“Variazioni minime” di Luciana Raggi, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Cerco luoghi nuovi

per riporre speranze antiche. (43)

Leggendo la nuova raccolta poetica della poetessa Luciana Raggi, Variazioni minime (Lithos, Roma, 2020), mi sono magicamente subito sentito in sintonia: ho percepito, dinanzi ad alcuni versi di potente fascinazione visiva, un sentimento di vero e proprio coinvolgimento che trovo difficile anche raccontare a parole. La poetessa romana Michela Zanarella tempo fa, scrivendo la prefazione al mio libro di poesie Pareidolia (The Writer, Marano Principato, 2018), concludeva che la mia poetica era quella di una persona che “narra in versi l’invisibile” e questa definizione, per altro molto suasiva e pertinente, credo che possa ben addirsi anche alla presente opera della Raggi dove, manco a farlo a posta, l’apertura è data da una ricca e personalissima nota critica della stessa Zanarella.

Si percepisce, nel dettato che anticipa la silloge multipartita, un fascino intestino con i versi, un animo densamente diffuso nella liricità e nell’evocazione. Nella prefazione – che mi pare di leggere con le lenti di una vera e propria prosa lirica – si legge: “Luciana Raggi si accosta all’invisibile sulla soglia della trasparenza, attraverso una poesia fluida, intuitiva, quasi magica” (6) e poi, ancora, “Variazioni minime è da considerarsi una raccolta raffinata e completa per imparare ad osservare ciò che sembra etereo o introvabile” (7). Stupenda questa definizione che la Zanarella impiega nel tentativo, arcano quanto insondabile ai più, di riferirsi a un campo di possibilità potenzialmente infinito, vago e apparentemente astruso, che si compie in quel senso privo di margine dell’infinito e dell’assoluto. Osservare ciò che è etereo sembrerebbe un paradosso, eppure è proprio questo che l’occhio vigile e la penna parca della Raggi fanno: viviseziona l’invisibile, affronta realtà incorporee, dialoga con lo spazio, circumnaviga l’assenza delle forme. In questo procedimento linguistico che non rasenta lo psichedelico ma che fa dell’ineffabile e dell’inavvertito i motivi trainanti di un sentire superiore, metafisico, nebulizzato, si ravvisa l’impronta – direi per lo più inedita se pensiamo ai precedenti lavori della Raggi – della poetessa romagnola, da tanti anni attiva nella Capitale.

Il raffronto e il dialogo con un contesto che sfugge dall’empirismo per richiedere una soluzione olistica nella Raggi prende la forma di un narrare un non visto, di dar forma all’amorfo, di concretizzare nei versi l’imprendibile. Questo non comporta, come in altri casi è accaduto, a una verticizzazione dell’analogia, alla creazione di un testo spinoso ed enigmatico dove risulta impossibile trovare le chiavi – tanto fisiche che ermeneutiche – per addentrarsi nell’opera, né a una deriva asemantica poiché è proprio nell’interstizio tra reale e possibilità di reale, tra confine tra ciò che sperimento e ciò che, invece, costruisco mentalmente, che la creazione poetica della Raggi deve essere situata.

Questo libro si presenta con una suddivisione interna in ulteriori partizioni, la prima della quale, dal titolo “Tutto cambia”, è anticipata da versi di Julio Numhauser e del beat centenario Lawrence Ferlinghetti. Il tema è quello del cambiamento, dell’irreversibile mutamento che nelle varie forme della crescita, derivazione e consunzione, esso rappresenta. Concetto parallelo a quello della temporalità – uno dei fili rossi del volume – è quello del cromatismo; la Nostra non manca di riferirsi al sistema di luce e ombre, ai fenomeni ottici e luminosi che decretano la visione, nell’uomo, di determinati colori o condizioni particolari. Ecco che il motivo della “Variazione” appare in varie poesie, essa ha a che vedere con la percezione e il grado di avvicinamento all’oggetto che ci si pone di analizzare; non una minuzia né un dettaglio trascurabile dal momento che, come asserisce, “Ogni variazione vale / inclusa questa / di questa scarna parola / da assaporare” (12). In un’altra poesia che appartiene sempre a questa prima sezione si legge: “Minime variazioni / arrivano lentamente” (14). Le poesie di Luciana Raggi, forse più di altre che appaiono fruibili più velocemente ma assai più convenzionali, necessitano una duplice lettura dal momento che vari possono essere i significati a seconda del tipo di legame che vogliamo far emergere tra i singoli vocaboli che la compongono.

