per eccellenza delle occupazioni femminili. Altre non ebbero la possibilità di farsi conoscere o furono giudicate devianti. Chi era disposto ad accettarne l’istruzione o la produzione letteraria nutriva il pregiudizio che si trattasse di creature fuori dal loro ruolo naturale che, nell’immaginario collettivo, era solo quello di vergine o moglie e madre, non certo di scrittrice o intellettuale. Anche la diffusione, soprattutto nelle corti, del petrarchismo e dei cosiddetti “petrarchini”[1], assunsero un ruolo importante, poiché fissarono l’uso di un codice espressivo proprio della convenzione amorosa tipico però di un mondo maschile.

Non tutte le poetesse furono mere imitatrici di Petrarca e si servirono della poesia solo come pratica sociale legata all’ambiente cortigiano, ma seppero rivisitare autonomamente stilemi e codici linguistici preesistenti con la loro spiritualità alimentata dalla cultura e da sentimenti autentici. Un luminoso esempio ci viene offerto da Vittoria Colonna, donna di alto lignaggio, dalla vita morigerata, ricca e fruttuosa, amata dai contemporanei sebbene le sue liriche fossero conosciute solo da un ristretto numero di amici.

Nata nel 1490 da nobili genitori di prestigiose casate, Fabrizio Colonna e Agnese di Montefeltro, ricevette fin dall’infanzia una raffinata educazione che la fece diventare una delle donne più apprezzate del suo secolo. Il suo fu un matrimonio combinato, a sette anni fu infatti promessa ad un coetaneo, Ferdinando D’Avalos, marchese di Pescara, come suggello di un’alleanza tra due potenti famiglie, ma nonostante i presupposti, il matrimonio si sarebbe rivelato felice. Grazie al mecenatismo dei marchesi, il castello di Ischia, loro residenza e sede di un prestigioso cenacolo letterario aperto alla discussione sui problemi della fede, fu un punto di riferimento importante per i più importanti letterati e poeti del periodo, come Jacopo Sannazaro, Cariteo, Galeazzo di Tarsia, Bernardo Tasso.

L’amato marito si allontanò da Ischia nel 1511 per combattere nella lega antifrancese promossa dal papa guerriero Giulio II e cadde prigioniero nel 1512. In quest’occasione Vittoria compose per lui un’epistola in terzine, per esprimere la sua afflizione, che testimonia la sua vocazione letteraria ed è l’unico che abbia scritto prima della morte del marito. Negli anni successivi conobbe altri famosi intellettuali tra i quali Baldassarre Castiglione e Pietro Bembo, ma la sua fama di nobildonna di specchiata virtù, vasta cultura e grande talento ebbe vasta risonanza ovunque.

A Pavia, nel 1525, in uno scontro con l’esercito francese, il marito morì, Vittoria cadde in uno stato di prostrazione. Iniziò a comporre sonetti dedicati a lui caratterizzati dalla cifra del ricordo, in cui lo descrive come un eroe, l’unico “lume”, il suo “sole” e verso di lui incanala tutta la sua sofferenza che diventa uno strumento di elevazione spirituale.

Nel 1525 Ariosto le dedicò un sonetto[2] per consolarla e allo stesso tempo esortarla a temperare il suo dolore con la sua virtù capace di innalzarla fino al cielo insieme con la gloria dello sposo. Anche Baldassarre Castiglione nel 1928 scrisse lusinghiere parole per lei nell’introduzione del Cortegiano.[3] Parimenti la sua fama di poetessa si diffuse rapidamente: nel 1532 Ariosto ne cantò le lodi nell’ultima edizione del Furioso citandola nel canto XXXVII in cui, dopo aver accennato a vari scrittori che encomiarono le donne, coglie l’occasione per tessere elogi per lei e per le rime gentili dedicate alla memoria dell’amato[4]. Vittoria riversò il suo dolore in liriche intrise di sofferenza in cui si avverte il desiderio di morire e di ricongiungersi presto al marito. Un esempio è offerto dal sonetto LXXXII di chiara ascendenza petrarchesca in cui la poetessa esprime il suo dolore al sorgere del mattino che non rappresenta un momento di gioia bensì di tristezza perché le richiama alla mente la sua condizione di solitudine. La sua sorte triste la induce dunque a cercare le tenebre che si identificano con la morte e la conducono al suo “sole”.

