N.E. 02/2024 – “La poesia realistico-simbolica di Josè Russotti”, saggio del prof. Giuseppe Rando

La vasta produzione poetica – in dialetto messinese (di Malvagna) e in lingua italiana – di Josè Russotti (31 marzo 1952 – Ramos Mejìa – Argentina) appare fortemente omogenea sul piano tematico ma assai diversificata sul piano stilistico-linguistico (per peculiarità che sono tutte da verificare) e come attraversata da una perenne, progressiva ricerca espressiva: opera, senza meno, in fieri di un poeta che mira sagacemente alla conquista dello stile.

Il poeta di Malvagna esordisce nell’arengo poetico con una vibrante, commossa raccolta di poesie dialettali (con traduzione italiana a piè di pagina), Fogghi mavvagnoti,[1] che dell’«opera prima» possiede tutti crismi (sviste e refusi compresi). Vi si percepisce, immediatamente, l’amore viscerale di Russotti per il paese della sua infanzia – vero e proprio leitmotiv – tuttavia frustrato dalla delusione per quella che pare un’irreversibile sparizione: «Urìa stari ‘ssittatu subbra un furrizzu ‘i ferra / a menzu â campagna ciuruta di Pìttiri. / […] Ma non c’è vessu e modu di nuddha manera / ‘i truvari u sint’ri chi carusu avìa scapicciatu» (Urìa stari);[2] e ancora: «Lucia di centu dottrini, / non vidi chi stu paìsi pinìa / e mòri senza na raggiuni?» (Donna Lucia Pantano).[3]È forte, invero, il disappunto dell’io poetante per l’attuale vita-non vita del paese «china di lazzi e ruppa» e il suo desiderio inappagato di «nnèsciri ô chianu» (Mi veni iàddita).[4] Trapela anche nettamente, nella raccolta, la sensibilità sociale di Russotti per le sofferenze degli ultimi (Canzuni pi un drogatu, Turi Cacotta, L’emigranti), accentuata dal suo tormento di figlio desolato dopo la morte del padre (U scontru) e della madre (E jò chi n’ha vistu mòriri mai a nuddu, 7 febbraio ’99). Trascorre peraltro nei testi, per brevi cenni, tra immagini di crudo realismo, qualche lieve meditazione sui grandi temi del bene e del male, del tempo irrevocabile, della vita che fugge, della morte che incombe (Parori, Ora mi veni, Don Micu Scrofani, Acqua chi scenni e s’incanara, Comu attenti suddati). E ritorna sovente, per concreti, espliciti riferimenti, l’attaccamento carnale, sensuale del poeta all’amore (U nsonnu, Chi nostri cori, A surgiva, Quanti uòti, Niàutri dui).

Sul piano linguistico-stilistico, Fogghi mavvagnoti è, però, a tutti gli effetti, un’opera radicalmente intessuta di termini, locuzioni, stilemi popolari rimemorati agevolmente dal poeta di Malvagna e trasposti felicemente sulla pagina con i loro forti accenti realistici, senza particolari mediazioni autoriali che non siano quelle relative all’armonia, al ritmo, alla testura dei versi, che paiono, invero, «senza tempo tinti». Talché, parafrasando un titolo di Marcuse, questa prima raccolta di Russotti, parrebbe «a una dimensione»: quella realistico-referenziale della poesia dialettale tout court. Si rilegga, a conferma, la prima strofa di Spondi dill’Alcantara: «Uci di fìmmini si lèunu / ndê spondi dill’Alcantara. / Uci di matri patuti / che càntunu chini di prèjiu / vannu dritti e vagghiaddi / chî so’ cufini subbra a testa»,[5] dove la precisione dei dettagli non differisce punto da quella che si può ritrovare in un saggio di antropologia culturale o, meglio, nel quadro di un pittore realista, come Courbet.

La raccolta di poesie in lingua italiana, Spine di Euphorbia, pubblicata, quindici anni dopo[6], contiene liriche che si muovono nello stesso ambito tematico-contenutistico della precedente, ma appare del tutto nuova sotto il profilo stilistico. C’è, invero, un salto tra Fogghi mavvagnoti e Spine d’Euphorbia che non si spiega solo col cambiamento del codice linguistico (dal dialetto mavvagnotu alla lingua italiana) e con il lungo intervallo tra l’una e l’altra, ma presuppone una radicale svolta, se non una rivoluzione effettiva, nella maniera d’intendere e praticare la poesia, da parte di Josè Russotti, che sembra ora privilegiare la dimensione metaforico-simbolica dei testi, probabilmente mutuata dalla lettura dei poeti maggiori del Novecento (García Lorca in primis, già ricordato dallo stesso Russotti nella prima raccolta, i maudits francesi nonché gli italiani ermetici e post ermetici, conosciuti in occasioni non programmate),[7] ma fatta propria dal poeta nei modi entusiastici del neofita che idoleggia il tesoro di cui è venuto in possesso, cavandone impensate potenzialità espressive. Vale la pena di rileggere la prima lirica della raccolta, Madre sola, dove il flusso continuo di metafore, similitudini e simboli, senza annullare la realtà e conservando un altissimo grado di leggibilità, concorre a un canto-pianto che riesce a sfiorare le vette del sublime: «Madre di nulla vestita! // Vestita del tuo dolore che è pianto / del tuo lamento che è canto / Madre senza neppure aspettare / e quasi alla fine dei miei passi / ti riscopro brace per l’inverno inoltrato […] All’ombra dei tuoi capelli argentati / diventavo quieto come un agnello / e ambivo le carezze della notte […] Madre di nulla vestita. Madre da sempre sola / adesso ti rincorro nei rimpianti della sera».[8]

Non mancano, invero, nella raccolta, casi di iperfigurativismo (da neofita), in cui le metafore si susseguono di verso in verso, senza riuscire a essere illuminanti: «Dentro un fuoco di lava / appaio sconfitto e detestabile/ e tale perduro // Gli occhi in lutto / bagnano l’ossario aperto / di filo spinato // Si taglia a fette / questa piaga immensa / dentro un sogno di latta / che non trova nei ricordi / un qualsivoglia riscontro // I morti / giacciono in me» (I morti giacciono in me).[9] Ma bisogna riconoscere che il poeta, in Spine di Euphorbia, riesce, perlopiù, a combinare in un’armonica cifra stilistica, il piano realistico (degli affetti familiari, della vocazione sociale, dell’amore-disamore per il paese di origine), e il piano simbolico-metaforico della poesia novecentesca, conseguendo altissimi livelli poetici. Basti ricordare A Very, All’alba di un giorno qualsiasi, A-sintonie instabili, Con l’attesa ferma nel cuore, Disomogenie malvagnesi, Graffio l’angolo di vetro, I negri invisibili, L’ultimo passo (a Sebastiano, mio padre), Mai t’amai così teneramente, Noi chiedevamo solo amore, Non piangere per me Malvagna, Se vuoi infrangere, Sul filo amaro della vita, Vegeto in una crepa di luna, Vòlto a scavare. La scoperta della dimensione metaforica della poesia produce peraltro un altro notevole scatto, rispetto alle raccolte precedenti, in Spine d’Euphorbia, dove l’amore della donna amata, si traduce in immagini della natura circostante che, a loro volta, prefigurano modi pensosi, drammatici dell’Essere all’insegna della precarietà, della provvisorietà, se non della insignificanza del mondo. (Avvinto, Ci sorridemmo, Del tuo tenue sapido effluvio, Eri qui, Nudo amore, Spine d’Euphorbia, Steli di Tamaro fra le dita, Ti lascio una crepa di vita). In questo ambito si coglie, peraltro, qualche timido riflesso del cristianesimo sofferto di Russotti (Sotto il sole d’agosto).

