“Carlo Botta non solo storico ma anche narratore e poeta”. Saggio di Dario Pasero

Noi siamo abituati a pensare a Carlo Botta, nato a San Giorgio Canavese, in provincia di Torino, nel 1766 e morto a Parigi nel 1837, come ad un uomo politico e ad uno storico, autore della Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809), della Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (1824) e della Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789 (1832), oltre che di altre opere storiche minori. In realtà egli fu anche scrittore di romanzi e novelle, e poeta, autore di un poema epico in endecasillabi sciolti.

Nel 1796, mentre in attesa di passare in Francia si trova in Svizzera, e precisamente a Knutwiel (nel cantone di Lucerna), dove si è recato per evitare di essere nuovamente arrestato dal re di Sardegna in quanto cospiratore giacobino, scrive un romanzo epistolare, sul modello di La nouvelle Héloïse (1761) di J. J. Rousseau, dedicato al suo amore per Teresa Paroletti. Questo romanzo è rimasto inedito per quasi 200 anni, venendo poi scoperto e pubblicato nel 1986, col titolo di Per questi dilettosi monti (sono in realtà le parole con cui si inizia il manoscritto), da Luca Badini Confalonieri.

Carlo Botta

Cambiata la situazione politica in Piemonte con l’arrivo di Napoleone e la sua prima campagna d’Italia, il Botta rientra in patria e nel febbraio del 1799 la Repubblica Piemontese, dopo aver votato a favore dell’annessione alla Francia e volendo avvalorare questa sua decisione anche con una sorta di referendum, invia in Canavese ed in Valle d’Aosta, per raccogliere voti di adesione, proprio Carlo Botta, che nello stesso mese (il 19) viene anche nominato Segretario per l’Istruzione Pubblica.

Nel mese di marzo il governo provvisorio viene sciolto per lasciar posto ad una singola Amministrazione, ma gli Austro-Russi entrano a Torino il 26 maggio e Botta viene inviato col Robert a Parigi, dove resterà fino a settembre. Subito dopo chiede di rientrare in servizio nell’esercito francese, venendo assegnato come medico militare a Grenoble, dove era già stato nel 1796 e dove resterà fino almeno al mese di giugno del 1800. Il 9 giugno ad Aix sposa Antoinette Viervil e fa poi ritorno in Italia dopo la vittoria napoleonica a Marengo (14 giugno), diventando membro della Consulta piemontese.

A Grenoble Botta vive un’esperienza amorosa di cui ci lascia memoria in una novella[1], della quale il commediografo e suo grande amico Stanislao Marchisio (1774-1859), all’inizio di una serie di “schede” lessicali riportanti passi linguisticamente interessanti della Novella stessa, ci dice «questa novella è tutta sul fare del Boccaccio, vuoi per purità ed eleganza di lingua, vuoi per oscenità incomportabili. La scrisse il Botta a Grenoble, dove si era rifuggito nel 1799 quando i francesi furono scacciati d’Italia dagli austro-russi, nella sua giovine età di trentatre anni. Sotto il nome di Simplicio de’ Simplicj dipinse la propria bonarietà e dabbenaggine». È questa la novella che a quel tempo «rimasta inedita, dovette però circolare manoscritta tra gli amici», come ipotizza Luca Badini Gonfalonieri nella sua introduzione al romanzo bottiano Per questi dilettosi monti di cui abbiamo appena sopra accennato.

Presso la Biblioteca Civica di Torino è conservata, con la segnatura ms. 79, una miscellanea manoscritta contenente vari scritti di Carlo Botta. Si tratta di un volume rilegato, appartenente alla biblioteca torinese almeno dal 1912, data che si legge, scritta a matita, sull’etichetta presente in 2ª di copertina. Tranne i pochi testi di cui nell’indice si legge essere autografi del Botta, gli altri, tra cui due novelle, non sono sicuramente di mano dello storico canavesano.

Il nostro testo (Novella piacevole. Sotto lo pseudonimo Semplicio de’ Semplici da Roverbella[2]) è il testo che reca il numero 1 della raccolta ed è chiaramente, anche se non esplicitamente, autobiografico. Il contenuto della novella è così brevemente riassumibile: si inizia descrivendo la figura del protagonista, medico (proprio come Botta), e narrando il suo arrivo a Grenoble, dove incontra l’altro protagonista (Totolo), pure lui esule in Francia. I due amici conoscono due donne romane con le quali tentano dei primi approcci amorosi, che culminano, durante la notte di Natale, in una serie di vicende erotiche. A questo punto fa la sua comparsa la figura del “muscadeno” (cioè un “moscardino”), vale a dire una sorta di bellimbusto che tenta anch’egli un approccio amoroso con le due ragazze; da tutto ciò sorgono i primi dubbi dei due uomini sulla vera condizione delle donne. Si arriva quindi all’equivoco ed alla catastrofe: Totolo, trovate le donne in compagnia del moscardino francese, rivela la verità a Simplicio. I due amici incontrano un saggio personaggio originario di Bologna, cotal Assennucci che, dopo la scoperta della verità avvenuta spiando le due donne a banchetto con degli ufficiali francesi, riesce a consolare Simplicio distrutto dal dolore e dalla disperazione.

Passano gli anni e il Botta, che si è trasferito a Parigi in seguito alla sua elezione a deputato, pubblica nel 1809 la prima edizione della Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, iniziando nello stesso anno anche la stesura del poema eroico in 12 canti in endecasillabi sciolti, Camillo o Vejo conquistata, che sarà terminato nel 1814, anche se il primo canto, nella sua prima stesura e col titolo di Camilleide, era già stato letto nel 1813 all’Accademia delle Scienze di Torino. Se ne avrà poi una seconda edizione nel 1833 (presso lo stampatore Giuseppe Pomba di Torino) arricchita di “note dall’Autore” e “con gli argomenti a ciascun canto” opera del vercellese professor Cristoforo Baggiolini e preceduta inoltre da una lettera di dedica all’antico suo compagno di studi e compaesano don Giuseppe Gallo, professore emerito di Retorica e di Filosofia e Prefetto degli Studi a Vercelli, che aveva insistito perché egli stampasse la nuova edizione del poema. Il motivo della scelta dell’argomento, la conquista di Veio da parte dei Romani guidati da Furio Camillo avvenuta nel 396 a. C., è spiegato dall’autore nel suo Avvertimento: egli si è sempre meravigliato del fatto che gli autori epici italiani, a differenza dei greci, dei latini e dei francesi, abbiano sempre scelto come argomento dei loro poemi vicende ed imprese straniere; egli invece ha voluto raccontare una vicenda che ha avuto come protagonisti, seppur come avversari, gli Etruschi ed i Romani, «due popoli dei più famosi non solo dell’Italia medesima, ma ancora di tutto il mondo».

Non stiamo ora a dilungarci sull’opera e sul suo contenuto, ma soffermiamoci solamente un attimo su di un episodio del canto XI, proprio il passo in cui il poeta fa il catalogo e la descrizione delle forze italiche giunte in soccorso degli assediati di Veio. Ai versi 1149-1162 egli descrive quelli che possono essere considerati i suoi (e nostri) antenati, i Taurini, di cui ci dice

E qui Tirreno ad Anfideno volto

così gli parla: “O buon Sannite, dimmi,

chi son costor, che con sì snelle piante

battono il calle e l’erta? Oh qual fidanza

portano in volto, e qual guerriera possa!”

“Questi, rispose, son color, che in riva

a l’alme Dore e ad Eridan superbo

di toro nati anticamente, al toro

alzan gli altari, ed han dal toro il nome.

Guardan d’Italia i passi: ora sforzati

da la romana peste accorron quivi

d’Italia a scampo, e gli vedrai ben tosto

fulminar con le spade e coi sembianti.”

Tacque; ed intanto la Taurina prole

altera trapassava e trionfante.

Poi, nei cinque versi seguenti (1163-1167), il nostro autore, con accenti che ricordano vagamente il Tasso della Canzone al Metauro, aggiunge parole tristi e dolorose per la sua condizione, quella di chi ha dovuto scegliere di vivere lontano dal suo paese

Oh dolce nido, o mia cuna diletta,

fera tempesta da te mi divelse:

or queto è ’l turbo; e pur non so, se fia

(tal mi volge destin) ch’io lasci quivi

questa vita infelice, ov’io me l’ebbi!

DARIO PASERO


[1] In una lettera scritta all’incirca nel medesimo periodo di redazione della Novella il Botta scrive: «[…] Quellapoi, ch’ebbe ad innamorarmi, e da farmi ammalato non è la francese, ma una certa testa venuta da Roma, e che par venuta dall’isola di Scio, con certi occhi, i quali pajono il fuoco,o la luce, o s’altro v’ha al mondo di più bello, di più vivace, e raggiante. Il bello poi si è, ch’essa non mi ama, e parte per Parigi fra pochi giorni. Quando adunque vedrai arrivare costà una testa romana col viso bruno, i capelli-neri, e ricciuti, una testa, dico, che dovrebbe servir di modello al più gran scultore del mondo, dì, è questa che innamorò un uomo, nel quale l’amore non dovrebbe più capire […]» (presso la Biblioteca Civica di Torino, lettera del 17Nevoso anno 8° (7/1/1800), da Grenoble, all’amico Giulio Robert).

[2] Roverbella è una località del mantovano dove sappiamo che il Botta aveva soggiornato nel 1797.


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“Il piano inclinato” di Roberto Alajmo. Recensione di Gabriella Maggio

Il titolo dell’opera, Il piano inclinato (Sellerio), immette il lettore, attraverso una metonimia, nell’universo diegetico dell’opera, evidenziato anche dall’immagine di copertina di Markenzy Julius Cesar connotata di forte espressività. Il piano inclinato su cui si muove il giovane Ousmane costituisce anche un fondale di palcoscenico, una delimitazione drammaturgica che dà corpo all’allegoria sottesa alla narrazione, alla quale rimanda la prima frase del testo: “Chiamiamolo Ousmane”. È un avviso al lettore, la comunicazione esplicita del patto narrativo che dà al protagonista Ousmane il ruolo di rappresentante di tutti gli altri minori non accompagnati che compiono lo stesso itinerario di migrazione.

