“Ponte poetico / Most poetycki”: poesia italo-polacca, volume antologico a cura di Izabella Teresa Kostka

Segnalazione di Lorenzo Spurio

La talentuosa e prolifica poetessa e scrittrice polacca Izabella Teresa Kostka, da tanti anni residente e attiva nel nostro Paese, ha recentemente curato un volume antologico bilingue italiano-polacco intitolato Ponte poetico / Most poetycki edito dalla Kimerik Edizioni di Patti (ME).

Il volume, come ricorda la Kostka nella nota introduttiva, è l’ulteriore segno evidente di un programma di iniziative e scambi culturali, volti al confronto e all’arricchimento collettivo, da lei inaugurato nel 2015 nel capoluogo meneghino con i primi riusciti e seguitissimi incontri del “Verseggiando sotto gli astri di Milano”. I numerosi appuntamenti che, nel tempo, si sono tenuti sotto questo importante evento hanno visto partecipare, al Centro di Ricerca e Formazione Scientifica “Cerifos” di Milano, un gran numero di poeti mediante la formula del reading ma anche di vere e proprie presentazioni di libri. «Il mio obiettivo» – annota la Kostka – «era quello di unire tutti i campi dell’arte, mostrare le diversità culturali e molte tendenze stilistiche spesso opposte». Aperta e particolarmente affine alle nuove tendenze stilistiche e contenutistiche della poesia contemporanea, la Kostka si è distinta, nel corso degli anni, quale una delle più attente sostenitrici del movimento letterario denominato realismo terminale, ideato e curato dal poeta Guido Oldani e teorizzato, tra gli altri, dal prof. Giuseppe Langella, docente dell’Università Cattolica di Milano.

L’antologia Ponte poetico / Most poetycki rappresenta, dunque, la realizzazione compiuta del sogno personale della Kostka, vale a dire quello di far interloquire – mediante i versi di numerosi poeti scelti – le due lingue, l’italiano e il polacco, le due culture, le due storie, i due mondi. Un progetto ardimentoso, dunque, ma necessario e particolarmente amato dalla Kostka, come spesso avviene quando – con esperimenti analoghi – si cerca di mettere su carta alcune delle sfaccettature identitarie della nostra persona. La Kostka, che è nata a Poznań (Polonia), dal 2001 risiede in Italia. Poetessa, scrittrice e promotrice culturale, ha conseguito la Laurea Magistrale in pianoforte classico con qualifiche pedagogiche presso l’Università Accademia di Musica di Poznań. Ha pubblicato dieci raccolte di poesia in lingua italiana e in versione polacca. Dal 2015 fa parte del movimento del realismo terminale e dal 2019 è ambasciatrice e portavoce ufficiale del medesimo movimento per la Polonia.

Ponte poetico / Most poetycki presenta al suo interno, dopo le prefazioni di Guido Oldani e Giuseppe Langella, una serie di poeti italiani (Giusy Càfari Panìco, Igor Costanzo, Sabrina De Canio, Tania Di Malta, Massimo Silvotti, Antje Stehn, Luca Ariano, Lorenza Auguadra, Umberto Barbera, Lucia Bonanni, Margherita Bonfilio, Gabriele Borgna, Maria Giuliana Campanelli, Pasquale Cominale, Rosa Maria Corti, Maria Teresa Infante, Gianfranco Isetta, Giuseppe Leccardi, Veronica Liga, Roberto Marzano, Massimo Massa, Raffaella Massari, Giacomo Picchi, Barbara Rabita, Maria Teresa Tedde, Tito Truglia, Patrizia Varnier assieme ai due prefatori e alla curatrice stessa del volume) le cui opere sono tradotte in polacco dalla Kostka e una serie di poeti polacchi (Daniela Karewicz, Teresa Klimek Janota, Katarina Lavmel (Katarzyna Nazaruk), Anna Maria Mickiewicz, Jolanta Mielcarz, Olaf Polek, Krzysztof Rębowski, Marian Rodziewicz, Bogumiła Salmonowicz, Eliza Segiet, Alex Sławiński, Izabela Smolarek, Józefa Ślusarczyk – Latos, Tadeusz Zawadowski) che, al contrario, sono riproposti nella nostra lingua sempre grazie all’operazione interpretativa e di traduzione del testo operate dalla curatrice. In totale nel volume sono raccolte le esperienze letterarie di quarantaquattro poeti.

La poetessa e critico letterario fiorentino Lucia Bonanni – che figura antologizzata nel volume – ha recentemente redatto un lungo testo critico di analisi e approfondimento su questo progetto della Kostka dal quale risulta utile citare alcuni estratti a continuazione per meglio comprendere il taglio, le peculiarità e la forza espressiva di tale lavoro. In merito all’azzeccata quanto chiara scelta del titolo del lavoro della Kostka, quella del ponte, che evoca l’idea dell’avvicinamento e della coesione, la Bonanni ha scritto: «Nell’immaginario collettivo il ponte rappresenta un qualcosa che unisce unità tra loro distanti, ma distinte ossia rimanda al concetto metaforico di quanto l’Uomo è riuscito a costruire per andare oltre, questo anche nella dimensione interpersonale e in quella psichica in considerazione di vari punti di vista come ad esempio quello antropologico, archetipico, letterario e dialogico nonché l’attrazione verso l’altro da sé l’oltre, l’ignoto, lo sconosciuto e il diverso in modo da poter usufruire di questo spazio di transizione, attuando la comunicazione e l’incontro. […] questo Ponte poetico fa da collegamento tra il passato e il futuro di una nuova identità artistica, divenendo memoria di interazione culturale».

Particolare attenzione è stata posta da Bonanni alla poesia “La favola” di Guido Oldani che «narra della cementificazione selvaggia che ha invaso le zone liminari dei centri abitati, distruggendo le realtà rurali e con esse la flora e la fauna». Il tema ecologico – importante all’interno del volume – viene ripreso anche dal prof. Langella nella sua poesia “Il business dell’eolico”. Alcune liriche sono dedicate al dramma del terremoto, vi sono anche componimenti che rimembrano la tragedia nucleare di Černobyl con la distruzione di Pripyat e la tossicità diffusa su mezza Europa, l’edificazione massiccia, l’inquinamento, l’azione distruttiva e malevola dell’uomo sull’ambiente. Temi importanti e inscindibili dalla poesia quali l’amore, la memoria, il recupero dell’infanzia, lo scorrere del tempo, la solitudine e il silenzio (l’incomunicabilità e la disattenzione), la vanità, la durezza del lavoro nei campi, l’emarginazione dei mendicanti e dei disadattati in generale, ampliano la ricca trama di contenuti di questo lavoro corale e internazionale.

Lorenzo Spurio

Jesi, 03-12-2020

Il silenzio sopra Berlino. Su “Nel silenzio delle nostre parole” di Simona Spartaco. Recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini 

9788851171971_fasc_23_b4f4a517518476eb57e67c9500c65744 (1).jpgBerlino, 23 marzo, 23.41 di un anno indefinito (i roghi divampano sempre nelle fragili anime umane), un palazzo “rivestito di intonaco rosa” prende fuoco nell’ultimo romanzo di Simona Sparaco Nel silenzio delle nostre parole (DeA Planeta 2019) e le lingue sono anche quelle dei suoi inquilini da troppi anni colpevolmente, tragicamente mute.

Per le quindici ore che lo precedono si snodano e interferiscono, fra analessi e presente della narrazione, storie di figli lontani – Alice, “esile, bionda, fitta tempesta di lentiggini”, distratta e fantasiosa studentessa di architettura e lo spiazzante Bastien, “Kurt Cobain in versione arabeggiante”, sguardo spiritato, spirito agnostico, cattive compagnie, mai quello che sembra se è capace, comprando una madeleine, di subire proustianamente il potere evocativo di certe fragranze…dovrà dirle quelle sei parole – di madri che non rinunciano a loro, di padri forse più silenti ma tanto, a volte, più presenti, di tenaci legami coniugali che sfidano il Tempo, di altri nascenti pronti ad accettarne le leggi e a giocare la partita di un cammino affettivo condiviso. Anche storie di “corpi”: quelli dell’algerina Naima, madre di Bastien – “occhi allungati e labbra rosse” in un fisico inerte di “marionetta disarticolata” (da 33 anni nessun “solletico sotto i piedi”, solo l’ambiguo esoscheletro di una minacciosa sedia a rotelle), caparbia contro gli “smottamenti” insidiosi delle proprie gambe quanto nella passione tenace per il marito “biondo eroe che invecchia malamente” o forse…sei parole dal figlio dovrà ascoltarle – della baltica Polina, ex-ballerina, “danzatrice di ceramica che cade e si frantuma” tentata di lasciar volontariamente cadere il suo corpo levigato, ridotto a “strumento arrugginito e stonato” dopo una gravidanza senza intimità frutto di calcolo professionale, di Hulya, “leone diffidente con una nuvola di capelli ricci” che non accetta la femminilità delle proprie forme mascoline. In ognuno una insopprimibile, talora inconscia, ansia/esigenza di maternità, rapporto filiale, amore – declinato nelle forme della pudica intimità senile, della sessualità che “sgretola i pensieri” come i muri della Storia o delle tele di Matthias, il ragazzo di Alice, di un caldo abbraccio rubato (fantasticato?) fra donne – vere forze vitali del romanzo, tanto più intense quanto più le parole tacciono, avvilite e frustrate da timori, rimpianti, fraintendimenti per essere, magari, affidate all’espressione scritta (il quaderno della madre di Alice, felice espediente metaletterario e amuleto salvifico), ai frammenti filmati di Hulya, finanche alla fantasia virtuale di un videogame: surrogati preziosi che confermano intera la fede dell’autrice nel potere taumaturgico dell’esperienza artistica che guarisce e redime.