Quando ‘l gran lume appar nell’oriente,

Che ‘l negro manto della notte sgombra,

E dalla terra il gelo o la fredd’ombra

Dissolve e scaccia col suo raggio ardente:

De’ primi affanni, ch’avea dolcemente

Il sonno mitigati, allor m’ingombra:

Ond’ogni mio piacer dispiega in ombra,

Quando da ciascun lato ha l’altre spente.

Così mi sforza la nimica sorte

Le tenebre cercar, fuggir la luce,

Odiar la vita e desiar la morte.

Quel che gli altri occhi appanna a’ miei riluce,

Perchè chiudendo lor, s’apron le porte

Alla cagion ch’al mio sol mi conduce,

Il sonetto XXII si può considerare significativo nel passaggio dall’amore terreno a quello spirituale, Vittoria è da tempo rassegnata al fatto che la morte abbia rotto i vincoli materiali che la legavano all’amato, però se i corpi sono ormai sterili, le anime diventano ancora più feconde e più che mai sono avvinte in un connubio molto più produttivo grazie a cui ella diviene madre metaforica di una prole immortale fatta di spirito. La sua poesia che nasceva dal pianto ora si innalza al cielo.

Quando Morte fra noi disciolse il nodo
che primo avinse il Ciel, Natura e Amore,
tolse agli occhi l’obietto e ’1 cibo al core;
l’alme ristrinse in più congiunto modo.
Quest’è ’l legame bel ch’io prezzo e lodo,
dal qual sol nasce eterna gloria e onore;
non può il frutto marcir, né langue il fiore
del bel giardino ov’io piangendo godo.
Sterili i corpi fur, l’alme feconde;
il suo valor qui col mio nome unito
mi fan pur madre di sua chiara prole,
la qual vive immortal, ed io ne l’onde
del pianto son, perch’ei nel Ciel salito,
vinse il duol la vittoria ed egli il sole.

Benché la donna, dopo il 1525, avesse trascorso un lungo periodo di volontaria reclusione nel castello di Ischia e avesse desiderato anche di chiudersi in un monastero, nel 1530 il letterato Paolo Giovio[5], da sempre vicino alla marchesa a cui era legato da un intenso amore spirituale, tentò di riportarla sulla scena letteraria. Fu proprio lui il tramite con Pietro Bembo, che nel 1535 incluse un suo sonetto nella seconda edizione delle Rime e gliene dedicò un altro[6].

Iniziò un sodalizio poetico rafforzato da un intenso scambio epistolare. Nonostante la vita ritirata e il dolore, riuscì a conoscere molti intellettuali dell’epoca, ma non solo, si avvicinò infatti a religiosi come Juan de Valdés[7], il frate Bernardino Ochino[8], più volte ascoltato a Roma, a Napoli, poi a Ferrara, infine al cardinale Reginald Pole[9]. Iniziò per Vittoria una mutatio animi grazie ad un percorso religioso e alla conoscenza dei personaggi sopraccitati, esponenti del cosiddetto movimento degli “Spirituali” che avevano come principi cardine l’evangelismo e la rigenerazione interiore, temi a cui la marchesa si avvicinò con interesse. Il suo itinerario spirituale la unì anche al più grande artista dell’epoca, Michelangelo[10], che le dedicò un madrigale nel quale paragonava l’azione della scultura che libera la figura dalla materia all’influenza su di lui dell’amica: la donna riesce a introdursi nell’anima pura e fragile “che pur trema” del poeta nascosta dalla “dura scorza” della carne[11]. Le rivolse anche altre rime[12] in cui dice, per esaltare le doti della donna, che in lei sente parlare un uomo, salvo poi correggersi affermando che attraverso la sua bocca sente parlare un dio. L’artista comprese che sarebbe stato completamente soggiogato dal sentimento ma in realtà fu un amore totalmente incorporeo e mistico associato ad un altro elemento in comune con lei, ovvero l’adesione alla corrente degli “spirituali” e ai loro principi.

In virtù della mutatio animi, i componimenti della poetessa denominati Rime spirituali costituiscono uno spartiacque con gli altri, (come nel Canzoniere di Petrarca le rime in vita e in morte di Laura), ed esprimono l’esigenza della solitudine, di un ripiegamento in se stessa e di una profonda introspezione, ma soprattutto di un colloquio diretto con Dio, di un insopprimibile anelito ascetico frutto di una fede pura e sincera.

