“Il passato, l’amore e l’Irlanda nei racconti di William Trevor”, di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini

william-trevor-racconti-scelti-9788823520431-3-300x465.jpgNelle splendide storie dell’irlandese W. Trevor (Racconti scelti, Guanda 2018) è l’impronta del passato a conferire una sostanziale e felice omogeneità d’ispirazione: quello che nasconde segreti inconfessati (incombe sull’umbratile e “fuggevole” Ariadne,[1] “santa d’altri tempi vestita sempre in malva”) e violenze sanguinose rimosse da arcaiche comunità di campagna che “non amano vengano portati loro via i santi” (come è morta veramente la Maureen McDowd de I fatti di Drimaghleen e cosa nasconde Vera in Tre persone?) o ritorna con tutto il suo carico di rimpianto per un amore perduto (Grania e quell’estraneo senza nome “tranquillo, assennato, accomodante” – possibile sia lui?…1972 – che Un sabato d’agosto[2] ricompare nel tennis club di provincia in cui tutti, fra annoiati rituali, sopravvivono alle propri frustrazioni e ognuna delle mogli/amiche avrebbe potuto sposare il marito di una delle altre”). Il passato che svela, spesso attraverso la morte, verità scomode, taciute, rimosse (Il signor McNamara) e talvolta – troppo di rado – conserva il ricordo struggente di un affetto totalizzante empaticamente vissuto (Sole d’autunno, con la defunta moglie del pastore Moran vera “presenza assente” che rimanda al joyciano Michael Furey de I morti). Certo, in una raccolta tenacemente irlandese è anche il politicamente corretto Passato lontano dei Middleton, “bizzarri ma innocui, strani, magri e silenziosi fratelli dagli occhi azzurri come il padre” finiti in miseria per causa sua – troppi regali ad una “cattolica della capitale” – protestanti lealisti fieramente avversi al Governo indipendentista, al nuovo turismo postbellico transnazionale, alle “brezze di accenti americani”, al dilagare di prodotti stranieri e “bombe papiste”, mentre l’Ulster non prega più per la Famiglia Reale.

In una dimensione esistenziale che non riesce/vuole chiudere la partita con ciò che è stato e registra l’inevitabile paralisi di giovani Figli ossessionati da genitori cui non vorrebbero assomigliare per non finire fagocitati dalle loro anacronistiche consuetudini (“agnello e salsa alla menta, the alle cinque e plumcake  alla frutta in sale da pranzo dal sentore di muffa e, dietro l’angolo, una tragedia annunciata ne I figli del direttore) e di figlie tanto simili alla “dublinese” Evelyn come la sensibile, disperata, sottomessa Kathleen la quale, per un campo e l’attaccamento alla famiglia, accetta vergognose vessazioni, l’amore, altro tema chiave della silloge, è sempre quello che è stato o avrebbe potuto essere e sembra esistere solo nella sua segretezza, nella necessità opportunistica, nella precarietà, nel rimpianto. Riflesso, perduto, sognato, mai vissuto seguendo gli impulsi di una passione autentica, l’unico modo di alimentarlo rimane, paradossalmente, porvi fine, magari per illudersi della sua sincerità. Alla fine si riduce, inesorabilmente, ad ipocrita menzogna (Il terzo incomodo), squallido accomodamento coniugale mascherato da idillio appagante (quadro della Vergine alle pareti del medico compiacente, poi Kitty lo tiene il figlio avuto da chissà chi per una “indimenticabile” e ipocrita Luna di miele a Tramore), tormentata bugia per non ammettere le umiliazioni subite e condannarsi ad una solitudine senza alibi (Veglia con il morto), patetica ricerca di un’anima gemella fra i questionari di un’agenzia matrimoniale (da compilare “senza mentire troppo con se stessi e con il tempo” per Una ennesima, frustrante sera fuori), adulterio amaro e disperato consumato in Una stanza. Poca speranza, rari barlumi di serenità, tormentoso senso di estraneità ed abbandono nell’universo sentimentale di William Trevor popolato – in un arco temporale che va dagli anni ’50 ai primi ’90 – da una antieroica moltitudine di Gente (non) di Dublino, “pericolosa e lontana”, sullo sfondo, quasi sempre, di un’Irlanda ricca di edera, case dalla facciata georgiana, granai, sperdute contee, giardini di ortensie/mele selvatiche/faggi/erica e castagni, hall di alberghi retrò con poltrone di cuoio e lampade a gas, silenziosi conventi di reverende madri e canoniche di pastori o sacerdoti (dipende, nella terra di “villani luterani e clericali bigotti”), leggende popolari, spacci alimentari, pub polverosi e piccoli rettori di piccoli college, pane nero, porridge, sardine, brocche di porcellana bianca per lavarsi, camini, piattaie insieme a declinazioni infinite di birra e whisky, tweed e velluto a coste. Due i santi titolari di pievi sperdute, alternativamente S.Michele e S.Patrizio, uno il quotidiano, l’Indipendent.