“I processi di combustione si innescano e procedono a velocità bassissime, in apparente letargo molecolare”…In quello esistenziale, ciascun personaggio, a suo modo, sogna: una collocazione nel mondo, simbolicamente rappresentato dalla mongolfiera Die Welt, sorta di “coro” iconografico ricorrente che aleggia nel cielo della città, un passato ancestrale nel quale affondano e si radicano le proprio origini etniche e familiari – splendida la figura della nonna deportata di Polina, “accucciata dentro di lei per continuare a guardarla” –  rievocato da sapori e, soprattutto, odori (originalmente la scrittrice vi ricorre spesso per tratteggiare gli ambienti)), un’infanzia edenica mai edipicamente rimossa, in cui la madre è una bambina alla quale si potrebbe confessare il segreto più riposto (magari scrivendo sul suo quaderno) e il figlio un efebico, bellissimo innamorato. “Ignizione, aumento della velocità molecolare stimolato da un catalizzatore”…E i protagonisti, nell’imminenza della tragedia, si cercano, si incontrano, credono di (ri)conoscersi, si desiderano e si scrutano offrendo al lettore nuovi, rispettivi dettagli fisici e psicologici che la voce narrante ha taciuto o, addirittura, delineato diversamente (brillante intuizione narrativa, particolarmente funzionale nel caso di Bastien, il carattere forse più eclettico e travisato) perché nessuno, in fondo, vuole sottomettersi al silenzio e rinunciare a (ri)trovare, certo rischiando, la propri identità profonda. Alla fine, in un pre-epilogo avvincente e non del tutto consolatorio, le fiamme liberano i sentimenti più reconditi, alimentano e ravvivano – purificatrici – le passioni sopite o negate, bruciano, prima delle cose, ipocrisie, omissioni, nevrosi paralizzanti e complessi inibitori. Nella distruzione si tirano le somme, si tracciano bilanci provvisori, si aprono prospettive e progettualità inattese, “con” e “nel” rinato dialogo “l’equazione dell’amore” trova una convincente soluzione mentre tutti salvano tutti, anzitutto se stessi, dall’equivoco di un’esistenza che esige di essere vissuta con pienezza e coerenza, così come il piccolo Janis, neonato figlio di Polina, reclama con il solo suo sguardo di essere accolto e riconosciuto.

Crediamo che Nel silenzio delle nostre parole costituisca l’esito migliore e più maturo della Sparaco, non solo sul piano tematico (vi incide fortemente la personale esperienza autobiografica ed emotiva) ma anche strutturale e stilistico. Il narratore esterno assume l’ottica interna multipla/polifonica dei personaggi, conferendo agli eventi un ritmo sincopato in crescendo che aderisce magistralmente al lento propagarsi dell’incendio e viene scandito da inserti tecnici che abbiamo in parte riportato, nel tempo narrativo di una storia coincidente, di fatto, con quello del racconto (225 pagine per poco meno di 24 ore) e “doppio finale”, il secondo ellitticamente differito alla commemorazione dell’anno successivo. D’altra parte, con ancor più convincente originalità rispetto alle precedenti opere (il titolo di una l’abbiamo “nascosto” nel testo), il suo stile, essenzialmente dialogico, asciutto e pure mai semplicemente referenziale, si arricchisce di improvvise, efficaci aperture liriche (“ricordi vibrazioni sottili dell’aria nella luce ambrata di un lampione”, “nuvole come enormi foulard di seta sospesi nel vento”, “strade nitide i cui colori paiono ripassati dalla mano ansiosa di un giovane pittore”) cui viene affidata spesso la descrizione suggestiva e minimalista di una Berlino evocata, senza convenzionalità, nei suoi musei, nelle mostre estemporanee, nell’atmosfera multietnica di negozi e locali.

Marco Camerini

 

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In arrivo “L’esigenza del silenzio”, opera poetica di Michela Zanarella e Fabio Strinati

E’ in uscita sabato 10 febbraio 2018 “L’esigenza del silenzio”, il nuovo libro di Michela Zanarella e Fabio Strinati, edito da Le Mezzelane Casa Editrice. Una raccolta di poesie a quattro mani, che è da considerarsi un’esplorazione condivisa dell’anima. I due autori hanno scelto di unire le loro voci e di compiere un percorso di analisi interiore, consapevoli che la scrittura in versi libera emozioni e sentimenti a volte inaspettati.

Dante Maffia, che ha curato la prefazione del volume, scrive: “Michela e Fabio compiono un viaggio insieme e ne danno un resoconto non attendibile, fuori dalla verità comune. Perché nelle loro parole c’è la verità di un cielo che si è specchiato senza cercare la deflagrazione. La metafora per fare intendere la catena di metafore sottese in ogni pagina, il fluire limpido e a volte magmatico dei pensieri e delle emozioni, lo sforzo per poter entrare nell’invisibile e trarne ragioni ineluttabili. Non è questo del resto il compito dei poeti? Non è quello di squarciare veli e di entrare nella magia di insondabili chimere per offrire poi la dovizia di nuovi cammini?”

E’ un dialogo intimo, riflessivo ed avvolgente dove ogni percezione, ogni elemento della natura si adegua al ritmo di scrittura dei due poeti, che ad un certo punto fondono i loro i stili, fino a diventare unico canto. Il silenzio è il luogo ideale, dove mente e cuore trovano riparo dalle ombre della realtà.  

Poesia 1
(di Michela Zanarella)
Non so cosa proverai
vedendo il cielo accanto a me
e cosa ti dirà l’orizzonte
dall’incontro dei nostri sguardi.
La luce ci salverà entrambi
dall’imbarazzo e dalle ombre del passato.
Ci sentiremo figli di un tempo
mai spento negli inganni della vita.
Prenderemo dal sole
una pioggia calda di segreti
e al vuoto degli occhi faremo spazio
allo stupore che diventeremo.
Ci alzeremo tra i giorni
come confini che si esplorano
tolto il buio dal cuore
e la fatica degli amori spinti
troppo in alto.
Ci capiremo credo
senza troppe parole
solo ad istinto
respirando il mondo
con lo stesso colore
nella corrente che soffia
aquiloni rossi
addosso al tramonto.
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Poesia 2
(di Fabio Strinati)
Ho imparato presto a camminare
sulla scacchiera di un’epoca
a me contraria.
Ho visto nella folta spirale
l’imbarazzo per un’avventura
chiamata vita
che ormai per dissimmetria
ho presto dimenticato.
Ho visto te come nutrice di astri,
e in me, la moltiplicazione
di speranze indomabili
come sospiro ad ogni patimento.
Ho imparato la parola,
rarissima perla contro il pianto
e la tristezza carica d’aroma.

 

Gli autori

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Michela Zanarella durante la premiazione della VI edizione del Premio “L’arte in versi” a Jesi nel novembre 2017 dove era membro di giuria.

Michela Zanarella è nata a Cittadella (PD) nel 1980. Dal 2007 vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Credo (2006), Risvegli (2008), Vita, infinito, paradisi (2009), Sensualità (2011), Meditazioni al femminile (2012), L’estetica dell’oltre, 2013), Le identità del cielo (2013) Tragicamente rosso (2015) Le parole accanto (2017). In Romania è uscita in edizione bilingue la raccolta Imensele coincidente (2015). È inclusa nell’antologia Diramazioni urbane (2016), a cura di Anna Maria Curci. Autrice di libri di narrativa e testi per il teatro, è redattrice di Periodico italiano Magazine e Laici.it. Le sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, arabo, spagnolo, rumeno, serbo, greco, portoghese, hindi e giapponese. Ha ottenuto il Creativity Prize al Premio Internazionale Naji Naaman’ 2016. È ambasciatrice per la cultura e rappresenta l’Italia in Libano per la Fondazione Naji Naaman. E’ speaker di Radio Doppio Zero. Socio corrispondente dell’Accademia Cosentina, fondata nel 1511 da Aulo Giano Parrasio. Si occupa di relazioni internazionali per EMUI EuroMed University.

 

dddFabio Strinati (poeta, scrittore, compositore) nasce a San Severino Marche il 19 gennaio 1983 e vive ad Esanatoglia, un paesino della provincia di Macerata nelle Marche. Molto importante per la sua formazione, l’incontro con il pianista Fabrizio Ottaviucci. Ottaviucci è conosciuto soprattutto per la sua attività di interprete della musica contemporanea, per le sue prestigiose e durature collaborazioni con maestri del calibro di Markus Stockhausen e Stefano Scodanibbio, per le sue interpretazioni di Scelsi, Stockhausen, Cage, Riley e molti altri ancora. Partecipa a diverse edizioni di “Itinerari D’Ascolto”, manifestazione di musica contemporanea organizzata da Fabrizio Ottaviucci, come interprete e compositore. Strinati è presente in diverse riviste ed antologie letterarie. Da ricordare Il Segnale, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini. La rivista culturale Odissea, diretta da Angelo Gaccione, Il giornale indipendente della letteratura e della cultura nazionale ed Internazionale Contemporary Literary Horizon, la rivista di scrittura d’arte Pioggia Obliqua, la rivista “La Presenza Di Èrato”, la revista Philos de Literatura da Unia Latina, L’EstroVerso, Fucine Letterarie, La Rivista Intelligente, aminAMundi, EreticaMente, Il Filorosso, Diacritica, la rivista Euterpe, Il Foglio Letterario, Versante Ripido.

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Ad un anno dalla scomparsa di Renato Pigliacampo, Guerriero del Silenzio

Ad un anno dalla scomparsa di Renato Pigliacampo, Guerriero del Silenzio

A cura di Lorenzo Spurio

Esattamente un anno fa moriva Renato Pigliacampo, professore all’università di Macerata nonché poeta impegnato nella battaglia dei diritti in difesa del minorato sensoriale.


Pigliacampo era nato nella città di Leopardi nel 1948 e proprio nella terra di Marca soffrì, in giovanissima età, la perdita dell’udito a causa di una grave forma di meningite.

Si era laureato, poi, all’università “La Sapienza” di Roma specializzandosi in Psicologia dedicando particolare attenzione all’insegnamento verso i minorati sensoriali, alla difesa della Lis (Lingua Italiana dei Segni) di cui molto parlò anche nelle sue poesie.

All’interno dell’universo audioleso ricoprì anche vari incarichi importanti quali quello di Consigliere del Direttivo ENS (Ente Nazionale Sordi) e di Presidente Regionale ENS Marche.