I temi che possono essere posti in rilievo dei quali, più o meno direttamente, si parla nella nuova silloge sono il tempo che passa e il tempo d’attesa, il cambiamento e la rinascita, la dispersione e la mutabilità, la rifrazione e il rispecchiamento (spesso, in questa società difficile, risulta complicato mostrarsi per quel che si è ma altrettanto complicato è riuscire a riconoscersi), la cecità emozionale e l’incongruenza di linguaggio. L’idea del cambiamento, come già anticipato, non sempre è benevola, vale a dire in alcuni contesti prende la forma di una cornice nella quale si parla di un’età che decade, che si consuma o dalla quale, per qualche ragione, si tende ad allontanarsi se non addirittura a fuggire.

Che a dominare sia l’isotopia del vedere con tutte le sue relative connotazioni è evidente non solo dal titolo e dall’uso di una terminologia specifica che fa riferimento, appunto, alla dimensione dell’oculistica e dello studio della luce, ma anche alla stupefacente immagine di copertina, dove nei toni di un verde acquamarina e leggermente sfumato si intravede un primo piano di un occhio (non è dato sapere se di uomo o di donna, non è questo che realmente interessa) con la pupilla fissa e lucida, pur nella nerezza delle linee che la contornano, fissa a guardare chi si pone avanti, trasmettendo anche un senso di soggezione: sembra di vedere all’interno del bulbo oculare una perla luminosissima, una superficie argentata che richiama e intimorisce al contempo, una sorta di specchio che ricalca dell’altro. La postura dell’occhio sembra normale, ripreso in un momento comune e a testimoniarlo sono ciglia e sopracciglia che, in posizione rilassata, consentono di trasmettere l’idea, appunto, di un occhio che semplicemente guarda. Che non ammicca, né si sgrana, che non implora né condanna. Soprattutto, che non piange. Il fenomeno di sguardi, di luci e parvenze di forme ricorre un po’ tutta l’opera e si associa a quel mutismo della parola che non è negazione del dire quanto, forse, rivelazione e dialogo con mezzi extralinguistici, tanto prossemici che intuitivi, codificati in un veicolare segni, risposte e messaggi proprio attraverso il “saper vedere” e il “saper mostrare”: “Non servono parole: / l’impatto luminoso / cambia la scena” (21).

Versi di grande impatto e degni dell’alta tradizione lirica se ne trovano a decine in questo libro dignitosissimo nella versione grafica, ricchissimo, appunto nelle fortunate e versatili immagini in grado di costruire. Qualche esempio merita senz’altro di essere riportato: “Ogni cosa ha un’anima / che non si fa catturare” (22); “Il mondo non mi vede: / mi girerò a guardare sul muro / la luce che muore” (24). Il poeta milanese Rodolfo Vettorello, sull’onda – credo – di un’invettiva e un monito alla riflessione, tempo fa ebbe a scrivere che “Gli arcobaleni non servono a niente, come la poesia” riannodando la situazione di una questione nevralgica negli studi di settore che già fu oggetto di Montale in sede di conferimento del Nobel ovvero l’utilità o meno della poesia. Ecco che, leggendo i versi di Luciana Raggi, credo che si possa con facilità contestare la similitudine assiomatica di cui sopra che, pur utile per animare un dibattito, trova nel fascino verso il divenire, il cambiamento di luce, la sfumatura di forme e le linee vaghe di ombre e possibilità una risposta seducente pur ariosa, imprendibile eppure sì vincente.

