Quando il narratore è… interno. “Nel guscio” di Ian McEwan, recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini

Alla fine deve ad Amleto meno di quanto sia stato fin troppo evidenziato (fra gli altri da un entusiasta Antonio D’Orrico su “La lettura” del 30 aprile) l’ultimo romanzo di Ian McEwan Nel guscio (Einaudi 2017), noir anomalo e intrigante scritto con sarcasmo, genialità, sguardo attento al nostro complesso presente: il tutto tanto più sorprendente in quanto il punto di vista narrativo non è quello di un colto e navigato intellettuale come il tono farebbe, sin dall’incipit, supporre.

Lei è Trudy (Gertrude): può contare su una bellezza piena ed indiscutibile – capelli “biondo grano di una guerriera sassone che si inanellano lucenti sino al bianco polpa di mela delle spalle e naso piccolo come un bottone di perla” (chi la descrive ha nel DNA una spiccata vena lirica ed è…di parte) – e su una formazione in pillole maturata ascoltando radio, audiolibri divulgativi, podcast eterogenei, dalla bachicoltura nelle Ardenne alla strategia attuata dal Führer nella medesima regione. Particolare non trascurabile nell’economia dell’intreccio, è al temine di una gravidanza. I “lui” sono due fratelli: il marito e padre del protagonista, John Cairncross – poeta misconosciuto idealista e premuroso, disposto a subire umiliazioni, sconfitte, delusioni in nome di un sonetto, accomodante al punto da accettare la “pausa di riflessione” impostagli dalla moglie a seguito di una mai ammessa crisi matrimoniale e lasciarle il sontuoso edificio georgiano di famiglia in Hamilton Terrace – e Claude, suo attuale convivente (Shakespeare, certo: se è per questo compare persino lo spettro), agente immobiliare a corto di inventiva e fantasia, ottuso, insulso, senza nemmeno il fascino del “mascalzone sorridente, conchiglia priva dell’ospite e, come cospiratore, più cretino di lei”.