Parallelamente a un’intensa attività saggistica sulle problematiche dell’audioleso nei vari ambiti della società (pubblicazioni uscite con Armando Editore di Roma) si dedicò con particolare entusiasmo alla poesia, forma di espressione con la quale narrò il suo disagio esistenziale, la sua rabbia dinanzi alle idiosincrasie del mondo e l’ingiustizia della società.

La sua prima raccolta organica di versi, datata 1967, si intitolava “Anni, anni che vanno”, opera alla quale nel corso del tempo ne seguirono numerose altre, tra cui “Canti del mio silenzio” (1973), “Dal silenzio” (1981), “Adobe” (1990) con la quale sembrava risoluto nell’abbandonare la poesia salvo poi tornare a ripercorrere le sue strade e pubblicare “Canto per Liopigama” (1995) e i più recenti “L’albero di rami senza vento” (2006) e “Nel segno del mio andare” (2013).

maxresdefaultIl professore fondò anche un suo premio di poesia, il Concorso Internazionale “Città di Porto Recanati”, senz’altro uno dei più conosciuti ed apprezzati in Regione che quest’anno celebra la sua ventisettesima edizione, la seconda senza il suo fondatore.

La famiglia del professor Pigliacampo, infatti, in collaborazione con Lorenzo Spurio, scrittore e critico letterario che negli ultimi anni collaborava a varie iniziative con il professore, ha deciso di portare avanti il Premio al quale era particolarmente legato e per il quale si sentiva meritatamente orgoglioso.

Il poeta ci ha lasciato lo scorso 29 Giugno 2015 e da allora riposa nel piccolo cimitero di campagna di Montecassiano, nel Maceratese. Nei mesi successivi al suo decesso il critico Lorenzo Spurio ha iniziato a lavorare ad un’opera antologica che compendiasse l’intera produzione poetica del professor Pigliacampo, opera che è recentemente uscita per i tipi di PoetiKanten Edizioni di Firenze. Essa si intitola “Nella sera che cala sul litorale. Percorso antologico nella poesia del Guerriero del Silenzio”. In essa Spurio ha raccolto, in base a una sua selezionata scelta dell’ampio materiale, testi che appartenevano a tutte le opere di Renato Pigliacampo, disponendoli in ordine cronologico ad offrire al lettore un vero e proprio itinerario, tra i mutamenti sociali e lo scorrere del tempo, dell’ars poetica di Pigliacampo. L’opera si chiude con una nota critica del poeta Guido Garufi che fornisce una disamina di alcuni archetipi del silenzio, di cui il poeta veniva soprannominato quale “Guerriero”.

coverIl prossimo 17 settembre presso la Sala Biagetti del Castello Svevo nella sua Porto Recanati si terrà la premiazione della XXVII edizione del Premio che, dall’anno scorso, assegna anche un Premio Speciale intitolato al professore che viene consegnato a un autore che con la sua poesia ha trattato in maniera esemplare e con una poetica vicina a quella di Pigliacampo tematiche forti, di impatto, che concernono l’impegno dell’uomo verso la collettività, nella presa di coscienza verso determinate mancanze e indifferenze verso il portatore di handicap. Quest’anno in particolare la serata di premiazione sarà l’occasione per celebrare il ricordo del professore e presentare il volume antologico che Lorenzo Spurio ha curato sull’intera produzione del Nostro.

Ad un anno di distanza, lo ricordiamo con una delle sue liriche in cui, come spesso accade, parla della campagna natia, della famiglia e del sentimento di unione con la tradizione agreste e patriarcale.

Spesso polemico e confusionario, ma sempre sostenuto da uno infinito stupore verso ogni ambito dello scibile, ci piace immaginarlo veemente impegnato in qualche suo discorso infuocato contro autorità insensibili e il popolo sfiduciato, alla rabdomantica sconfessione di una realtà che è ancor peggiore di come appare, perché l’uomo per sua natura è un soggetto che è improntato alla marginalizzazione dei suoi simili:

 

Compimento

Non voglio stendermi

sull’ansa del fiume con l’acqua

che specchia i tormenti del volto.

Non voglio finire così.

Portatemi nella mia casa,

sul monte, dove il babbo lavora

a mezzadria e la mamma

ricama le lenzuola per la sorella

che presto andrà sposa. Non questo

il sogno all’inizio dell’avventura

quando le doglie mi trassero al mondo.

Conducetemi dal padre, solo lui

potrà asciugarmi il sudore della fronte.

Non lasciatemi dove

i peccati della vita gli estremi

istanti tormentano i pensieri.

Scorre l’acqua, ultimo sguardo meditativo.

Non azzarderò la conta dei giorni

perché sia polvere.

Forse tra i miliardi d’anni per uno scherzo

chimico mi ritroverò lupo

e divorerò con ira l’uomo.

Inutile richiamo.

Immaginazione

creatrice del poeta vagabondo.

Conducetemi alla tomba degli uomini.

Nascere ancora dalla combinazione chimica.

È la mia speranza.

 

Poesia tratta dal libro “Dal silenzio” (1981) ripubblicata in “Nella sera che cala sul litorale. Percorso antologico nella poesia del Guerriero del Silenzio”, a cura di Lorenzo Spurio (2016).

“Maria Teresa Manta e il tempo dell’attesa”, a cura di Lorenzo Spurio

Maria Teresa Manta e il tempo dell’attesa

Recensione a Fisse le stelle in cielo, ilmiolibro, 2016

a cura di Lorenzo Spurio 

La salentina Maria Teresa Manta non è alla prima pubblicazione e, nel corso degli anni, ha avuto più volte occasione di raccogliere suoi testi –sia poetici che narrativi- in vari libri, oltre ad aver preso parte in collettanee di autori ed antologie. Una donna che fa poesia con il cuore, lasciando trasparire, pure nei riverberi d’angoscia e nelle ore di tormento, la sua femminilità e il disagio esistenziale di chi è destinato a vivere con un peso addosso. E’ questa l’impressione principale che si ha leggendo il suo ultimo libro, la silloge poetica Fisse le stelle in cielo dove, sin dal titolo, è difficile non notare l’elemento della fissità, dell’immobilità che non è una costernazione che prende piede nell’incomunicabilità, piuttosto una necessità di ancorarsi a un passato che, pur andato, è necessario rievocare e rivivere giorno dopo giorno, ora dopo ora.

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I libri pubblicati dalla poetessa salentina Maria Teresa Manta tra cui Fisse le stelle in cielo oggetto d’analisi della presente recensione.

La grande maggioranza delle liriche di Maria Teresa Manta raccolte in questa silloge sono contraddistinte da un dolore irrevocabile, da un canto di angoscia dovuto a una mancanza lancinante, quella di un figlio che l’imperscrutabile percorso della vita ha voluto a sé prima di ogni lecita scadenza.  I versi sono intrisi di quella desolazione emotiva che è propria di chi quotidianamente si arrovella sul perché di un accaduto tanto infausto nonché sui motivi per cui i destini si compiano in maniera tanto precipitosa senza aver il tempo di potersi prima salutare, tributare il giusto affetto. Tutto ciò crea un disagio emotivo assai pesante che è ancor più gravato dal rimorso dal non fatto o dal non detto a rimarcare ancor più quanto l’abitualità alla vita ci fa dimenticare anche delle cose più semplici che, in un batter d’occhio, possono diventare una condanna pesante con la quale dover sopravvivere.

La poetessa parla di questo figlio scomparso, allontanatosi da lei e dal ceppo familiare, non si capisce bene perché e in che modo, ma in fondo non è questo che interessa a livello poetico, piano comunicativo al quale la donna ha trasmesso il subbuglio emozionale, l’atarassia e l’ha condotta a rivivificare il passato, nelle tante schegge di ricordo, nei sorrisi ricevuti, nei momenti d’unione o semplicemente nella lieta convinzione di vivere in mancanza dell’assenza.

La morte allora si configura non tanto come momento accidentale di un percorso di vita che inesorabilmente si compie, non come fine delle speranze, piuttosto come consacrazione del tempo che non esiste. Con la morte del caro la Nostra sembra entrare in punta di piedi nel tempio dorato dell’assenza, dove tutto manca e niente ha la sua forma. Essendo l’uomo abituato per sua natura al materiale, al visibile, all’esperibile, il traghettamento forzoso alla dimensione dell’immateriale, dell’assenza del concreto non può che creare scompenso e confusione: ed è in questo limbo di pianti e incomprensioni che si attesta la lirica di Maria Teresa Manta. La poetessa fa vivere ciò che non è più, dà forma all’inesprimibile, costruisce il tempo che si è dissipato ed è in grado, con il calore materno e la pacatezza di una donna sensibile, di derogare alle scadenze imposte dall’Alto. Nessuno muore se vive nel ricordo di chi ha lasciato. Seppure non vi siano tracce che palesano il sentimento cristiano della Nostra, il messaggio che fuoriesce da questa silloge è proprio questo.

Siamo tutti in attesa di un tempo che non finisce. Un tempo che fluisce all’infinito e che è impossibile arginare, che non ha scadenze né può essere misurato. Ad esso si contrappone quell’asfittico tempo dell’attesa, un ragionare rimestato, un frenetico rincorrere a pillole di passato, l’attaccamento al mondo finito quando la vita continua e necessita che noi la viviamo al presente.

L’attesa, che è anch’esso tempo dell’immateriale, è costellata da continui atti di dolore e pentimento, ma anche fondi silenzi dove la confessione con sé stessi si struttura in un tormento afono che è impossibile fronteggiare con la nuda ragione.

Lorenzo Spurio

Jesi, 08-06-2016

“La natura amica e la difesa del silenzio: la poetica di Michela Tombi”, a cura di Lorenzo Spurio

La natura amica e la difesa del silenzio: la poesia di Michela Tombi

a cura di Lorenzo Spurio 

 

Ascolto il silenzio che è tanto bello,

ed osservo il cielo plumbeo.[1]

La poetica di Michela Tombi, poetessa pesarese che negli ultimi anni ha ottenuto vari riconoscimenti in premi letterari, si caratterizza per la soavità dei contenuti e la descrizione attenta del suo mondo personale e ambientale. Il linguaggio, sempre sostenuto da introspezioni molto profonde, sembra manifestare una certa allergia nei confronti delle forme retoriche che spesso, banalmente e smodatamente, vengono impiegate in poesia con lo scopo unico di impressionare il lettore o di sviarlo da una più diretta interpretazione.