Ousmane ha deciso di lasciare Kalabougou, nel Mali, per cercare fortuna altrove, in quello che chiamerà il “nuovo mondo”, secondo il consiglio che gli ha dato il padre in punto di morte: “aprire una finestra”. Ousmane sa di affrontare una grande avventura, di stare su un piano inclinato, ma non riesce a immaginare se sarà in salita o in discesa: “Ousma aveva sedici anni, e a sedici anni si ha una percezione abbastanza confusa dei fatti che accadono, anche quando accadono molto vicino.”.

Il romanzo è duro e rivendicativo. Roberto Alajmo racconta il fallito percorso di formazione on the road dell’ingenuo Ousmane nella spietata società odierna, nell’amara consapevolezza delle “occasioni mancate” della politica nei confronti degli immigrati, lasciati in un vuoto disperante dopo l’accoglienza iniziale.

Nel nuovo mondo in cui arriva, Ousmane non riesce a dare le risposte “giuste” alle domande che gli sono poste, a volte neppure riesce a rispondere, soltanto dopo molte delusioni e amarezze, oltrepassa, senza accorgersene “la soglia di consapevolezza… che marca la differenza fra quello che prima no e adesso invece sì… Ancora ha un’idea abbastanza vaga di cosa fare, ma è molto deciso a farlo.”. Trovandosi nella terra di nessuno, in attesa che la Commissione gli conceda il permesso di soggiorno, il ragazzo avrà il coraggio di rivendicare la propria dignità e dare un senso alla sua vita. Alajmo narra con vigore, alterna il ritmo lento, a quello concitato, la terza persona, all’indiretto libero. Senza facili cedimenti sentimentali dà vita a un personaggio fragile, combattuto: “Se ci riflette sopra si vergogna di certi suoi pensieri egoistici, cerca di scacciarli. Poi però pensa che finché prova vergogna è autorizzato a credere che il ragazzo ingenuo che era non è stato del tutto cancellato…”. Il piano inclinato è certamente un libro oggi necessario, aderente alla realtà, affronta, senza gli abusati cliché pietistici, il tema dei migranti, dà voce alla loro rivendicazione della propria dignità umana, non tace sulle mancanze e sulle ipocrisie del “nuovo mondo”.

GABRIELLA MAGGIO


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“Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini. Recensione di Gabriella Maggio

Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024) di Antonio Franchini è un romanzo che affronta diversi temi così intimamente legati da richiedere un lettore molto attento. La storia si svolge tra Napoli e Milano, viste attraverso le impressioni e le esperienze dei protagonisti. Il tema dominante è il racconto della vita e del carattere della madre dello scrittore-narratore, Angela Izzo, orgogliosamente “sgherra “e “sannita” e per questo violenta e volgare nel linguaggio, piena di pregiudizi, avversa a tutto e a tutti: “Non concede mai al vento della sua avversione un rifugio, ma gli lascia davanti una prateria dove soffiare senza requie. Ha bisogno di odiare come di respirare, sente di non esistere se non si contrappone”.

Angela è rappresentata attraverso i ricordi e le emozioni negative che suscita nel figlio: “Mi ha dato un’educazione a rovescio: i valori ai quali si ispira o li esprime in una forma riprovevole o sono disvalori veri e propri. Detestare è il verbo preciso…”. Ma nel romanzo non c’è soltanto l’emotività propria del memoir, lente deformante dei fatti realmente vissuti dal figlio-narratore. Attraverso l’espressionismo del linguaggio napoletano, intrecciato ad un uso sobrio dell’italiano, il lettore trova una riflessione sul mondo contemporaneo.

Attraverso il comportamento di Angela lo scrittore analizza le relazioni familiari, prive di manifestazioni d’affetto e di comprensione. La madre e la nonna stabiliscono rapporti di sopraffazione sugli altri familiari simili a quelli della malavita. Il padre, estraneo alla violenza femminile, vive in un mondo suo, tranquillo e silenzioso, segnato dai lutti familiari.

La famiglia di Angela si può definire borghese, ma rivela la crisi della borghesia cittadina nell’imitazione del linguaggio e degli atteggiamenti della “plebe”, come per esorcizzarne la paura, rinunciando ad un ruolo sociale progressista. Emblematico è il dialogo tra Angela e la vicina che le chiede: “Tuo marito ti picchia? E mentre lei (Angela) mormora un no confuso, quell’altra ribadisce: “E allora vò dicere ca   nun te vò bene!”. Ed anche l’analisi di Zappatore di Mario Merola: “In realtà, l’ingratitudine filiale è solo il tema apparente di Zappatore, perché ciò che la canzone ostenta è soprattutto la fierezza del contadino, la sua superiorità morale sul signore, una  supremazia ribadita dalla posa guappesca (“senza cercà ‘o permesso abballoi’ pure), dall’imposizione di sé e del suo mezzo, dal rovesciamento per cui “Vossignuria se mette scuorno’e nuje/Pur ‘i’ me metto scuorno ’e’ ossignuria”, che è la stessa cosa del “loro schifano a  me, io schifo a loro” di Angela….Questo senso d’inferiorità dello zappatore, che si rovescia nel suo contrario, è lo stesso di tutto il Sud”.

Dal racconto risulta evidente che Angela è sì spontaneamente se stessa, con tutte le sue contraddizioni, ma è anche il “personaggio” che lei stessa s’è cucito addosso, forse per la simpatia che le sue espressioni suscitano negli amici e nei conoscenti o forse per ritagliarsi un ruolo autonomo e non succubo nel rapporto con gli altri.  Tuttavia la simpatia non riesce a conservarla a lungo perché prima o poi prevale la sua indole di “sgherra”. In fondo non le interessa quello che di lei pensano gli altri, tanto è concentrata su se stessa, sul suo risentimento: “Angela si aggira in questo magma combustibile con uno stoppino sempre acceso in mano e solo con l’imbarazzo della scelta su dove innescarlo”. Eppure Angela è un punto fermo nella vita dei familiari, soprattutto dei figli che le saranno vicini quando si trasferisce a Milano: “Eppure non sappiamo che cos’è, in realtà, questo lungo, occulto bisogno dell’approvazione di un genitore, fosse pure un mostro, avvinto a noi più strettamente proprio in ragione della sua mostruosità…”. Il soggiorno milanese dei personaggi offre l’occasione per affrontare il tema del rapporto sud nord. Angela naturalmente rifiuta di accettare il diverso modo di relazionarsi con gli altri, ostinandosi a non comprendere il modo altrui di concepire la vita. Però, sebbene continuino le incomprensioni, il rapporto tra madre e figlio in qualche modo si addolcisce.  Romanzo complesso e stratificato, dunque, è “Il fuoco che ti porti dentro” scritto con grande abilità nel comporre e intrecciare i temi e i piani temporali, nel tenere vigile l’attenzione del lettore, che pure rintracciando qualche aspetto di sé (in fondo de nobis fabula narratur) non riesce ad abbandonarsi alla storia narrata, ma resta sempre vigile e attento.

GABRIELLA MAGGIO


L’autrice ha autorizzato la pubblicazione del suo scritto su questo spazio senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. La riproduzione del presente scritto, in formato di stralci o integrale e su qualsiasi tipo di supporto, non è autorizzata senza il permesso scritto da parte dell’autrice. La citazione, con opportuni riferimenti (sito, data, link) è consentita.

“La biblioteca dei fisici scomparsi” di Barbara Bellomo. Recensione di Gabriella Maggio

Il mitico cenacolo dei fisici di via Panisperna, la misteriosa scomparsa di Ettore Majorana, una storia d’amore contrastato dalla famiglia, ma invincibile, un padre tiranno, nel contesto della storia italiana tra la fine degli anni ‘20 e gli anni ‘50 costituiscono i temi dell’avvincente romanzo di Barbara Bellomo La biblioteca dei fisici scomparsi, edito da Garzanti.

Un romanzo storico che mescola microstoria e Storia, invenzione e fatti, mette Barbara Bellomo sulla linea segnata da altre scrittrici siciliane come Goliarda Sapienza, Maria Attanasio e Simona lo Iacono. Il romanzo si sviluppa tra passato e presente, quasi un diario dei fatti essenziali che segnano la vita di Ida Clementi, la bibliotecaria di via Panisperna.

Contravvenendo al divieto paterno di lavorare, grazie all’incontro con l’illustre Orso Maria Corbino, amico del padre, Ida ottiene il posto di bibliotecaria che la mette al fianco dei più grandi fisici italiani del tempo. In particolare diventa amica di Ettore Majorana con cui condivide l’origine siciliana e la passione per la letteratura: “Signorina Clementi, lo sa che mi piace parlare con lei di letteratura?”.

Majorana farà da tramite con Alberto Guarneri, suo collega quando frequentava la facoltà di ingegneria e amico sincero. Tra Ida e Alberto è amore a prima vista, assoluto: “Come ferro e calamita”. Ma il severo avvocato Clementi impedisce con la complicità della moglie e del figlio che quest’amore possa continuare e impone a Ida il matrimonio con Raffaele Braschi. Ida cede affranta, convinta che Alberto si sia innamorato di Giulia.

Nel 1938, quando Ida sta per lasciare Roma e trasferirsi col marito a Torino, apprende dalla stampa la misteriosa scomparsa di Ettore Majorana. La notizia la rattrista molto e le fa sentire più vivo l’amore per Alberto, di cui non ha avuto più notizie.

Dopo la parentesi della Seconda Guerra mondiale negli anni ’50 a Torino Ida incontra per caso Giulia, la promettente studentessa di via Panisperna di cui era stata tanto gelosa da ritenerla responsabile dell’allontanamento di Alberto. Il colloquio con la donna la rassicura: “Credevi davvero  avessi sposato Alberto?… nella sua testa c’eri tu… mi sembrava di competere con un fantasma”. Giulia continua accennando al fatto che probabilmente Majorana e Alberto vivono a Buenos Aires e frequentano il salotto culturale delle sorelle Cometta Manzoni.

Ida comincia le sue ricerche con determinazione e nello stesso tempo conduce un’analisi interiore rigorosa che la porta allo svelamento di sé e dell’inganno perpetrato dalla sua famiglia.  Riacquista il coraggio e lo spirito libero di quando era la giovanissima bibliotecaria di via Panisperna.