61Obc59f4-L.jpgA riferire/giudicare/deprecare l’intento dei cognati di uccidere il legittimo genitore e ad accompagnarci nei meandri di menti adulte di volta in volta appassionate e/o disperate, edotto, suo malgrado, nelle perverse dinamiche degli amanti (“arrivano al primo bacio pieni di cicatrici, oltre che di voglie” e “non si amano in dicembre come si amavano a maggio”) non meno che nei meccanismi della vendetta (“può essere consumata cento volte in una sola notte insonne”), è la più precoce voce narrante del romanzo post-moderno che ci sia dato ricordare: un feto, ormai non più fluttuante nella bolla sognante dei propri pensieri – come…da giovane – ma pronto ad affacciarsi alla vita e spirito critico già pienamente consapevole che “l’esistenza cosciente coincide con la fine dell’illusione di non essere”…Chi legge dovrà abituarsi, il narratore si esprime così ed è merito dello scrittore aver evitato i rischi di un gioco cerebrale ed artificioso grazie ad una massiccia dose di provvidenziale, godibile ironia. Testimone suo malgrado – silenzioso sino ad un certo punto – dell’avvincente plot, su cui nulla sveliamo, amerebbe nascere in Norvegia per la munifica assistenza pubblica; l’Italia è una seconda scelta (“rovine e cibo”) che, comunque, batte la Francia, con l’autostima dei suoi abitanti e il Pinot nero, del quale è in grado di indovinare il vitigno attraverso il semplice bouquet decantatogli da una placenta in buona salute. In ogni caso predilige il Borgogna e il Saucerre Chauvignol con il suo “sentore gentile di pietrisco siliceo” (tutto la madre). Prematuramente afflitto da un senso di tedio esistenziale e non esente da tendenze suicide pre/neonatali di fronte alla disperazione per il progettato omicidio – “nascere morti”, che ossimoro – ricorre spesso al francese e ad un lessico forbito (non origine ma eziologia, non pallida, chiaro, follia comune ma diafana, epidittico, folie à deux…felicità? Meglio citare la pakistana Valle di Swat). Tutto il padre. Non si commuove ascoltando una lirica moderna (“troppo ripiegate in se stesse, vitree e sdegnose nei confronti dell’altro”), apprezza Owen e Keats, Poggio Bracciolini e l’Umanesimo italiano, Lucrezio e l’Ulisse (che fa addormentare l’adorata genitrice, Joyce non è Omero), si esprime spesso per metafore (solida comunque la conoscenza dell’intero apparato retorico) e ha confidenza, per accorata empatia con lui, dell’aubade, del pirrichio[1], del trimetro giambico e delle più recenti acquisizioni della linguistica. Esperto di filosofia – del resto “i nascituri sono stoici imperscrutabili, Budda sommersi accettano che le lacrime siano nella natura delle cose…sunt lacrimae rerum”; Hobbes, Platone, Kant, Cartesio e Confucio tornano utili per le citazioni quotidiane – lo è altrettanto delle emergenze globali sia da un punto di vista politico (tensioni sociali, strategie belliche e progettualità imperialiste di Cina, Medio Oriente, Russia, USA e Califfato islamico) che socio-economico e tecnologico: pannelli solari, parchi eolici, abbassamento del livello dei ghiacci e crisi dei mercati non hanno segreti per lui. Pacifista convinto, ecologista (stavamo per scrivere militante), antiamericano viscerale (“un popolo irritabile di obesi, dal grilletto facile e governati da una Costituzione insondabile come il Corano”…piccolo caro), sinceramente afflitto dalla prospettiva che “nove miliardi di eroi non riescano a risparmiarsi cortesie nucleari” (squadre fatte: India/Pakistan, Israele/Iran, USA/Cina: “aggiungere liberamente altre formazioni, affluiranno i giocatori dei non-stati”), si professa tenacemente ottimista (scelta troppo facile il pessimismo, “cimiero di intellettuali di ogni latitudine”) e, tutto sommato, fiducioso nelle umane sorti e progressive[2] di un pianeta abitato da esseri ingegnosi ed infantili che devono, alla fine, scontare “il complicato dono di una coscienza” ipertrofica, per dirla con un altro strenuo estimatore di se stesso rintanato nel sottosuolo – meno accogliente, certo, del liquido grembo materno – in tempi non sospetti.

Con un’intensità assoluta e devota che manderebbe in estasi Freud, il nostro ama – sempre timoroso di non essere corrisposto – la “bellissima, amorevole, assassina” madre, titolare del dolore anche fisico che lui stesso inizia ad avvertire, ormai conscio di quello interiore per il quale (benedetto Heidegger) verrà gettato nel mondo. E di lei è in grado di percepire “nel rallentamento del battito cardiaco un’incrostazione di noia a livello retinico” (per le poesie che un marito ostinatamente innamorato le recita) e nel “disagio/danneggiamento di granulociti e piastrine gli accessi di rabbia” (per l’esistenza stessa del medesimo): una sorprendente ottica narratologica la sua, confinata “in un guscio di noce, in due pollici d’avorio (perché no, quando la letteratura tutta, e l’arte, e ogni impresa umana altro non sono che puntini nell’universo del possibile, puntino esso stesso in una moltitudine di universi possibili”) che lo costringe – risvolto tecnicamente inevitabile ma poco felice – ad “uscire” anzitempo dall’utero per descrivere/commentare scene e colloqui in esterno. Non incline alla chiacchiera – “espediente da adulti (!) per scendere a patti con il tedio e la malafede – possiede, come accennavamo, un raffinato senso dell’umorismo (si leggano i passi dedicati ai rapporti intimi che “lo zio verme” impone a Trudy e “buona creanza, se non buon senso clinico, sconsiglierebbero”), senz’altro una delle cifre di questo libro spiazzante e convincente. Come (quasi) tutta l’opera di un indiscusso maestro della narrativa contemporanea.