Nelle poesie di Michela Tombi non c’è niente di ermetico né di ostico, tutto è felicemente trasposto sulla carta con una forma semplice in grado di raggiungere tutti, con un’esattezza descrittiva che si sposa a un’efficace restituzione di immagini. Sebbene siano presenti in alcune liriche versi che reiterano la parte introduttiva, non siamo dinanzi a delle vere e proprie anafore, piuttosto –sembrerebbe- all’esplicitazione di un ragionamento che la Nostra va facendo, man mano, a voce alta, rendendoci partecipi delle sue disquisizioni e pensieri.

La prima plaquette pubblicata si trova sotto il titolo di Dedica al mistero (2013) ed è ben evidente da questo titolo quanto la Nostra, oltre ad essere particolarmente affezionata –come si vedrà- al mondo naturale, sia legata anche al mondo della filosofia, dell’elucubrazione, della religione ossia a tutte quelle brache dello Scibile che non hanno direttamente prova concreta di applicazione. In maniera particolare è necessario osservare che tutte e tre le sillogi poetiche si aprono con varie citazioni poste in esergo, in apertura al testo, che la Nostra deve aver selezionato con particolare cura sentendosi molto riconosciuta in tali definizioni sul senso dell’esistenza, sulla complessità umana, sul valore della natura. Ho sempre riconosciuto in chi cita una persona concreta e riconoscente che fa a meno di dar sfoggio delle sue conoscenze e studi per impiegare, invece, passi ed estratti particolarmente rilevanti per il suo percorso, necessari per arginare un discorso che si intende fare, come mezzo accessorio e collaterale per poter introdursi in una data piega dell’esistenza. La Nostra cita esponenti del mondo filosofico molto distanti da noi: Erasmo da Rotterdam, Epicuro, Talete di Mileto, Platone, Aristotele, Plutarco e letterati quali Oscar Wilde e il poeta del Dolce Stil Novo, Guido Guinizzelli. 

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Le tre sillogi poetiche della poetessa Michela Tombi, oggetto di analisi del presente saggio

La prima silloge si apre con una poesia dal titolo “La mia follia” dove la pazzia che la Nostra –mi pare di capire- intende come libera genialità, creatività senza limiti (e non in termini patologici) viene esaltata quale ingrediente necessario di un’esistenza spensierata e amorevole che la porta a dire: “La follia è la mia maestra[2]. Concetto distillato nella citazione che, nel secondo volume dal titolo Lo scrigno dell’anima (2014), è contenuto nella chiosa di Erasmo da Rotterdam che così riporta: “Le idee migliori non vengono dalla ragione ma da una lucida, visionaria follia”. Si capisce, allora, quanta importanza Michela Tombi riconosca non solo alla libertà di immaginazione ma all’esigenza che l’uomo senta su di sé di farsi artefice di qualcosa: “Senza creare/ non ha senso esistere”.[3]

È possibile riscontrare varie immagini e tematiche di ampio respiro che pervadono trasversalmente gli interessi della Nostra ravvisabili in una poetica efficace e schietta, libera da orpelli, votata all’essenzialità delle esperienze senza liturgie semantiche né arcani linguistici. Una delle costanti è la presenza delle forme antinomiche, quelle che più generalmente potremmo definire ‘contrasti’ od ‘opposti’. Si tratta di tutte quelle figure che, poste in risalto ed accomunate in versi contigui, la Nostra impiega per sottolineare la doppiezza e la multiformità dell’esistenza. Nella poesia “Contraddizioni”, il cui titolo esplica già molto bene questa tendenza all’impiego di una semantica manichea, la Nostra esprime la totalità dell’animo umano nella figura di un sorriso e delle lacrime, testimoni di gioia e dolori. Altri contrasti di cui la Nostra si serve nelle sue divagazioni liriche sono quelle tra entità angelica-diavolo che possiamo semplificare in Dio-Satana, maschio-femmina, vita-morte, padre-madre, occhi-cuore, terra-cielo, acqua-fuoco, inverno-primavera in due liriche messe a specchio tra “la fine di un ciclo[4] e la “dolce stagione”,…

Di particolare suggestione la lirica “Verde emozione” nella quale la Nostra ci parla dello spazio verde della sua città al quale sono legati momenti felici e dove spesso si ritrova a proteggersi e a colloquiare col suo animo. “Credo che ognuno debba avere il proprio bosco[5] dice la Nostra e ci fa venire in mente il giardino segreto del celebre romanzo di F.H. Burnett, luogo di spensieratezza e pacificazione dove la bambina ritorna e si sente libera e felice. Del mondo dell’infanzia la Nostra richiama, nella poesia “Le tue violette”, una propensione ludico-disincantata del suo essere affine alla genuinità e incontaminazione del pensiero tipica dei ragazzini: “Quel fanciullino che tanto Pascoli cantò,/ in me è ancora e sempre vivo”.[6]

La seconda silloge presenta varie liriche dedicate a persone care alla Nostra, i genitori, i nipoti, la sorella, etc. nonché dei componimenti dove ancor meglio, rispetto al precedente libro, si riscontra una profonda spiritualità che si unisce a una poetica viscerale e delicata, dai toni colorati che mostra un fervido incanto verso la natura alla quale appartiene, pacata ed intelligente, in cui la Nostra è in grado di osservare il mondo con gli occhi dell’amore e della speranza. “L’altalena della vita[7] può essere percorsa in maniera lenta od impetuosa, a strattoni o in maniera più regolare. Soprattutto, deve esser condivisa con qualcuno.

Il sentimento del paesaggio tipico nei poeti marchigiani più radicati alla terra è ben presente e si delinea per mezzo di alcune liriche che descrivono egregiamente e in maniera assai impressionistica paesaggi, ambienti, la natura incontaminata del Pesarese e della zona del Montefeltro caratterizzata dai “fiabeschi paesaggi[8]. Dai promontori alle valli che degradano verso la costa caratterizzate dal corso dei fiumi di cui le Marche sono percorse secondo una conformazione a “pettine”. Dal “Monte delle Cesane” leggiamo dei “pini, […] le ginestre, belle/ altere come regine,/ lucenti come stelle[9] mentre ne “Il mio mare” la sua città costiera diviene il punto privilegiato di un rapporto verso un’alterità difficilmente percettibile che si staglia indisturbata “verso l’orizzonte infinito”.[10]

In questa intimità appassionata della Nostra col mezzo naturale non possiamo non notare l’importanza affidata al silenzio percepito come elemento necessario non solo per la contemplazione e una sana riflessione sul proprio microcosmo e macrocosmo, ma soprattutto quale condizione di tregua dal mondo rumoroso e indistinto di fuori: “Il mondo ha disprezzato il silenzio/ anche per questo la nostra esistenza/ non ha più un vero senso”.[11] Tutto accade oggigiorno nella frenesia impellente, nella foga comunicativa, nell’abuso della comunicazione, nel fastidio e nel rumore dissacrante che non consentono il sano colloquio e raffronto, la giusta percezione dell’altro. “Sì,/ perché nel silenzio soltanto,/ i segreti nascono e fioriscono,/ e portano sempre/ nuova ricchezza e respiro/ ai nostri pensieri”.[12] Ed ecco, allora, che il silenzio diviene quel tempo-spazio sospeso, privato e salvifico, per l’allontanamento dal tran tran consuetudinario, dal mondo di fuori e riscoprire sé stessi e ritrovare la pace dell’anima: “Avevo bisogno di silenzio,/ la collina è stata fatale[13] con la consapevolezza che la natura silente e immota è partecipe alla nostra presenza in essa, imperscrutata ma costante: “I fiori ascoltano i tuoi silenzi”.[14]

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L’autrice, Michela Tombi

Nell’ultima raccolta, Con gli occhi della luna (2015), sembra scorgere una dedica sottaciuta unica delle varie liriche che parlano delle e alle donne. La lirica d’apertura, “L’arpa” ci parla, infatti, dell’ “incanto poetico di Saffo,/ la devozione di Penelope,/ la saggezza di Ipazia,/ la forza di Cleopatra,/ il coraggio di Giovanna d’Arco,/ la passione di Artemisia[15] associando a sei celebri donne della mitologia e della storia (l’unico personaggio storico citato è Giovanna d’Arco) altrettante virtù e caratterizzazioni del gentil sesso quali, appunto, l’ardore della passione e la sublimazione poetica. La stessa presenza della luna, citata nel titolo, è ulteriore collegamento alla sfera femminile, alla simbologia mitica della Grande Madre dove i cicli lunari e i cicli femminili si manifestano con una tendenza analoga.

Importanti e ricorrenti i moniti sociali della Nostra che da una parte attestano una civiltà imbarbarita, automatizzata e dal sentimento annichilito e dall’altra intimano a una maggiore solidarietà, attenzione, connivenza sociale e interesse verso l’altro. La presa di coscienza non di rado è abbastanza scoraggiante, la Nostra non cela la perplessità verso una società che, alla tumultuosa rincorsa al soddisfacimento di ogni genere di egoismi, ha perso di vista i valori autentici e basilari alla difesa del bene comune: “Il più grande, radicato mito del nostro tempo/ temo sia il vuoto/ e l’apparenza che lo anticipa/ come una veste regale”.[16] Di grande impatto questi versi dove la vuotezza, la mancanza di moralità e la depravazione che dilagano si presentano in alta foggia, impreziosite da un abito di sfarzo che illusoriamente alletta e richiama, ma svia e depista finendo per fagocitare chi, privo di baluardi e punti di fermezza, è in balia di meccanismi annichilenti e mendaci.