La rivoluzione stilistica evidenziatasi in Spine d’Euphorbia si riflette nelle liriche in dialetto della raccolta Arrèri ô scuru, pubblicata due anni dopo, presso Controluna (Roma 2019).[10] Vi si ritrova, profondamente ramificata, la forte, abituale materia sentimentale (l’amore della madre – Matri sura -, del padre – Unn’eri, E campu ‘i tia -, della moglie – Ciatu c’appoj diventa aria e si sciàmina, U to’ ciàuru di sempri, della figlia – Figghia chi resti ntô cori pi sempri), insieme con la vocazione etico – sociale (Di russu virgogna ora è u ma’ duluri, ‘Nfin’a quannu, Nino Bongiovanni, u putaturi, Ntâ sta terra di Sicilia) e con un’accentuata tensione introspettiva (Si tesci di dumanni a tira, Intra un vacanti ‘i nenti) dell’io poetante. Ma – quel che più conta -pullulano sulla pagina le figure retoriche (similitudini, metafore, simboli) tipiche della poesia in lingua del Novecento, già ampiamente sperimentate in Spine d’Euphorbia, qui utilizzate, però, con maggiore discernimento, senza alcuna perdita di senso. Si rilegga la prima poesia (che dà il nome alla raccolta), Arrèri ô scuru, dove, in pochi versi, mirabilmente fioriscono luminose metafore, atte a rendere nuovo il motivo eterno dell’amore: «[…] Ma ‘a notti è fatta suru di sirènzi, / unni mi peddu e mi cunfunnu / sutta na cutra di ‘nganni e llammìchi. / Femma u passu e vèstiti d’amuri, / picchì si’ timpesta subbra i puntara, / simenza d’addauru ‘i chiantari».[11] La documentazione di tale miracolo di armonia espressiva, per via di limpide metafore, potrebbe essere, invero, sterminata: ricorderemo, per sommi capi, «A puisia è simenza chi scava ntâ terra, / ràrica chi nun canusci cunfini», in  A pusìa è …;[12] «Urìssi pi sempri a to’ bucca di meri», in Ciatu c’appoj diventa …;[13] «Si non si’ ccà a mmenzu a nuiàtri / a cantari a to’ gioia e a to’ alligria» in E campu ‘i tia;[14] «I campani sònunu a luttu subbra / i cappotti ‘ncurvati d’u friddu», in Figghia chi resti ntô cori …;[15] «Mu sentu d’incoddu / u to’ ciauru di fimmina e matri», in U to’ ciauru di sempri;[16] «Matri di nenti vistuta, / vistuta d’u to’ duluri chi è chiantu», in Matri sura;[17] «Ntâ sta  terra di Sicilia / […] lorda / di mafia e bucchi ‘ntuppati», in Ntà sta terra di Sicilia, p. 78; «sutta a ràrica d’u rimpiantu» («sotto la radice del pianto») in Ntô mari lavu tutti i ma’ peni.[18] Su questa via, vòlta a una sempre maggiore limpidezza espressiva, procede invero, come vedremo, il poeta di Malvagna nelle raccolte successive, in cui si va perfezionando la sua travagliata conquista dello stile.

Il processo avviato nelle poesie dialettali di Arrèri ô scuru s’intensifica nelle liriche della seconda raccolta poetica in lingua, Brezza ai margini[19], di Josè Russotti, il quale continua a privilegiare la curvatura metaforica, novecentesca dei testi, ma mira, nel contempo, con maggiore convincimento, alla comunicazione, alla leggibilità, alla poesia «corale», per dirla con Quasimodo.

Le prime cinque liriche della prima delle due sezioni di cui l’opera si compone, Amare è vita, sono stabilmente imperniate sulle volizioni, i pensieri, le angosce di un io poetante tuttavia speranzoso, che avverte nel «silenzio dell’erba» il grido di dolore di chi nei «vicoli stretti del […] presente» non trova più «la porta di casa»,[20] o soffre per «il vuoto degli assenti»,[21] o rievoca, nella «bolgia infinita della sera», le «intrepide illusioni mancate»,[22] o si conforta sapendo che, «come per incanto / sorgerà il sole del mattino»,[23] o cerca un conforto frugando «nei vicoli / carichi di remoti silenzi».[24] Seguono tre liriche (VI, VII, VIII) imperniate sulla tecnica allocutiva dell’io/tu, che costituiscono autentiche invocazioni d’amore alla moglie: accolga lei, «nelle pieghe del suo dolore»,[25] le lacrime del suo uomo; la sua mano non si stanchi di dare al poeta «un senso di raro sollievo» (degno di attenzione l’intenso distico: «Me lo sento addosso / il tuo odore di femmina e madre»,[26] versione italiana del verso sopra citato  di Arrèriô scuru); se l’amore dovesse affievolirsi («Se dovessi frugare nel vano / del tuo ventre acceso»), lei sicuramente saprà «aprirgli il cuore».[27] La tensione erotico-espressionistica si prolunga nella lirica successiva, in cui il poeta si prefigura che «Brandelli di lusinghe» e «bocche sconosciute e intrepide /accenderanno il suo cuore / nella bolgia della sera».[28] La decima lirica della raccolta è una dolorosa, ma stilisticamente compiuta, rievocazione della madre morta: il poeta cerca in casa ma «non trova più niente di lei»; il suo cuore «cade a pezzi», ma egli aggiunge «una goccia all’origano nel vaso di suo madre» (il verso è davvero sublime) sperando che ritorni.[29]

La seconda sezione, Angoli bui nel silenzio, della raccolta si apre con una lirica, la XI, in cui l’io poetante canta mestamente la morte del padre scomparso quando egli era in tenera età: «L’assenza / è un suono molteplice di arpe sulla riva / […]».[30] Al padre è anche ispirata la lirica XVII che forma con la XI un singolare dittico filiale. Il dodicesimo componimento è quello più gonfio di crudo, corposo realismo, prossimo – parrebbe – ai moduli espressionistici della poesia di Cattafi: «la grandine sui tetti», il «sangue dalla croce», la «fame che divora le budella», il «gesto inconsulto / di chi disperde il seme», il «vento tra la gramigna», «lo sputo sui vetri», il «vino rosso […] nello stipo»:[31] brandelli, invero, di una vita vissuta tra stenti, lontano dagli agi, e tradotti in una tormentata musicalità.  Segue quella che si definirebbe «una trilogia della gente»: tre ampie liriche «corali», in cui il poeta, messo da parte il suo io dolente e risentito, guarda attorno a sé, divenendo quasimodianamente partecipe del dolore degli emarginati che sono vessati dagli uomini e dalla sorte: gli emigranti, extracomunitari, in ispecie, vittime della brutalità della storia e i morti di Covid. In essi il poeta emigrante si identifica, a tal punto che, nella prima strofa, della XIII poesia, presta loro la sua voce e diventa di fatto uno di loro: «Ci ha lasciato la madre che ci nutrì / col latte del seno e sedano crudo» (un distico sublime, invero).[32] Nella lirica successiva, la «gente» (forse, i parenti dei morti per Covid) «piange e stringe le ossa / dentro un fazzoletto intriso di memoria»,[33] e nella quindicesima il poeta «corale» registra accorato il «greve allinearsi delle bare».[34] Della stessa temperie stilistica sono i componimenti XX e XXI, in cui lo stesso acceso espressionismo presiede alla visione dei corpi dei migranti che «emergono e poi affondano […], / gonfi di sterile salgemma»;[35] mentre «le barche approdano vuote»: il poeta porge «alla faccia stupita degli stolti / un piatto ben condito di sapienza».[36] Nella lirica XVI, domina, tra illusioni e delusioni dell’io poetante, «la noia di certe giornate disadorne», mentre lo sguardo cade «sulla lumiera di carni putrefatte e scheletro» (di cattafiana memoria).[37] Seguono tre liriche (XVII-XIX) in cui ritorna la voce disillusa del poeta, che rifiuta ogni ipotesi consolatoria dell’aldilà («la morte è solo un gelido varco interiore / nella vanità dissoluta del transito finale»)[38] e ridimensiona il ricordo, più o meno affettuoso, che di lui avranno i compaesani, agognando semmai l’infinità che solo l’arte può dare («vivere ancora e poi ancora / e ancora, nel fertile cuore / dei fragili»),[39] e guardando in faccia la morte «che scivola sul destino delle cose».[40] La paura del disamore o meglio della fine dell’amore ritorna nella mesta lirica XXIII, che sembra costituire il pendant pessimistico («un ristagno di silenzi / innanzi alla fisica estraneità di mia moglie»)[41] del trittico alla moglie (della prima parte). Vi si collegano, per l’intonazione elegiaca, i due ultimi componimenti soffusi dalla malinconia del tramonto: «ogni gemito diviene / un tormento di rondini in pena».[42]

L’autore di Brezza ai margini è, in effetti, un poeta che patisce (o ha patito) sulla sua pelle il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia del mondo, approdando a una visione amara (ma non sconfitta), leopardiana se vogliamo, della vita e dell’arte: un uomo dimidiato, ad ogni modo, come un poeta medioevale, tra il sogno o il rimpianto del paradiso e l’amara certezza dell’inferno.