MARCO CAMERINI

 

NOTE

[1] Invitiamo il lettore a non dare soddisfazione al futuro neonato, decisamente saccente e presuntuoso, andando a cercare sul vocabolario il significato dei due termini che riguardano strutture e metri della lirica classica e trobadorica: fate finta di nulla e tirate dritto.

[2] La citazione, come la seguente, è dell’estensore di questa recensione…tanto per non sfigurare.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“Grendel e il Poeta. Da Beowulf a Shakespeare” di Daniela Quieti sab. 4 marzo alle Giubbe Rosse (Firenze)

Sabato 4 marzo alle ore 17:30 presso il Caffé Letterario “Le Giubbe Rosse” di Firenze (Piazza della Repubblica 13) verrà presentato al pubblico il saggio Grendel e il Poeta. Da Beowulf a Shakespeare della scrittrice, poetessa e critico letterario Daniela Quieti. L’evento si inserisce all’interno degli appuntamenti “Artisti & Autori alle Giubbe rosse” curati da Jacopo Chiostri e Anita Tosi. Interverranno Jacopo Chiostri (giornalista), Roberta Degl’Innocenti (poetessa) e Alessandra Ulivieri (Editrice). L’evento sarà ripreso dalle telecamente di Toscana TV per mezzo dell’inviato Fabrizio Borghini.A conclusione sarà oggerto breve drink/buffet agli intervenuti.

L’autrice

Daniela Quieti, scrittrice e giornalista, vive a Pescara. Iscritta all’Albo dell’Ordine dei giornalisti pubblicisti, è Direttore Responsabile del Periodico Logos Cultura e Presidente dell’omonima Associazione.. Dirige la collana editoriale di narrativa Emotion per la Pegasus Edition ed è nella redazione del quadrimestrale di poesia e letteratura italiana e straniera “I fiori del male”. Ha pubblicato i libri: I colori del parco (2007, poesia); Cerco un pensiero (2008, poesia); Altri Tempi (2009, narrativa); Echi di riti e miti (2010, narrativa); Uno squarcio di sogno (2010, poesia); L’ultima fuga (2011, poesia); Francis Bacon La visione del futuro (2012, saggistica); Quel che resta del tempo(2013, narrativa); Atmosfere (2014, narrativa); La Travolgente domanda – Cent’anni di Prufrock (2015, saggistica); Grendel e il Poeta Da Beowulf a Shakespeare (2016, saggistica). Numerosi i suoi contributi critici in antologie, curatele e volumi collettivi. È storicizzata in testi di letteratura fra cui Letteratura Italiana-Dizionario biobliografico dei poeti e dei narratori italiani dal secondo novecento ad oggi (2010) ed Evoluzione delle forme poetiche (2013).

Invito Giubbe Rosse Quieti.jpg

Rosa d’inverno, Intervista a Jasmine Manari

INTERVISTA A JASMINE MANARI

Autrice di Rosa d’inverno

Book sprint edizioni, 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Qual è stata la genesi di questa silloge poetica? Da dove è partita l’idea di collezionare una serie di liriche sotto un unico testo?

JM: Rosa d’inverno è una silloge iniziata nel giugno 2009 e conclusa definitivamente nell’aprile 2011, anno in cui è stata stampata. L’origine della raccolta è stata un voto d’Amore e il titolo, infatti, è il nome della mia prima poesia, la stessa con cui si apre la silloge, dedicata alla persona grazie a cui ho imparato a guardarmi dentro, la persona per cui ho fatto tutto ciò che ho scritto e scrivere, oggi, è tutto ciò che mi è rimasto: la fine, dunque, è il principio nel mio caso.

LS: Nella tua silloge ci sono molte citazioni in epigrafe di autori classici e in maniera particolare mi ha colpito un frammento di Saffo e un sonetto di Shakespeare. Quanto sono importanti secondo te questi due scrittori? Perché?