Dalla lettura dei sonetti si palesa il travaglio interiore, la ricerca inesausta della consolazione della fede, il superamento e la sublimazione delle passioni terrene che gradualmente vengono soppiantate dall’immersione totale nel divino. Tutto ciò non avviene senza contrasti, il suo è comunque un dissidio interiore come emerge chiaramente dal sonetto CXLIV in cui si rileva un atteggiamento di pentimento e vergogna (che sicuramente la accosta a Petrarca), ma anche la sofferenza e la tensione emotiva della donna che palesa la profondità della sua fede e si congiunge con tutta se stessa alla croce di Cristo trovando in lui l’amore prezioso capace di mutare ansia e timore in speranza e giubilo.

Quand’io riguardo il mio sì grave errore,

Confusa al Padre Eterno il volto indegno

Non ergo allor, ma a te, che sovra il legno

Per noi moristi, volgo il fedel core.

Scudo delle tue piaghe e del tuo amore

Mi fo contra l’antico e novo sdegno,

Tu sei mio vero prezïoso pegno,

Che volgi in speme e gioia, ansia e timore.

Per noi su l’ore estreme umil pregasti,

Dicendo: Io voglio, o Padre, unito in cielo

Chi crede in me, sì ch’or l’alma non teme.

Crede ella e scorge, tua mercè, quel zelo

Del quale ardesti sì, che consumasti

Te stesso in croce e le mie colpe insieme.

In un altro sonetto la poetessa immagina di elevarsi oltre le proprie facoltà sensibili per permettere all’anima di avvicinarsi a Dio, il “vero Sole”. In questo viaggio mistico, simile al trasumanar dantesco, impara l’ineffabile, lontano da tutte le cose terrene e può profondarsi nello splendore di Dio che conosce tutti i suoi dolori. Ė evidente anche la variazione del linguaggio utilizzato: agli echi petrarcheschi e danteschi si unisce, come del resto in tutte le rime spirituali, quello biblico. 

Sovra del mio mortal, leggera e sola,

aprendo intorno l’aere spesso e nero,

con l’ali del desio l’alma a quel vero

Sol, che più l’arde ognor, sovente vola,

e là su ne la sua divina scola

impara cose ond’io non temo o spero

che ‘l mondo toglia o doni, e lo stral fero

di morte sprezzo, e ciò che ‘l tempo invola,

chè ‘n me dal chiaro largo e vivo fonte

ov’ei si sazia tal dolcezza stilla

che ‘l mel m’è poi via più ch’assenzio amaro,

e le mie pene a lui noiose e conte

acqueta alor che con un lampo chiaro

di pietade e d’amor tutto sfavilla.      

Nonostante la rettitudine morale, la fede sincera e la ricerca continua di religiosità pura, intima e lontana dalla corruzione, Vittoria attirò a sé l’attenzione dell’Inquisizione romana che per anni cercò di raccogliere prove indagando sui suoi rapporti con i valdesi e con Pole. Fortunatamente, nonostante i sospetti e il fatto che il suo nome spesso ricorresse nelle carte dei processi, non venne pubblicamente accusata, in virtù delle amicizie influenti di cui godeva la sua famiglia, non ultima quella del pontefice Paolo III. Cosa più rilevante, che esula da ogni intervento esterno e che la salvò da ogni accusa di eresia, fu la sua reputazione di donna virtuosa, colta e dall’integrità morale ineccepibile. A maggior ragione stupisce che una poetessa di un tale spessore morale, culturale e religioso, a prescindere dal rango di appartenenza, potesse essere infamata dal fanatismo religioso che non aveva nessun diritto di sindacare sulla sua autentica e sofferta fede di cui i sonetti offrono un’eccelsa testimonianza. Una tale ingiustizia si può spiegare soltanto alla luce di atavici preconcetti su donne brillanti capaci di compiere scelte coraggiose e libere.


Bibliografia

Cosentino Paola, Poetesse del Cinquecento, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Letteratura, direzione scientifica di G. Ferroni. Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2018, pp. 187-192.

Per le biografie: Enciclopedia Treccani online.

Plastina Sandra, “Vittoria Colonna”, in Galleria dell’Accademia Cosentina, Roma Iliesi CNR 2016

Prandi Stefano, “La vita immaginata” vol. 1B, Mondadori, Milano 2019

Rime di tre gentildonne del secolo XVI, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara. Prefazione di Olindo Guerrini, Milano, Edoardo Sonzogno, 1882. Edizione elettronica del 29 aprile 2009.

Salinari Carlo; Ricci Carlo, Storia della letteratura italiana vol.2, Bari, Laterza, 1995


[1] Edizioni in miniatura del Canzoniere di Petrarca e piccoli glossari dei termini più usati dal poeta.