Nello stesso anno, qualche mese prima – precisamente nel gennaio del 2022 –, Josè Russotti dà alle stampeuna sorprendente raccolta di trentanove liriche in dialetto malvagnese,[43] con traduzione a fronte in italiano, distribuite in sette sezioni: I) Pî mapatri; II) A Mariacatina, ma’ matri; III) A mia moglie; IV) A Elyza, mia figlia; V) Nei giorni chiusi; VI) A Malvagna, il paese della memoria ritrovata; VII) Sulla vita e sulla morte. Quanto dire che Chiantulongu racchiude, come le altre raccolte e forse più compiutamente – alla stregua di un organico canzoniere d’antan – la vita e la storia personale dell’autore, talché, a lettura ultimata, sapremmo tutto di lui anche se non lo conoscessimo affatto: il legame fortissimo con la sua famiglia di umili origini (padre, madre, moglie, figlia); l’amore per Malvagna, il paese nativo (da cui il Russotti padre, indomito contadino in cerca di lavoro e di fortuna era emigrato per trasferirsi in Argentina, insieme con la moglie, e a cui, come tanti, era ritornato nel 1959, con moglie e figli); la sensibilità sociale, esplicita nella quinta sezione, Nei giorni chiusi, dedicata ai tragici effetti del Covid 19; il suo profondo, insanabile dissidio esistenziale, nella sezione finale Sulla vita e sulla morte. Ma quel che più colpisce è non solo il perfetto recupero, che vi si registra, di termini e locuzioni dialettali forti, efficaci, del tutto inedite (epperò pregne di un ancestrale nitore primigenio), ma anche l’attitudine del poeta a coniugare, sullo stesso asse linguistico, i colori antichi della poesia dialettale e le più ardite forme della poesia contemporanea, senza sbilanciamenti di sorta verso nessuno dei due poli espressivi. Donde, in altri termini, la coesistenza (come in Arrèri ô scuru, ma con maggiore pregnanza), in uno stesso componimento, del registro realistico, tipico della poesia popolare, col registro meditativo, introspettivo, allusivo, tipico della poesia novecentesca. Si veda come nella lirica finale (Davanzi a sti petri) della sezione dedicata all’indimenticabile padre (morto giovanissimo, dopo il ritorno in Sicilia), alla sequenza dialettale «mutu, restu ora, / davanzi ô to’ ricoddu / ‘ngudduriatu e suru» («silente, rimango adesso, / dinanzi al tuo ricordo / avvolto e solo») segua, senza soluzione di continuità, un verso allusivo di chiara matrice ermetica: «ndâ frèvi d’u sirènziu» (nella febbre del silenzio).[44] Allo stesso modo, nella lirica finale (Cu ddu sapuri di …) della sessione dedicata alla madre, morta dopo lunga e penosa malattia, sono perfettamente associate locuzioni contadinesche («ô brisciri d’u matinu») e forme di levatura novecentesca: «E di ora â fini / nniàvi u to’ coppi / ndô ballàriari mutu / d’u tempu!» («E da ora alla fine / annegavi il tuo corpo / nella muta sospensione / del tempo!»).[45] Ma le citazioni di questo che pare essere lo stemma esemplare della poesia di Josè Russotti sono numerosissime, nella raccolta. Ci si limita a evidenziarne qualche altra particolarmente pregnante.

Nella sezione dedicata alla cara moglie, la lirica Dumannu a tia dipinge la moglie con un dittico «muta ti nni stai ‘i canzàta / intra un faddari chinu ‘i pinzèri» («muta te ne stai in disparte / dentro un grembiule colmo di pensieri»),[46] dove il primo verso («muta ti nn stai ‘i canzàta») è desunto tale quale, dalla parlata locale mentre il secondo («intra un faddari chinu ‘i pinzèri») è immagine di raffinata caratura stilistica. Eppure, l’accostamento non stride affatto. Allo stesso modo, in Rìnnina d’amuri, la dolce figlia Elyza, prematuramente scomparsa, giunge «lorda ‘i brizzi» («sporca di sorrisi») – il di specificativo dopo l’aggettivo è usuale nelle poesie degli Ermetici –, ma la similitudine del verso successivo («commu na rìnnina ô giuccu» – «come una rondine al nido») è normale nel linguaggio popolare.[47] La stessa armonica associazione di stilemi popolari e figure retoriche ultramoderne si coglie agevolmente nelle liriche della sesta sessione, dedicata a Malvagna, dove l’amore del paese natio fa tutt’uno col dolore per «la sua sventura» di «paese che muore»: «Chiossai d’u ‘nvernu iratu / disìu a nivi janca di latti, / quannu u cantu d’i cicari fa a junnata. / Nivi fina di farina cinnuta / a cummigghiari i tènniri chiantimmi. / Mentri, / tutt’attornu ô paisi / matura u tempu, / avanza a motti» («Più dell’inverno gelato / bramo la neve bianca di latte, / quando il canto delle cicale fa la giornata. / Neve fina di farina setacciata / a coprire i teneri boccioli. / Mentre, / tutt’attorno al paese, / matura il tempo, / avanza la morte»).[48] Ugualmente intessuti di forme lessicali tratte dall’immaginario popolare di Malvagna e di stilemi postermetici sono i componimenti dell’ultima sezione, in cui si squaderna l’amara condizione esistenziale del poeta che cerca e non trova un senso della vita: «Non viddu nudda differenza / tra chiddu chi fu aieri / e chiddu chi sarà dumani: / suru a motti mmisca e sracancia i catti / subbra a tuàgghia d’a vita» («Non vedo nessuna differenza / tra quel che accadde ieri / e quel che accadrà domani: / solo la morte sconvolge e muta le carte / sulla tovaglia della vita».[49] Unico conforto la poesia, che va custodita come un tesoro: «Si campa d’amuri e di nenti, / di llammìchi e sustintamenti / ma non livàtivi a puisia d’u cori!» («Si vive d’amore e di nulla, / di stenti e sostentamenti / ma non toglietevi la poesia dal cuore!»).[50]

Il bifrontismo tematico e stilistico (tra la dimensione lirica, introspettiva, memoriale e la vocazione sociale), in composizioni magistralmente metaforiche ma viepiù schiarite in direzione della leggibilità assoluta, appare, con nuovi intendimenti, nella terza raccolta poetica in lingua di Josè Russotti,[51] che chiude, all’insegna del sublime, il portentoso biennio 2022-2023.

Delle quattro sezioni di cui il libro si compone, la prima (Pieghe all’ombra della sera) è imperniata sull’io dolente e tuttavia indomito del poeta, consapevole del sua solitudine e del suo disagio esistenziale in un mondo incapace di amare e di capire: «Ramingo e solitario nell’anima, orfano di padre e di madre assente, / stretto nell’angolo buio, spegnevo le mie paure / cantando tristi canzone d’amore / […] Un batuffolo indifeso / attorno al lordume dei grandi, / teso a implorare carezze / che nessuno mai seppe donare»;[52] «Con le mani impazienti / sul pomo della notte, / erro per l’infinito / come un bimbo col suo veliero : / cosmonauta vagabondo / nelle costellazioni dell’Io /  per scoprire ciò che la vita / non ti permette di scoprire »;[53] «Smarrito nelle pieghe della vita, / vivo la duplice angoscia / sui ponti di rive opposte»;[54] «Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere. / […] lontanissimo / dalla vanità dei colti / come un rozzo guascone, / prenoto ancora un posto / per nuovi sogni / da raccontare».[55] Donde, l’avvertenza dei limiti personali («Sono / figlio della Poesia e mi nutro di parole, / vivo nella lusinga dei miei errori / e solo nei versi la mia morte desiste dal morire»;[56] «Parea una piccola screziatura / nei riflessi dell’alba policroma, / […] Parea la fine del suo tenero silenzio / […] È la mia fragile ombra, / che mi segue ancora […]»,[57] [il corsivo è mio]), ma anche l’orgoglio dei valori coltivati: «In un urlo feroce di bandonéon argentino / cantai al cielo / lo sdegno per le futili apparenze / e il falso moralismo, / fino a far tremare i polsi / degli astanti».[58] Anche se lo sdegno per la malevolenza dei potenti sconfina talora negli eccessi della paranoia: «Li avevo tutti addosso / l’aculeo piantato sulla lingua, / la stizza del prete dietro la schiena, / gli occhi degli altri fissi su di me»;[59] «Non mi turba il vostro stupore / né l’infamia delle parole».[60] Quanto dire che, in Ponti di rive opposte, Russotti fa un passo avanti: non indulge all’elegia del paradiso perduto dell’infanzia, come in Brezza ai margini, ma oppone più decisamente la sua alterità di «rozzo guascone» alla cultura dominante. E, su questa stessa lunghezza d’onda, la polemica esplicita contro critici e poeti mediocri ma acclamati dai più: «[…] mi ritrovai fra le mani / esempi di poesia macellata / da finti poeti, svigoriti di parole / e vuoti endecasillabi rimati»;[61] «Ma se la vivida poetica degli avi non traspare / nei monitor accesi della sera / l’indicibile oltraggio cova / nella stupidità degli accoliti. / Nei predicatori del nulla / e nella fragorosa autocelebrazione / di chi non conosce la decenza. / Non è il male che insinua le menti /ma l’estremo dilagare dell’insanabile / mediocrità».[62] Dove sono esplicite le isotopie disforiche di «finti poeti», «vuoti endecasillabi», «stupidità degli accoliti» ecc., sull’asse semico della «mediocrità» come vero «male». Né manca, in questa prima sezione, del libro la testimonianza della religiosità (quasi francescana) del poeta, tuttavia immune da ogni forma di clericalismo: «ho imparato a domare l’orgoglio / e ho camminato al fianco degli scartati»;[63] «Ogni Pasqua che arriva non lenisce il mio dolore / è solo un giorno come tanti: / il rito della resurrezione è una parte / che non mi si addice».[64]

Anche da questa sintetica documentazione, si possono cogliere alcuni aspetti precipui dello stile poetico di Josè Russotti, il quale a) predilige un lessico chiaro fino ai limiti dell’oltranza («lordume dei grandi», «futili apparenze», «il falso moralismo», «poesia macellata», «predicatori del nulla», «l’insanabile / mediocrità»), b) adotta talora un’inedita, raffinata associazione di  nome  e aggettivo («alba policroma»,  «tenero silenzio», «fragile ombra»[65] e costrutti metaforici («sul pomo della notte»,[66] «provo a scavare con le unghie strappate / tracce del mio passato»;[67] «Lo strazio / è sale che sa di abitudini»[68]) nonché similitudini («danzano i pensieri / come l’erba fra i sassi»),[69] e immagini («Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere»)[70] molto personali, desunti chiaramente dalla cultura contadina e magistralmente innestati in contesti verbali e stilistici di diversa caratura.

