“Declinano l’amore i racconti (straordinari) di Jeffrey Eugenides, a cura di Marco Camerini

A cura di Marco Camerini  

Che Eugenides sia uno degli scrittori più schivi, originali e talentuosi degli ultimi vent’anni è confermato dalla recente silloge dei racconti Una cosa sull’amore (Mondadori 2018, copertina felice), imperdibile per ben “cinque ragioni” secondo quanto ha scritto in un appassionato, bellissimo intervento su “La lettura” del Corriere Alessandro Piperno, ammiratore confesso del suo “talento mimetico che sfiora l’orecchio assoluto”.[1]

41+vZwX0JCL._SX323_BO1,204,203,200_.jpgNel deserto rovinoso di un presente segnato da solitudine, incomprensioni, sconfitte, fra gli spettri opprimenti di una vecchiaia mai ammessa né accettata, naufragi matrimoniali drammaticamente (o penosamente) negati, rimpianti e rinunce, ciniche rivalse e frustranti derive economiche, alienati e lancinanti smarrimenti, è certamente il “tema ossessivo dell’inadeguatezza”[2] il legame che unisce tutte le storie, ma anche, ci sembra, la tenace e irrinunciabile fiducia in un sentimento che salva e redime dall’angoscia, se non dal fallimento più o meno annunciato. È l’amicizia senile tutta femminile di Della e Cathy, insoddisfatte Brontolone[3] in eterno sovrappeso, anticonformiste e umorali che perdono mariti, figli “pallidi, sinistri, circospetti come gli assassini di un film di fantascienza” ma non se stesse, risolute – proprio nel momento in cui la più anziana precipita nel gorgo invalidante di una “violenta e aggressiva” demenza – a disseppellire “l’ascia” per uccidere insieme le avversità. O l’attrazione per l’assoluto flusso energetico dell’Universo (om cosmico, musica delle sfere, perpetua capacità di rigenerazione terrestre) del protagonista di Posta aerea il quale, alla ricerca di un’identità perduta nello scialo della propria esistenza, la ritrova nel panico, trasfigurante abbraccio di una fascinosa natura esotica (Bangkok, Bangalore, Calcutta) alla percezione di “un trillo”, sorta di pirandelliano “fischio del treno” che lo proietta al di là di ogni coordinata familiare, sociale, umana. È l’insopprimibile istinto materno di Tomasina (Siringa per ungere la carne), 40 anni 1 mese e 1 giorno, sontuosa dimora in Hudson Street, lavoro appagante, disposta –  fallito “il piano A” (“improbabile armata di adulteri e perdenti, gli uomini”) – a ripiegare sul meno romantico, più solitario e triste ma anche coraggioso e creativo piano B: un figlio “senza lui”, o meglio “con tutti i lui” della sua disincantata vita di rimorsi (comunque l’amore si impone grazie a chi innamorato lo è veramente, l’ex Wally Mars, donatore mai domo e figura vincente in uno spiazzante, struggente finale) o la passione musicale di Rodney (Musica barocca), jocyana “piccola nube”, razionale e un po’ rigido maestro di clavicordo (“bordura dorata e giardino geometrico dipinto, famiglia del clavicembalo”) travolto – dopo una fugace bohème giovanile vissuta fra Berlino, Heidelberg, Kurt Weil e gli amati Bach “père et fils” – dalla squallida marea di polizze, conti in rosso, rate inevase, “cifre atroci sulla carta di credito”, (in)adempienze domestiche avvilenti di un quotidianità prosaica e assai poco artistica. Sono la nostalgia di un’America democratica, rurale, libertaria e tollerante di Kendall (Great experiment), poeta fallito non per incapacità, “intelligente ma non ricco”, costretto a fare i conti con la deriva tecnologica di una plutocrazia fondata su software personalizzati, malversazioni e “delitti fiscali di broker ludopatici” nella quale la frode bisogna saperla pensare e perpetrare alla grande, non con remore letterarie (altrimenti meglio restarsene in uno squallido loft dove piove dal soffitto a riflettere sulla Democrazia in America di Tocqueville) e il tentativo di Charlie – architetto separato, vittima di ordinanze restrittive più o meno d’urgenza che si aggira patetico intorno alla vecchia casa “a distanza di 50 piedi” – di riaccendere “il tizzone” di un rapporto nel quale nessuno dei due deve Trova(re) il cattivo, scappare o inseguire l’altro, ma accoglierlo e dire “eccomi”. Facile come “colorare un arcobaleno”, perché una “cosa” nell’amore che tiene unite le coppie “non sono i soldi, i figli o una visione condivisa della vita, ma avere cura uno dell’altra. Sono le piccole gentilezze reciproche, chiedere come è andata la giornata fingendo che ti interessi”. Soprattutto, alla fine, è l’intima necessità di sentirsi vivi e di giocarla comunque la partita con la disperazione: può essere sufficiente un pasto miracoloso a base di carciofi per metterla in fuga, come accade in Giardini volubili, il racconto forse più riuscito della raccolta. Al lettore il piacere di scoprirlo, come anche di fare la conoscenza del prof. Luce, endocrinologo/anglo-irlandese/episcopale non praticante/amante di Bruegel, strepitoso protagonista di un’ironica  proto-versione del mitico Middlesex.