[2]   Illustrissima donna, di valore

ferma colonna, se ’l volubil cielo,

come vedete, or ne dá caldo or gielo,

or vita or morte, or gioia ed or dolore;

     s’egli ha furato ’l vostro primo amore,

ch’è anche l’estremo ed il fral suo velo

sciolt’ha dal spirto anzi il cangiar del pelo,

dando a voi noia, ed a sé eterno onore;[….]

[3]  “L’ingegno e la prudentia di quella Signora, la virtù della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina”., Cortegiano.

[4] XVIII  Vittoria è ’l nome; e ben conviensi a nata

fra le vittorie, et a chi, o vada o stanzi,

di trofei sempre e di trionfi ornata,

la vittoria abbia seco, o dietro o inanzi.

Questa è un’altra Artemisia, che lodata

fu di pietá verso il suo Mausolo; anzi

tanto maggior, quanto è piú assai bell’opra,

che por sotterra un uom, trarlo di sopra.

[5] Paolo Giovio, storico (1483-1552), fu ospite della poetessa Vittoria Colonna e di Costanza d’Avalos. Rimase affascinato dalla donna «a cui fu legato da un amore celeste, santo e platonicissimo, armonia delle cose più belle»,  scrive in una lettera nel 1530 al cardinal Bembo.

[6] CXXVI.Alta Colonna e ferma a le tempeste
del ciel turbato, a cui chiaro onor fanno
leggiadre membra, avolte in nero panno,
e pensier santi e ragionar celeste,
e rime sì soavi e sì conteste,[…].

[7] Juan Valdés (1500-1542), letterato e teologo spagnolo, esercitò un fascino grandissimo nell’alta società napoletana, nella quale diffuse il suo pensiero di una fede ricondotta alla purezza evangelica Della sua lezione si nutrì Vittoria Colonna e, tramite lei, Michelangelo.

[8] Ochino Bernardino (1487-1564) entrò nell’Ordine dei francescani. Cominciò a tessere una fitta rete di rapporti con il circolo di ‘spirituali’ riunitosi intorno all’esule iberico Juan Valdés.

[9] Reginald Pole (1500-1558), cardinale e arcivescovo cattolico inglese, tra i maggiori protagonisti dell’età della Controriforma. A Viterbo raccolse attorno a sé gli Spirituali reduci del circolo napoletano di cui facevano parte, tra gli altri, Vittoria Colonna, il grande artista Michelangelo, il mistico spagnolo Juan de Valdés.

[10] Michelangelo frequentò Vittoria dal 1538 fino alla morte (1547): con lei scambiava rime, vivendo intensamente la propria esperienza dell’amore platonico. La Colonna lo convinse ad aderire alla dottrina di Valdés. Per lei l’Artista realizzò alla fine del ‘500 diverse opere di cui rimangono i disegni preparatori tra i quali la Pietà per Vittoria Colonna e la Crocifissione.

[11] Sì come per levar, donna, si pone

in pietra alpestra e dura

una viva figura,

che là più cresce u’ più la pietra scema;

tal alcun’opre buone,

per l’alma che pur trema,

cela il superchio della propria carne

co’ l’inculta sua cruda e dura scorza [….]

 (Michelangelo, Rime, n. 152)

[12] Un uomo in una donna, anzi uno dio

per la sua bocca parla,

ond’io per ascoltarla

son fatto tal, che ma’ più sarò mio[..]

 (Michelangelo, Rime n.235)


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Dai capitoli del tempo”, poesia di Pasqualino Cinnirella

Volto ai dissesti ormai senili tu,

ancora taci anima stanca

nel chiuso torbido,

se pur non reggi mutola la pena

di un cuore dove impera solitudine,

dissonanze a vivere nell’oggi turbinoso

in cui la violenza spezza ali di colomba.

E’ tempo dei rimpianti, dei ricordi e timori,

di celate ansie al presto divenire

di giorni inoperosi e assente l’io.

Ancora la speranza regge appena

nei chiarori dell’alba senza nubi,

al ravvivarsi di quel sogno antico;

ma scemando ne scandisce l’ore

fino ammutolirsi col farsi delle ombre

in piena luna, che pur sempre ignara

questa, ancor più gaia mi sorride…fanciullo.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La luna e il suo mistero”, poesia di Lucia Lo Bianco

Rimane vigile un’ultima parola

mentre accanto sospira il vento,

raccolgo i cocci dei miei giorni

ed accarezzo lenta i miei pensieri.