La seconda sezione del libro, Naufragio, contiene poesie intessute intorno all’amore coniugale, non privo di forti accensioni erotiche, corporali. Si alternano, difatti, liriche tenerissime che cantano – o recuperano dai flussi della memoria – momenti di assoluta tenerezza («[…] la tua mano sul viso / mi dà un senso / di raro sollievo»),[71] a cui non difetta mai, però, l’inevitabile legame carnale del vero amore: «Nell’approssimarsi incerto del mattino, / quel poco o molto che rimane / del tuo splendido sorriso / ha il verso di certe nenie infantili. E […]  riparto / per nuove galassie inesplorate / annegandomi, da ora alla fine, nell’insenatura del tuo / florido petto».[72] Il poeta esprime, invero, sentimenti antichi, universali, forse imperituri, con un linguaggio forte, inusuale, pregno di fremente, non dissimulata carica erotica: «Linfa e sudore coprono / la tua pelle di sposa fedele, /mentre l’intrepida mano / affonda nella verticale ambìta / della tua calda ferita. Le dita la sfiorano appena / per non fermare / l’estasi sublime / del ritrovato desiderio».[73] Non casualmente, le isotopie erotiche – «sudore», «pelle», «intrepida mano», «calda ferita», «estasi», «desiderio» – convivono armonicamente, nei contesti citati, con quelle della castità coniugale: «raro sollievo», «splendido sorriso», «sposa fedele». E vale, a stento, la pena di sottolineare come tali isotopie siano, di norma, antitetiche, in gran parte della cultura e della poesia moderna, dove permane la scissione antica, forse di origine cattolica (più che cristiana), della donna nelle due ipostasi di angelo (madre, moglie, sorella) e demonio (amante, prostituta). Certo, poetesse come Alda Merini, Patrizia Valduga e la messinese Iolanda Insana hanno ampiamente ricomposto, nelle loro opere, quella orrenda scissione, consegnando al lettore un’immagine unitaria della donna, ricca di luci e ombre, di carnalità e di spiritualità (come in tutti gli esseri viventi). E tuttavia la poesia di Russotti assume, anche in questo ambito, un rilievo non marginale.

La terza sezione, Il Lavacro, ritesse, con accenti di assoluta purezza espressiva, l’amore del poeta per la madre scomparsa: «Solo nell’approssimarsi dei giorni / quel poco o molto / che mi è rimasto di te e di me, oh madre mia, / assumerà il verso / di certe nenie infantili»;[74] «La rivedo ancora, in un sogno di sempre, / quando prima della scuola / mi sistemava i bordi del bavero bianco».[75] Se non manca, invero, in alcuni componimenti di questa e nelle altre sezioni, così come nella precedente silloge, qualche oscurità superflua (di matrice ermetica), bisogna riconoscere che sfiora i vertici del sublime la suddetta lirica III di p. 77, in cui è ridotto al minimo l’armamentario poetico e il dettato, pur conservando il ritmo inconfondibile della poesia, si accosta molto alla prosa: «Le braccia incrociate sul petto / davano il senso compiuto dell’atto finale: / crudele da vedere. Duro da scordare. / Eppure, alla fine, a guardarla sul volto / pare che ci sorridesse ancora» (p.78).[76] Negli ultimi due componimenti del Lavacro, il poeta-figlio rimpiange, con la stessa composta premura la scomparsa del padre: «Piansero i tuoi figli indifesi / […] aspettando ancora e per sempre / il vano ritorno!».[77]

La vocazione sociale del poeta è presente, infine, insieme con qualche, allusiva lirica di congedo («avverto il lento declinare dell’ombra»),[78] nell’ultima sezione del libro, In Memoria. Josè Russotti, sensibile, in ispecie, al dramma dell’emigrazione, rievoca lo scempio del corpicino del piccolo Aylan, «curvo sul muto arenile di Bodrun», dove «al duro infrangersi dell’onda / si estinsero i tuoi sogni»,[79] o leva un inno solidale in ricordo di un eroe siciliano, militante di Democrazia proletaria, noto per le sue denunce contro Cosa Nostra, da cui fu assassinato il 9 maggio 1978: «la mia anima impura /non rinuncerà al tuo canto possente / dell’ultima volta: grido superbo / di agile armonie» (A Peppino Impastato),[80] o leva un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino, pressoché dimenticato, che ha rubato «parole alla terra / e le lasciò andare al vento» (Un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino).[81]

Una strana sezione, interna alla sezione In Memoria, è costituita da una sola lirica, Per Amalia, dedicata alla poetessa Amalia De Luca, amica e sodale di Russotti, peraltro presente nella raccolta con quattro sue liriche che aprono ciascuna delle quattro sezioni della raccolta stessa. Della poetessa palermitana, versata ai ritmi lievi, armoniosi, sincopati di una poesia luminosa, ricca di cieli, venti, mari, fiori, uccelli, con aperture improvvise all’assoluto, Russotti rimemora, con profonda simpatia, «il tocco lieve delle fragili ali», le «ciglia di teneri turioni», le parole «di rara bellezza», il corpo che resiste al «tempo delle stagioni», la «voce scavata dal profondo dell’anima», ma soprattutto la serena cordialità di chi lo chiama «nel cuore del silenzio per dirgli che l’ibiscus / non fiorisce più nel suo terrazzo».[82]

Quanto dire, in conclusione, che il poeta siciliano di Malvagna si autentica, senza meno, come una delle voci più originali e autentiche della poesia contemporanea. E vien fatto di pensare che quella saldatura tra passato e presente, perseguita invano dal poeta Russotti nella vita, si realizzi perfettamente sulla pagina, nei suoi componimenti poetici in dialetto e lingua.


[1] Josè RUSSOTTI, Fogghi mavvagnoti, Edizione libera, Malvagna (ME), 2002.

[2] Ivi, p. 28.

[3] Ivi, p. 33.

[4] Ivi, p. 10.

[5] Ivi, p. 24.

[6] J. RUSSOTTI, Spine d’Euphorbia, Il Convio Editore, Castiglione di Sicilia (CT), 2017.

[7] Ne ha detto, con dovizia di particolari, lo stesso Russotti, in una esaustiva pagina (Come sono diventato un poeta) redatta dopo la presentazione, presso la Biblioteca Regionale Universitaria di Messina, di Brezza ai margini (ved. infra) nel 2022.

[8]Ivi, p.15.

[9]Iv, p. 45.

[10] J. RUSSOTTI, Arrèri ô scuru. Dietro al buio. Poesie in vernacolo siciliano e lingua italiana, Controluna, Roma 2019.

[11] Ivi, p. 18.

[12] Ivi, p. 24.

[13] Ivi, p. 56.

[14] Ivi, p. 60.

[15] Ivi, p. 68.

[16] Ivi, p. 72.

[17] Ivi, p. 74.

[18] Ivi, p. 80.

[19] J. RUSSOTTI, Brezza ai margini, Edizioni Museo Mirabile, Marsala, 2022.

[20] Ivi, p. 15.

[21] Ivi, p. 16.

[22] Ivi, p. 17.

[23] Ivi, p. 18

[24] Ivi, p. 19

[25] Ivi, p. 20.

[26] Ivi, p. 21.

[27] Ivi, p. 22.

[28] Ivi, p.24.

[29] Ivi, p. 25.

[30] Ivi, p. 29.

[31] Ivi, p.30.

[32] Ivi, p. 31.

[33] Ivi, p. 32.

[34] Ivi, p. 33.

[35] Ivi, p. 38.

[36] Ivi, p. 39.

[37] Ivi, p. 37.

[38] Ivi, p. 35.

[39] Ivi, p. 36.

[40] Ivi, p. 37.

[41] Ivi, p. 41.

[42] Ivi, p.43.

[43] J. RUSSOTTI, Chiantulongu Piantolungo. Poesie nella parlata malvagnese e in lingua italiana, Edizioni Museo Mirabile, Marsala, 2022.

[44] Ivi, pp. 24-25.

[45] Ivi, pp.36-37-

[46] Ivi, pp. 40-41.

[47] Ivi, pp. 52-53.

[48] Ivi, pp. 70-71.

[49] Ivi, pp. 84-85.

[50] Ivi, pp.86-87.

[51] Ponti di rive opposte, Nulla die (di Massimiliano Giordano), Piazza Armerina, 2023.

[52] Ivi, p. 31.

[53] Ivi, p. 48.

[54] Ivi, p. 20.

[55] Ivi, p.37.

[56] Ivi, p. 26.

[57] Ivi, p. 40

[58] Ivi, p. 18.

[59] Ivi, p. 30.

[60] Ivi, p. 37.

[61] Ivi, p. 18.

[62] Ivi, p. 43.

[63] Ivi, p. 26.

[64] Ivi, p. 38.

[65] Ivi, p. 40.

[66] Ivi, p. 48

[67] Ivi, p.39.

[68] Ivi, p. 20

[69] Ivi, p. 19.

[70] Ivi, p. 37.

[71] Ivi, p. 55.

[72] Ivi, p. 57.

[73] Ivi, p.  58.