I luoghi sono molto importanti secondo Fernand Braudel e nella narrazione di Barbara Bellomo hanno un ruolo fondamentale, non sono soltanto una scenografia della vita di Ida, ma tappe fondamentali e significative delle sue attese e speranze deluse a Roma, spente a Torino, rinate con ostinazione ribelle a Catania, realizzate a Buenos Aires. I luoghi sono memoria, identità, relazioni orizzontali tra viventi e relazioni verticali con i morti.

La biblioteca dei fisici scomparsi vuole esprimere anche o soprattutto che le scoperte della meccanica quantistica, realizzate in via Panisperna, dimostrano la perdita di oggettività nell’interpretazione dei fenomeni fisici e l’inquietudine per la destabilizzazione gnoseologica che ne deriva. Per questo l’opera, pur dialogando con la tradizione italiana del romanzo storico, chiama in causa i grandi autori siciliani: L. Pirandello, V. Brancati, L. Sciascia dotati di una particolare intelligenza sensibile che ha permesso loro di vedere oltre i dubbi, le paure, le incertezze degli uomini. Nel tessuto linguistico chiaro ed essenziale della narrazione s’inseriscono espressioni dialettali come lessico familiare.

GABRIELLA MAGGIO


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“Virdimura” di Simona Lo Iacono, recensione di Gabriella Maggio

Ciò che rende la Sicilia una dimora letteraria unica e veramente speciale è il racconto ininterrotto e serrato che i suoi scrittori ne hanno fatto con maggiore intensità e con una pronuncia sempre più riconoscibile, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento per arrivare ai giorni nostri. Una realtà di frontiera, a cavallo di culture diverse, che è un crogiuolo di esperienze esistenziali e storiche, è stata proposta, per forza di scrittura, come metafora del mondo attraverso una varietà di voci e di sguardi acuminati e dolenti costituendo una tradizione forte e vitale. (Domenica Perrone- “In un mare d’inchiostro- ed. Bonanno).

In questa dimora letteraria si colloca l’opera di Simona Lo Iacono, voce intensa e originale della narrativa contemporanea non soltanto siciliana. Da Le Streghe di Lenzavacche del 2016 a Il morsodel2017, al Mistero di Anna del 2022 fino al recentissimo Virdimura la scrittrice siracusana narra la Sicilia attraverso la storia di donne “contro corrente” dotate di uno sguardo divergente sul mondo, fedeli alle storie et alla fantasia et alla pietate, seguendo la strada tracciata da Corrada Assennato. “Forte come le mura che cingono Catania. Verde come il muschio che affiora dal duro… ti chiamerai Virdimura” con queste parole il medico Urìa dà il nome a sua figlia dopo una lunga ricerca del “segno” propizio alla scelta di un nome non casuale, legato alla sacra liturgia della natura. Insegna alla figlia, come ha promesso alla madre, morta nel partorirla, le cose che “reputava importanti nella vita, stare con le persone che leggono, che amano, che hanno compassione”. Virdimura è nata nella Catania nel XIV sec. da una donna ebrea impura  e con coraggiosa determinazione   comprende che deve   dedicarsi come il padre Urìa  a  curare i diseredati,  creature fraterne, cariche di mistero, consapevole che  l’arte medica non cura soltanto il corpo ma anche l’anima con l’ascolto  e la compassione. Non c’erano solo le piante a fornire la cura, le insegnava Urìa, ma la musica. Il ritmo. Il bagno in mare. La conversazione con i poeti. L’osservazione delle stelle.

Nel 1376 Virdimura  è  la prima donna ad ottenere “ licencia praticandi in scientia medicine circa curas phisicas corporum humanorum, maxime pauperum” davanti alla Commissione di giudici presieduta dal Dienchelele. Di questa antica donna medico l’Archivio di Stato di Palermo conserva  un documento assai scarno, quello  in cui  le si conferisce la licencia.  

Simona Lo Iacono ricrea con fine sensibilità ed empatia la storia di Virdimura dall’epilogo, dal racconto di sé che la donna fa ai giudici che l’esamineranno nell’arte medica. Virdimura, come Urìa  ed il marito Pasquale, vive in armonia con la natura e gli uomini, lontana dalla città  talvolta ostile, dove regnano l’avidità ed i pregiudizi. Tutti e tre avvertono lo grido degli ultimi che sale dalla terra, e si mettono al loro servizio.

La Catania di Virdimura era la più bella delle città. Popolosa. Gloglottante. Colma di ebrei, musulmani, arabi, cristiani. Nessuno parlava una sola lingua, masticavamo un po’ tutti i dialetti…non diversa dalle città d’oggi multietniche. Da quel tempo antico a noi moderni giunge un messaggio, un invito a considerare preziosa la nostra vita, a viverla con consapevolezza attraverso lo studio, l’amore, la compassione, prendendoci cura dell’altro soprattutto se è debole, senza dimenticare “la sacra liturgia della natura”.

La frase di Veronica Roth, in limine, è emblematica e guida il lettore nell’interpretazione attualizzante: “Ma ora ho imparato un’altra cosa. Possiamo guarire, se ci curiamo a vicenda”. Nel  romanzo Virdimura  senza fratture né conflitti conquista la propria identità e la sua reale  parità con gli uomini. Mentre intorno a lei le altre donne sono succube di pregiudizi di uomini autoritari. Il convincimento che l’uomo è un essere confinato che cerca eternamente di sconfinare  è la filosofia  sottesa  alla storia  e fa da freno e da guida al comportamento dei personaggi principali.  Un alone di favola avvolge la narrazione per la continua allusione a un sapere antico e saggio che lega l’uomo all’uomo e  alla natura; per il senso del viaggio che con le diverse esperienze che offre ai personaggi maschili, Urìa, Josef, Pasquale, li forma e ne mette in luce la tempra che oggi possiamo definire eroica;  per il luogo separato dalla città  dove  vive la  protagonista sulla riva del mare, presso  una saia, e organizza nella sua  casa –laboratorio-ospedale-biblioteca, un asilo per chi ne ha bisogno, offrendo in maniera disinteressata le sue cure, frutto di  un sapere armonioso e vitale acquisito  studiando  le piante e  le pietre; per la lingua poetica  con intarsi dialettali e di italiano antico.

GABRIELLA MAGGIO


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“François Mauriac, da dove è cominciato tutto?”, saggio di Fausta Genziana Le Piane

Nella letteratura tra le due guerre, François Mauriac rappresenta, con Bernanos, il romanzo d’ispirazione cristiana.

Nato a Bordeaux nel 1885, ricevette dalla madre un’educazione strettamente cattolica. Dopo gli studi al liceo e alla Facoltà di Lettere di Bordeaux, si stabilisce a Parigi, dove si dedica alla letteratura, pubblicando due raccolte poetiche (Les mains jointes, 1909; L’Adieu à l’adolescence, 1911). Rinunciando alla poesia per il romanzo, pubblica nel 1913 L’Enfant chargé de chaînes, ma il successo arriverà più tardi, nel 1922, con Le Baiser au lépreux. Questo libro non è soltanto il primo capolavoro di Mauriac, ma esprime anche, molto nettamente, il dono di questo romanziere cattolico per l’analisi, nel contesto dei costumi della sua provincia natale, del conflitto tra peccato e sacrificio, tra la vita dei sensi e la liberazione spirituale.

Negli altri romanzi (citiamo: Le Désert de l’amour, 1925; Thérèse Desqueyroux, 1927; Destins, 1928; Le Mystère Frontenac, 1931; Le noeud de vipères, 1932; La Fin de la nuit, 1935; La Pharisienne, 1941), Mauriac confermava le qualità di moralista e scrittore, dotato di uno stile sempre adeguato alle situazioni dei personaggi. Ma qualche cosa è cambiata o almeno ha subito un’evoluzione nella visione che questo romanziere si faceva del mondo. In effetti è facile seguire, attraverso le sue opere, il passaggio da un cupo pessimismo che lo spinge a osservare lo spettacolo del peccato e del crimine (Thérèse Desqueyroux), a una presenza della Grazia che dà al nodo oscuro della coscienza la speranza della salvezza. Questa evidenza del problema della Grazia conferisce all’opera di Mauriac, secondo alcuni critici, un tono tipicamente giansenista.

Tra le altre opere di questo scrittore ricordiamo una Vie de Jésus (1936), Asmodée (1937), Les mal aimés (1945) e Le Cahier noir (pubblicato nel 1943 con lo pseudonimo di Forez) in cui espresse la sua fede di resistente. Essendosi dedicato al giornalismo politico, pubblicò Bloc-Notes (1958). Partigiano del gollismo, scrisse una biografia del Generale (De Gaulle, 1964). Mauriac si spense nel 1970.

Il poeta, scrittore e giornalista francese François Mauriac

Thérèse Desqueyroux

Accusata di aver tentato di avvelenare il marito, Thérèse Desqueyroux, protagonista dell’omonimo romanzo (1927) di Mauriac, è infine messa in libertà per non luogo a procedere, in seguito alla deposizione favorevole dello stesso marito desideroso di soffocare lo scandalo che travolge il nome della propria famiglia.

Rientrando ad Argelouse, uno sperduto villaggio della Gironda ove il marito l’attende, Teresa prepara la sua difesa in vista di una riappacificazione ma, evitando le facili e meschine giustificazioni, va alla ricerca delle ragioni che l’hanno condotta al crimine. Evoca così – e siamo alla pagina che qui presentiamo – la sua infanzia, che essa stessa vede come “de la neige à la source du fleuve le plus sali” (“neve alla fonte del fiume più sporco”). Si rivede pura accanto alla sua amica prediletta, Anna, ma la sua non è una semplicità sciocca, dovuta all’ignoranza delle cose. Disegna per sé l’immagine di un angelo, ma di “un ange plein de passion” (“un angelo pieno di passione”, presenza del tema della sensualità). Lasciando al lettore la scoperta di queste notazioni, ci limitiamo a osservare quanto sinuosa e sottile, lucida e spietata sia questa ricerca di Mauriac, che insiste sulle pieghe più riposte e più lontane dell’anima per rintracciarvi il senso di un destino.