Lo stile di questo straordinario scrittore, che eccelle nel racconto breve (come sottolinea J. Banville nella puntuale prefazione), è asciutto, essenziale, poco incline al lirismo, mai tuttavia meramente referenziale: indubbiamente “realista” – con tutto quello che di generico ed approssimativo implica oggi il termine – ma di un realismo particolarissimo sul quale vale la pena soffermarsi. Ricorrendo, per lo più, alla terza persona con ottica interna tende, infatti, a creare un’atmosfera allusiva e sospesa, di fatto estranea ad un minimalismo “ortodosso”, da un lato per la frequente tendenza a non descrivere direttamente il personaggio che determina lo spannung narrativo (Sabato d’agosto), a farne delineare i caratteri da altri (Il signor McNamara, Veglia con il morto) o addirittura, come ne Il terzo incomodo, a collocarlo del tutto fuori dall’intreccio – conferendogli, altresì, in modo inversamente proporzionale, la capacità di condizionarne ogni risvolto – dall’altro, mediante l’uso insistito del condizionale, a proiettare in un futuro extratestuale (più o meno prossimo) una situazione immaginata/temuta/desiderata.[3] Se a questo aggiungiamo le frequenti, fulminee analessi che fanno irrompere, nel presente della scrittura, la rievocazione di un fatto drammatico i cui contorni/dettagli rimangono indistinti e vengono lasciati all’intuizione del lettore, si può comprendere come i modelli di Trevor siano più il citato Joyce e F. O’Connor che Carver o Eugenides e risulti innegabile, nella sua scrittura, il ricorso all’evento epifanico rivelatore del “mistero” più profondo della trama, in grado di elevarla a quella “visione anagogica” che trascende il grezzo dato naturalistico tanto cara alla scrittrice.[4]

MARCO CAMERINI

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

NOTE

[1] In grassetto i titoli dei racconti.

[2] Le assi temporali presente/passato si fondono narratologicamente senza soluzione di continuità a sottolineare lo stato emotivamente alterato della donna in uno dei esito migliori dell’intera raccolta.

[3] Riportiamo, come esemplificazione fra le molte possibili, un passo tratto da Il terzo incomodo: “Nei successivi ottanta chilometri non vide traccia dell’automobile di sua moglie. E naturalmente, così si disse, non c’era motivo per cui ci dovesse essere: era una semplice congettura che lei partisse quel pomeriggio […] Poi si chiese come sarebbe stata la sua partenza in caso contrario. Lairdman [l’amante della moglie n.d.r] sarebbe andato ad aiutarla? Naturalmente a questo non avrebbe obiettato. Quando arrivò alle prime case del suo quartiere, Boland capì che non soltanto la Volkswagen bianca non l’aveva portata da Lairman, ma non l’avrebbe fatto l’indomani, né il giorno dopo o la settimana seguente. Non l’avrebbe fatto dopo un mese o dopo Natale. Non l’avrebbe fatto, punto e basta” (pp. 193-194).

[4] FLANNERY O’CONNOR, Nel territorio del diavolo: sul mistero della scrittura, Minimum fax, Roma 2002, p. 45 e segg.

Quando a rubare è la vita: i racconti di Gina Berriault. Recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini 

A Gina Berriault (1926-1999) è, in qualche modo, toccata la sorte dell’umbratile J. Johnson (ci occupammo del suo unico libro Ora che è novembre, Bompiani 2017) piuttosto che quella del Nobel A. Munro, anch’essa straordinaria autrice di short stories, e questo nonostante gli apprezzamenti sinceri di alcuni fra i più autorevoli scrittori della sua generazione opportunamente riportati in quarta di copertina.