La seconda sezione del volume, “Nomade fra le parole”, è anticipata da un estratto di un brano del cantautore-poeta Roberto Vecchioni e da un estratto dalla poetessa confessionale e intimista Emily Dickinson. Viene qui posto il tema dell’erranza del poeta, non tanto quella della mania deambulatrice ottocentesca né del flaneur disincantato ma proprio l’erranza, il sentimento di mancata radicalità del linguaggio: “Sto qui // qui a guardare il bianco: // nomade / tra le parole dette” (37). Particolare attenzione va mostrata ad alcune liriche di questa partizione: “Come ciechi i poeti / a tentoni cercano il bianco / per lasciare impronte del viaggio” (40); “Certe parole non dicono quel che dicono / vivono squilibrate per variazioni minime. / Di ciò che significavano prima / domani non ci sarà memoria. // […] / Attraversa metafore e analogie / spostamenti metonimie / gioca a disfare e rifare // […] / Nella pazienza del poeta” (44).

Nel riferirsi all’universo linguistico-comunicativo della parola importante risulta, oltre al non-detto (“Fra nodi di silenzi / celato nella solitudine / una folle idea s’affacciò improvvisa”, 56) e all’evocativo, anche il mal-detto, ciò a cui la poetessa si riferisce con l’accezione di “impigliati in risse di parole feroci” (52) e, finanche, il mal-compreso, spesso all’origine di sovrapposizione e caos, precarietà di linguaggio, mancata interrelazione e impiego di sistemi non codificati, cacofonia o riluttanza dinanzi alla sfera semantica. Ci sono, infatti, nel rapporto dialogico anche esperienze infelici di confronto, che slittano nell’incomprensione quando non addirittura nel diverbio: “Rigettate / nella furia dell’urlo // […] / Acidi suoni / […] / Parole a lungo masticate / mai digerite” (55). Finanche, come già intuito, la mimica corporale, la comunicazione extralinguistica che può imporre un segno distintivo, tanto nel bene che nel male: “Uno sguardo intenso / arretra le parole” (58).

A stemperare il (possibile) divario derivato da un allontanamento o un dissidio (più o meno complicato) originato dal dire furioso o da un’incomprensione di fondo, sembra venire in assistenza l’ultima sezione del volume, dal titolo che apre alla speranza di un ravvedimento o, per lo meno, a una possibile occorrenza di concordia ritrovata, “L’arte dell’incontro”. Questa volta i “padri putativi” che la Poetessa richiama nelle note in esergo a questa nuova partizione, oltre a Vinicius de Moraes è l’immancabile Eugenio Montale che parla di “un segno intellegibile / che può dar senso al tutto”, versi tratti da “Esitammo un istante” che fa parte del noto Diario postumo. Versi che nella loro asciuttezza e perentorietà, nella sinottica versione che ha dell’epigrammatico quanto della rivelazione, ben si condensa la poetica della Raggi con questa opera che presenta – non solo in questa partizione – un’evidente fascinazione per la poetica di Montale, ma anche di Raboni e Sereni, finanche della nostalgica Pozzi; in quel senso di mistero che ritorna – se si eccettua la virata spirituale nella Raggi per lo più assente[1] – pare in alcuni passi di leggere brani della Guidacci.

Di questa sezione finale si apprezzano in particolar modo le liriche di chiusura, poste “a specchio” dedicate rispettivamente alla Città Eterna dove la Poetessa vive e lavora da molti anni, a Sogliano al Rubicone, nel Forlivese, dove la Poetessa, invece, è nata e a Matera, la città visitata con particolare trasporto nei cui componimenti non può lasciarsi trasportare anche dal sentimento civile rimembrando l’eccelsa (e poco studiata e tributata) figura dell’attivista, poeta, scrittore e sindaco di Tricase, Rocco Scotellaro che, col romanzo L’uva puttanella e l’intera produzione poetica, parlò dei drammi del Meridione contadino: “Sguardi tristi / dal dolore antico / gente segnata dalla fatica / di un lavoro paziente / scandito dalla natura / dalla prepotenza delle stagioni./ […] / Rocco adulto che lotta / per un giusto riscatto / e ancora Rocco morto / pianto dalla sua gente. / […] / Rocco e la sua poesia” (84). Il messaggio totale di questo nuovo lavoro poetico della Raggi, in “questo errare inquieto” (75) in mezzo a “ragion[i] liquid[e] [che] […] avvolg[ono]” (76) è di certo lucente e positivo, dettato da slancio vitale: “Spinti dal rifiuto / sull’orlo del baratro / nella ferita dell’urlo. / Smarriti confusi / in fiala avanziamo” (79). C’è, dopotutto, una grande esigenza di rivelazione, una voglia di dire, di ampliare idee, di costruire, pur partendo da diorami improbabili e ombre sul muro, consensi sicuri e realtà di speranza: “non perdiamo le parole // urliamo la pace” (28).