Le speranze di Teresa risulteranno vane. Il marito, nella sua sanguigna semplicità, non è fatto per capire e comprendere la complessità delle cose e quindi, dopo averla sacrificata ad Argelouse, conduce la moglie a Parigi, ove l’abbandona.

“Attraversò a tentoni il giardino del capostazione, sentì i crisantemi senza vederli. (In tutto il libro domina il senso dell’olfatto: sentire i crisantemi è più importante che vederli, attraversare il giardino è più importante che vedere i fiori e gli alberi).

Nessuno nello scompartimento di prima classe, dove d’altra parte la luce fioca del treno non sarebbe stata sufficiente ad illuminare il suo viso. Impossibile leggere: ma quale racconto non sarebbe sembrato insipido a Teresa, al prezzo della sua vita terribile? Forse morirebbe di vergogna, di angoscia, di rimorso, di fatica – ma non morirebbe di noia. (La luce non è sufficiente, luce in tutti i sensi. Teresa è nelle tenebre del peccato: ancora una volta il senso della vista non è coinvolto. Il tema della luce attraversa tutti il libro alternato a quello del buio. Ecco i sentimenti che offuscano Teresa, la opprimono: vergogna, angoscia, rimorso, fatica. La donna aspira al perdono e per questo prepara la sua difesa, la confessione che le consentirà di arrivare al sospirato perdono – che non arriverà).

Si cacciò in un angolo, chiuse gli occhi. Era verosimile che una donna della sua intelligenza non arrivasse a rendere questo dramma intellegibile? Sì, finita la confessione, Bernard l’avrebbe risollevata: “Va’ in pace, Teresa, non ti preoccupare. Nella casa di Argelouse, aspetteremo insieme la morte, senza che possano mai separare le cose compiute. Ho sete. Scendi in cucina. Prepara un bicchiere di aranciata. Lo berrò d’un fiato, anche se è torbido. Cosa importa se il gusto mi ricorda quello che aveva un tempo il mio cioccolato del mattino? Ti ricordi, mia cara, tutto quel vomitare? La tua cara mano sosteneva il mio capo; tu non distoglievi lo sguardo da quel liquido verdastro; le mie sincopi non ti spaventavano. Tuttavia, come diventasti pallida quella notte in cui mi accorsi che le mie gambe erano inerti, insensibili. Tremavo, ricordi? E quell’imbecille del dottor Pédemay meravigliato che la temperatura fosse così bassa e il polso così agitato…”. (Confessione, notte – anche notte e buio del peccato -, gusto: temi costanti).

“Ah! Pensa Teresa, non avrà capito. Bisognerà ricominciare dall’inizio…” Dove è l’inizio dei nostri atti? Il nostro destino, quando vogliamo isolarlo, somiglia a quelle piante che è impossibile strappare con tutte le radici. Teresa risalirà fino all’infanzia? Ma l’infanzia stessa è una conclusione, un risultato. L’infanzia di Teresa: neve alla fonte del fiume più sporco. (Teresa si interroga sul suo destino, è un misto di purezza e peccato: è pura come la neve, vuole essere pura ma è contaminata, è sporca, la passione la domina. Angelo e demonio. Più volte nel corso del romanzo si definisce mostro).

Al liceo, era sembrata vivere indifferente e come assente dalle piccole tragedie che laceravano i suoi compagni. Gli insegnanti spesso proponevano l’esempio di Thérèse Larroque (è il nome di famiglia di Thérèse): Teresa non chiede altra ricompensa che, se non la gioia di realizzare in sé stessa un tipo di umanità superiore. La sua coscienza è l’unica e sufficiente luce. (Eccola la luce alla quale Teresa nella sua oscurità tende!).

L’orgoglio di appartenere alla élite umana la sostiene meglio di quello che farebbe la paura del castigo…”. (Altro binomio fondamentale, il perdono e il castigo).

Così si esprimeva uno dei suoi insegnanti. Teresa si interroga: “Sono felice? Sono così candida? Tutto ciò che precede il mio matrimonio assume nel mio ricordo questo aspetto di purezza: contrasto, senza dubbio, con l’inevitabile sudiciume delle nozze. Il liceo, al di là del mio tempo di sposa e di madre, mi appare come un paradiso. Allora non ne ero cosciente. Come avrei potuto sapere che in quegli anni prima della vita stavo vivendo la vera vita? Pura, io l’ero: un angelo, sì! Ma un angelo pieno di passione (Teresa è un misto di purezza – alla quale tende – e tenebre).

Qualunque cosa pretendessero le mie insegnanti, soffrivo e facevo soffrire. Gioivo del male che causavo e di quello che proveniva dalle mie amiche; pura sofferenza che nessun rimorso alterava: dolori e gioie nascevano dai più innocenti piaceri”.  (Teresa indaga sull’origine dei suoi atti e per fare questo risale all’infanzia e al liceo).

La ricompensa di Teresa, era, quando la stagione bruciava, di non giudicarsi indegna di Anna (Anne de la Trave, l’amica d’infanzia di Teresa) che raggiungeva sotto le querce di Argelouse. (Le querce con i pini rappresentano lo sfondo naturale di tutto il romanzo. La quercia è un albero sacro investito dei privilegi della divinità suprema del cielo, senza dubbio perché attira il fulmine e rappresenta la maestà).

Occorreva che potesse dire alla bambina educata al Sacré-Coeur: “Per essere pura come te, non ho bisogno di tutti quei nastri né di tutti quei ritornelli…”Magari la purezza di anna fosse fatta di ignoranza. Le dame del Sacré-Coeur interponevano mille veli tra la realtà e le loro ragazzine. Teresa le disprezzava perché confondevano virtù e ignoranza: “Tu, cara, non conosci la vita…”, ripeteva in quelle lontane estati d’Argelouse. Quelle belle estati…Teresa, nel trenino che si mette in moto, infine, confessa che il suo pensiero deve risalire fino a loro, se vuole vedere chiaro. Incredibile verità che in quelle albe completamente pure della nostra vita, i peggiori temporali erano già sospesi. Mattinate troppo blu: cattivo segno per il tempo del pomeriggio e della sera. Annunciano aiuole devastate, i rami rotti e tutto quel fango. Teresa non ha riflettuto, non ha premeditato mai in nessun momento della sua vita; nessuna curva brusca: ha sceso una pendenza insensibile, prima lentamente poi più velocemente. La donna persa di quella sera è proprio quell’essere radioso che fu durante le estati di quell’Argelouse dove ora torna furtiva e protetta dalla notte. Che fatica! A che scopo scoprire gli aspetti segreti di ciò che è compiuto? La giovane donna. Attraverso i finestrini, non distingue nulla se non il riflesso del suo volto morto. Il ritmo del trenino si rompe; la locomotiva soffia a lungo, si avvicina con prudenza alla stazione. Una lanterna da un braccio, richiami in gergo, le grida acute dei maialini sbarcati: già Uzeste. Ancora una stazione, e sarà Saint Clair da dove occorrerà compiere in una vettura a cavalli l’ultima tappa verso Argelouse. Resta poco tempo a Teresa per preparare la sua difesa! (“Non puoi immaginare la liberazione dopo la confessione, dopo il perdono, – quando di nuovo puliti, si può ricominciare la propria vita”, così diceva a Teresa l’amica Anna. Teresa anela al perdono del marito, di Bernard che però la respingerà. La natura gioca un ruolo importantissimo ed è sempre associata ai turbamenti della protagonista, al suo sentire. Il pino è molto importante e generalmente, in Estremo Oriente, è simbolo d’immortalità, cosa che spiegano contemporaneamente la persistenza del fogliame e l’incorruttibilità della resina. I pini sono legati all’incontro di Teresa con Jean: riflettono, come uno specchio, gli stati d’animo della donna).

I pini: Il mio primo incontro con Jean…Devo ricordare ogni circostanza: avevo scelto di andare a quella colombaia abbandonata dove mangiavo un tempo con Anna e dove sapevo che, dal quel momento in poi, le era piaciuto raggiungere quel Azévédo. No, non era nella mia mente, un pellegrinaggio. Ma i pini, da quel lato, sono cresciuti troppo perché si possa spiare i colombacci: non rischiavo di disturbare i cacciatori. Questa colombaia non poteva più servire poiché tutta la foresta intorno nascondeva l’orizzonte: le cime allontanate non quei grandi viali di cielo dove chi spia vede sorgere i voli.

FAUSTA GENZIANA LE PIANE


Bibliografia

François Mauriac, Thérèse Desqueyroux, éd. Grasset, 1956.

Le traduzioni nel corpo del testo sono di Fausta Genziana Le Piane


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N.E. 01/2023 – “La lacrima e il sorriso: Ortis e Didimo Chierico”. Saggio di Graziella Enna