Si avvolgono le onde una ad una

e rimane solo un urlo morbido

e silente, solitudine al tramonto,

voce soffusa nel silenzio dei colori

al calare delle ombre. Rumori.

Mi chiedevi dei fruscii, singhiozzi

di mare verso sera. Ricordi?

Sembra ieri: sfioravi la mia anima

col soffice tocco fragile di vita.

Ora solo suoni, distanti e perduti

e mi ritrovo in questa cuna del tempo

ad attendere invano l’infrangersi

del mare sulla riva, moto infinito.

Attendo la luna e il suo mistero.


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N.E. 02/2024 – Le “Poesie mistiche” di Rumi. Recensione di Laura Vargiu

Affrontando il discorso sull’affascinante connubio di poesia e spiritualità, il pensiero non può non correre alla tradizione poetica sufi di ambito islamico. Al suo interno spicca in particolare l’opera di Rumi, tra i massimi poeti mistici della letteratura persiana.

Una breve, ma necessaria premessa: il sufismo, la corrente mistica dell’Islam, affonda le sue radici in un’epoca assai lontana, man mano che prese a diffondersi la nuova fede a partire dalle grandi conquiste arabe; sufi è il mistico musulmano, così chiamato per via degli indumenti di lana ruvida indossati dai primi asceti (la parola araba sūf, infatti, significa “lana”). La poesia sufi si contraddistingue per il suo messaggio di pace universale, l’amore verso Dio, cui ci si rivolge in maniera incessante, e la sua contemplazione, lungo un percorso ascetico e spirituale che conduce l’uomo a prendere coscienza della propria dimensione cosmica. In generale, si tratta di un tema alquanto complesso, nonché di nicchia, ma ciò non impedisce di leggere con estremo piacere le importanti opere letterarie nate in seno appunto al sufismo. E tra queste, come anticipato sopra, non può mancare quella di Rumi.

“Dopo la morte, non cercare la tomba mia nella terra: nel petto degli uomini santi è il sepolcro mio!”

Nato in una famiglia di lingua persiana in territorio afghano agli inizi del nostro XIII secolo, Jalal ad-Din Muhammad Balkhi meglio noto con il nome di Rumi, fu teologo e poeta, nonché fondatore della confraternita sufi dei famosi dervisci danzanti. A parte una serie di spostamenti in varie località del mondo islamico in determinati periodi della sua esistenza, egli visse a Konya, nell’attuale Turchia, dove morì nel 1273. 

Due sono le sue opere principali, entrambe di notevoli dimensioni: il lungo poema a rime baciate denominato Masnavi e il Dīwān; un breve, ma significativo estratto di quest’ultimo titolo è rappresentato dalla raccolta antologica Poesie mistiche, pubblicata agli inizi degli anni Ottanta dalla casa editrice Rizzoli a cura e traduzione di Alessandro Bausani (1921-1988), nome senza dubbio tra i più importanti dell’orientalistica italiana.

Il Dīwān (Canzoniere) di Rumi è costituito da un numero impressionante di odi per un totale di circa cinquantamila distici distribuiti in numerosi volumi. L’opera, per forma e contenuti, rientra nei canoni classici della lirica persiana, riprendendo metri e simboli a essa tutt’altro che estranei. Un’emozione particolare, tuttavia, permea i versi del poeta che risuonano con pregevole originalità, mentre spezzano rigidità per così dire tecniche e conducono – come sottolinea il curatore dell’antologia – “a licenze poetiche non sempre perfettamente «canoniche»”.

“[…] O viandante! Non legare il cuore a nessuna dimora,/ perché soffrirai quando te ne strapperanno via./ E poi che tante dimore hai percorso/ da quando eri goccia di sperma fino all’adolescenza,/ prendile a scherzo, che a scherzo le possa lasciare:/ rinuncerai a poca cosa e alto compenso ne avrai!/ Prendi invece sul serio Colui che ti ha preso sul serio;/ Primo è Lui ed ultimo: cerca Lui solo! […]”.