In “Spreco” la Nostra si rivolge in maniera mesta ai “nostri fratelli del mondo[17] mentre nella poesia scritta nell’occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, dopo un sintetico panegirico sulla grandezza fisica e culturale del Belpaese, non manca di mostrare fastidio per la mancata coesione e collaborazione delle genti che lo abitano, serrando il componimento con un anticlimax discendente di delusione e dolente scoramento. Sensazione fastidiosa che si amplifica ancor più nella dolorosa presa di coscienza di un mondo sociale distante e disattento, pericoloso e incapace di ascoltare: “L’umanità senza coscienza/ della propria anima/ mi spaventa”.[18]

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Ancora uno scatto dell’autrice dei tre libri, la poetessa pesarese Michela Tombi

L’animo speranzoso della Nostra è accentuato, però, in quelle liriche in cui l’edenicità della natura non è inquinata dalla presenza indecorosa e malevola dell’uomo come in “Certezza” dove la Nostra si appiglia con virulenza a una celebre chiosa di dostoevskijiana memoria: “La bellezza salverà il mondo![19] Alla natura amica, alla sua presenza costante, con la quale non di rado la Nostra agogna a un vero e proprio discioglimento panteistico, Michela Tombi intravede una possibile traccia di effettiva apertura e di percorribile speranza: “Madre natura, alberi,/ è bello vivere con voi/ sotto lo stesso cielo”.[20] Da culla protettiva a spazio d’evasione, la natura incontaminata è quell’ambiente che va preservato ed ascoltato, nei suoi tanti silenzi, annullando dalla propria testa i ritmi incalzanti e le cacofonie stancanti dei giorni l’uno uguale all’altro: “Il fiore sboccia/ nonostante tutto./ Nonostante la guerra, la violenza./ […]/ Per un momento/ dimentico le miserie umane,/ il loro spaventoso lezzo”.[21]

Non tutti sono così disposti a trovare del tempo per osservare un fiore che sboccia e stupirsene. A farsi trascinare da un processo naturale che ha in sé tanta magia e poesia al contempo. La Nostra, che ha sposato la pacificante idea che la “Poesia è vita vera, vissuta[22], come una silfide contemporanea ama perdersi in quella natura che, seppur poco distante dalla città, è in grado di farla star bene, rinvigorire i pensieri, rinforzare ogni volta di più quel patto segreto con la terra.

Lorenzo Spurio

Jesi, 20-03-2016

 

[1] Michela Tombi, Dedica al mistero, autoprodotto, 2013, p. 40.

[2] Ibidem, p.3

[3] Michela Tombi, Con gli occhi della luna, autoprodotto, 2015, p. 46.

[4] Michela Tombi, Lo scrigno dell’anima, autoprodotto, 2014, pp. 32-33.

[5] Michela Tombi, Dedica al mistero, autoprodotto, 2013, p. 34.

[6] Michela Tombi, Lo scrigno dell’anima, autoprodotto, 2014, p. 25.

[7] Michela Tombi, Dedica al mistero, autoprodotto, 2013, p. 11.

[8] Michela Tombi, Con gli occhi della luna, autoprodotto, 2015, p. 26.

[9] Michela Tombi, Dedica al mistero, autoprodotto, 2013, p. 36.

[10] Ibidem, p. 37.

[11] Ibidem, p. 17.

[12] Ibidem, p. 26.

[13] Michela Tombi, Lo scrigno dell’anima, autoprodotto, 2014, p. 39.

[14] Ibidem, p. 45.

[15] Michela Tombi, Con gli occhi della luna, autoprodotto, 2015, p. 15.

[16] Michela Tombi, Lo scrigno dell’anima, autoprodotto, 2014, p. 36

[17] Michela Tombi, Dedica al mistero, autoprodotto, 2013, p. 15.

[18] Michela Tombi, Con gli occhi della luna, autoprodotto, 2015, p. 16

[19] Michela Tombi, Dedica al mistero, autoprodotto, 2013, p. 9

[20] Michela Tombi, Con gli occhi della luna, autoprodotto, 2015, p. 37

[21] Ibidem, p. 31

[22] Ibidem, p. 22

“Luogo di silenzio” di Lucia Bonanni, con un commento critico di Lorenzo Spurio

LUOGO DI SILENZIO 

di LUCIA BONANNI

Luogo aspro di silenzio

è questo ansito di vita!

Un tòpos sensoriale

che negli occhi mi guarda

e le ossa mi stringe

in una morsa di pena.

Con passi tardi

             mi viene incontro

al mattino,

con respiro grave

            nell’ora del vespro

si accosta nel letto

               e al posto di rose

propina notti spinose.

Intorno mi gira

come matador nell’arena;

con picas chiassose

mi dileggia e mi offende

e con banderillas dannose

mi lascia

in una pozza di sangue

poi nella taverna vicino alla plaza

si ubriaca di gloria e consuma

la cena.

Senza volontà,

incorporea e smarrita

vago                nel mondo

a cercare un approdo sonoro

a cui gettare la cima; fluttuate

e vestita di sinestesia percettiva

alla mente richiamo voci e rumori

e alla sera prego

                      per un sonno

dove il linguaggio dei segni

                        non abbia mai fine.

Commento di Lorenzo Spurio

La nuova poesia di Lucia Bonanni, “Luogo di silenzio”, è multidirezionale e prismatica nel senso che non si focalizza solamente su una suggestione unica della quale fornisce, verso dopo verso, maggiori elementi, piuttosto preferisce “spaziare” tra vari reconditi angoli del pensiero. La parte iniziale, infatti, è dominata da una pressante condizione di atonia (“luogo aspro di silenzio”) che demoralizza e strugge profondamente l’io lirico tanto che l’asprezza della mancanza di suoni o rumori si fa acre e pungente. Ma proprio lì, in quello spazio desonorizzato, depresso e privo di vita vocale, è possibile rintracciare un pur minimo “ansito di vita”. La poetessa mi ha rivelato di aver a mente nel momento in cui scriveva la lirica il prof. Renato Pigliacampo recentemente scomparso. Pigliacampo, poeta marchigiano e docente universitario, dall’età di dodici anni è stato sordo sviluppando una poetica di profonda indagine multisensoriale a difesa del visuomanuale, impegnandosi strenuamente per una serie di battaglie per la tutela dell’ipoacustico e di altre realtà in seria difficoltà. Del “Guerriero del Silenzio”, come lui stesso si autodefinì in una sua poesia e come viene ricordato oggi dai più, la Nostra tratteggia un retaggio d’in-appartenenza al mondo che è quello della sordità, considerandolo con “una morsa di pena”. Ciò che va osservato è che la Bonanni non usa un moto di commozione per lagnarsi o per costruire uno spicciolo pietismo, ma respira a pieni polmoni una situazione che sente vicina che, con solidarietà e animo geneticamente improntato al bene, si sente in dovere di affrontare con l’arte della parola.

La seconda parte del componimento ha una caratterizzazione più ampia, costruita sulle immagini del tempo (“tardi”, “mattino”, “vespro”, “notti”) e del colore: il rosso incandescente del vespro, quello della rosa e del sangue che può stillare dal contatto con le “notti spinose”. Se la spina della rosa al contatto punge, provoca dolore e una leggera perdita di sangue, le “notti spinose” sono momenti di reclusione emotiva, di contemplazione personale e di tormento che possono gravare e tormentare l’uomo, ma anche aiutarlo a credere maggiormente in sé stesso.

La terza parte della poesia ha una matrice chiaramente ispano-folklorica nell’immagine della plaza de toros, tempio della tradizione più viva e rispettata di Spagna nella quale vediamo il toro dar vueltas en la arena. La metafora del toro qui impiegata dalla Nostra non è quella di un animale forte e pesante che, sottoposto al ludibrio ludico e alle vessazioni dell’uomo finisce per morire dissanguato sotto il clamore della folla, ma un’altra, più evocativa e che va ricercata con attenzione.

Il banderillero nell'atto di infilzare le banderillas.

Il banderillero nell’atto di infilzare le banderillas.

Si ritrova, piuttosto, nei versi della Nostra che descrivono il toro “in gabbia” la tormentosità e la labirinticità del pensiero umano, spesso cripticamente incomprensibile, nel suo tumulto espressivo nel cercar vie di uscita che sono mondi di significazione. Nell’aporia indistinta della vita che ci conduce a continui bivi e spesso a strade che sviano ramificandosi possiamo vedere la corsa feroce del toro che, indistintamente, si avventa su tutto, fiero della sua stazza e imperturbabile nel suo percorso a random.  L’io lirico si veste di luci: “come [il] matador nell’arena” veste l’indumento più bello, ricco e luccicante sotto il sole di un pomeriggio qualsiasi ed è protagonista della lotta con la bestia che prima fiacca con delle “picas chiassose” (bellissimo l’aggettivo ‘chiassoso’ in questa posizione dove intuiamo gli olé urlati della folla) svilendone il corpo e oltraggiandolo con armi impari (“mi dileggia e mi offende”) sfoderando banderillas  che sono la vigilia della morte per dissanguamento. Se le picas erano “chiassose” le banderillas sono “dannose” perché contribuiscono ancor più a martoriare il corpo dell’animale che, perdendo grandi quantità di sangue, è sempre più debole e impaurito.

Lucia Bonanni, autrice della poesia

Lucia Bonanni, autrice della poesia

Lo scenario finale a una corrida de novillos (o di toros bravos) è sempre per lo più identica e si contraddistingue da “una pozza di sangue” sull’arena assolata. A perpetuare l’impronta narci-egoista dell’uomo dove tutto deve avere un prezzo di vendita (il biglietto per assistere all’euforica mattanza) ci si ritrova non distante dalla plaza in qualche taberna con teste di toro imbalsamate quali trofei ambiti in corride particolarmente celebri appesi alla pareti per quella che la Nostra chiama “la cena” che non è altro che l’atto finale di un procedimento commerciale, alimentare e gastronomico apertosi con la dissacrazione e il macello delle scure carni.