Molte notizie relative al periodo veneziano di Foscolo, che precedono direttamente la stagione dell’Ortis, ci giungono dalle sue epistole. L’autore mostra un ritratto di sé da cui emergono tratti di ascendenza alfieriana caratterizzati da un’indole sdegnosa, corrucciata e incline alla malinconia. In altre, inviate al Cesarotti, affiorano temi come le sventure familiari, la solitudine, l’amicizia, la vita perseguitata e la morte. Da tutti questi elementi si palesa uno spirito dibattuto tra speranze, illusioni, passioni forti, momenti di estrosa vivacità alternati ad altri, opposti, impregnati di angoscia esistenziale, lamento elegiaco, profonda tristezza, prefigurazioni del personaggio appassionato dell’Ortis. Quando Foscolo, in giovane età, approda alla stesura del romanzo epistolare, ha già illustri antecedenti. La storia dell’infelice e giovane Jacopo, ardente di passioni patriottiche e consumato da una divorante passione amorosa, non è certo una mera imitazione né di Goethe ne“I dolori del giovane Werther”, né di Rousseaunella “Novelle Héloïse”, dai quali certamente ricavò alcune suggestioni ed elementi legati soprattutto alla struttura ma da cui si distacca ampiamente. Solo nella premessa alla sua ultima edizione spende alcune parole sul raffronto con il Werther goethiano, dalle quali possiamo evincere lo spirito tutto foscoliano. Mentre il Goethe meditò a lungo sull’opera e poi la stese di getto, l’Ortis è il diario delle sue angosciose passioni proprio come lui le provava di giorno in giorno. Nel Werther la molla dell’azione dall’inizio alla catastrofe è soltanto l’amore, in lui invece è rappresentata una gamma variegata di sentimenti umani rapportata alle condizioni storiche e alle delusioni politiche: desideri, illusioni e disinganni si rincorrono. Se Goethe riversa nel suo personaggio solo qualche aspetto della sua vita, Jacopo Ortis invece è il Foscolo stesso al cui nome egli è indissolubilmente legato. Tutto ciò si può facilmente dimostrare analizzando la storia delle vicende per le quali l’opera passò. A diciotto anni Foscolo concepisce, mentre si trovava nei colli euganei, l’idea di un romanzo epistolare, “Laura, lettere”, che compendiava le sue prime delusioni d’amore. Due anni dopo a Bologna, dopo il trattato di Campoformio e la bruciante passione per Teresa Monti, diede all’opera il titolo che conosciamo amalgamandovi suggestioni di matrice roussoiana, (come emerge dal nome Jean Jaques che Foscolo traduceva Gian Jacopo), ma anche a un fatto di cronaca: Ortis era infatti il cognome di uno studente morto suicida a Padova. Mentre il Foscolo combatteva in varie parti d’Italia con gli eserciti rivoluzionari dopo aver lasciato Bologna, nel 1800 si innamorò di Isabella Roncioni, promessa sposa ad un altro, traendo da quest’esperienza l’ispirazione per proseguire la sua opera giovanile (pubblicata arbitrariamente, come è noto, da un certo Sassoli con il titolo di “Storia di due amanti infelici”). Nel 1802, a Milano, integrò le pagine già scritte ma si accorse che la vicenda del giovane suicida non esprimeva più interamente il suo stato d’animo. Vagheggiò così la stesura di un’altra opera in cui poter rispecchiare più fedelmente se stesso senza però indossare la maschera tragica del suicida. Voleva intitolarla “Sesto tomo dell’io”, storia di un anno intenso della sua vita, il 1799-1800, fatto di amori, battaglie, un ferimento nell’assedio di Genova, le peregrinazioni nell’Italia invasa da eserciti stranieri. E’evidente che Foscolo volesse riportare toni ben diversi da quelli dell’Ortis, arricchendoli con l’ironia e la mutevolezza di impressioni e opinioni per mostrare il suo processo di maturazione. L’opera non fu portata a termine, ma le pagine stese non risultarono inutili nella prosecuzione dell’Ortis a cui egli tornò dopo la caduta del Regno italico e il ritorno a una situazione simile a quella degli anni di Campoformio. Foscolo abbandonò l’Italia per affermare la sua libertà di scrittore, divenne esule come Jacopo e gli affidò i suoi pensieri, in particolare quelli presenti in un’opera polemica di carattere politico rimasta senza compimento, “Della servitù dell’Italia”. Nell’Ortis entrarono questi discorsi come risulta chiarissimo nella lunga lettera del 17 marzo in cui afferma con veemenza l’incapacità degli Italiani a trovare la motivazione per ribellarsi dall’asservimento straniero.

Gridano d’essere stati venduti e traditi: ma se si fossero armati, sarebbero stati vinti forse, non mai traditi; e se si fossero difesi sino all’ultimo sangue, né i vincitori avrebbero potuto venderli, né i vinti si sarebbero attentati di comperarli. Se non che moltissimi de’ nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro; presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia!

Ancora si veda questo passo in cui evidenzia l’inerzia delle classi dirigenti e dell’intellighenzia.

L’Italia ha de’ titolati quanti ne vuoi;[…] I medici, gli avvocati, i professori d’Università, i letterati, i ricchi mercatanti, l’innumerabile schiera degl’ impiegati fanno arti gentili, essi dicono, e cittadinesche; non però hanno nerbo e diritto cittadinesco.

Questo passaggio sarà ripreso nel passo dei “Sepolcri” (vv.142-145)

Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,/Decoro e mente al bello Italo regno,/Nelle adulate reggie ha sepoltura/Già vivo, e i stemmi unica laude. 

Gli esempi dimostrano che, rispetto alla compattezza dei suoi capolavori, forse l’Ortis può apparire caotico ma in realtà contiene in nuce tutti i motivi topici foscoliani senza i quali forse non si potrebbero comprendere le opere maggiori. Dietro questa forma imperfetta e abbozzata della sua poetica il protagonista è un tutt’uno con l’autore che prorompe dalle pagine con il suo potente individualismo, con la sua passionalità, con un’enfasi retorica arricchita di riferimenti culturali classici, proponendo al lettore un ritratto che può amare o odiare. L’Ortis ha una grande complessità di relazioni con la vita dell’autore che si compendia nella famosa affermazione nell’epistola al Cesarotti del 12 settembre 1802:

«fra un mese avrai in nitida edizione pari a questa una mia fatica di due anni, ch’io chiamo il libro del mio cuore. Posso dire di averlo scritto col mio sangue; tu ergo ut mea viscera suscipe. Da quello conoscerai le mie opinioni, i miei casi, le mie virtù, le mie passioni, i miei vizi, e la mia fisionomia».

Lo scrittore Ugo Foscolo

Parte integrante del nuovo Ortis fu poi la Notizia bibliografica in cui tentò di spiegare l’opera e il suo significato. In buona sostanza l’Ortis ci rappresenta lo specchio della vita foscoliana non in un solo momento della sua esistenza relegata all’età giovanile. Il fatto che l’opera sia continuamente in fieri, palesa chiaramente la necessità da parte dell’autore di rivederla, di correggerla, di completarla. La critica moderna ha poi analizzato le lettere d’amore rivolte a Antonietta Fagnani Arese e vi ha riscontrato una perfetta e fittissima corrispondenza con i sentimenti espressi da Jacopo nei confronti di Teresa, nel romanzo. Ecco alcuni esempi:

Epistola:   “Non ho niun soccorso negli uomini, niuna consolazione in me stesso. Ormai non so che ricorrere al Cielo e pregarlo con le mie lacrime, e cercare conforto fuori di questo mondo dove tutto ci perseguita e ci abbandona. Credimi, mia Antonietta, se il mio pianto, se le mie preghiere, se i miei rimorsi, se il dolore profondo che è fatto carnefice ormai di questo povero cuore, fossero rimedi bastanti per te, tu saresti risanata, ed io ringrazierei i miei tormenti”

 Ortis :  “Non abbiamo piú niun soccorso dagli uomini, niuna consolazione in noi stessi. Omai non so che supplicare il sommo Iddio, e supplicarlo co’ miei gemiti, e cercare qualche aiuto fuori di questo mondo, dove tutto ci perseguita o ci abbandona. E se gli spasimi e le preghiere e il rimorso, ch’è fatto giá mio carnefice, fossero offerte accolte dal cielo, ah! tu non saresti cosí infelice, ed io benedirei tutti i miei tormenti”.

Epistola:  “Mi sono gettato su quel letto, e mi sembrava ancora caldo dell’orma del tuo corpo divino…mi sembrava ancora odoroso. Oh primo giorno! Come tu sei stampato nel mio petto!”

Ortis:   “Mi sono prostrato, o mia Teresa, presso a quel tronco, e quell’erba ha dianzi bevute le più dolci lagrime ch’io abbia versato mai; mi pareva ancora calda dell’orma del tuo corpo divino; mi pareva ancora odorosa. Beata sera! come tu sei stampata nel mio petto!”

Epistola: “Tutto è follia, mia tenera amante, tutto purtroppo! E quando anche il soave sogno de’nostri amori terminerà, credimi, io calerò il sipario; la gloria, il sapere, l’ amicizia, le ricchezze, tutti i fantasmi che hanno recitato fino ad ora nella mia commedia, non fanno più per me”

Ortis: “Tutto è follia mia dolce amica; tutto pur tropp! E quando il mio sogno soave terminerà, quando gli uomini, e la fortuna ti rapiranno a questi occhi, io calerò il sipario: la gloria, il sapere, la gioventù, le ricchezze, tutti fantasmi che hanno recitato fino ad ora nella mia commedia, non fanno più per me”.

 È evidente una deliberata scelta di Foscolo di trasferire completamente la propria vita nell’arte che dal punto di vista tematico si traduce nei motivi essenziali della sua poetica. Anche lo stile è variegato e composito, passa dai toni drammatici e patetici a quelli espositivi e distesi, come se lo scrittore trovasse la soluzione dei suoi conflitti in questi elementi apparentemente discordanti. La continua revisione di Foscolo ha trovato un sostegno notevole sia nel suo esercizio epistolare, sia nella lettura e traduzione di Sterne, di cui conosce le opere intorno ai vent’anni. Mentre si trova a Calais al seguito dell’esercito napoleonico fu a stretto contatto con dei prigionieri inglesi da cui ricevette l’originale del romanzo “La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo”. Sterne è un  autore è molto diverso da lui proprio per la comicità e l’ironia intrinseche alla sua poetica. Stranamente Foscolo conosce anche l’inglese, (mentre tutti gli intellettuali all’epoca conoscevano solo il francese), così decide di tradurre Sterne. Non sceglie il Tristram, ma un altro libretto, il “Viaggio sentimentale” che era, come dice il titolo, un diario di viaggio fatto dall’autore tra Francia e Italia. Foscolo inizia la sua traduzione nel 1805 a Calais, ma poi l’abbandona e la rifà da cima a fondo a Firenze, poi la pubblica a Pisa nel 1813 con il titolo “Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, traduzione di Didimo Chierico”. Quando Sterne aveva pubblicato l’opera, l’aveva attribuita ad un personaggio fittizio di nome Yorick, come il buffone di una famosa scena dell’Amleto di Shakespeare. Foscolo è molto attratto dall’umorismo di Sterne e dall’atteggiamento di Yorick, che si contrappone all’immagine stereotipata del viaggiatore settecentesco e guarda al comportamento degli uomini evidenziandone l’incoerenza. Foscolo, imitando Sterne, attribuisce la traduzione ad un fantomatico letterato chiamato Didimo Chierico, eccentrico personaggio che vestiva da prete senza aver assunto gli ordini sacri, aggiungendo in fondo alla traduzione la “Notizia intorno a Didimo Chierico”. Sostiene di aver ricevuto da lui il manoscritto con la preghiera di pubblicarlo. In realtà Didimo è l’autoritratto di Foscolo maturo, mentre l’Ortis era stato il suo ritratto giovanile. Dall’epistolario di Foscolo è possibile estrapolare dei riferimenti alle difficoltà che incontrò nel tradurre, che gli pareva un’impresa servile. A suo parere, la traduzione non doveva essere un atto puramente meccanico ma possedere qualcosa di originale, essere una cosa sua propria, l’aspira a comporre una figura in cui riconoscersi e farsi riconoscere. Non ha ancora terminato l’Ortis e già nasce in lui l’idea di un secondo alter ego, (che non aveva portato a compimento nel “Sesto tomo”), più maturo e più savio. Questa nuova maschera foscoliana acquista il suo senso posta in relazione all’Ortis. Didimo è infatti l’anti Ortis o meglio, l’Ortis sopravissuto, divenuto letterato, traduttore, commentatore, con lo stesso animo di un tempo ma totalmente disincantato. È un personaggio che si mostra estraneo ai tempi, eppure ne vive le contraddizioni, ha vissuto la durezza della vita militare, ha conosciuto la vanità e la supponenza di intellettuali eruditi, ma a sua volta recita la parte del pedante esprimendosi ironicamente con un linguaggio dotto e obsoleto, ha vissuto una giovinezza appassionata ma col tempo ha ridimensionato le sue pulsioni come testimoniano queste parole nella “Notizia”:

Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana.