LORENZO SPURIO

Jesi, 10/01/2021

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[1] Nella poesia che apre la sezione “L’arte dell’incontro” è possibile leggere: “Non importa ragionare sull’esistenza di Dio / Bisogna essere dolci capirsi / […] / Pascolare speranze / […] / Rifrangere residui di dubbi e formattare certezze / […]/ Emettere il respiro che è centro del mondo” (63). Altro riferimento a Dio si trova in una poesia molto breve che mi sembra utile riportare in forma integrale: “Quel Dio / che spesso si sottrae // l’ho sentito quel giorno / in riva al mare. // Nel guizzo dell’onda / sussurrava il ritorno. // Era donna. / Portava in grembo l’infinito” (71).

L’ombra, il silenzio e la musica dei fiori: “Rifrazioni” di Elio Pecora. Recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini

 

La pazienza maggiore l’ha dovuta a se stesso:

ha patito le paure nuove del bambino,

i fantasmi esagitati dell’adolescente,

le saracinesche arrugginite dell’ansia,

il tramutare scomposto delle carni

i cumuli delle ombre, gli intoppi della memoria.[1]

Negli splendidi versi si trasfigura ellitticamente in III persona, con intensa e disarmante sincerità, il soggetto poetante di Rifrazioni (Mondadori, 2018), ungarettiano “uomo dai piedi lenti” che si reinventa ogni istante e ogni ora, non ha fiato bastante/per rincorrere tutto/quel che gli corre davanti/e che dietro s’inombra e pure – disincantato e disilluso, acceso di ansia e di sogni, senza più un altare né un dio da pregare – di continuo si adopera a procacciarsi piacere, a medicare il dolore. Infinitesima “fibra” di una galassia/universo, baudelairianamente condannato – fra i detriti di un assordante, tumultuoso presente in rovina – ad annaspare nel fango, occhieggiando le stelle, alimenta tenace e mai disperato la fame e la sete dell’Anima, intende “il linguaggio delle cose mute”, contempla estatico il profilo della luna vestito del suo poco, rinchiuso/nei suoi sonni che sognano mentre il tempo precipita vorticoso senza prospettive di edeniche stasi.

978880468746HIG-310x480.jpgAlla dimensione di una contemporaneità che opprime ed assedia l’io lirico (mai l’autore ne rinnega la voce), funestata da ruberie e delitti, eccidi ed eccessi, guerre che servono a scherani del raggiro seduti a legiferare sulle immondizie[2] e piazze che chiedono un altro presente, sussulti sismici e naufragi etici – nessuno sbarco stanotte a Lampedusa/nessun morto per mareil futuro?Una marea fangosa che avanza mentre nei giovani vacilla la speranza – si contrappone la memoria di un passato che assume le fattezze di ombre (di dove vengono a lui che non le ha chiamate? Ma chi si cerca è trovato a sua volta da un’ombra), inconsciamente evocate da un Oltre che non è Ade ma Paese dei Cimmeri se possono sostare in limine fra la vita e la morte, ferme alle porte di una città senza nome, vaganti ancora nel recinto brulicante dei vivi. Sono tante, presenza irrequieta e leggera nel rumore dei giorni, folla silente in mezzo a noi che ci chiama e muta risponde alle domande mute senza nulla chiedere se non permanere dopo l’addio, nel breve saluto di un incontro inusuale e possibile solo che Elio/Orfeo lo desideri quanto loro.[3] E se è vero che moriamo alla morte dell’ultimo che ci ha conosciuti e non è perdita l’addio se lascia tracce nelle stanze aperte del cuore, il dialogo con loro – in una delle sezioni più suggestive  della silloge dall’ossimorico-sinestetico titolo “Lo spessore dell’ombra” – è struggente e vivissimo. Hanno mani, piedi, gesti queste anime assiepate nel sogno della mente e celate dietro pudiche sigle: si chiamano Arsenio, padre con cinquant’anni di mare alle spalle, Elena – dantesca figlia di suo figlio dal volto fermo e quieto, sublime ritratto di madre che rinvia a quelli di Montale e Ungaretti – Luciano, Dario, Sandro, sodali voci liriche di un cammino letterario condiviso, l’aspra, manichea Elsa dagli occhi di agata – amica e nemica insieme, scrittrice come le infelici Amelia ed un’altra Elsa ingiustamente esiliata dalla fama – mentre accanto ai fantasmi mai ingombranti nella loro autorevolezza di Alberto e Aldo si profilano quelli modesti e umanissimi di Aduccia e Rosella, rimpiante testimoni della giovinezza santarsenese. Sono tanti e tutti i loro nomi