L’Islam, cultura alla quale Rumi appartiene per nascita, in queste pagine è presenza certa e costante attraverso riferimenti espliciti (come alla Fātiha, sura aprente del Corano, alla qibla, la direzione verso cui il devoto musulmano prega ogni giorno, o ancora alla Ka’ba meccana stessa) che contribuiscono a dar vita a scenari orientali di notevole fascino in un intreccio di immagini variegate che abbracciano distese di cieli e deserti, colori di aurore e tramonti, ombre di carovane, voli di falco e profumi di giardini fioriti; quello di Rumi, popolato tanto da maestri spirituali quanto da cammellieri, è un mondo semplice dove l’anelito verso il divino si mostra quasi assillante. Le odi in questione, come del resto la poesia sufi in generale, fanno però propria anche la tolleranza in materia religiosa, tant’è che alla morte del poeta, secondo gli studiosi, presero parte ai funerali sia i musulmani che le comunità di ebrei e cristiani di Konya.

“Vieni, deh vieni! ché da quando partisti più non mi resta né ragione né fede,/ e ogni calma e ogni pace partirono da questo povero cuore.”

La scrittura di Rumi si rivela intrisa di una spiritualità profondissima; un senso di devozione autentica e sincera che, inoltre, si prodiga dispensando consigli: tra i vari, evitare l’attaccamento alle cose materiali, viaggiare anzitutto dentro se stessi, addirittura non intraprendere lunghi viaggi (all’epoca ancor più lunghi e rischiosi) per andare in pellegrinaggio nella lontana Arabia, malgrado l’hajj alla Mecca – da compiersi almeno una volta nella vita – sia uno dei pilastri fondamentali dell’Islam.

“O gente partita in pellegrinaggio! Dove mai siete, dove mai siete?/ L’Amato è qui, tornate, tornate!/ L’Amato è un tuo vicino, vivete muro a muro:/ che idea v’è venuta di vagare nel deserto d’Arabia?”

Nell’insieme, un’opera poetica antica che, grazie al lavoro di selezione e traduzione di Alessandro Bausani, riesce ancora a offrire un testo molto interessante e coinvolgente anche al lettore di oggi. Un classico della letteratura persiana (e mondiale) intramontabile!


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Poesia e spiritualità al femminile”. Articolo di Francesca Luzzio

Alle donne che trovano nella poesia la valvola salvifica della loro vita 

Spiritualità”: parola complessa, eterogenea, considerata la sua essenza polisemica, infatti può essere spirituale la religiosità, intesa come dovere ed impegno nella fede, oppure è spirituale la ricerca del divino, l’apertura interiore verso il trascendente, ma si può anche farne una considerazione realistica, ossia si può vedere l’incorporeità nella realtà e, sebbene non percepibile con i sensi fisici, considerarlo la fonte da cui la materia tangibile trae vita.

La spiritualità, considerata la sua eterogeneità semantica, è ravvisabile in tantissimi poeti, a cominciare dalle origini della letteratura italiana e, solo per citare il più famoso, ricordiamo                       Il Cantico delle creature di S. Francesco d’Assisi. Tuttavia non volendo esplicare un lungo elenco di autori in cui la spiritualità, intesa nella pluralità delle sue esplicazioni è presente, si ritiene opportuno fermarsi alla contemporaneità che, pur caratterizzata dal consumismo e dall’alienazione etico-morale, tuttavia non manca nei versi di alcuni poeti e poetesse.

La poetessa Patrizia Cavalli (1947-2022)

In tale delimitazione temporale, particolarmente rilevante è la silloge di Patrizia Cavalli, Poesie (Einaudi). La poetessa sostiene che solo ai versi è possibile affidare un ruolo significativo, in vista di quei valori che definiamo come religiosi, o meglio spirituali. La poesia infatti rivendica l’approfondimento di valori che si possono indicare anche con il termine di verità. D’altronde, la filosofia del Novecento ha rivalutato tale funzione e in particolare Haidegger ha affermato il primato della poesia come e in quanto forma di conoscenza.                                                                

Rilevante è anche la concezione della poetessa Chandra Livia Candiani che nella silloge Il silenzio è cosa viva (Einaudi), sostiene che il silenzio favorisce la meditazione che non divide quel che consideriamo spirituale da quel che consideriamo ordinario e i gesti quotidiani possono diventare, possono diventare forme di preghiera, spiritualità.