Esiste poi un differente punto di vista in cui si pone l’autore: Ortis è Foscolo in prima persona, Didimo, (questo è l’elemento caratterizzante dello scritto autobiografico), parla come un’altra persona. Didimo viene tenuto a distanza come se lo scrittore volesse fare ammenda della sua intemperanza giovanile per dare una nuova immagine di sé, lucida, disincantata e verace.In luogo della scrittura delle passioni tristi di Jacopo il nuovo scritto contiene l’osservazione delle cose del mondo, un nuovo tipo di ironia che è il patrimonio di Yorick trasmesso a Didimo che adotta un punto di vista meno doloroso e tragico della realtà sostituendo i giudizi perentori, l’intransigente moralismo, i toni oratori e ampollosi a una visione mite velata di ironia. Alcuni stralci della “Notizia” presentano così Didimo:

 Insomma pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall’indole sua naturale, s’accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva più amore che stima per gli uomini;

Ma pareva, quando io lo vidi, più disingannato che rinsavito; e che senza dar noia agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di sé medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare che di toccare la meta.

Jacopo vive nell’aspirazione continua ai miti di perfezione, nell’esasperazione di sentimenti e passione politica. Didimo, in una sua personale autarkeia, accetta la felicità modesta e relativa che si può ricavare dalle proprie esperienze quotidiane. Non sono però che due aspetti che convivono nella personalità foscoliana, da una parte la ricerca dell’ideale, dall’altra l’accettazione intelligente e saggia della quotidianità.

  • Caretti Lanfranco, Ugo Foscolo, Milano, Garzanti 1969
  • Fubini Mario, Ortis e Didimo, Milano Feltrinelli 1963
  • Barbarisi Gennaro, Le postille di Didimo Chierico al “Viaggio sentimentale”, in Giornale Storico della Letteratura Italiana; Torino Vol. 135, Fasc. 409, 1958
  • Matteo Palumbo, Jacopo Ortis, Didimo Chierico e gli avvertimenti di Foscolo “Al lettore” Source: MLN , Jan., Vol. 105, No. 1, pp. 50-73 Published by: The Johns Hopkins University Press, 1990
  • Ferroni Giulio, Storia della letteratura italiana, dall’Ottocento al Novecento, Einaudi, Milano 1991
  • Foscolo Ugo, Notizia intorno a Didimo Chierico,  CURATORE: M. Fubini http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/  2001 TRATTO DA: “Opere” di Ugo Foscolo Edizione nazionale sotto gli auspici del Ministero della P. I. Firenze, Le Monnier, Vol. V: Prose varie d’arte
  • Foscolo Ugo, “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, Milano, Bur Rizzoli 1999

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Mark Twain e Kurt Vonnegut a confronto. Articolo di Francesco Scatigno

Cosa hanno in comune Mark Twain e Kurt Vonnegut?

Mark Twain e Kurt Vonnegut sono famosi per i loro contributi incomparabili alla letteratura. Nel tessuto della storia letteraria, essi si ergono come figure iconiche, ognuna tessendo una narrazione distinta che ha lasciato un’impronta indelebile nei lettori di ogni generazione. Twain, con il suo ingegno e saggezza, e Vonnegut, con le sue esplorazioni irriverenti e allo stesso tempo profonde, ci hanno donato non solo storie, ma anche specchi che riflettono le complessità dell’esperienza umana.

Sebbene i loro stili di scrittura possano differire, il genio di Twain e Vonnegut risiede nella loro capacità di coinvolgere i lettori in un dialogo avvincente sulla società, sull’umanità e sul misterioso viaggio dell’esistenza.

I contesti storici e culturali

Mark Twain e Kurt Vonnegut sono entrambi figli del loro tempo, autori che hanno saputo catturare e riflettere l’atmosfera e lo spirito dei rispettivi periodi storici. Mark Twain, il cui vero nome era Samuel Langhorne Clemens, visse nel XIX secolo, un’epoca caratterizzata dal fervore dell’espansione verso l’ovest, dalla guerra civile americana e dai cambiamenti sociali. La sua narrativa spesso tocca temi come l’ingiustizia, la schiavitù e la corruzione, offrendo una critica acuta della società dell’epoca.

Kurt Vonnegut, d’altra parte, emergendo nella seconda metà del XX secolo, portò la sua voce letteraria in un’era segnata dalla Guerra Fredda, dalla minaccia nucleare e da un crescente scetticismo verso le istituzioni tradizionali. La sua scrittura è intrisa di un tono anti-autoritario e di un umorismo nero che riflette la complessità e l’incertezza del mondo moderno.

Entrambi gli autori si sono confrontati con i problemi e le preoccupazioni del loro tempo, utilizzando la narrativa come uno strumento per dar voce alle sfide sociali, politiche e culturali. La profonda consapevolezza di questi contesti storici ha permesso loro di creare opere intrinsecamente collegate alle realtà della loro epoca, mentre al tempo stesso hanno saputo affrontare temi universali che continuano a essere rilevanti oggi.

Stile e linguaggio peculiari

Una delle caratteristiche distintive di entrambi gli scrittori è il loro stile di scrittura unico e riconoscibile, che ha contribuito a plasmare le loro opere e a renderle memorabili. Mark Twain è noto per il suo linguaggio vivace e colloquiale, che cattura l’essenza dell’America dell’Ovest e dei suoi personaggi. Il suo uso sapiente del dialetto regionale e delle espressioni vernacolari dà vita alle sue storie e rende i personaggi autentici e tridimensionali.

Dall’altra parte, Kurt Vonnegut ha sviluppato uno stile narrativo distinto caratterizzato dalla sua prosa chiara e incisiva, spesso arricchita da sarcasmo e ironia. Vonnegut è famoso per l’uso di strutture narrative non convenzionali e per la sua abilità nel giocare con il tempo e la prospettiva. Questi elementi non solo rendono le sue opere interessanti da leggere, ma contribuiscono anche a enfatizzare i temi profondi e complessi trattati nei suoi romanzi.

Entrambi gli autori sperimentano con il linguaggio e la struttura in modo audace, creando un’impronta caratteristica che rende le loro opere immediatamente riconoscibili. Questo stile unico è parte integrante della loro eredità letteraria e ha influenzato generazioni successive di scrittori che cercano di catturare lo spirito dei loro tempi in modo altrettanto originale e coinvolgente.

Uso dell’umorismo e della satira

Sia Mark Twain che Kurt Vonnegut sono maestri nell’uso dell’umorismo e della satira per indagare temi profondi e spesso controversi. Twain, con il suo spirito schietto e la sua critica sociale, è noto per aver affrontato questioni come la razza, la religione e la politica attraverso una interpretazione satirica. Le sue opere, come “Le avventure di Huckleberry Finn” e “Il Principe e il Povero”, affrontano temi di ingiustizia sociale e pregiudizio con una combinazione unica di sarcasmo e umorismo pungente.

Dall’altra parte, Kurt Vonnegut è celebre per la sua satira sottile e la sua ironia tagliente. I suoi romanzi, come “Mattatoio n. 5” e “Ghiaccio-nove”, utilizzano l’umorismo nero per esplorare argomenti complessi come la guerra, la tecnologia e la condizione umana. Vonnegut crea mondi surreali in cui la realtà viene distorta attraverso l’occhio critico dell’umorismo, offrendo così una visione straordinaria dei problemi della società contemporanea.

Entrambi gli autori dimostrano che l’umorismo e la satira possono essere potenti strumenti letterari per affrontare questioni serie e far riflettere il lettore su temi profondi. La loro abilità nel bilanciare l’ilarità con la riflessione critica permette loro di creare opere che sono al contempo divertenti e stimolanti, invitando i lettori a esaminare da vicino le convenzioni sociali e i paradossi dell’esistenza umana.

Scetticismo verso l’autorità

Un tratto distintivo che accomuna Mark Twain e Kurt Vonnegut è il loro profondo scetticismo nei confronti dell’autorità, che emerge in modo accattivante nelle loro opere letterarie.

Mark Twain, attraverso i suoi personaggi ribelli e anticonformisti, ha spesso messo in discussione le istituzioni sociali e politiche dell’America del XIX secolo. In opere come “Le avventure di Huckleberry Finn” e “Il principe e il povero”, Twain esplora i temi della giustizia, dell’uguaglianza e della corruzione, mettendo in luce le disuguaglianze sociali e le ingiustizie presenti nella società. Il suo approccio critico e ironico verso il potere e l’autorità ha reso i suoi romanzi non solo divertenti, ma anche strumenti per la riflessione su questioni sociali ed etiche.