… s’annidano nei nomi, non è la memoria

a chiamarli, si compitano su un’oscura lavagna,

intanto che vanno chiarendosi le facce,

muovendosi le figure nei fruscii delle foglie.

Ciascuno va a porsi in un suo spazio appartato,

chiede una sua misura, un suo incerto restare.[4]

 Troppo risoluta, comunque, in Elio Pecora la volontà di risillabare la speranza e, pure a tentoni, aprirsi un montaliano varco cercandosi dentro più alto e ampio il respiro per concedere ai morti l’egoistico mandato di (tornare a) vivere accanto sé, seduzione alla fine perdente di paralizzanti “nidi”. Ferma e pronta la risposta al loro accorato richiamo e imperitura la promessa di perpetuarne il ricordo, ma la sua è poesia “della” e “per” la vita, Eros vince Thanatos, i piedi devono riprendere ad andare e nel presente, pure abitacolo in rovina, deve inevitabilmente giocarsi la personale scommessa esistenziale, anche quando il pianto punge gli occhi/e in petto s’annoda o un grido chiude la gola. Così, mentre tutto sembra perduto e si cammina per arrivare a fine giornata, trasfigurate nei topoi dialettici luce/ombra (quel che chiamiamo sublime/sta nell’ombra…luce è solo verità iniziale) e rumore/silenzio (succede alle Furie del primo, incontaminato attende chi sa di portarselo dentro), la tensione dell’attesa che non smette di origliare e l’irriducibile fiducia in una felicità che non transige e non si pronuncia, ma cui pure il poeta non intende rinunciare, si sciolgono nel recupero di un tenace rapporto con il vissuto e di un mai domo sentimento dell’amore. Presenze/emblemi stavolta vive, discrete e nemmeno chiamate del quotidiano, il violinista sulla metro, il barbone che regala i suoi versi sconnessi, il vecchio che blatera, la badante moldava, umanità varia, dolente e nemica a se stessa, si stringono intorno a lui che – capace di emozionarsi per la corolla di un fiore, il profilo minuto di un adolescente nell’autobus affollato, una voce al telefono – attraversa solidale, sebbene non vi scorga il posto appartato in cui riconoscersi, un mondo miracolosamente popolato di storie[5] le quali

 …riempiono una strada,

un incrocio, una stanza, e in ciascuna

un intrico, un subisso di domande,

di risposte accennate, di pretese.

“C’era una volta un principe infelice”

poi fu felice, e questa era la fiaba.[6]

 L’amore, dal canto suo, si “rifrange” più di quanto non appaia ad una prima lettura lungo tutta la raccolta, illuminandola anche quando si connota come inganno, disfatta, promessa bugiarda, appassionato segno non corrisposto, aspettativa che si teme vana e rimanda a Saffo e alla Cvetaeva. In ogni caso, nella consapevolezza che il dio frecciuto ignora età e tattiche, nessuna concessione a rassicuranti proiezioni ideali, solo (solo?) la risoluta persistenza del desiderio che rende divini, è stordimento fresco e lieve, basta a se stesso e, caparbio bagliore dentro l’addio, brilla inesausto ed irrinunciabile.