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Una foto dell’autore, Jeffrey Eugenides, tratta dalla rete. – Fonte: https://www.whiting.org/awards/winners/jeffrey-eugenides

Lo stile di Eugenides, per citare ancora Piperno, “è un manufatto superbamente rifinito […] le frasi sono tornite al punto da non mostrare alcuna asperità. Dovendo fare due nomi: Nabokov e Salinger”.[4] Necessario, essenziale, strutturato sui dialoghi, privo di lirismo e per lo più nominale (minime le sequenze aggettivali), è capace di delineare fulminanti, efficaci ritratti come la Prokrti di Denuncia tempestiva (squarci di vita indiana ricordano J. Lahiri)[5] e solo in quest’ultimo racconto (il più recente insieme a Le brontolone, 2017) cede alla (troppo) diffusa tendenza della narrativa contemporanea di inserire brani non letterari, mail ed sms in caratteri tipografici differenti. Semmai andrà sottolineata l’intrigante “struttura aperta” delle storie, con splendidi finali che suggeriscono, non chiudendola, un’evoluzione extra-testuale della vicenda per lo più angosciosa e non consolatoria (cfr. Multiproprietà), insieme alla magistrale capacità dello scrittore di ricorrere – anche se non è certo simbolico il suo modello di scrittura – ad oggetti epifanici catalizzatori del significato più profondo del testo: l’ascia e i carciofi citati, guanti spaiati, un giocattolo, preziose statuette di giada e orwelliani…topi.

 MARCO CAMERINI

NOTE:

[1] Cinque ottime ragioni per leggere Jeffrey Eugenides, “La lettura”, 26 agosto 2018. Brevissima recensione nella recensione: l’articolo citato conferma (non che ve ne fosse bisogno) l’autorevolezza di Piperno critico e saggista militante. Raffinato, acuto e, insieme, piacevole alla lettura, mai pedante o accademico. Raro.

[2] A. PIPERNO, art. cit.

[3] Vengono riportati in grassetto i titoli dei singoli racconti.

[4] A. PIPERNO, ivi.

[5] “leggins neri, scarponcini Timberland, calzettoni viola da escursionista, volto da miniatura indù, occhi di un colore sorprendente che poteva esistere solo in un dipinto in cui l’artista avesse mescolato verde, blu e giallo indiscriminatamente che la facevano assomigliare a una ballerina gopi o a una santa bambina venerata dalle masse”

 

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“Macchie”, racconto di Rita Barbieri

MACCHIE

di Rita Barbieri

Mettimi via. Nascondimi, come si fa con la polvere sotto il tappeto, come le macchie d’umidità sotto i quadri alle pareti. Depositami in un angolino, lasciami lì dove non avrò voce né consistenza alcuna. Perché se sarò così ben nascosta, allora potrà darsi che piano piano scolorisca fino a svanire o che, più semplicemente, mi succeda di essere dimenticata.