Anche Kurt Vonnegut condivide questo scetticismo verso l’autorità e spesso lo amplifica con un tocco satirico. Nei suoi romanzi, le figure di autorità vengono spesso rappresentate in modo grottesco o ridicolo, svelando le ipocrisie e le debolezze del potere. In “Mattatoio n. 5”, ad esempio, Vonnegut esplora gli orrori della guerra e critica aspramente le decisioni dei leader politici. La sua scrittura ironica e provocatoria mette in luce l’assurdità delle strutture di potere e invita il lettore a interrogarsi sulle dinamiche del potere.

Attraverso il loro scetticismo condiviso verso l’autorità, Twain e Vonnegut sfidano il lettore a esaminare criticamente le istituzioni e i leader che influenzano la società. La loro capacità di trasporre questo scetticismo nella narrazione crea opere letterarie che non solo intrattengono, ma anche spingono alla riflessione su questioni di potere, controllo e responsabilità.

L’influenza letteraria

L’eredità di Mark Twain e Kurt Vonnegut nell’ambito letterario è notevole e continua ad esercitare un’influenza duratura sulle generazioni successive di scrittori e lettori.

Le opere di Mark Twain sono considerate pietre miliari della letteratura americana e hanno contribuito a definire il genere del romanzo moderno. Il suo stile di scrittura vivace, l’uso distintivo del dialetto e la profonda analisi sociale hanno ispirato numerosi autori nel corso degli anni. Scrittori come J.D. Salinger, John Steinbeck e Toni Morrison hanno ammirato la capacità di Twain di esplorare tematiche universali attraverso personaggi e storie coinvolgenti. Inoltre, il suo spirito critico e il suo approccio satirico al contesto sociale sono diventati un punto di riferimento per gli scrittori impegnati nell’analisi della vita sociale e politica.

Analogamente, l’influenza di Kurt Vonnegut si estende ben oltre le pagine dei suoi romanzi. La sua combinazione unica di satira, fantascienza e umorismo nero ha aperto nuove strade nella narrativa contemporanea. Scrittori come Douglas Adams e Dave Eggers hanno abbracciato l’approccio audace di Vonnegut nel trattare argomenti seri attraverso l’umorismo e l’ironia. In particolare, la sua capacità di esplorare i dilemmi umani in un mondo sempre più complesso ha ispirato autori che cercano di sondare le profondità della psiche umana e della società moderna.

Riflessioni filosofiche

Tanto Mark Twain quanto Kurt Vonnegut hanno lasciato un’impronta indelebile nel panorama letterario per le loro profonde riflessioni filosofiche che spesso si intrecciano con l’umorismo e l’ironia.

Mark Twain ha esplorato temi filosofici complessi attraverso personaggi e situazioni a volte surreali. Nelle sue opere, come “Lo straniero misterioso” e “Wilson lo zuccone”, ha affrontato concetti di moralità, libero arbitrio e natura umana. Attraverso trame avvincenti e dialoghi taglienti, Twain ha invitato i lettori a interrogarsi sulle ambiguità etiche della vita e sulla natura spesso contraddittoria degli esseri umani.

Kurt Vonnegut ha intrapreso un approccio simile, mescolando filosofia e fantascienza con una dose di sarcasmo. Opere come “Benvenuta nella gabbia delle scimmie” e “Sirene” hanno offerto riflessioni su temi come la guerra, la religione e l’esistenza umana. Vonnegut ha spesso giocato con l’assurdità della condizione umana, mettendo in luce le contraddizioni delle credenze culturali e delle istituzioni sociali. Le sue storie ricche di simbolismo hanno ispirato lettori a esaminare la loro visione del mondo e a considerare la complessità delle questioni esistenziali.

In entrambi i casi, sia Twain che Vonnegut hanno sfidato gli stereotipi convenzionali e le idee preconfezionate, spingendo i lettori a esplorare questioni profonde attraverso delle lenti umoristiche e creative. Le loro opere hanno costituito un punto di partenza per l’analisi filosofica e hanno dimostrato che la letteratura può essere un mezzo potente per ripensare la società.


FRANCESCO SCATIGNO

L’autore dell’articolo:

Francesco Scatigno, classe 1983, pubblica nel 2007 Lo Scarabeo con Bastogi Editrice. Nel 2008 fonda il blog Magozine.it che diventa poi spazio collettivo di controinformazione e controcultura. Nel gennaio 2016 è autore del manifesto di Cucina Sovversiva. Nel maggio 2016 pubblica il saggio Mezza Rivoluzione o La Rivoluzione Integrale, testo autopubblicato sulle buone pratiche economiche e politiche di mutuo appoggio e collettivismo. Su Magozine.it cura la Newsletter Umoristica con raccontibrevi di satira politica e umorismo. Sullo stesso blog recensisce saggi politici e narrativa sociale e fantascientifica.

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L’Autore del testo ha acconsentito alla pubblicazione di questo testo su questo blog senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in seguito. La pubblicazione di questo testo in forma integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto, non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’autore.

“Mi limitavo ad amare te” di Rosella Pastorino, recensione di Gabriella Maggio

Recensione di Gabriella Maggio

Mi limitavo ad amare te, il nuovo romanzo di Rosella Postorino edito da Feltrinelli, è ambientato durante il conflitto tra Serbia e Bosnia Erzegovina, nella primavera del 1992. Sulla trama della grande storia s’inserisce quella di tre bambini che per motivi diversi vivono in un orfanotrofio a Sarajevo, Omar, suo fratello Sen, Nada. Tra questi, Omar è il più sensibile e soffre per la separazione dalla madre che non ostante il pericolo quasi ogni settimana lo va a trovare. Omar “aveva dieci anni, e da cinque viveva nel tormento della sua mancanza, passava la settimana alla finestra, in ginocchio su una sedia ad aspettare”. Al contrario il fratello Sen, che già fuma e si atteggia ad adulto, non vuole incontrare la madre di tanto in tanto” come se fosse una zia “e non va mai all’appuntamento. La narrazione ha inizio con l’ultima passeggiata di Omar insieme alla madre quando “le finestre tremarono, i colombi si scagliarono in volo, la girandola girò e cadde dal vaso, ma il bambino non se ne accorse: una raffica d’aria lo strappò all’abbraccio scaraventandolo via….”corri!” Il bambino girò di scatto la testa: era la voce di sua madre, ma da dove veniva? ”Mamma “. La cercò nella calca…”Dove sei” gridò correndo…” Da questo momento Omar  vive  nella speranza di ritrovarla viva, “Non aveva mai avuto un amico, non aveva mai anelato la compagnia di nessuno, a parte la madre, il fratello. Ma ora quella bambina era diventata un desiderio”. La  piccolaNada è stata abbandonata dalla madre, trascorre il tempo a disegnare da sola, è taciturna e cerca di nascondere la mancanza di un anulare per non essere derisa o offesa dagli altri bambini. Il suo nome in serbo significa Speranza e per Omar soprattutto rappresenta la possibilità di un affetto, di una solidarietà. Quando l’orfanotrofio viene bombardato tutti i bambini sono trasferiti in Italia su un pullman dell’O.N.U. Durante il viaggio Omar, Sen e Nada conoscono Danilo, un ragazzo benestante che la famiglia, umiliata dalle violenze dei soldati, incita ad abbandonare Sarajevo per sottrarsi ai pericoli e all’abbrutimento della guerra. Da questo momento le loro vite s’intrecciano in un sodalizio che surroga il legame con la famiglia, lontana o inesistente, con la terra d’origine, con la lingua, che purtroppo cominceranno a dimenticare. Sen e Danilo reagiscono subito positivamente allo sradicamento dalla loro terra, vogliono vivere, inserirsi nella nuova società e lasciarsi il dolore alle spalle. Omar invece resta per sempre legato alla madre, al rimorso di non averla cercata dopo l’esplosione e, diversamente da Sen, rifiuta l’inserimento nella famiglia adottiva e nella scuola. Nada non viene adottata forse per il suo carattere ribelle e rimane nell’istituto che l’ha ospitata da profuga, coltivando la sua passione per il disegno, fino a quando, dopo una breve relazione con Danilo,  non mette al mondo  un figlio e deve trovare un lavoro per mantenerlo. Danilo, preso dagli studi e dalla volontà di affermarsi, di fidanzarsi con una ragazza italiana, non dà più notizie di sé a Nada e per nove anni sarà ignaro anche della sua paternità. Ne viene a conoscenza quando è già sposato e sta per avere una figlia. Omar invece si è isolato da tutti, vive con disagio la sua condizione sempre tormentato dai suoi fantasmi.  La narrazione, suddivisa in quattro parti secondo un ordine cronologico, variato talvolta dall’analessi, si svolge in terza persona, tranne nel capitolo 55 della quarta parte in cui è Nino, il figlio di Nada, il figlio della speranza, a raccontare. Solo attraverso questo bambino, amato ed accettato da tutti, anche se il padre non gli si rivela e resta soltanto come amico, può sciogliersi il nodo esistenziale di Omar. Ma questo è anche un modo per ribadire il tema fondante del romanzo: la complessità spesso drammatica della relazione figli – genitori. Figli perduti e ritrovati, ma anche figli rifiutati o figli semplicemente amati, naturali o adottivi. Attraverso la storia dei protagonisti, prima bambini, poi adulti, viene ribadita l’importanza dell’infanzia che determina la vita di ciascuno. Per loro l’esperienza della guerra è stata particolarmente tragica perché ha sconquassato l’ambiente in cui bene o male provavano a vivere. Il romanzo affronta anche altri temi come quello dell’identità culturale costituita dalla lingua e quello religioso, come assenza di Dio dalla storia e dalla vita di ciascuno: “Ma Dio era in esilio, lo era sempre stato” e di conseguenza quello della teodicea. La crudezza della guerra è affidata alle pagine in corsivo che completano la narrazione, avvicinandola al romanzo storico. In una di queste si legge intero lo sgomento della scrittrice, che si fa interprete del rovesciamento dei valori operato dalla guerra:  “Per chi le scrivo, queste pagine, io? Per la morte di una zanzara sul muro della mia stanza, per la morte che è ovunque, mentre voi parlate della vita, e la chiamate dono… Ma se la vita può putrefarsi nel buio fetido di un cassonetto, allora è nascere il peccato”. Ma anche la sua determinazione a dare un senso universale alla sua opera sollevando il velo dei luoghi comuni e conferendo alla scrittura il compito di svelare il vero senso delle azioni degli uomini. Il titolo del romanzo è un verso di Izet Sarajlic, poeta, storico, filosofo bosniaco, tratto da “Cerco la strada per il mio nome”: “Cosa facevo io mentre durava la storia?/ Mi limitavo ad amare te.” L’apprezzamento del romanzo è certamente legato alle qualità dello stile narrativo e del linguaggio preciso e sintetico, ma anche al periodo storico che stiamo vivendo, all’aggressione dell’Ucraina dove si ripetono le violenze e le atrocità proprie di ogni  guerra.