La sazietà che potrebbe derivare da un piatto tanto ricco e profumato contrasta con l’apatia forzatamente indicata dall’io lirico in quel manifesto “senza volontà” tanto da perpetuare un senso di vuotezza e desolazione interiore (“incorporea e smarrita”). Ed è questo il punto più alto della lirica in cui, dopo il rabdomante percorso taurino che spersonalizza l’anima, la Nostra si riconnette all’immagine silenziosa d’apertura creando uno stridore di toni: dall’effervescenza riottosa della calca nell’arena al mondo di grigi silenzi dominati dall’incomunicabilità verbale. In tanto divario la Nostra è in grado di giungere a “un approdo sonoro” che non è quello dell’oralità ma della rappresentazione iconico-gestuale dell’espressione (“il linguaggio dei segni”).

Ai modelli e alla simbologia costitutiva della rumorosa arte taurina,  fa da contro canto una soave rappresentazione di immagini in atti manuali che accarezzano l’aria.

Lorenzo Spurio

Jesi, 11-08-2015

“L’altra me. Bagliori in versi” di Augusta Tomassini, recensione di Lorenzo Spurio

L’altra me. Bagliori in versi di Augusta Tomassini

Helicon, Arezzo, 2014

  

Recensione di Lorenzo Spurio

1466214_742932185755370_2479843325774574450_nIl nuovo libro della poetessa Augusta Tomassini si intitola L’altra me ed è stato pubblicato dai tipi di Helicon a fine 2014. Già dal titolo è possibile respirare una marcata idea di alterità e al contempo un desiderio dell’autrice si svelarsi.

La poesia è probabilmente il mezzo letterario che più spesso è stato impiegato per parlare di sé, della propria emotività, delle fasi della propria esistenza e di come percepiamo il nostro rapporto con gli altri. Forse in questa seconda opera, ancor più che nel primo libro, Augusta opera questa operazione meticolosa di “svelare” la propria personalità.

La poetessa già dal titolo ci immette in un canale interpretativo in cui la vita non è altro che vista come dimensione plurale, multiforme e variegata ne è testimonianza la possibilità di poter individuare sempre qualcosa di nuovo in noi e nell’ambiente, come è consacrato nell’utilizzo della parola “altra” nel titolo.

Non esistono toni monocromatici, fissità, unicità ed esclusività, ma una dimensione sociale e corale nella quale l’uomo è in grado non solo di aprirsi alla comunità e istaurare un legame con essa, ma è capace anche di auto-comprendersi, conoscersi.

Questo libro contiene una silloge, ossia una raccolta di poesie, molto personale ed intima; ce ne rendiamo conto anche da alcuni titoli delle singole poesie come ad esempio: “Amami”, “Voce d’amore”, “Le mie lacrime”, etc.

Come osserva Eleonora Marinelli nella postfazione al libro, con questa nuova esperienza poetica Augusta si incammina in un percorso di rinascita, una sorta di rigenerazione del sentimento che segue il primo libro, più desolato nelle immagini e nel quale si percepiva un assopimento dell’animo della nostra.

Questa rinascita o “nuova luce” di Augusta alla base di questo libro è ben evidente da alcuni versi in cui leggiamo:

 

Come il sole

nasce da notte buia

come aurora prende

i colori di un nuovo giorno,

la mia vita, lenta

rinasce. (31)

 

Per parlare di questo libro, infatti, è necessario parlare o per lo meno evocare qualcosa anche del precedente libro di Augusta. La prima silloge, Volo dell’anima, se da una parte apriva a una dimensionalità sospesa e aeriforme improntata alla ricerca di una tranquillità e di una pace interiore data da una fuga, da un librarsi e dall’osservare da fuori la propria esistenza, dall’altra si fondava su una serie di poesie con un’impalcatura semplice e slanciata nelle quali, tematicamente,  non era difficile scorgere un senso di tristezza e sfiducia. Lo stesso sottotitolo, Poesie dell’ombra, sottolineava il vivere immerso in quel mondo di buio, di assenza di tinte cromatiche, che oltre a limitare ad Augusta l’esperienza empirica della realtà, nella fisionomia del nero e dell’indistinto si caricava di sensazioni fastidiose quali il sentimento di solitudine, l’isolamento, la noia, la desolazione.

Con questa seconda silloge Augusta risale la china e con un metro poetico non dissimile dal suo primo libro che corrisponde a un verseggiare libero, pulito, senza l’orchestrazione e il ricorso a particolari figure retoriche con eccezione della sinestesia, ci parla della luce e del colore, riappropriandosi con sagacia di quell’espressività delle tinte e bandendo il mondo dei chiaro-scuri. Il sottotitolo del nuovo libro, infatti, è Bagliori in versi.

Il bagliore è una luce fulminea ed istantanea che percepiamo, velocemente, che appare a squarci per rischiarare e poi come un flash far ripiombare di nuovo tutto nel buio. Dalla depressione del nero, il sopraggiungere dei bagliori in grado di squarciare la cappa oscura, è di certo un passo avanti notevole che Augusta ha fatto nella sua poetica perché ha precedentemente fatto con consapevolezza e per mezzo della sua grande sensibilità nei confronti della vita.

 

Il nuovo libro si apre con due citazioni molto importanti che riassumono molto bene la finalità di questo libro.

La prima recita: “Non possiamo programmare il come, il quando ma solo vivere ogni emozione così come scaturisce dal cuore” (Augusta Tomassini).

La seconda recita: “L’arte è esperienza di universalità.  Non può essere solo oggetto o mezzo. È parola primitiva: viene prima e sta al fondo d’ogni altra parola. È parola dell’origine che scruta, al di là dell’immediatezza e dell’esperienza, il senso primo e ultimo della vita.” (Karol Wojtyla)

Nella citazione di Augusta si sottolinea l’inesperienza umana, comune a tutti, dinanzi alla vita intesa come viaggio a tappe del quale non si conosce né svolgimento né la meta finale. Il fatto che l’uomo programmi la sua vita con orari, appuntamenti, date e scadenze è un suo vezzo per meglio organizzarsi nello spazio-tempo che gli è dato, ma non ha niente a che vedere con il percorso umano che Dio ha dato a ciascuno di noi dove, come dice Augusta, si deve essere disposti a vivere ogni istante con la massima intensità.

Nella citazione del Pontefice si dice una cosa estremamente valida ossia che l’arte è una esperienza di universalità, cioè che chi crede nell’arte tende all’universalità poiché i prodotti dell’arte (siano essi materiali come un libro o immateriali come una canzone) si conservano nel tempo con la stessa grandezza e splendore dato che in essi è contenuto il “senso primo e ultimo della vita”.

 

Tematiche della silloge: muovono tutto dal rapporto di Augusta con le sfere sensoriali:

  • Il mondo del silenzio, della mancanza di suoni e rumori, segno tangibile di una assenza, di una mancanza o della lontananza. Silenzio che spesso Augusta definisce rumoroso utilizzando un ossimoro per rimarcare quanto sia acuto e straziante.

La lontananza dal rumore, dalla vita della società, che lei percepisce attutita, smorzata nei toni, in lontananza come “vita ovattata

  • La potenza dell’elemento olfattivo in alcune poesie e in particolare in “Profumo di tigli”
  • Il mondo dei sogni in cui la Nostra spazia rievocando ricordi, rivedendosi protagonista e delle immagini che ricorrono e che crea nei suoi momenti di riflessione e contemplazione
  • Il tema dell’amore: l’amore verso i suoi cari, l’amore nei confronti della sua vita fatta di abitudini e piccoli rituali, l’amore per il mare, per le colline, per i gabbiani e le farfalle che sono gli animali-emblema della stessa poetessa, l’amore per la vita, l’amore di donare la sua esperienza agli altri.
  • La ricchezza cromatica, il mondo del colore, rimembrato e ricreato nella mente, la capacità di Augusta di saperlo rendere vivo attribuendolo agli elementi che la circondano e che nella realtà non riesce a percepire distintamente ma anche il colore del silenzio, il colore dell’attesa, il colore della scoperta e della contemplazione. I colori nella poesia di Augusta si caricano di significati molteplici: non è solo la caratterizzazione qualitativa-visiva del mondo ma sta a rappresentare anche la capacità di un dato evento/persona/ecc di toccare le corde dell’anima, dunque il colore inteso come vibrazione, come trasporto emotivo, come grado d’empatia.

 

 

 

Chi è l’autrice?

Augusta Tomassini  è nata a Fossombrone (PU) nel 1955; vive a Montefelcino (PU).

Dopo la progressiva perdita della vista a causa della Retinite Pigmentosa, è entrata a far parte dell’Unione Italiani Ciechi e Ipovedenti di Pesaro.

Nel 2000 è stata eletta consigliere dell’UICI della provincia di Pesaro-Urbino. Nel maggio dell’anno successivo è stata scelta per l’incarico di Presidente Regionale del Dipartimento delle Pari Opportunità della Regione Marche.

Ha pubblicato i libri di poesia Volo dell’anima. Poesie dell’ombra (2013, auto pubblicazione) e L’altra me. Bagliori in versi (Elicon, Forlì, 2014); entrambi sono stati presentati in varie tappe sul territorio regionale e nazionale.

Quando non è impegnata nelle attività sociali, si dedica alla famiglia ed alla sua passione di sempre, la poesia.

Ha ricevuto vari premi e segnalazioni in concorsi e premi letterari tra cui una targa di riconoscimento alla XXV edizione del Premio Letterario “Città di Porto Recanati” nel 2014.

 

“Il dubbio sulla parola imperversa nei tempi del postmoderno”, di Ninnj Di Stefano Busà

Il Novecento è stato il secolo dei dubbi sulla parola. I poeti hanno spesso dubitato della forza della parola poetica: dagli Ossi di Seppia con il continuamente citato “Non chiederci la parola” alle litanie nietzschiane di Mariangela Gualtieri di fine millennio in Fuoco centrale: “io non ho abbastanza parole, le parole mi si consumano, io non ho parole che svelino, io non ho parole che riposino… io appartengo all’essere e non lo so dire, non lo so dire”.

L’assenza della parola è direttamente da addebitare alla mancanza di dialogo: tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra fratelli, tra parenti e amici, e andando sempre più ad analizzare si avverte una forte carenza di dialogo anche tra le genti, tra i popoli.