[74] Ivi, p. 75.

[75] Ivi, p. 77.

[76] Ivi, p. 78.

[77] Ivi, p. 83.

[78] Ivi, p. 95.

[79] Ivi, p. 91.

[80] Ivi, 93.

[81] Ivi, p. 94.

[82] Ivi, pp. 99-100. Della poetessa palermitana è stata pubblicata, nel 2021, dalla Fondazione Thule Cultura di Palermo, la raccolta completa di Poesie 2002-2021, preceduta, invero, da una vasta raccolta di saggi critici sulla produzione poetica della stessa (AA.VV., Il problema dell’essere e il richiamo spirituale nella poesia di Amalia De Luca, a cura di Tommaso Romano e Giovanni Azzaretto, Thule, Palermo 2020), che ne ratifica la levatura europea.


Questi testi vengono pubblicati nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionati dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

Francesca Luzzio su “Emozioni senza compiacimento” di Gabriella Maggio

Emozioni senza compiacimento

Apre la silloge Emozioni senza compiacimento (Il Convivio Editore, 2019) di Gabriella Maggio, una pagina di haiku che, in un certo senso, possiamo considerare sinossi dei sentimenti, dei pensieri e delle emozioni che riceveranno più ampia esplicazione nelle poesie che compongono la silloge, il cui titolo è a sua volta indicatore dell’atteggiamento psicologico e razionale con cui la poetessa affida alla poesia il suo sentire perché essa “è una grande madre / accogliente e generosa / alma poësis” (in “La poesia”, p. 40).

L’attributo alma è una parola colta di matrice latina, che deriva dal verbo alere che in italiano significa nutrire, alimentare e perciò dare vita, pertanto la poesia è per lei, proprio come una madre fisica, però dà vita allo spirito e genera perciò catarsi per continuare a essere e ad esserci nel senso heideggeriano del termine, ossia nel costante impegno civile ed etico che dovrebbe caratterizzare ogni essere vivente  per continuare ad andare “con curiosità immutata… ancora  verso il mondo” (poesia “Col tempo”, p. 30) perché la conoscenza  aumenta ulteriormente il desiderio di sapere e agire nella famiglia, nella società, nel mondo.

La poesia è quindi per Gabriella Maggio così come per Amelia Rosselli, “luogo di integrale dicibilità, un equivalente del nesso inconscio/coscienza, un luogo nel quale vengono meno i confini tra interno ed esterno, tra privato e sociale in una completa ricollocazione dell’io nel mondo” (Luperini; Cataldi, La scrittura l’interpretazione, ed. Palumbo).

E così Gabriella Maggio, proprio perché anche per lei la poesia è luogo integrale di dicibilità, ora esprime il suo amaro stupore di fronte alle nuove generazioni che inseguono le news sugli schermi del telefono e scambiano il caos che essi generano con la conoscenza, ora l’ascolto del suono dell’arpa diviene per lei “fiotto dell’acqua sui sassi” (poesia “Ascoltando l’arpa”, p. 20), oppure esprime la sua pietà nei confronti dell’accattone che guarda “avida la moneta” (poesia “Nel cerchio d’oro”, p. 38) e tanto altro ancora in un eterogeneo flusso che guarda fuori da sé e in sé e nello sguardo rivolto alla sua interiorità non può non accorgersi, fra l’altro, del fluire del tempo che nel suo scorrere le lascia tanti ricordi di ciò che è accaduto e di ciò che sarebbe potuto accadere e tutto ormai sta chiuso a chiave nel suo cuore. Né l’accumulo ormai cospicuo è sempre positivo sia a livello esistenziale che sociale, ma l’eterogeneità di eventi e conseguenti comportamenti che la vita nel suo fluire costante genera, non muta nella poetessa la curiosità con cui continua ad andare “ancora verso il mondo” (poesia “Col tempo”, p. 30).  

La libera versificazione trova nella pregnanza linguistica e nell’uso appropriato della metafora e di altre figure retoriche, la sua valorizzazione estetico-emotiva sia che proponga realtà oggettive o penetri nell’essenza umana dell’io.

FRANCESCA LUZZIO

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“Poesia e Resistenza nel Myanmar Post-golpe Militare” nel contesto di Parma Capitale Italiana della cultura 2020-21

In occasione di Parma Capitale Italiana della Cultura 2020-21 è stata organizzata, grazie all’instancabile lavoro della Sen. Abertina Soliani e del Direttivo dell’Associazione per l’Amicizia Italia Birmania Giuseppe Malpeli, una serie di iniziative dedicate alla situazione in Myanmar oggi, dopo il colpo di stato del 1 febbraio.

Il legame tra Parma, Aung San Suu Kyi e il suo popolo cresce ogni giorno e si rafforza ancora di più con questa iniziativa di carattere internazionale. Il programma è osservabile cliccando qui.

In particolare, per gli interessati di poesia, si segnala che giovedì 18 novembre, Stefano Rozzoni e Federico de Ponti, membri dell’Associazione per l’Amicizia Italia Birmania Giuseppe Malpeli, terranno un intervento intitolato “Poesia e Resistenza nel Myanmar Post-golpe Militare”. Attraverso l’analisi di alcuni testi dei poeti contemporanei K Za Win e Khet Thi si prenderà in esame il legame tra poesia e Resistenza in Myanmar a seguito del golpe militare del 1 febbraio 2021 tracciando un filo rosso che ricerchi analogie tra la Resistenza italiana e quella del paese asiatico. L’intervento, che fa seguito alla camminata organizzata dagli studenti del Liceo sui luoghi della resistenza parmigiana, vuole porsi come occasione di riflessione sul valore della democrazia attraverso un approccio testuale.

“La ragazza di via Meridionale”: esce il saggio di L. Spurio sulla poesia di Anna Santoliquido

È uscito poche settimane fa, per i tipi di Nemapress Edizioni di Roma, il volume saggistico dal titolo “La ragazza di via Meridionale”, opera del critico letterario marchigiano Lorenzo Spurio interamente dedicata all’attività poetica della poetessa, scrittrice e saggista Anna Santoliquido.

L’opera si apre con un contributo critico del professore Vincenzo Guarracino posizionato quale prefazione, testo che apre e anticipa ai tanti argomenti trattati nel corso del libro. Il volume, che porta quale sottotitolo “Percorsi critici sulla poesia di Anna Santoliquido”, è nato ed è stato sviluppato nel corso del 2020, a continuo contatto con la stessa autrice destinataria delle pagine del saggio, spiega l’autore.

Ad arricchire ulteriormente l’opera, organizzata in vari capitoli dove risalta, per ricchezza di contenuti l’intervista condotta da Spurio all’Autrice, è la postfazione del critico Neria De Giovanni, presente nel triplice ruolo di responsabile di Nemparess Edizioni, Presidente dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari e di amica della Santoliquido. Pregevole l’immagine di copertina, opera del noto pittore serbo Zoran Ignjatović, attentamente scelta dalla Santoliquido che, nell’est Europa – come ricorda Spurio nel corso del saggio – è molto stimata, conosciuta, letta e tradotta.

L’idea del volume – come spiegato da Spurio nell’introduzione – è nata nel corso di un approfondimento sull’opera della Santoliquido iniziato qualche anno fa e che ha portato nel 2019 ad attribuirle il prestigioso Premio alla Carriera in seno al Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” di Jesi. Competizione di prestigio che annualmente celebra la poesia e che ha visto, negli anni, premiati autori di spicco dello scenario letterario nostrano tra cui Dante Maffia, Donatella Bisutti, Marcia Theophilo e Matteo Bonsante.

Nel volume ben viene posto in evidenza il lungo, saldo e apprezzato percorso poetico pluridecennale di Anna Santoliquido, lucana di nascita, barese di adozione, ideatrice del Movimento Internazionale “Donne e Poesia” che negli anni ha prodotto un’attività di promozione culturale e di solidarizzazione assai importante, finanche convegnistica ed editoriale, in tutta Italia.

Ulteriori contributi che arricchiscono il volume non venendo mai meno all’unitarietà dell’opera sono alcune liriche della Santoliquido proposte in versione latina, tradotte dal professore Orazio Antonio Bologna e un contributo del critico romano Cinzia Baldazzi sull’opera della Santoliquido “Una vita in versi. Trentasette volte Anna Santoliquido” da lei presentato tempo fa nella Capitale.

Anna Santoliquido dal 1981 ha pubblicato ventuno raccolte di poesia un volume di racconti e ha curato diverse antologie. È autrice dell’opera teatrale “Il Battista”, rappresentata nel 1999.  Le sue poesie sono state tradotte in ventitré lingue. È presente in numerose riviste, saggi critici e antologie nazionali e straniere. Ha conseguito numerosi riconoscimenti letterari nazionali e internazionali. Nel 2017 le è stata conferita la Laurea Apollinaris Poetica dall’Università Pontificia Salesiana di Roma. Numerose sono le pubblicazioni critiche sulla sua attività poetica tra cui: “Anima mundi. La scrittura di Anna Santoliquido” (2017) e “Una vita in versi – Trentasette volte Anna Santoliquido” (2018) entrambe a cura di Francesca Amendola. Ad esse va ad aggiungersi, ora, il ricco e articolato volume di Lorenzo Spurio.