GABRIELLA MAGGIO

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“Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli. Recensione di Gabriella Maggio

Recensione di GABRIELLA MAGGIO

Daniele Mencarelli scrivendo Tutto chiede salvezza (Mondadori, vincitore nel 2020 del Premio Strega Giovani) consegna al lettore un libro coraggioso e sincero. L’autore si racconta senza nascondersi nelle parole, mettendo a nudo il disagio esistenziale di chi ha dichiarato guerra alla vita, ha aperto porte invisibili assumendo ogni genere di droghe, ha creduto a tutto, poi ha rinnegato tutto con l’unica certezza di non avere trovato quello che cercava. Nella narrazione autobiografica Daniele disarticola i falsi miti contemporanei che vogliono tutti noi vincenti, felici, perfettamente realizzati e omologati. Sferza le famiglie ansiose, ossessionate dal successo dei figli,  ma anche lancia un  j’accuse  ai sanitari indifferenti alla sofferenza ed ai bisogni dei  malati. C’è tanta umanità, desiderio d’amore e d’attenzione nei degenti di quello stanzone del reparto psichiatrico in cui Daniele si ritrova e dove inizia un viaggio alla scoperta di sé attraverso le debolezze e la fragilità dell’altro accettato senza giudicarlo. Tutto chiede salvezza si può anche definire il racconto del nostro limite, concetto non di moda, ma essenziale. La focalizzazione adottata da Mencarelli ha qualcosa di leopardiano nel guardare la realtà e restituirla nella sua crudezza, senza illusioni, senza nulla concedere a forme consolatorie. La storia è ambientata nella torrida estate del ’94, l’anno dei mondiali, ma Daniele Mencarelli non potrà seguirli con gli amici perché per una settimana deve subire il TSO, trattamento sanitario obbligatorio, in un reparto psichiatrico. Ha appena vent’anni Daniele e da tre anni è alla ricerca di un ancoraggio che non trova neppure nelle cure che gli sono state proposte dai medici; un gesto fuori controllo lo porta in ospedale. L’incontro con Madonnina, Gianluca, Giorgio, Alessandro, Mario è un’esperienza formativa per Daniele che lo porta a comprende che: “Semo tutti equilibristi, che da un momento a un altro uno smette de respirà e l’infilano dentro ‘na bara, come niente fosse… Salvezza. Per me….  Per tutti… La mia malattia si chiama salvezza, ma come?A chi dirlo?”. Sicurezza e incolumità dai pericoli desidera Daniele per tutti gli uomini perché: “A terrorizzarmi non è l’idea di essere malato, a quello mi sto abituando, ma il dubbio che tutto sia nient’altro che una coincidenza del cosmo, l’essere umano come un rigurgito di vita, per sbaglio…”.  Mario ex maestro di scuola dà dei consigli a Daniele: “fidati pure dei farmaci, dei medici, ma non smettere di lavorare su te stesso, di fare di tutto per conoscerti meglio”. A lui Daniele confida di scrivere poesie e di leggere poeti come Bellezza e Saba e di apprezzare la poesia onesta perché con le parole si deve “arrivà  all’osso, ce se deve spoglià, invece tanti poeti me pare ce se vestono, ce se nascondono dentro”. La poesia è uno svelamento di sé, uno strumento d’indagine che permette di ritrovarsi e di comunicare le proprie lacerazioni interiori. La narrazione di Tutto chiede salvezza è divisa in sette capitoli, quanti sono i giorni che Daniele resta in ospedale. L’uso del dialetto romanesco mescolato all’italiano rimanda ai sentimenti più intimi, alla difesa dal modo esterno, al bisogno di rappresentare una realtà cruda. Ma non limita la comprensione per la sua vicinanza con l’italiano.

GABRIELLA MAGGIO

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“Bella come sei. Pentagrammi di donna”, l’evento di Euterpe APS sabato 11 marzo al Centro Pergoli di Falconara M.

Sabato 11 marzo a partire dalle 17:30 presso il Centro “P. Pergoli” di Falconara Marittima (AN) si terrà l’evento “Bella come sei. Pentagrammi di donna” organizzato dall’Associazione Culturale Euterpe APS di Jesi. L’iniziativa, inserita all’interno del fitto programma di iniziative del Comune di Falconara Marittima per celebrare la Giornata Mondiale della Donna, vedrà al suo interno la performance “Le lucenti demiurghe” a cura di Morena Oro e Lucia Nardi, in arte LuNa.

L’iniziativa, fortemente voluta dalla maestra e scrittrice chiaravallese Alessandra Montali – Consigliera di Euterpe APS – vedrà la presentazione delle opere letterarie di tre autrici del nostro territorio, rispettivamente “Cuor di rubino” (Arpeggio Libero, 2021) di Maria Sabina Coluccia, “Ventinove settembre” (Le Mezzelane, 2018) di Maria Anna Mastrodonato, “Parole silenzi echi ritorni” (Ventura, 2019) di Velia Balducci. Le prime due opere sono romanzi mentre quello di Balducci una raccolta di poesie.

Lo scrittore Stefano Vignaroli presenterà le autrici e rivolgerà loro qualche domanda mentre la lettrice Valeria Cupis interpreterà alcuni brani scelti dai libri. La poetessa dialettale Marinella Cimarelli intratterrà il pubblico con una divertente scenetta nel vernacolo jesino.

In questo connubio di interventi e di arti ci sarà anche l’esposizione di alcune opere pittoriche legate al tema della donna, di Manuela Testaferri e Angela Giovagnoli.

Ad arricchire il nutrito evento sarà la presenza di alcuni alunni dell’ISS “Podesti Calzecchi-Onesti”, guidati dalla docente Matilde Giordani, che proporranno laboratori e l’apprezzato musicista il Maestro Massimo Agostinelli che eseguirà selezionati brani alla chitarra.

Sarà possibile godere di un aperitivo “a tema” al costo di 7€, previa prenotazione al nr. 339-3292732 (chiamare dopo le ore 18).

Info:

www.associazioneeuetepe.com

ass.culturale.euterpe@gmail.com

Una conferenza online sullo scrittore Michele Prisco (1920-2003) – Premio Strega 1966 – il prossimo 16 ottobre

L’Associazione Euterpe APS di Jesi ha deciso di dedicare una conferenza al noto giornalista e scrittore Michele Prisco (1920-2003) che esordì nel 1949 con la raccolta di racconti La provincia addormentata e avrebbe regalato al pubblico romanzi di grande fascino e ampia diffusione a partire da Gli eredi del vento (1950) e Figli difficili (1954), passando per il celebre Una spirale di nebbia (1966) col quale vinse il Premio Strega, traghettando il suo nutrito pubblico con numerosi altri romanzi (tra cui I cieli della sera del 1970; Il pellicano di pietra del 1996 e l’ultimo Gli altri del 1999) sino alla fine degli anni Novanta del Secolo Scorso.

“Un vero signore del romanzo”, lo definì Carlo Bo. Prisco ottenne grande successo e vinse i maggiori premi letterari tra cui il Premio Napoli nel 1971 con I cieli della sera, il “Frontino-Montefeltro” nel 1992 con Terre basse, oltre ai riconoscimenti alla carriera, il “Domenico Rea”, il “Pirandello” e il “Flaiano”, sebbene – come ha sottolineato nel tempo parte della critica e la famiglia – su di lui sia lentamente sceso un velame ingiusto di facile dimenticanza, a dispetto di un’opera così ampia, ricca di contenuti e celebrata dai più eminenti critici e saggisti del Belpaese.

L’iniziativa, che si terrà unicamente da remoto sulla pagina ufficiale di Euterpe APS – Jesi, si svolgerà domenica 16 ottobre 2022 a partire dalle 17:30 e vedrà la presenza di vari relatori tra critici, poeti, studiosi e amanti della letteratura che intendono dare il loro contributo per la rilettura e l’approfondimento di uno dei maggiori scrittori di sempre.

“Rivisitando Michele Prisco. Tra testimonianze e riflessioni” è il titolo dell’incontro che si aprirà con i saluti del poeta e critico letterario Lorenzo Spurio (presidente Euterpe APS) e quelli delle figlie dello scrittore, Annella e Caterina Prisco, rispettivamente Vice Presidente e Presidente del Centro Studi “Michele Prisco”.

Ad intervenire saranno poi il critico letterario Simone Gambacorta, che è stato componente del “Comitato per il centenario della nascita dello scrittore Michele Prisco” istituito dal Ministero della Cultura nel 2021, con un contributo dal titolo “La presenza attiva. L’ascolto della parola e dell’altro”. Seguiranno gli interventi del poeta e critico letterario fiorentino Iuri Lombardi dal titolo “Michele Prisco e la scuola napoletana: dissoluzione e nascita di un nuovo io nelle pagine di Una spirale di nebbia” e della poetessa e giornalista Michela Zanarella dal titolo “Gli eredi del vento: la campagna vesuviana racconta le ombre umane, l’inganno, l’accumulazione”.

Le letture scelte, alcuni brani estratti dal romanzo Figli difficili (1954), saranno a cura di Gioia Casale, scrittrice e Vice Presidente di Euterpe APS.

Per l’iniziativa, alla quale hanno fornito la loro collaborazione l’Associazione “Le Ragunanze” APS di Roma e il Centro Studi “Michele Prisco”, sono stati concessi i Patrocini Morali del Comune di Napoli, della Provincia di Napoli e dell’Università “Federico II” di Napoli.

Per assistere alla conferenza sarà necessario collegarsi alla pagina FB dell’Associazione (nome completo “Euterpe APS – Jesi” al link: https://www.facebook.com/euterpe.jesi) il giorno e all’orario indicati.

Info:

www.associazioneeuterpe.com

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