È una fenomenologia che investe ogni categoria umana, ci porta inevitabilmente all’isolamento, ci precipita in un solipsismo cupo, ed è davvero inquietante vivere vicino agli altri e qualche volta morire, senza che nessuno se ne accorga.

La vita di oggi tumultuosa e indifferente ci ha resi sterili, anabolizzati e incapaci a intrattenere rapporti sociali, interpersonali aperti e sereni.

Viviamo questi anni in una inquietudine che ci respinge dal lato umano e ci proietta su fatti che non ci restituiscono felicità e pacificazione dello spirito.

imagesSiamo distratti, tristemente affrancati da valori, compromessi da rapporti schizofrenici, contraddittori che non ci permettono la comunicazione col nostro prossimo. Vi è una sorta di svilimento nei rapporti con gli altri, perchè si è sperimentato un sistema di vita all’insegna della fretta, dell’indifferenza, della malafede. Ogni rapporto è viziato da un difetto formale o intrinseco che lo proietta oltre l’intenzione, rafforzandone l’offesa, la menzogna, la viltà. Siamo zavorrati da orari di ogni genere, lavoro, studio, figli, sport, che non ci consentono di aprire l’anima alla luce, respirare un volontario atto di clemenza, di buona volontà, di ossigenzazione.

Restiamo inchiodati al nostro perimetro di spazio/temporale, senza levare lo sguardo al vicino, al più bisognoso, all’indigente.

In un tale contesto è difficile il rapporto con gli altri, anche perché ci porta a rinchiuderci in noi stessi, ad avvalorare l’ansia e l’indignazione per il bilancio del ns. esistente sfibrato, frantumato.

L’inquietudine spesso ci divora, ci disorienta.

E’ bene fermarsi, riflettere, riprendere a camminare con la schiena dritta, fortemente intenzionati a cambiare: direzione, azioni e comportamenti della nostra vita che ci umiliano.

Non è mai troppo tardi per iniziare un percorso a ritroso che ci permetta di ritrovare noi stessi, l’umanesimo che ci ha abbandonati e contare sulle nostre forze per migliorare lo stato della nostra umanità compromessa, fortemente degradata e delusa nella coscienza dell’essere, che è divenuta un bussolotto-contenitore, di molte nequizie, inadempienze e contraddizioni.     

 

NINNJ DI STEFANO BUSA’  

“Il silenzio della neve” di Giuseppe Filidoro: un romanzo antropologico. Recensione di Lorenzo Spurio

Il silenzio della neve
di Giuseppe Filidoro
Osanna Edizioni, 2013
Pagine: 275
ISBN: 97888881673469
Costo: 13€
 
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

 “Ogni uomo, anche il più buono e onesto, diventa tanto meno sensibile alle disgrazie altrui quanto più aumenta la distanza dal luogo dove è sentita la sofferenza” (100)

 

coverUn libro “parlato” questo di Giuseppe Filidoro dove lo scrittore utilizza il genere del romanzo, ma non disdegna nella sua perfetta padronanza scrittoria di eclatanti squarci lirici né di inserire storie nella storia come un’ardimentosa costruzione a matriosca. E in effetti la trama di questo libro è fatta dalle cose semplici, dai piccoli fatti che accadono quasi inavvertitamente e sempre uguali in un anonimo e desolato villaggio di paese. All’autore non interessa tracciare precise coordinate geografiche dove collocare l’intera storia, anche se al lettore con un minimo d’attenzione non farà difficoltà a capire che la storia è ambientata in quel sottobosco di vita popolana e popolaresca di una classe subalterna che si trova a vivere il passaggio tra prima-dopo, tra vecchio-nuovo, tra certezze e desiderio di espatrio per una maggiore realizzazione. Sono alcuni elementi che Filidoro dissemina qua e là nel libro a dirci che ci troviamo nel Meridione: si parla del vino Aglianico, un vino rosso che viene prodotto principalmente nella zona della Campania, Basilicata e Puglia ed anche il “lampascione” (una variante di cipollotto) è in effetti tipica di quelle zone mediterranee. A rafforzare l’idea che ci si possa trovare in territorio del sud Italia, è il continuo utilizzo dell’accrescitivo “assai” nel linguaggio comune dei tanti personaggi, posto in posizione finale, com’è appunto caratteristico di questa parlata locale, che per alcuni è una vera e propria lingua.

Proprio per l’intreccio intelligente di cui sopra nel quale Filidoro è come se prendesse il bandolo di più matasse e li mischiasse con il risultato di ottenere una massa amorfa di fili difficili da individuare all’occhio se non fosse dal loro diverso colore, questo libro ci immette direttamente in un mondo di provincia del dopoguerra dove si ritrovano molti degli elementi e delle inquietudini della gente di quel periodo: l’essere orfani perché si è perduto il padre in guerra, il non aver avuto mai notizie di proprio marito perché probabilmente deceduto in qualche missione di guerra come avviene alla vecchia Mezzavedova, la novità e il progresso visti sia attraverso nuove e salvifiche introduzioni quali quella della televisione, ma anche per mezzo del mito americano che a sua volta motiva la migrazione in una terra che agli occhi di rozzi provinciali non è altro che la terra promessa.

E’ un romanzo popolare, questo di Filidoro, ma a differenza della letteratura naturalista non si sofferma solo a dipingere il tessuto di una comunità nel suo ambiente, perché va anche ad approfondire che cosa succede nella mente dell’uomo e della collettività quando accade qualcosa d’inaspettato che si configura, quindi, come misterioso. Nel romanzo assistiamo, soprattutto nella seconda parte del libro, ad almeno due eventi che caricano la narrazione d’intrigo e che tengono incollato il lettore alla disperata ricerca della verità. Ma la verità, della quale parlano alcuni personaggi della narrazione, è sempre qualcosa di inafferrabile se non è possibile affidarsi su fatti certi, esperiti direttamente: “In assenza di prova contraria, il plausibile prende con forza il posto del vero, affermandosi senza possibilità di smentita” (225).

Filidoro dà voce a un’intera popolazione tracciandone le caratteristiche che determinano ciascun compaesano agli occhi degli altri con una tecnica denotativa d’impatto, che è quella del soprannome o del nomignolo, trasmettendo al lettore quali sono i veri motori di un mondo provinciale, campagnolo, che sembra essere addormentato e in attesa di qualcosa. La narrazione di Filidoro ricorda la prosa oculata e puntigliosa di Verga e nel riferimento alla migrazione dal sud verso al nord della quale si parla nelle prime pagine con la creazione dello stereotipo terroni/polentoni sembra di sentire Vittorini della Conversazione in Sicilia. E’ una narrazione questa del Nostro che affonda nel culto e nel richiamo della terra, nell’autenticità di legami familiari e religiosi che ancora si conservano in una dimensione corale che, proprio come richiama il titolo del romanzo, Il silenzio della neve, sembra rimanere in fase di latenza e, pur curiosa del mondo nuovo che si prospetta con il progresso o con il mito americano, rimane salda alle sue radici e ritualità. Perché in fondo questo è un romanzo che ha in sé una grande forza del parlato, di quel senso forte di comunità che si realizza attraverso azioni rituali, quasi ridondanti, quali la partita a carte al bar, la preghiera o la frequentazione in Chiesa, la passeggiata o lo spiare non visti dietro le ante delle persiane.

La comunità preserva se stessa e parla di se stessa, si anima, si costruisce e si difende: ne sono testimonianza le tante chiacchiere, supposizioni, dicerie, pregiudizi, voci di rione, attribuzione di nomignoli che si sommano a superstizioni, pensieri che non trovano verifica, idee, paure e continue ricerche di spiegazioni. Filidoro dà la voce a ciascun personaggio, come se si avvicinasse a lui con un microfono e lo lasciasse parlare, proprio perché debbono essere tutte le anime del paese a dire la loro, a costruire quel senso di coesione che solo nell’abbraccio corale della comunità è possibile.

Ed è per questo che il realizzarsi di due fatti eclatanti, da sempre estranei a quel mondo e sonnolento, vengono a significare incomprensione, inquietudine e un arrovellamento continuo degli autoctoni come in un romanzo di Thomas Hardy: l’arrivo di un uomo “misterioso” e l’uccisione di un certo Settedenari che poi, dopo indagine lente e inconcludenti, si scoprirà essere un caso di strozzinaggio locale. Ma in che misura poi un uomo può essere “misterioso”? Il mistero, il fascino misto a paura, è un qualcosa che viene da una nostra suggestione privata di fronte a qualcosa e non è una proprietà intrinseca della cosa stessa. Ed ecco che il nuovo, le introduzioni di ciò che normalmente non è stato fatto, un rituale che si rompe o che si sospende, viene anche ad avere forti connotati di carattere misterico. Si pensi a questo riguardo alla sapienza esoterica di Angelina Sapone che in effetti ha tutte le caratteristiche della vecchia megera profetica e conoscitrice dei destini altrui, una sorta di strega dal karma buono. Come in ogni tradizione che ha una buona origine nel mondo contadino del culto e del lavoro della terra, la religione si pone a metà strada tra devozione e confessione, appoggiandosi sulla stampella della ritualità, della sapienza occulta, della superstizione (si veda le “fatture” della Sapone) e alla credenza nel Male (che è pure di derivazione biblica) ma s-denaturalizzata e usata come motivo di tormento e condanna. Ed è in questo mondo che sembra essere in apnea, respirare solo nei momenti “pubblici” durante lo struscio, in chiesa o in seduta dal barbiere che si galleggia in una ritualità stanca che si perpetua quasi in maniera inconsapevole come motivo di recupero e di difesa di quella memoria contadina, di quel modo di fare e vivere le cose in maniera dicotomica: condivisa, partecipe e (sembrerebbe) entusiasta nei pochi e ripetuti momenti conviviali e dall’altra silenziosa, osservatrice, omertosa e indagatrice anche tra gli stessi compaesani. L’Appuntato, che sarà chiamato ad investigare sul delitto di Settedenari, è anche lui un uomo stanco, poco interessato e quasi indifferente e preferisce mettere in galera il primo che, anche con una schiacciante mancanza di prove, secondo lui potrebbe essere l’assassino. La sua figura produce una leggera reminiscenza nel cervello del lettore del celebre capitano Bellodi che ne Il giorno della civetta veniva chiamato a risolvere un caso intricato di mafia trovando incomprensione, freddezza e gente sempre pronta ad ostacolarlo nelle sue ricerche.