“Itaca nel cuore” di Stefania Pellegrini, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Vorrei

giungere in vista di Itaca,

sentire la tua mano sulla guancia,

come rugiada nel cuore d’una rosa (97).

Di recente pubblicazione è la nuova raccolta di poesie di Stefania Pellegrini, autrice nata in terra d’Irlanda e da tanti anni residente nei pressi di Aosta. Non si tratta della sua opera prima e numerosi suoi testi sono già apparsi in rete, soprattutto sul suo sito personale «Parole Nomadi», su varie uscite della rivista di poesia e critica letteraria «Euterpe», nonché su antologie di premi letterari.

Il nuovo volume, edito per i tipi di CTL di Livorno, porta il titolo di Itaca nel cuore e già da questa definizione che richiama il mito classico – e con esso il mistero del viaggio – compendiamo che il percorso che la Nostra ci propone d’intraprendere immergendoci nelle sue liriche ha qualcosa d’analogo a un itinerario odeporico vale a dire di quella letteratura di viaggio che non è semplice cronaca di trasbordi e viaggi fisici quanto – ben più spesso e in forme ancor più profonde – di carattere esistenziale e interiore.

La Pellegrini ha deciso di suddividere il copioso materiale poetico che qui trova posto in varie sotto-sezioni che, in realtà, appaiono più come delle vere e proprie micro-sillogi che possono essere concepite, lette e dunque fruite nella loro singolarità: sono autosufficienti ai contenuti e complete e non necessariamente debbano trovare riflesso e collegamento con le altre sezioni. Ed è la stessa Autrice a chiarire nella nota introduttiva del volume quella che è stata la sua intenzione alla base di questa necessaria e ben condotta cernita di titoli e relativa catalogazione in sottogruppi. C’è una prima sezione che porta il titolo “La forma dei giorni”, enunciato nel quale non facciamo difficoltà a percepire l’intenzione della Nostra di volersi riferire a quegli aspetti della vita odierna, agli ambiti colloquiali e transeunti dell’uomo contemporaneo, in balia tra pensieri e ossessioni, a volte ostaggio di incomprensioni, altre pervaso da moniti di fuga e sempre – comunque – fortemente attraccato alla vita concreta nella quale la Nostra ritrova il senso delle cose in circostanze di meditazione, pausa, riflessione, ricerca di sé e attribuzione di significati all’essenziale che ci contraddistingue.

A rivelare questo (possibile) atteggiamento sono i titoli stessi delle poesie che si trovano contemplate in questa prima parte: “Sono così oggi”, “Cambiare prospettiva”, “Mia solitudine”. Sono, in effetti, testi particolarmente intimi in cui l’interiorità della Nostra viene offerta al lettore non tanto perché ne faccia testamento proprio quanto perché, senza difficoltà né superfetazioni, può ritrovarcisi egli o ella stessa. Pensieri, dubbi, divagazioni, riflessioni e rievocazioni, ma anche memorie, ricordi che riaffiorano, promesse, visioni incantate o comunque piacevoli (non sempre in linea con l’animo dell’io lirico) fanno da sfondo a questi componimenti. Penso anche a testi quali “E nasce il giorno” e “Il mare”.

D’altro canto non possono – né devono – passare inosservati gli scambi lirici nei quali la Nostra tematizza la vita nella forma del percorso, tramite l’allegoria del viaggio, metafora nota del cammino dell’uomo, viandante in terre che non conosce, scopre, caratterizzato da continue dislocazioni per ragioni dettate da aspetti pratici della vita. Si pensi ai componimenti “La locomotiva”, “Andata-ritorno” ma anche “In quell’andare” e “Il viaggio” dove questo si fa particolarmente palese.

Noto è il mito di Ulisse che ritorna ad Itaca dopo numerose peripezie di varia natura di cui Omero dà di conto in una delle epiche più studiate e affascinanti dell’intera letteratura mondiale. Eppure al suo ritorno Ulisse non viene riconosciuto da chi l’ha visto nascere e crescere (con eccezione della nutrice Euriclea oltre che del cane Argo s’intende), dal suo popolo e questo elemento – che vedrà la sua agnizione nel momento che il personaggio considera valevole di far cadere il mondo di impostura e tradimento che per i tanti anni di sua assenza si è creato – ha dato spazio alle considerazioni critiche e alle interpretazioni più varie, a partire dalle più banali per affrontare circostanze situazionali e logiche in effetti che non hanno nulla di inferiore a un chiaro esperimento sociologico. Credo che il non riconoscimento di Ulisse al suo approdare su Itaca non derivi dal semplice fatto che lui è di molto cambiato, invecchiato, barba incolta e travisato da mendicante, e dunque restituisce un’immagine assai differente da quella che tutti hanno di lui, ma attiene anche all’impossibilità di saper cogliere l’essenziale, l’incapacità di scorgere l’autentico, la miopia e la faciloneria che portano l’uomo in senso generale ad essere connaturatamente più propenso al giudizio (e al pregiudizio) che al ragionamento e al collegamento meditato. È pur vero che Ulisse è diverso, ma non solo fisicamente, dunque nel mero aspetto, è un uomo formato, completamente maturo, temprato dalle fatalità della vita, le cui vicissitudini lo hanno ispessito e reso saldo in una maniera da averne fatto un uomo essenzialmente diverso da com’era. Eppure si mantiene in lui la compassione e l’amore che nella scena con la ritrovata Penelope – l’unica sofferente della sua assenza – risalgono in superficie. Ecco, la poesia della Pellegrini ha qualcosa di analogo a questo comportamento ambiguo di Ulisse: al di là del fascino arcaico verso il mare visto sia come ecosistema puro ma anche come elemento di attraversamento verso spazi diversi e lontani dai propri, nelle poesie della Nostra sembra di percepire, pur diluiti in contesti emozionali introiettati ed esperiti come propri, i motivi del viaggio e dell’evasione, dell’allontanamento e della crescita interiore e morale, dell’asperità della vita, della condizione di esule, ma anche del ritorno, del recupero di quel che si credeva perso e di cui, non senza difficoltà (proprio come la memoria dei nostri cari ormai sottratti al tempo), possiamo riappropriarci.

Un’illustrazione del ritorno ad Itaca di Ulisse

La seconda sezione del volume, dal titolo “Oltre le pagine sporche”, con un sottotitolo inciso che recita “Incontri”, ha a che vedere con la dimensione spiccatamente civile della Nostra, di cui sulle pagine della rivista «Euterpe» si è già avuta, più volte, dimostrazione. La Pellegrini abbraccia l’arma della poesia per parlare di drammi, situazioni di difficoltà, condizioni di vita marginali e di sopraffazioni, contesti di violenza, infanzia negata, situazioni d’indecorosa indifferenza e di crudeltà umana. Sono testi mossi – in taluni casi – da episodi concreti, partoriti da una cronaca efferata e iterata, così dolorosamente colpevole di riempire l’informazione che ci giunge da angoli reconditi del mondo. Ma, altrettanto spesso, anche da situazioni e contesti della nostra Provincia, che accadono poco distanti da noi, nell’indifferenza e nell’incomprensione dei più, mix deleterio che impoverisce il senso di concordia umana che andrebbe rinsaldato e protetto. Doverosamente preponderante appare il tema del fenomeno migratorio: “Fiore del deserto / vertigine bronzea di vellutata pelle, / occhi grandi incrostati di sale / colmi di mistero, e di passione, / dalla furia del mare sgranati di terrore” (53) si legge nella poesia “Amàli” che apre questa sezione del volume. Il tema ritorna in “Alya, Alya” che ci narra di un altro naufragio divenuto eccidio: “Brucia le labbra l’acqua salata, / ostile, ansiosa di tenermi con sé. // […] // L’acqua sale, le labbra, gli occhi bruciano” (58-59).

Tra le altre rievocazioni di sciagure umane che la Pellegrini richiama quali motivi trainanti di un duro affondo di sgomento e denuncia vi è la shoah con un ricordo relativo a undici giovani fucilati a Nus, in provincia di Aosta e dove l’Autrice risiede, nel luglio del 1944. “Non piangere madre, / un tempo c’è stato, e non è stato vano” (55) recita l’explicit, in un singulto di dolore che non svanisce con gli ultimi versi della lirica e che, invece, pare raggrumarsi come uno spiacevole nodo alla gola. C’è una grande partecipazione dell’io lirico in questi testi, lo si nota dal grande garbo verso una materia spesso abusata e maltrattata – anche in poesia – fatta oggetto di facili utilizzi, quando non addirittura di indecorose strumentalizzazioni. Nelle poesie della Nostra si riscontra un pathos la cui intensità risulta difficilmente configurabile a parole. Alto è il senso di pietas della Pellegrini, di quell’ascolto gratuito e doveroso verso l’altro che, anche nella circostanza di episodi ormai lontani e consegnati alla Storia, non dovrebbe venir meno. C’è il senso dell’umanità, trafitta dalle sofferenze, ma anche il monito a non dimenticare per non cadere in baratri analoghi. Se la Storia è testimonianza di vita, diviene doveroso e imprescindibile per l’uomo d’oggi farsi testimone per le nuove generazioni.