JM: Ritengo ambedue i poeti mie fondamentali fonti d’ispirazione: essi non parlano degli artificiosi atteggiamenti dell’Amore ma di quell’Amore che sconvolge una vita, più repentino d’un battito d’ali e più profondo dell’oblio. In primo luogo, tengo a dissolvere l’idea di Saffo come emblema dell’Amore omosessuale poiché quando si tratta d’Amore, come afferma Benigni, tutto diventa grande, finisce la mediocrità e il solo fatto di classificarlo non può che svilirne l’importanza agli occhi del mondo sebbene la sua essenza rimanga intatta. E quando parlo d’essenza intendo le radici inconfondibili che germogliano in ogni individuo, sia esso uomo o donna: questo non conta poiché nessuno può fare a meno di nominare Amore, sia pure soltanto per denigrarlo. Lo stesso William Shakespeare, il sommo scrittore decantato come indiscusso poeta dell’Amore, scrisse una silloge di ben 154 sonetti, dedicando i primi 126 ad un giovane di cui si conoscono le iniziali (Sir W. H), il suo fair youth e soltanto i restanti 28 li compose per la più citata dark lady, una donna di cui il poeta evidenziava spesso gli aspetti negativi (si ricordi, a tal proposito, il sonetto 130 “My Mistress’ eyes are nothing like the Sun”) mentre, per il suo primo destinatario, compose il celebre sonetto 18 con cui consacrava eternamente il giovane in virtù del suo Amore infinito e indefinibile: “Devo paragonarti a una giornata d’estate?”. Dunque, per rispondere alla domanda, l’importanza dei due poeti risiede nel modo limpido e atavico con cui entrambi parlano del proprio sentimento che coincide con l’esistenza ed è immortale. E, comprendendo questo, chi potrebbe avere la presunzione di definire omosessuale il poeta dell’Amore?

LS: Il titolo della silloge, Rosa d’inverno, è in realtà il titolo di una delle tante poesie contenute nella raccolta. Perché hai scelto proprio questa come titolo dell’intero libro?

JM:  Come dicevo prima, la fine è il mio principio. Appena ho concluso la mia prima poesia dal titolo “Rosa d’inverno”, non ho più smesso di scrivere. Pasolini riteneva che la scrittura avesse un valore esistenzialistico e io condivido questa sua opinione: il bisogno di esprimersi, la tendenza a esporre il proprio pensiero equivale, per uno scrittore, a riconoscere la propria esistenza trovandole un senso nell’assoluto non senso della vita. Si può dire, pertanto, che Rosa d’inverno sia il nome di battesimo del mio essere scrittrice, il nome proprio che io attribuisco alla scrittura.

LS: C’è una poesia alla quale sei legata in maniera particolare? Perché?

JM: Premettendo che ogni componimento contenuto in Rosa d’inverno non è soltanto un esperimento semantico, un abile gioco con le parole come pure è stato definito, ma una realtà che ha toccato le corde più intime della mia sensibilità, posso dire che una delle tante poesie che ancora oggi rileggo, nonostante le ricordi tutte per il mio modo, (ammetto maniacale) di ricercare la scorrevolezza e la fluidità del verso nella  musicalità delle parole, è “I passeggiatori di cani”. Il tema ivi contenuto è quello dello scontro generazionale giovani – adulti: ho cercato di trasmettere quel senso di assoluto che domina nel ragazzo sin da “cucciolo”, quando è ancora ben tenuto al guinzaglio. Egli odia quella catena poiché rappresenta il compromesso dell’età adulta a cui è costretto e, dunque, si trova fra due antipodi: combattere fino in fondo per ciò in cui crede senza lasciarsi guidare verso la strada della ragionevolezza che è soltanto una scorciatoia per le future e mondane convenzioni, oppure cedervi imparando a vedere “il boccale mezzo pieno e mezzo vuoto” e, accogliendo ipocrisie e buona creanza, divenire l’adulto che prima tanto criticava e disprezzava. Per rimanere giovani, dunque, spezzando questa catena di accordi, bisogna considerare il modo in cui ci si approccia alle idee: con coerenza, senza negare che esistono le famose sfumature, ma ricordando sempre che la decisione è comunque una e può essere o bianca o nera. Il giovane questa logica dell’assoluto l’impara, ed è il momento in cui è più ostile al mondo degli adulti, e poi la disimpara proprio perché è costretto ad accedere a quel mondo, dolorosamente o meno, dipende dalla sensibilità di ognuno (perchè di certo c’è chi la considera, con pacata accettazione, solo un’utilità).