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Elio Pecora 

Alla fine il tumulto da 100.000 watt di una città infernale con i suoi dannati che vanno/avvoltolati d’ansia/per ignoti traguardi non impedisce di auscoltare a chi sa/può/vuole le vibrazioni di viole, timpani, flauti, pascoliani sistri o di un oboe dall’invidiabile fortuna letteraria e al viluppo di inganni, scandali, miserie si oppone, non-luogo fuori del tempo, un miracoloso orto di verdi che svariano ove si declina una flora odorosa e rassicurante, umile e rara a un tempo: dalie, ibiscus, ulivi, gigli, ortensie, il loto e il gigantesco agrifoglio, la zinnia e la catalpa bignonia, foscoliani tigli, (ancora pascoliani) pioppi, il salice con la sua canzone e lo screzio sorpreso di Desdemona, il croco e l’acacia (recisa da uno schianto del fulmine, non dal “freddo” di una forbice)[7] cari all’autore di Ossi. In questo giardino ai piedi di una collina, Pecora rinviene i termini esatti e svelati atti a rendere, contro il fragore di un tempo che contiamo a minuti, la spasmodica tensione interiore e a “sciogliere il canto” del niente nel niente: se da un lato la sua cifra stilistica, esclusiva ed evocativa nella trasparente intelligibilità (echi di Saba, Penna, Pasolini e Montale convivono in un tessuto unico ed originale), garantisce una convinta adesione al reale, senza mai cedere al rispecchiamento – a volte trasandato – di certa lirica contemporanea, dall’altro le parole che gli si chiedono non possono risultare tanto scarne e sommesse/da evaporare come fuochi di foglie secche[8] né intessute di sonorità leziose: esprimono invece – spesso attraverso il ricorso ad anastrofi ed iperbati – lo strappo, l’incaglio, la discordanza infeltrita di una vigile e sofferta resa formale. Lessicalmente in magistrale equilibrio fra classicismo e crepuscolare “grado zero”, vengono meticolosamente scelte come un tubero o un seme da interrare[9] che produrrà, forse, senza illusori ottimismi, un frutto, un fiore/una foglia minuscola…non più di un cenno, un avvio/per un altrove nemmeno ancora intravisto

 MARCO CAMERINI

NOTE:

[1] E. PECORA, Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018, p.52. Verranno citati i riferimenti alle pagine dei soli versi riportati in modo più ampio, non di quelli (in corsivo) che costituiscono una sorta di corpo unico con il testo e vi sono strettamente integrati.

[2] Per il termine scherani cfr. “La primavera hitleriana”, E. MONTALE, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2013 [1984], p.256.

[3] Nella evidente diversità delle opere, questo espediente sospensivo fra l’immanente ed il trascendente è il motivo ispiratore di un intrigante romanzo di G. Saunders, Lincoln nel bardo, Feltrinelli 2017 (vincitore del Man Booker Prize) che prende spunto dall’episodio – storicamente accertato –  del Presidente americano il quale visitò più volte la bara del figlio prematuramente scomparso imponendo che non venisse chiusa.

[4] E. PECORA, Rifrazioni, cit., p.110.

[5] Proprio la lirica “”Nell’immenso ordito…” (p. 31) – cui si riferiscono le figure citate –  ci sembra presenti significative affinità con “Città vecchia” di Saba (cfr., in particolare, il vecchio che blatera con il vecchio che bestemmia), autore non estraneo a Pecora per i comuni richiami minimalisti ad una quotidianità “senza storia”.

[6] E. PECORA, ivi, p.144.

[7] Cfr. “Non recidere, forbice, quel volto”, E. MONTALE, Tutte le poesie, cit., p.156.

[8] Cfr. la storta sillaba e secca come un ramo di “Non chiederci la parola”, ivi, p.29.

[9] Il verbo ci pare richiami, nell’urgenza di una resa poetica definitiva e radicata nel profondo, la parola scavata dell’ungarettiano “Commiato”, cfr. G. UNGARETTI, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1972, p.58.

 

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