Sguardo attento anche verso l’esodo del popolo curdo sottoposto al continuo esilio da una terra che lo rende “appeso al filo della speranza” mentre vive disperato, sospeso, tra “un lembo di terra nomade” e “un recinto di filo spinato” (61), all’infanzia negata dei bambini siriani con “i sogni impigliati sul filo spinato” (63), finanche a un meno noto genocidio degli indiani Sioux noto come il “massacro di Chivington” che vide come scenario il Colorado nel 1864: “Agnelli al suolo sacrificati, / sciabole sguainate, corpi come grano / mietuto sui campi” (66). La Nostra dedica un componimento anche per coloro che, avendo commesso reati, si trovano “relitti ai margini del vuoto, / chius[i] nel grigiore delle ristrette mura” (67), quelle degli istituti penitenziari. Storie di profughi, di immigrati che muoiono nel loro tragitto che dovrebbe condurli in un pase dove cercano pace e futuro, spose bambine, violenze assolute, bambini soldato (“Perdona mamma muoio, / preme un’ombra nera / sulla coscienza”, 75), infanti martoriati nel corpo e assopiti nell’anima, esuli in cerca di uno spazio che possa accoglierli, deportati nei lager, donne stolkerate e abusate (“la voce melliflua che ti adula / con parole spacciate per amore / […] / ti viola insistente”, 78), manovalanza straniera soggiogata e vilipesa da avidi caporali, sono i nuovi martiri contemporanei.

Si riscontrano anche invocazioni e tentativi di dialogo con la luna: “Parlaci / delle nostre imperfezioni” (11), promesse (non facili) fatte a sé stessi, dettate da un’altalenante convinzione dell’esistenza di motivi di forza atti a imprimere un segno di cambiamento o a fortificare meccanismi di resilienza: “Vincerò le stupide paure / […] / Per affrontare / le rotte del mare sconosciuto // […] // e troverò il coraggio / per superare gli ostacoli” (15), convincimenti entusiastici dinanzi a un’avvincente scoperta: “Ma oltre / lo sguardo mira, / verso quel mare che tutte le contiene. / Ancora salperò!” (19), finanche il riconoscimento di una vulnerabilità data dalla carenza di presenze amorose e rassicuranti: “Posa la polvere e lame di luce / l’odore dei ricordi, / aleggia tra le finestre e il comò, / con il passo silente della sera, / e il marchio doloroso delle assenze” (24) mente l’insicurezza diffusa della condizione instabile e logorante del dubbio crea ansia: “Cresce – prolifica / in cerca d’attenzione / come gramigna nell’orto, / e insinua / granelli d’incertezza, / un tarlo nella mente / che rode fin dentro il cuore” (28).

Con l’ultima sezione del volume, “L’impronta del tempo”, è come se si completasse quel percorso circolare che la Nostra ha intrapreso e concesso a noi lettori di intraprendere con lei. Ritornano, infatti, ma in maniera ben più sentita e in forma quasi opprimente, i temi dell’infanzia (“Mi guardo, mi riguardo / cercando la ragazza nella foto / […] / Scopro a illudermi, / a abortire il ricordo”, 88), dei ricordi (“sola mi rifugio / tra le pieghe del ricordo / […] / mentre andavo incontro all’anse / del grande mare, / incurante dei venti contrari”, 98), dell’inesorabilità del tempo che porta la Pellegrini a ragionare su questioni supreme, d’impossibile decodifica per l’uomo, eppure temi impellenti, ricorrenti, a tratti dolorosi, necessari, che svelano un’accentuata dote intellettiva e cogitante: “E mi chiedo perché, / nell’essere non è il rimanere” (89) scrive nell’affascinante testo che porta il titolo “Sfoglia il tempo la mia vita”. Grumi di nostalgia in quel “suono dei tuoi passi andati” (100) si assommano a un senso di vera angoscia dettato dal sentimento dell’assenza (“Ti cerco – non ti trovo, / […] // Queste ore a contare / il tuo ritorno”, 101) e trovano compimento, nell’adesione alla prepotenza della realtà, che smentisce veli e smantella illusioni: “Cede la foglia il suo stare, / da un fiato di vento si lascia rapire. // […] // Vedi? / Niente resta lo stesso” (105).

L’acqua, lo scivolare, lo scorrere, il fluire, divengono in questa sezione del volume tutte sfaccettature di quell’andamento sorgivo e impetuoso improntato al divenire e, in quanto tale, irrefrenabile: immagini e riflessioni di un tempo che cambia perché progressivamente s’allontana da quel passato che ha impresso le nostre esistenze. Tale percorso – come già accennato – non sempre si mostra di facile accettazione per l’uomo perché, adombrato da meccanismi inconoscibili e restio a conformarsi alle sue precipue volontà, produce sperdimento e incomprensione: “non trovo risposte / ai miei richiami” (91), scrive l’Autrice.

LORENZO SPURIO

Jesi, 07/05/2021

Note: La riproduzione del presente testo, sia in formato integrale che di stralci e su qualsiasi tipo di supporto, non è consentito se non ha ottenuto l’autorizzazione da parte dell’autore. E’ possibile, invece, citare dall’articolo con l’apposizione, in nota, del relativo riferimento di pubblicazione in forma chiara e integrale.

“Frammenti” di Francesca Costantini. Commento critico di Lorenzo Spurio

Il presente testo, scritto quale recensione al volume “Frammenti” (Bertoni, Perugia, 2020) di Francesca Costantini, e tale già diffuso su varie riviste online e cartacee, verrà inserito quale postfazione alla ristampa del volume nel corso del c.a.

Ho letto con piacere questo libro – opera prima di Francesca Costantini – che ho avuto l’occasione d’incontrare varie volte in seno ad alcune iniziative poetiche. Noto con piacere che nella raccolta figurano alcuni testi che la poetessa aveva letto nel corso di una manifestazione poetica itinerante tenutasi nel 2019 nelle Marche. Vincitrice della tappa svoltasi ad Urbino, presso la Sala della Poesia di Palazzo Odoasi, si era automaticamente aggiudicata l’accesso alla finale del Ver Sacrum – questo il nome del progetto sviluppato dall’Ass.ne Culturale Euterpe – dove con grande entusiasmo era stata proclamata vincitrice indiscussa della gara poetica itinerante. La cerimonia finale, inizialmente pensata per tenersi a Jesi, si tenne a Cupramontana in un contesto particolarmente piacevole, all’interno degli spazi suggestivi del MIG – Musei in Grotta.

Ricordo, tra i suoi testi, in particolare, la lirica “Terremoto” che mi colpì molto sin dalla prima volta che l’ascoltai pronunciata dalla stessa poetessa. Con uno sguardo attento sul testo, brevi accenni verso un pubblico in ascolto, la voce sicura non restia a un dolore intimo contenuto nel dramma di quegli enunciati. Ritrovo ora la poesia pubblicata in questa silloge. Conservandone un ricordo impressivo non ho potuto che soffermarmi a leggerla più volte notandone – anche nell’ordito dello scritto – la perfezione formale della lirica, oltre all’indiscussa capacità espressiva, la forza magmatica di comunicazione che in poesia non è mai qualcosa di scontato né semplice.

La struttura di questo componimento è data da brevissimi versi – in alcuni casi, come nel secondo verso, costituiti da un solo lemma – riuniti a gruppi (mi piace definirli così anche se si tratta di vere strofe) di tre versi. Il linguaggio scarno, volutamente teso a rimuovere il superfluo per far risaltare il necessario tra i lembi di un’assenza dolente che è data dal terremoto che ha prodotto macerie, creato il silenzio e ampliato distanze, è tale che, pur essendo un testo assertivo – lontana l’implorazione e la denuncia, finanche lo sdegno mosso da tensioni civili – arriva con grande potenza nell’ascoltatore. La levità delle immagini, la parsimonia lessicale che contraddistingue tutta la sua poetica, così incisiva e puntuale, nel caso della poesia “Terremoto” fungono da contraltare – non è un espediente, tutto avviene in forma autentica – alla drammaticità delle immagini evocate, al dolore insito tra i versi.

Questa poesia si ritrova all’interno del secondo compartimento di liriche che la Costantini ha raccolto sotto il titolo di “Frammenti di luce”. Nella poesia appena richiamata, che descrive un contesto di stordimento e di scuotimento, tanto fisico quanto emotivo, ritrova (o è intenzionata a ritrovare) la sua “luce” in quella – pur fioca – “speranza [che] riemerge/ e si fa/ voce di vita” (59). Versi, questi, che siglano l’explicit della lirica in un miscuglio di resilienza e fierezza arcaica del popolo marchigiano che dinanzi alle catastrofi e alle privazioni che ha incontrato sul suo cammino non ha mancato mai di far risaltare la sua identità ed espressione orgogliosa e combattiva.

Le poesie che compongono questa sezione – proprio come la poesia “Terremoto” – sono per lo più poesie di buio e di apparente rassegnazione, di tribolazione e di sonno della coscienza che nella sintesi delle vicende poste in oggetto, nelle varie tematiche – molte d’impegno civile – che interessano questi testi, permettono, comunque, l’apertura di un varco di luce, la possibilità di un cambiamento, un bagliore pronto a rischiarare, così come avviene in “Lato oscuro” la cui chiusa richiama un’immagine di luminosità. La poetessa vuol forse lasciar intendere che, sebbene il mondo sia spesso dominato dal male, dai vizi e dalle disattenzioni verso le situazioni di rischio ed emarginazione, la possibilità della luce mai deve essere scartata e, anzi, al contrario, deve essere sostenuta, praticata, percorsa e – chiaramente – condivisa.