LS: Nella raccolta sono riscontrabili facilmente alcuni temi dominanti che tu proponi e riproponi sotto varie vesti e cornici, senza finire per essere banale né ripetitiva. Uno di questi è il tema dell’infanzia. Come mai molte delle tue liriche più che proiettarsi in un futuro prossimo o inconoscibile guardano invece, quasi in maniera conservatrice e nostalgica, verso il passato?

JM:  L’infanzia è la stagione dell’incoscienza: il passato, come ho scritto in una delle mie poesie, si muove. Molti s’impongono di non guardarsi più indietro, addirittura di provare indifferenza per ciò che è stato ma non è più, io invece ritengo che il passato ci accompagni e noi, per andare avanti, fingiamo di non vederlo ma non ci è indifferente: lo consideriamo inesistente o, per lo più, un fantasma insonne che non trova pace e, dunque, gli dobbiamo indifferenza perché non dia fastidio. Dell’infanzia, il passato più remoto a cui posso rivolgermi data la mia giovane età, rimpiango la schiettezza e la spontaneità e, come ho detto prima, l’incoscienza: il bambino, quando qualcosa lo infastidisce, si ribella apertamente, non fa “finta di niente”. Per quanto concerne il futuro, invece, lo considero come l’alter ego del presente: abbiamo un’infinità di alternative frutto di un continuo decidere e non dobbiamo, a mio avviso, chiederci come andrà domani; mentre scrivevo Rosa d’inverno dicevo che sarebbe stata pubblicata ma questo non lo consideravo parte del futuro: era una meta raggiunta ogni giorno nel continuo scorrere del mio presente.

LS: Quanto di autobiografico c’è in queste poesie?

JM: Ogni componimento è autobiografico, anche quello socialmente impegnato. Tutto ciò che è stato scritto è accaduto: questo è stato il mio modo di non dimenticare e, in un certo senso, come afferma Audrey Hepburn, di guarire dalla medicina.

LS: A conclusione della raccolta c’è un consistente brano in cui abbandoni il metro poetico per meglio adattare i tuoi pensieri che vertono principalmente sul difficile raggiungimento della felicità umana. In quest’affascinante percorso esistenzialista connetti spesso la felicità alla pace come ad affermare che se manca una delle due, viene a mancare necessariamente anche l’altra. E’ così? Potresti spiegare meglio questo tuo pensiero?

JM: Ne “La felicità in un palazzo di cristallo” ho parlato della ricerca continua dell’uomo dello stadio più alto del proprio essere, ossia la felicità e, allo stesso tempo, il suo perenne bisogno di pace; tuttavia, riconoscendo la felicità quale ossessione umana per eccellenza, ho messo in evidenza quanto sia vero che l’uomo non possa trovare pace nel suo perenne cercare: infatti, ho scritto «(…) la pace non è per l’uomo che non è destinato né all’eternità né al riposo: tutto ciò che gli spetta è una tregua di tanto in tanto, ma la pace non lo riguarda affatto poiché l’uomo vive tormentato ed è proprio la felicità la sua ossessione». Finchè l’uomo non trova pace, è convinto di non aver trovato neppure la felicità; io, invece, ritengo che la felicità consista nel raggiungere il nostro punto più alto, accettando anche di doverlo abbandonare: è un continuo movimento che riguarda il nostro modo di vivere la vita come un’infinita ricerca, invece “la pace” che spetta all’uomo consiste in una tregua fugace nel momento stesso in cui arriva allo stadio più alto per cui ha lottato. Ricominciando a cercare, quindi, prosegue il percorso che la felicità ha tracciato. «(…) è possibile? Perdere e realizzare di esserne stati fieri? Dipende dagli occhi di chi guarda. Per questo la felicità è per chi di noi sa trovarla, per chi trova il punto in cui guardare, non necessariamente il punto per eccellenza. Un qualche punto: il nostro».