Infine si vuole ricordare, come espressione del poliedro vivere e sentire la spiritualità, Mariangela Gualtieri che nella raccolta Senza polvere senza peso (Einaudi). La poetessa con una scrittura in viva tensione compone versi di suggestione lirico-visionaria, in cui le inquietudini dolenti della precedente raccolta, aspirano a distendersi in immagini di interiore gioia. Infine appare opportuno evidenziare e lodare la scelta di pubblicazione della suddetta, prestigiosa casa editrice che ha dato voce alla spiritualità presente nelle suddette poetesse.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Poesia e spiritualità, tra confronto e identità”, articolo di Valtero Curzi

Il concetto espresso nell’affermazione “Poesia e spiritualità” potrebbe essere confuso o scambiato con “Poesia è spiritualità”; ma quell’accento sulla “e”, trasformandola da congiunzione in affermazione d’identità, muta tutto il percorso concettuale che si dovrebbe prendere per parlare di Poesia. Infatti, accostare due termini (o concetti) con una “e”, congiunzione, significa oggettivarli, porli di contro, per similitudine o contrasto. Alla stessa maniera si pongono come principio identitario perché poesia è alla fine spiritualità, come espressione dello spirito. Quindi il dualismo identità-opposizione assume una dimensione concettuale che ha diverse particolarità, influenzando poi la poesia stessa come espressione della sensibilità e sentimento.

Se l’identità, nel principio cardine della logica occidentale, come vuole Aristotele, non ammette negazione, perché ciò che è se stesso non può esser altro, per contro però, proprio per dover essere se stesso, ha necessità di confrontarsi con altro, in quanto è l’esistenza di quest’ultimo a blindarlo nel suo essere assolutamente sé. Però formulare il rigido “Poesia è spiritualità” relega la poesia nel solido schema della sola espressione spirituale, intesa questa nell’interpretazione di espressione non in senso lato di espressione dello spirito, ma particolare di espressione dello spirito religioso o filosofico.

Di conseguenza dovendo poi allargare l’orizzonte interpretativo a un significato di spiritualità, ossia azione dello spirito, a ogni attività di pensiero umano, il concetto di spiritualità ne sarebbe fortemente sminuito e depotenziato come valore morale etico di vivere l’esistenza. Su questa via, percorrendola tutta, giungiamo al fondo di sostenere che la poesia al fine può non essere spirituale, nel senso di spiritualità come connotato di valore etico, ma definirsi poesia intellettiva, cioè prodotto d’intelletto e ragione e sensibilità in senso lato.

Chiariamo, ora, il concetto di “spiritualità”: particolare sensibilità e profonda adesione ai valori spirituali, in particolare l’insieme degli elementi che caratterizzano i modi di vivere e di sperimentare realtà spirituali, sia con riguardo a forme di vita religiosa, sia con riferimento a movimenti filosofici; sotto questa luce la poesia deve definirsi in canoni ben definiti e determinati. Ma se prendiamo il termine “poesia” dal latino “poesis”, e prima ancora dal derivato greco, abbiamo «fare, produrre», siamo su “capacità e “abilità” di produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o secondo altri tipi di restrizione; con un certo grado di approssimazione si può dire che il significato di poesia è individuabile nell’uso corrente e tradizionale nella sua contrapposizione a prosa, perché i due termini implicano rispettivamente e principalmente la presenza o l’assenza di una restrizione metrica. Però una poesia che si limita e rispetta restrizioni metriche, ossia di modo di esprimersi, ha necessità primaria di agire sotto l’egida e guida della ragione e forse non necessariamente della logica in quanto, attraverso la metafora può superare anch’essa, in certi limiti. Quindi deve presupporsi un qualcosa che unisca sensibilità e ragione, sentimento e coscienza critica razionale e questo ponte lo possiamo trovare nel «calcolo poetico concettuale», forma di pensiero definibile come un ossimoro, figura retorica consistente nell’accostare parole che esprimono concetti opposti, perché, in effetti, un dualismo contrario esiste.

Infatti “calcolo”, deriva da “calcolare”, ovvero determinare misure, quantità, rapporti mediante calcoli matematici, e, in senso più esteso, valutare qualcosa, metterla in conto. È una operazione transitiva di azione mentale poggiante sulla Ragione, sulla determinazione razionale di definizione logica. Il termine concetto, invece, coincide con quello di universale con il quale il soggetto crea una propria rappresentazione astratta degli oggetti percepiti ed è un simbolo mentale, tipicamente associato con una corrispondente rappresentazione in una lingua o nella simbologia. Il calcolo, pertanto, è intimamente legato al concetto di riuscire a vedere la realtà o sentirla, nel caso del discorso poetico. L’ossimoro sta nella contraddizione propria della visione di calcolo concettuale raffrontata con la poeticità, perché quest’ultima è essenzialmente facoltà della poesia, intesa sia come generica capacità creativa sia come arte letteraria e quindi tipica di ciò che ispira poesia o è degno di essere trattato in versi; attitudini proprie della dimensione sentimentale o di sentimento che nulla ha a che fare con il calcolo concettuale predefinito, sebbene anche nella poesia sia presente la concettualità come sfondo interpretativo di ciò che si vuol esprimere. 