Certe macchie sono più dure di altre da mandar via: resta l’alone. Impresso sul muro, sulla stoffa, sulle pagine di un libro: una macchia lascia tracce, più o meno visibili.

Anche le persone lasciano tracce. E macchie e depositi e strati e strati di polvere che, per quanto si tenti di pulire via, si riformano sempre. La polvere è nell’aria e certe persone anche. Si respirano involontariamente, assimilando ad ogni boccata il loro personalissimo mix di ossigeno e smog.

Quelle sono le persone in cui si inciampa per caso, camminando sicuri per la propria strada, con lo sguardo alto e le difese abbassate: come buche non segnalate ci fanno vacillare, cadere, perdere l’equilibrio e, prima ancora di capire bene come sia successo, ci si trova impantanati e arresi. Ci piovono addosso,  gocce di pioggia improvvisa in una calda giornata estiva.

Inopportuna e rinfrescante insieme: ancor prima di aver trovato un ombrello o un provvidenziale portico sotto cui ripararci, ci siamo già bagnati almeno un po’ e siamo anche scocciati per l’accaduto. Una stretta di mano, una frase, uno sguardo e tutto cambia: se ne stanno lì e la loro presenza già da sola basta a interrogarti.

E di domande se ne fanno sempre troppe e sempre alla persona sbagliata: l’unica che le risposte non le sa e non le può sapere. Gli incontri sono giochi a premi: un azzardo in cui bisogna essere fortunati prima e furbi poi. E in cui bisogna anche sapere quando fermarsi in tempo prima di perdere tutto.

Perché quello è il rischio grosso, la vera posta in gioco: il problema vero non è vincere quanto PERDERE. Perdere un’occasione, perdere la credibilità, perdere la bussola, perdere il controllo. Infinite varianti e  possibilità del verbo perdere. Si può perdere tutto, praticamente. Dalle chiavi al tempo che non torna più indietro, da una partita amichevole finita a pacche sulle spalle, alle opportunità che capitano sempre una sola volta nella vita. Dai ricordi alle speranze.

“Ho paura di perderti”. Quante volte diciamo questa frase. Il gioco del fare e non fare, del dire e non dire, perché poi perdi tutto, comprese le mosche che pensavi di tenere ben strette nel pugno della mano. Anche quelle volano via, se vogliono. Non serve a niente stringere le dita per impedirlo, certe volte è più semplice aprirle.

Aprirle come si fa con una porta, una finestra, uno spiraglio. Aprire per lasciare uscire e per far entrare. Per portar fuori e per accogliere dentro. Stare un po’ sempre sulla soglia, appoggiati alla maniglia: guardare per strada e osservare chi passa. Perché tante persone passano e poche, invece, restano. E, se restano, chissà poi per quanto.

Ci sono giorni torti, difficili in cui mi rendo conto che ancora non ho cancellato proprio un bel niente. Ho accantonato, separato, fatto il cambio dell’armadio forse…ma non dimenticato. Certe cose, eventi, persone semplicemente non sono pensati per essere dimenticati. Non si può: torneranno in mente all’improvviso, attraverseranno la mente come proverbiali fulmini in un cielo apparentemente sereno, faranno sorridere o piangere. O anche tutti e due insieme. Perché se tutte le storie felici sono simili tra loro, ogni storia infelice è infelice a modo suo:  Anna Karenina insegna.

Ci sono storie che nemmeno un menestrello stonato potrebbe cantare, fiabe che non conciliano affatto il sonno ma semmai evocano la compagnia informe dei pensieri. Racconti che non finiscono con un punto ma sfumano in infiniti e inediti punti di sospensione. Aspettano che si tiri una linea, che si tirino le somme, senza scarti e senza resti.

Come certe macchie anche certe cose sono indelebili: perfino se vengono strofinate via con cura, riappaiono.

Rita Barbieri

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