LS: La tua poesia fa ampio utilizzo di immagini ossimoriche, antipodali, contrastanti, che si basano su di una serie di opposti: chiaro-scuro, memoria-oblio, solo per citarne alcuni. Come mai quando parli di un elemento spesso ti senti quasi “in obbligo” di chiamare in causa anche il suo esatto contrario?

JM: La risposta di fondo è che l’Amore, di per sé, è neutrale. È un essere androgino: non semplicemente un punto d’arrivo fra gli opposti, ma entrambi gli opposti condensati in uno soltanto. L’esistenza di un elemento, secondo la legge dei contrari, determina l’esistenza del suo opposto ed è da ciò che nasce l’armonia. Amore è armonia e coincide con l’individuo che, da sé, è una contraddizione vivente. Fondamentale, riguardo l’esistenza degli opposti, è che fra loro sono interscambiabili e, dunque, nessuno al mondo può dire di essere una cosa soltanto, sebbene tutto il suo essere si riassuma in un solo corpo. Lo stesso Shakespeare, inoltre, definisce Amore attraverso gli ossimori “lucido fumo”, “gelido fuoco”, “insonne dormire”, “pesante leggerezza” e molti altri; così, considerando che per ogni elemento esiste il suo contrario, s’impara a mio avviso anche ad accettare la diversità.

LS: Quali autori della letteratura classica e contemporanea (sia poeti che romanzieri) ti affascinano di più? Perché?

JM: Per quanto concerne la letteratura classica, Saffo e Catullo sono i poeti che mi affascinano maggiormente, sono quelli che ho avuto modo di studiare quest’anno e, in particolare Saffo, rimane l’autrice con cui mi identifico di più: in primo luogo poiché si tratta di una poetessa dall’animo forte e dirompente e in secondo luogo perché la sua travolgente espressività riesce a dar voce al proprio dissidio interiore, a discernere ogni emozione e sensazione provata nel momento dell’incontro con la persona amata: infatti, “A me pare uguale agli dei”, è un componimento in grado di spogliare il lettore dalla scialba veste del pudore per metterlo di fronte a se stesso, come se potesse osservarsi nel momento in cui guarda la persona che Ama, dovendo ammettere che quelli che prova sono i sintomi di un morbo che, in altra sede, Saffo definisce “dolce amara invincibile belva”.  Altri due poeti a cui sono legata appartengono all’età definita “Maledettismo” in Italia che, in sostanza, coincide con il secolo del Romanticismo: si tratta di Charles Baudelaire e, primo fra tutti, Arthur Rimbaud; di quest’ultimo venero la ribellione contro tutto il prestabilito e la volontà di gridare al mondo la propria esistenza marcando l’impronta. Ciò che mi colpisce è che la sua straordinaria produzione poetica abbraccia l’età dell’assoluto: l’adolescenza ed egli non se ne separa mai, continua a vivere al massimo grado ogni esperienza attraverso il suo “lungo, immenso e ragionato “sregolamento” di tutti i sensi”. La poesia, come è evidente, conquista il mio interesse ma ciò non sminuisce l’attenzione che rivolgo al romanzo o al racconto: difatti, apprezzo la letteratura ottocentesca, quella di Goethe e Hugo, e m’innamoro delle opere di Oscar Wilde, catturata soprattutto dalle sue vicende personali. In sintesi, posso affermare che degli scrittori sopra citati mi appassionano l’abilità semantica e quella di fare in modo che il lettore assapori la dolcezza della parola regalandogli immagini coronate dal filtro dell’emozione, altresì mi affascina la loro esperienza di vita poiché scrivere non è mai soltanto un gioco di parole.

LS: Attualmente stai continuando a scrivere delle liriche e hai qualche altro progetto in mente per il futuro? Se sì, puoi anticipare qualcosa?