L’incontro o scontro, quindi, fra il pensiero poetante e la poesia pensante è quel luogo in cui la Pura Emozione del sentire deve necessariamente farsi carico della sua realtà, perché non può esistere e definirsi se non si concede e accede, poi, alla materialità che la salvaguarda.

La poesia è quella forma di “esternazione” di un arcano sentire, e per “sentire” deve intendersi non ciò che i cinque sensi possono manifestare, in altre parole manifestare quel che interpretano materialmente anche se in una forma assolutamente particolare, ma piuttosto quell’“avvertire” un paradigma del vivere in una forma metafisica, oltre la fisica, e percorrerla però con quella condizione che è propria dell’ente esistenziale, cioè la ragione la quale è presa d’atto del reale contingente.

Il «calcolo poetico concettuale», pertanto, diventa l’unità di misura, e strumento di analisi e valutazione della Poesia e sue espressioni. La poesia in quel suo viaggio, fra il sentire e il dover necessariamente farsi carico del suo stato contingente di reale in cui sta, deve creare una dimensione sua, in cui interpretare un’altra realtà, questa si meta-fisica, dove la meta è oltre, altrove, e il fisico non è la realtà stessa, ma quello stato concettuale ed emozionale che decifri l’esistenza di chi attraverso la poesia comunica e trasferisce il proprio “sentimento” all’esterno di sé.

In una lettera del suo epistolario il poeta romantico inglese dell’800 John Keats si chiede se esista un luogo tra l’essere e il non essere, e se c’è, quello è il luogo della poesia. Perché se il reale non coincide con ciò che è, allora, il poeta che scrive del proprio stato guarda non in ciò che è e nemmeno in quel che non è, ma in un’altra dimensione. Lì sta la poesia! Siamo nella realtà della irrealtà della poesia.  Ed è in quello scambio di significato della “e” congiunzione con la “è” come determinazione di uno stato d’essere, il farsi esistenza di qualcosa. Per Keats, poi, la questione della Poesia è “salvezza” di compimento perché ciò che non si compie, che non arriva a manifestarsi nell’assolutezza del suo essere bellezza-verità, è fallimento; se non c’è creazione perfetta, né formazione compiuta non v’è salvezza. E questo avviene nella presa d’atto dell’Assenza e delle mancanze rispetto a un’idealità sentita e vissuta che lascia il Poeta incompiuto nella sua stessa dimensione da cui vuol uscirne. E anche in questo caso la comparazione “poesia e spiritualità” ha un suo significato profondo perché “salva” la poesia, ossia il fare, produrre del poeta in una possibilità ampia di manifestarsi in modi e forme altrettanto ampie.

Al pari la “poesia è spiritualità” chiude in rigidi schemi sia il poeta sia la sua poetica, perché non ammette diversità. Scrive sempre Keats che “il Poeta è la più impoetica delle creature” perché dovendo essere la poesia “compiuta”, che vuol dire assoluta, il poeta che non è assoluto ma mancante, non è poetico. Perché non è poesia ciò che è pensato per ricatturare ciò che è assente. Se la poesia è desiderio di ciò che non è, perché già stato, lamento di ciò che è, che è meno di ciò che speriamo, allora la poesia è impazienza del significato. L’incompiutezza cui è condannato il Poeta, per voler esprimere l’assoluto del suo sentimento e fallire in questo perché costretto a fermarsi sull’assenza e mancanza della realtà in cui guarda e sente. Ed egli, il Poeta, con la Poesia passando sopra la realtà, trasfigurandola riesce con l’immaginazione a creare una possibile realtà che seppure sia assente e mancante diviene realtà proiettata e definita. L’irrealtà della poesia diviene pertanto realtà vissuta dall’emozione del sentimento, e siccome il Poeta “vive” di emozioni, quella realtà dell’irrealtà diviene la “sua realtà”, che poi cerca di trasferirla, esternando il suo “sentire”. Passaggio, questo, dal sentire al dire, attraverso il linguaggio cui il Poeta stesso deve affidarsi per determinarlo. Ecco il significato diversivo tra la comparazione in un “e”, e l’identità di un “è”.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

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