Questo di Filidoro è anche un libro ricco di pillole di saggezza, di riflessioni acute che, se sembrano rasentare l’ordinario, in realtà sono foriere di un pensiero ragionato, introspettivo, filosofico come quando il narratore, con estrema pacatezza e con un buonsenso d’altri tempi, osserva: “Ogni azione, dalla più piccola e insignificante a quella più laboriosa e complessa, un giorno, spesso del tutto imprevedibilmente, è compiuta per l’ultima volta, senza che ci sia la possibilità di fermare nella memoria l’istantanea di questo momento irripetibile, per poter un giorno farlo rivivere nel ricordo” (72).

La ritualità della gente di paese si sposa con la circolarità metereologica: assistiamo a un “caldo cocente del sole pomeridiano di fine luglio” (89) nei primi capitoli che poi nella parte terminale del romanzo lascia il posto a un freddo asciutto dominato dalla coltre candida della neve. Un romanzo popolare, dunque, ma anche un romanzo psicologico e antropologico, che mostra un’attenta disamina da parte dell’autore del legame stretto tra singolo e comunità in una dimensione di provincia che sembra arretrata e conservare i suoi antichi modelli degradati a obsoleti, ma dove l’autore indaga la fitta rete di rapporti tra i paesani, come in un prisma dalle infinite tinte cromatiche. Un romanzo sul silenzio che spesso si cerca e quasi mai si trova e che fa da intervallo tra un prima e un dopo, che esorcizza una pausa o una ricerca di tregua, un silenzio che si fa assordante e deprimente e che si uguaglia al sentimento di morte dove la materialità si dissolve in un fremito di sospensione e leggerezza che amplia il mistero e addolcisce il ricordo: “Il passaggio del vento impetuoso tra gli anfratti della valle sottostante era l’unico suono percepibile, mentre l’ovattato dominio della neve pacificava ogni altro rumore, fino ad avvolgere l’intero paese in un glaciale silenzio” (252).

 

 

Lorenzo Spurio

 

 

Jesi, 11.03.2013

“Il Novecento: il secolo del silenzio” di Ninnj Di Stefano Busà

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Il Novecento è stato il secolo dei dubbi sulla parola. I poeti hanno spesso dubitato sulla forza della parola poetica: dagli Ossi di Seppia con il continuamente citato “Non chiederci la parola” alle litanie nietzschiane di Mariangela Gualtieri di fine millennio in Fuoco centrale: “io non ho abbastanza parole, le parole mi si consumano, io non ho parole che svelino, io non ho parole che riposino… io appartengo all’essere e non lo so dire, non lo so dire”.

L’assenza della parola è direttamente da addebitare alla mancanza di dialogo: tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra fratelli, tra parenti e amici, e andando sempre più ad analizzare si avverte una forte carenza di dialogo anche tra le genti, tra i popoli.

È una fenomenologia che investe ogni categoria umana, ci porta inevitabilmente all’isolamento, ci precipita in un solipsismo cupo, ed è davvero inquietante vivere vicino agli altri e qualche volta morire, senza che nessuno se ne accorga.

La vita di oggi tumultuosa e indifferente ci ha resi sterili, anabolizzati e incapaci a intrattenere rapporti sociali, interpersonali.

Viviamo questi anni in una inquietudine che ci respinge dal lato umano e ci proietta su fatti che non ci restituiscono serenità e pacificazione dello spirito.

Siamo distratti, tristemente affrancati da valori, compromessi da rapporti schizofrenici che non ci permettono la comunicazione col nostro prossimo. Vi è una sorta di svilimento nei rapporti con gli altri, perchè si è sperimentato un sistema di vita all’insegna della fretta,dell’indifferenza. Siamo zavorrati da orari di ogni genere, lavoro, studio, figli, sport, che non ci consentono di aprire l’anima alla luce, respirare un volontario atto di clemenza, di buona volontà.

Restiamo inchiodati al nostro perimetro di spazio/temporale, senza levare lo sguardo al vicino, al più bisognoso, all’indigente.

In un tale contesto è difficile il rapporto con gli altri, anche perché ci porta a rinchiuderci in noi stessi, ad avvalorare l’ansia e l’indignazione per il bilancio del ns. esistente sfibrato, frantumato.

L’inquietudine spesso ci divora, ci disorienta.

E’ bene fermarsi, riflettere, riprendere a camminare con la schiena dritta, fortemente intenzionati a cambiare: direzione, azioni e comportamenti della nostra vita che ci umiliano.

Non è mai troppo tardi per iniziare un percorso a ritroso che ci permetta di ritrovare noi stessi, l’umanesimo che ci ha abbandonati e contare sulle nostre forze per migliorare lo stato della nostra umanità compromessa, fortemente degradata e delusa nella coscienza dell’essere, che è divenuta un bussolotto-contenitore, di molte nequizie, inadempienze e contraddizioni.     

 

NINNJ DI STEFANO BUSA’ 

 

“Le identità del cielo” di Michela Zanarella, recensione di Lorenzo Spurio

Le identità del cielo
di Michela Zanarella
Lepisma Edizioni, Roma, 2013
Pagine: 50
ISBN: 978-88-7537-203-3
Costo: 13 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

1395770_611477918910384_172609660_nNelle precedenti sillogi che ho avuto l’occasione di leggere, Michela Zanarella parlava dell’amore sotto le più varie sfumature e caratterizzazioni; i destinatari dell’amore erano l’amato, l’amico, il vicino, il mondo e la Natura. Una certa predisposizione a calare le sue intenzioni, credenze e vedute all’interno di una dimensione prettamente naturale si ravvisa qui in questa nuova raccolta dove ho notato che la parola “terra” ricorre continuamente quasi che queste liriche vengano a rappresentare un vero e proprio inno alla carica dirompente della natura. Tuttavia le liriche non hanno questa forma d’encomio o di celebrazione che potrebbe addirsi a una poetica di stampo naturalista o simbolico, ma vanno oltre. Continui e pertinenti anche i riferimenti alla luce e al sole che con le varie fasi luminose determinano i giorni, i mesi e tutto quello che è una schematizzazione temporale creata dall’uomo.

Non è un caso che la temporalità, espressa sotto varie forme, faccia capolino ora qui ora là attraverso queste poesie che sembrano adagiarsi in una dimensione sospesa, aerea, quasi illusoria, ma che illusoria non è. Le nuvole che padroneggiano in copertina, spumose e bianche inamidate, sono a testimonianza di un fotogramma che tenta di bloccare l’attimo, ma senza riuscirci. Se soffermiamo l’occhio su queste nuvole per alcuni secondi, infatti, abbiamo quasi l’impressione che esse si muovano, che scivolino via, danzando leggere per lasciare il posto, forse, a un cielo mite. La conformazione filamentosa e irregolare della nuvola può divenire nella poetica di Michela Zanarella un’immagine di quel contenitore fumoso e indistinto dell’animo umano. Ci si domanda, allora, perché il cielo abbia tante identità e non una sola, e questo quesito è interpretabile da varie angolazioni. Con “cielo” è evidente che la poetessa non intenda Dio o per lo meno non sempre, difatti in varie liriche si traccia anche un campo di possibilità futuribile e casuale dominato da quello che è il concetto di destino (termine presente dodici volte). La compresenza delle due entità, però, non è che una innocua commistione di riferimenti a quel cielo di possibilità che è la vita. Cielo che va letto, interpretato e vissuto; esso non solo è trasposizione del nostro animo, ma anche testamento dell’umanità: “Mi rattrista il silenzio/ dell’umanità tutta” (28).

La nuova poesia di Michela Zanarella è materica, nel senso che impiega una sintassi che fa riferimento a forme di materia ed è terrigna, perché nelle divagazioni la poetessa non può che istituire rapporti tra quel che fu, l’origine e la nascita, e quel che sarà, il tutto dominato sempre da una sovrastante in-conoscibilità dei fatti. Come un vate del silenzio, Michela Zanarella fonde nel canto più alto pensieri di palingenesi e costruzioni cosmologiche rapportate nella dimensione dell’uomo qualunque, portato a vivere “un’esistenza che si ripete” (7).

Il destino non ha corporeità propria, ma si dipana come ombra immaginiamo su un muro ed è la polvere a dare testimonianza di un passato che fu, quale elemento residuale di qualcosa che si è perso. Ma la polvere è anche origine e la fine dell’uomo, venendo dunque a rappresentare nella poetica di Michela Zanarella quasi un postmoderno arché del vivere e del saper interagire con la mente. Di contro a questa concretezza degli oggetti, dei luoghi e delle costruzioni, la poetessa sottolinea l’immaterialità e l’evanescenza del pensiero in “astratte sculture della mente” (15).

Non da ultimo va sottolineata l’ampia carica intertestuale del libro in oggetto dove non possiamo che complimentarci con l’autrice per la poesia in memoria ad Alda Merini, gli squarci paesaggistici del quartiere Monteverde di Pasolini, il “mondo antico” (7) immagine di quel “pianto antico” Carducciano, l’espressività del verde di marca lorchiana, il verso asciutto ed evocativo sino a una vera e propria critica sociale “Nel rapido inganno del potere/ mai nidifica chiarore” (42).

Michela Zanarella con questa silloge esprime la fenomenologia della polvere, per rintracciare sensi e significati in quelle nuvole alte che ci sovrastano e che giorno dopo giorno vivono con noi. Esse vorticano e spaziano tranquille, ma come ci insegna la poetessa, possono pure morire e per questo è necessario colloquiare con la Luna che, carica di mistero e sublime all’apparenza, resta l’unico punto fermo dal quale poter partire:

 

Ho capito perché la luna

è immobile.

Ci guarda inseguire

un tempo indimenticabile. (36)

 

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 26-12-2013