JM: La mia intenzione è quella di scrivere un racconto trattando de “Il gioco del fuoco”  partendo da un aforisma di Oscar Wilde. Considero diversamente l’argomento dimostrando, attraverso la narrazione, che non c’è modo di evitare questo gioco, che, in un certo senso, si è costretti a giocare. Voglio parlare di un ragazzo, capace di far “rimbalzare” i sentimenti su se stesso, contemporaneamente, per non accorgersi di uno più di un altro e, dunque, continuare il suo gioco. Si parla sempre del disadattato sociale e, per lo più, con commiserazione o pietà. Io voglio parlare del ragazzo che da disadattato diviene adattato, anzi del troppo adattato che, tuttavia, prende tale scelta consapevole del motivo profondo che lo spinge a tutto questo e che lo lega inevitabilmente al disadattato sociale che tanto biasima: la necessità di sfuggire al dolore, il desiderio di felicità che, così fragile, si affida alla contentezza.

 

Ringrazio Jasmine Manari che mi ha concesso questa intervista.

Lorenzo Spurio

13 Luglio 2011


E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO-INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE

L’ottava regina. La regina Mab.

Non sosterrò niente di nuovo e sensazionale nel dire che al mondo, oggigiorno, vivono e regnano ben sette regine. Questo non significa che ci siano altrettanti re. Infatti, solo in alcuni paesi (secondo una determinata costituzione) la moglie del re diventa automaticamente regina e il marito della regina diventa automaticamente re. In Inghilterra infatti questo non avviene. C’è la regina ma, almeno per il momento, non c’è nessun re. Con questo si capisce che le famiglie reali a noi contemporanee sono ben diverse dalle favolose famiglie reali descritte nelle fiabe dove ad un re corrisponde direttamente una regina e così via. Le diverse costituzioni nazionali stabiliscono leggi, norme e cavilli in base ai quali viene definito il particolar tipo di monarchia, le regole d’etichetta, la legge di successione al trono e gli emblemi del sovrano.La vecchia Europa detiene il primato delle monarchie e dunque anche la maggioranza delle teste coronate. In Europa vivono sei delle sette regine: la regina Elisabetta d’Inghilterra (n. 1926), la regina Margherita II di Danimarca (n. 1940), la regina Beatrice d’Olanda (n. 1938), la regina Sonja di Norvegia (n. 1937), la regina Sofia di Spagna (n. 1938) e la regina Silvia di Svezia (n. 1943). La settima è la regina Rania di Giordania (n. 1970), la più giovane tra le varie teste coronate a cui sin qui si è fatto riferimento.Con questo è facile concludere che nel mondo regnano sette regine, la gran parte delle quali è anche imparentata con le altre. In realtà non è esatto poiché esiste una ottava regina che è sempre stata onnipresente nel corso della storia ma al tempo stesso invisibile. Si tratta della regina Mab nota come la regina delle fate.