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All’editore Mattioli 1885 si deve la prima traduzione italiana dei suoi racconti, storie uniche per drammatica intensità d’ispirazione, capacità narrativa di costruire trame inquiete ed inquietanti su particolari solo apparentemente secondari, nitida eleganza formale: doveroso il tributo ad una scrittrice misconosciuta anche in America. I modelli vengono persino citati nel corso della raccolta (Gogol’ e Cechov più che Carver o Dubus, magari la Woolf, certo l’Achmatova, Whitman, Pound per la cifra poetica della sua prosa) e i piaceri sono quelli che la Vita ha rubato ad un’anonima folla di personaggi i quali solo raramente hanno saputo/voluto fare altrettanto con le opportunità di un destino assai poco generoso: la speranza in un futuro migliore (accade alla problematica Delia “dalla faccia piatta e minacciosa” e alla sorella Fleur, “riccioli color rame e aria da agnello sacrificale” de I piaceri rubati che, incapaci di “dimostrare quanto fossero preziose”, colmano un’esistenza frustrante con la reciproca e alla fine solidale confessione dei propri rimpianti),[2] il sogno della colta, fascinosa Claudia di incontrare Camus per le vie di Parigi e qualcuno “capace di spezzare le catene dei suoi sensi di colpa” (Morte di un uomo minore), le aspettative di successo del rancoroso Berger, solo “suonatore e non artista”, lui che “viveva la musica come un concentrato di tutti i desideri e le cose belle provate” (Notti nei giardini di Spagna).

Ancora ad essere sottratti senza scampo sono il recupero di un rapporto genitoriale difficile, mai rimosso né rinnegato (“colpa dello sguardo” quella di Arty che assiste, Spettatore inerte e passivo, al crollo di un padre tardivamente incontrato fra i pazienti di un ospedale psichiatrico e solo di un male inesorabile se Eli, con il suo gogoliano Cappotto “nero, poderoso e impenetrabile” non riesce a confessare al suo che dovrà sopravvivergli),[3] l’opportunità – per il cattivo/folle/solo razionale? Bambino di pietra Arnold (“Perché sei rimasto a raccogliere piselli per un’ora dopo che tuo fratello era morto?”) o la Bimba sublime Ruth, concupita dall’amante di sua madre – di vivere un’adolescenza serena, il senso ultimo della propria identità (Chi può dirmi chi sono? con la figura del bibliotecario Perera che rinvia al Tabucchi di Tutti i nomi prima che a Dickens o Dostoevskij…e non fosse per una “i”?!).

Infine l’amore, il furto che scuote maggiormente e non si vorrebbe mai subire: non solo quello senile ed impossibile che nasce dalL’infinito potere delle aspettative di un anziano verso una giovane cui non serve il Kierkegaard de La pienezza del cuore per “alzare gli occhi e guardarsi intorno”, o di una donna che, per l’egoistico piacere di essere ancora desiderata (“terribile non vivere più nemmeno nei ricordi”) costringe gli altri a farlo anche se hanno 16 anni, ma l’Amore in sé, come empatico incontro di anime. Ne traccia un desolato referto la taciturna, sensibile, coscienziosa sessantatreenne de Il diario di K.W. kafkianamente ridotta alle sue sole iniziali, a parlare con un Dio che non risponde (“mi rispondo da sola e faccio tutto il lavoro al posto Suo”), a vergognarsi delle “piccole transazioni” esistenziali e sperimentare la forza rigenerante della pittura ma non quella della passione…tanto affine, in questo, alla dublinese Maria di Cenere. Accumunano le vicende di ognuno il rimpianto struggente di un passato (forse) felice, il costante senso di smarrimento e perdita, la lucida percezione del fallimento che generano rassegnazione più che rabbia, paralisi più che vitale, necessaria speranza, ripiegamento cinico ed esacerbato, mai solidale apertura alle ragioni dell’altro: amico, consorte, amante, genitore o figlio che sia.

Labili ma tenaci segnali di riscatto sembrano giungere dalla terapeutica pratica dell’esercizio artistico: non a caso due racconti vedono protagonisti degli scrittori – seppure in crisi – e la musica, in tutte le sue declinazioni, è una sorta di preziosa costante del libro. Così a Lang gli Scherzi dell’immaginazione consentono di sconfiggere “l’indifferenza per il miracolo della vita” – vera linfa dell’ispirazione creativa (e confessione di poetica) –  Kligspringer ritrova la propria dimensione di affabulatore alla Ricerca di Kruper, fantomatico, salingeriano Kurtz della narrativa e nel citato Piaceri rubati – ci limitiamo a questo riferimento – compare una bellissima definizione del jazz (oltre che…del pianoforte): “La melodia che esplode senza un vero inizio e non torna indietro per ricominciare, suonata da persone che pareva sapessero avrebbero ricevuto ciò che volevano e molto di più dalla vita” (p. 48).

L’apparente minimalismo tematico (sarebbe piaciuto a Flannery O’Connor) si traduce in uno stile mai semplicemente referenziale nella sua asciutta essenzialità (prevalgono l’indiretto – a volte libero – del personaggio o il punto di vista onnisciente del narratore sui dialoghi) con frequenti squarci lirici e splendidi finali “aperti” che raramente concludono l’esile intreccio, suggerendo intriganti perplessità/interrogativi nel lettore, sempre emotivamente coinvolto da una lettura appassionante. Gina Berriault va (ri)scoperta ed amata.