Il folklore anglosassone dedica una particolare attenzione al mondo fantastico e fiabesco del popolo delle fate, esseri di piccola dimensione e di ambo i sessi che vivono a contatto con la natura, dormendo all’interno dei fiori e che si manifestano per lo più di notte. Le fate incarnano dei comportamenti a nostro giudizio illogici ed irrazionali in cui l’uomo può evadere e viaggiare lasciandosi trasportare dagli eventi assurdi e divertenti che nel popolo delle fate avvengono. Si tratta di una dimensione fantastica, onirica, surreale, allucinata.Il nome della regina Mab viene fatto da Shakespeare in Romeo and Juliet nel passo di un monologo di Mercuzio, amico di Romeo (I atto, scena IV). La regina Mab, regina delle fate, viene descritta come essere molto ridotto a bordo del suo cocchio (che è un guscio di nocciola), tirato da una serie di piccole fate. Il cocchiere è una zanzara e il suo frustino è un ossicino di grillo. Questi elementi sottolineano la grande simbiosi tra il mondo delle fate e l’elemento naturale. Mercuzio richiama il nome della regina Mab per parlare del sogno: l’arrivo del sonno e l’addormentamento corrispondono all’arrivo delle fate.Le fate sono ampiamente richiamate all’interno di testi della letteratura seicentesca inglese, basti pensare al grande poema epico The Faerie Queene (La regina delle fate) scritto da Edmund Spenser nel 1590. Si tratta di un poema epico allegorico con il quale Spenser intendeva celebrare la dinastia Tudor e, in modo particolare la regina Elisabetta I descritta appunto come la regina delle fate.La regina Mab appare anche in The Entertainment at Althorp(1604) di Ben Jonson, Nymphidia (1627) di Michael Drayton e inQueen Mab: A Philosophical Poem (1813) di Percy Byshee Shelley.In A Midsummer Night’s Dream Shakespeare ci trasporta nei sottofondi di un bosco magico e incantato governato da Oberon e Titania, rispettivamente re e regina delle fate. Secondo alcuni critici Titania non sarebbe altro che la regina Mab, sebbene Shakespeare evita di chiamarla con il suo nome.Una breve ma significativa descrizione della regina Mab ci viene fornita da James Matthew Barrie, padre di Peter Pan nel testo Peter Pan in Kensington Gardens (1906) dove si parla molto dell’universo delle fate che popolano i giardini di Kensington di notte, dal momento di chiusura dei cancelli. La regina Mab vive in un fantastico e invisibile palazzo reale dei giardini di Kensington e possiede addirittura un palazzo d’inverno. A proposito delle case delle fate nel testo viene detto:

Quanto alle loro case, è inutile cercar di vederle, perché esse sono proprio il contrario delle nostre. Voi potete vedere le vostre case di giorno, ma non le potete più vedere nel buio. Ebbene, voi potete invece vedere le loro case nel buio, ma non le potete vedere di giorno, perché esse hanno il colore della notte ed io non so di nessuno che sia capace di veder la notte di giorno. Ciò tuttavia non significa che siano esse nere, perché anche la notte ha i suoi colori precisamente come il giorno, e più brillanti che questo. L’azzurro, il rosso, il verde delle case delle fate sono simili ai nostri con un lume di dietro. Il palazzo reale è costruito interamente di vetri multicolori, ed è la più graziosa residenza che si possa immaginare, se non che la regina qualche volta si lamenta perché la gente del popolo viene ogni poco a gettar delle occhiatine nell’interno per vedere che cosa essa sta facendo. Perché le fate, dovete sapere, sono persone assai curiose, e premono forte il naso contro il vetro per distinguere meglio, nel che sta la ragione del fatto che i loro nasi sono quasi sempre schiacciati.[1]

Barrie sottolinea che il comportamento delle fate, abbastanza stravagante, non è finalizzato a niente, a differenza delle occupazioni degli uomini:Una delle grandi differenze fra noi e le fate è che esse non fanno mai nulla di utile. Hanno sempre l’aria di gente affaccendata, che non ha un minuto di tempo da buttar via, ma se voi domandaste loro che cosa stanno facendo, non vi saprebbero dare risposta.

Due delle caratteristiche più note del popolo delle fate e che fuoriescono anche dal testo di Barrie è la loro completa simbiosi con l’elemento naturale (animali e alberi parlanti, boccioli di fiori, rami ondeggianti, animali che disquisiscono) e il fatto che sono instancabili ballerine. Proprio per questo nel folklore anglosassone si fa spesso riferimento a canti, ritornelli, ninnananne, musica e balli e girotondi di fate. Con un girotondo di fate si conclude l’opera A Midsummer Night’s Dream di Shakespeare.Dunque le regine al mondo non sono sette, ma otto. Mab è la regina onnipresente e invisibile che regna su di un popolo numeroso e potente, quello delle fate, che non è meno importante del popolo spagnolo o di quello svedese.

10 Gennaio 2010

Lorenzo Spurio

________________________________________

[1] James Matthew Barrie, Peter Pan nei giardini di Kensington, versione italiana di F.C. Ageno, Firenze, R. Bemporad & Figlio Editori.