 MARCO CAMERINI

 

[2] Rimanda ad Espiazione di McEwan il rapporto di conflittualità/complicità fra le due ragazze.

[3] Questi ultimi due racconti ci sono parsi assoluti capolavori, fra i migliori della letteratura americana del secondo ‘900…ma eravamo sul punto di eliminare l’aggettivo.

 

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“Il minimalismo letterario di Raymond Carver”, di Lorenzo Spurio

Il minimalismo letterario di Raymond Carver, uno degli ultimi scrittori maledetti made Usa

DI LORENZO SPURIO

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Non conoscevo RAYMOND CARVER, scrittore americano morto nel 1988 e considerato uno degli ultimi bohemien americani. Ho avuto l’occasione di leggere alcuni suoi racconti brevi contenuti nella raccolta Limonata ed altri racconti, pubblicato dal quotidiano Sole 24 ore per la collana “Racconti d’autore” e uscito in edicola domenica 7 Agosto 2011. Lo stile è piano, il linguaggio semplice e domestico come pure le ambientazioni e le vicende che Carver racconta e proprio per questi motivi è stato definito il padre del minimalismo in letteratura. Da pochi giorni è uscita nelle librerie italiane un’attenta biografia dello scrittore intitolata Raymond Carver, Una vita da scrittore, scritta da Carol Sklenicka dopo quindici anni di studi e di repertazione di materiale. L’opera è tradotta da Marco Bertoli ed è edita da Nutrimenti Editore, Roma (pp. 782, 25 Euro).

imagesCA821VFYMolti riferimenti biografici sono presenti nella narrativa breve di Carver come quello della passione per l’alcool; la facilità e l’essenzialità con la quale lo scrittore parla di sesso è inoltre degna del riconoscimento di scrittura bukowskiana. Ma se Carver è uno degli ultimi scrittori maledetti americani, di quelli che non le mandano a dire e che non rifuggono temi o parole poco ortodossi, è un Bukowski diverso. E’ un Bukowski addomesticato, più buono, meno spietato. Nella sua scrittura è infatti presente una chiara dimensione morale come nel racconto “Jerry, Molly e Sam” in cui il protagonista Al, stanco della cagnetta Suzy, con uno stratagemma per nulla encomiabile decide di rapirla dall’affetto dei suoi figli e di abbandonarla per strada. Potrebbe sembrare questo un vivo e drammatico quadretto realistico di quando troppo spesso, purtroppo, accade nella nostra società, se non fosse che verso il fine del racconto Al sente addosso il senso della colpa e il narratore osserva: «Non se lo sarebbe mai perdonato, di aver abbandonato quel cane. Sentiva di esser finito, se non lo ritrovava». E così, dopo l’ignobile gesto dell’abbandono, Al parte alla disperata ricerca di Suzy, riuscendo alla fine a trovarla.

In “E vuoi star zitta per favore?” (racconto che diede il nome alla sua prima raccolta di racconti, pubblicata nel 1976), Carver ci presenta la storia di un uomo, Ralph, ossessionato dall’idea che la moglie in passato lo abbia tradito, intuizione che corrisponde alla realtà e che la moglie rivelerà innescando in Ralph una serie di comportamenti vittimistici e masochistici.

Nei pochi racconti di Carver che ho potuto leggere in questo libro (ne contiene appena quattro) c’è sempre qualche avvenimento che rompe la tranquillità del protagonista: un ossessione, un intuizione, una morte, come a voler dimostrare quanto la vita dell’uomo sia fatta di attimi: alcuni tragici e fatali, altri positivi ma tutti ad ogni modo imperscrutabili. Affascinante il racconto “Limonata”, racconto breve e condensato nelle immagine nel quale Carver dà sfogo all’ossessione di un uomo per la morte di suo figlio, della quale si sente maledettamente colpevole per aver concesso al figlio di recarsi a prendere la bottiglia con la limonata che si trovava in macchina. Ma per cercare di ammorbidire questo peso opprimente il personaggio va via via ricercando in modo quasi schizofrenico altre cause ed altri colpevoli della morte del figlio: i venditori di frutta, il supermercato dove ha comprato i limoni, i piantatori di frutta, i raccoglitori, i trasportatori dei limoni. E così la limonata dal tradizionale sapore agrodolce non è che una singolare e liquida metafora della vita che, alla stessa maniera, ha questa doppia ed eterogenea saporosità.

LORENZO SPURIO

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