Il contrasto oscurità-luce, metafora di discesa-ascesa, morte-vita, abbattimento-speranza, si ritrova in “Candele e lanterne”, un componimento che ricalca il dramma del periodo dettato dall’emergenza Coronavirus (“si spengono / le vite / al soffio di questo gelido vento // Una dietro l’altra / come foglie d’autunno / cadono // […] // come formiche allineate / sfilano / le bare / con dentro i vostri corpi”), fotogramma della triste scia di autocarri militari di Bergamo – nel picco della prima ondata del COVID-19 – che nessuno di noi può dimenticare (né fingere di non aver visto). Anche in questo caso la Costantini prevede una chiusa di speranza, stavolta in chiave spirituale: “Ma le vostre Anime! / Come lanterne volanti / quelle in cielo / salgono / una accanto all’altra”.

Il poeta Stefano Sorcinelli, che sigla l’articolata prefazione al volume, richiama la cosiddetta poesia confessionale di marca americana (Plath, Sexton, Lowell) per avvicinarsi e descrivere la poetica della Nostra. Credo che ci sia senz’altro qualcosa di questa confessione che si muove nelle pieghe dell’io, in quel bisogno non procrastinabile di ascolto interiore, di ricerca personale, di auscultazione, di dialogo intersoggettivo dinanzi ai tristi accadimenti del presente che si fanno storia. Eppure mi pare di poter osservare che è un atteggiamento partecipe e filantropico, teso a una lettura solidale e collettiva di un sentimento comune, dove l’àncora di salvataggio spesso è vista, dietro quella confessione intima che è sorgiva e impellente, proprio in quel desiderio di riferirsi a un’alterità, a un al di là possibile e necessario per poter spiegare (nei limiti di spiegazioni razionali) il senso e la destinazione di accadimenti difficilmente configurabili.

Tanto in “Terremoto” che in “Candele e lanterne”, difatti, sembra di trovare, rileggendo più volte i rispettivi testi, un senso di pacificazione dato dal percorso che la Poetessa attua con i suoi versi. Dinanzi alla spigolosità dei fatti, la Nostra è in grado di entrare nella materia poetica, di viverla, di renderci partecipi della mestizia, della perdizione, del tormento. Questo, però, che in altri autori ha visto avere quali esiti il melenso pietismo o, al contrario, la condanna spietata, nella Costantini prende la forma di una meditazione dai tratti quasi ontologica, di una preghiera, sulle onde di un sentimento che è intimo ma anche plurale, personale e collettivo. Scopo della poesia non è parlare di sé e costruire biografie in versi che hanno forse utilità in chi le produce e che rimangono distanti (quando non incomprensibili) a terzi, ma di rendere universale il reale, di estendere la validità di un accadimento (e di un dolore) alla partecipazione onesta e sentita di una pluralità. Una poesia, quella della Costantini, che si staglia tra preghiera e riflessione, ben lontana da forme gridate di condanna o da insulso vittimismo.

Torno ora, con un percorso à rebours che – spero – mi si perdonerà, alla prima parte dell’opera, anch’essa “giocata” sui contrasti tra bagliori e abissi; essa ci parla di “Frammenti di ombra” dove a dominare sono i temi che girano attorno al senso di mancanza, alla frustrazione dettata dal percepire l’assenza di una persona amata, finanche la passività dolorosa che detta il senso d’impotenza (che non deve lasciar il posto alla rassegnazione) dinanzi ad accadimenti improvvisi e imprevisti che a volte la vita ci mette dinanzi.

Liriche per lo più notturne, dai contorni non meglio definiti, o dove questa patina d’incertezza e oscurità sembra non dare scampo all’io lirico (“mi guarda indifferente / mentre la mia ombra si confonde fra la gente”). Se dovessimo riferirci a uno dei cinque sensi per descrivere queste liriche, al di là della vista il cui senso oggettivamente è pervasivamente presente in tutto il volume nei contrasti testé richiamati, penso che è l’universo sonoro a rappresentare una posizione di rilievo. Poesie quali “Parole”, “Come potevo” (con i suoi incalzanti interrogativi), “Sono qui” (con il caratteristico rimando anaforico), “La tua voce” ricordano – spesso in una logica privativa – la dominanza di una dimensione sonora: percepita o meno, ricercata, evocata, echeggiata, mal udita, inascoltata, etc.

Ad arricchire il volume sono alcuni dipinti della nota Mara Pianosi che, pure, è l’autrice del dipinto curioso, che svela e copre, fa intravedere e immaginare, un particolare del volto dell’autrice colta mentre fissa in un punto imprecisato che è verso un “oltre”, un al di là dal reale, in una direzione approssimativamente verso l’alto. Tale immagine, oltre a fondersi e a rispecchiarsi molto bene col titolo del libro – quel fragmenta che è partizione di una totalità – è un appropriato apripista visivo ai contenuti poetici che questa silloge propone, con un’asciuttezza formale che mai fa venir meno l’alta capacità espressiva e mimetica in noi lettori.

LORENZO SPURIO

Jesi, 01/02/2020

Note: La riproduzione del presente testo, sia in formato integrale che di stralci e su qualsiasi tipo di supporto, non è consentito se non ha ottenuto l’autorizzazione da parte dell’autore. E’ possibile, invece, citare dall’articolo con l’apposizione, in nota, del relativo riferimento di pubblicazione in forma chiara e integrale.

“Variazioni minime” di Luciana Raggi, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Cerco luoghi nuovi

per riporre speranze antiche. (43)

Leggendo la nuova raccolta poetica della poetessa Luciana Raggi, Variazioni minime (Lithos, Roma, 2020), mi sono magicamente subito sentito in sintonia: ho percepito, dinanzi ad alcuni versi di potente fascinazione visiva, un sentimento di vero e proprio coinvolgimento che trovo difficile anche raccontare a parole. La poetessa romana Michela Zanarella tempo fa, scrivendo la prefazione al mio libro di poesie Pareidolia (The Writer, Marano Principato, 2018), concludeva che la mia poetica era quella di una persona che “narra in versi l’invisibile” e questa definizione, per altro molto suasiva e pertinente, credo che possa ben addirsi anche alla presente opera della Raggi dove, manco a farlo a posta, l’apertura è data da una ricca e personalissima nota critica della stessa Zanarella.

Si percepisce, nel dettato che anticipa la silloge multipartita, un fascino intestino con i versi, un animo densamente diffuso nella liricità e nell’evocazione. Nella prefazione – che mi pare di leggere con le lenti di una vera e propria prosa lirica – si legge: “Luciana Raggi si accosta all’invisibile sulla soglia della trasparenza, attraverso una poesia fluida, intuitiva, quasi magica” (6) e poi, ancora, “Variazioni minime è da considerarsi una raccolta raffinata e completa per imparare ad osservare ciò che sembra etereo o introvabile” (7). Stupenda questa definizione che la Zanarella impiega nel tentativo, arcano quanto insondabile ai più, di riferirsi a un campo di possibilità potenzialmente infinito, vago e apparentemente astruso, che si compie in quel senso privo di margine dell’infinito e dell’assoluto. Osservare ciò che è etereo sembrerebbe un paradosso, eppure è proprio questo che l’occhio vigile e la penna parca della Raggi fanno: viviseziona l’invisibile, affronta realtà incorporee, dialoga con lo spazio, circumnaviga l’assenza delle forme. In questo procedimento linguistico che non rasenta lo psichedelico ma che fa dell’ineffabile e dell’inavvertito i motivi trainanti di un sentire superiore, metafisico, nebulizzato, si ravvisa l’impronta – direi per lo più inedita se pensiamo ai precedenti lavori della Raggi – della poetessa romagnola, da tanti anni attiva nella Capitale.

Il raffronto e il dialogo con un contesto che sfugge dall’empirismo per richiedere una soluzione olistica nella Raggi prende la forma di un narrare un non visto, di dar forma all’amorfo, di concretizzare nei versi l’imprendibile. Questo non comporta, come in altri casi è accaduto, a una verticizzazione dell’analogia, alla creazione di un testo spinoso ed enigmatico dove risulta impossibile trovare le chiavi – tanto fisiche che ermeneutiche – per addentrarsi nell’opera, né a una deriva asemantica poiché è proprio nell’interstizio tra reale e possibilità di reale, tra confine tra ciò che sperimento e ciò che, invece, costruisco mentalmente, che la creazione poetica della Raggi deve essere situata.

Questo libro si presenta con una suddivisione interna in ulteriori partizioni, la prima della quale, dal titolo “Tutto cambia”, è anticipata da versi di Julio Numhauser e del beat centenario Lawrence Ferlinghetti. Il tema è quello del cambiamento, dell’irreversibile mutamento che nelle varie forme della crescita, derivazione e consunzione, esso rappresenta. Concetto parallelo a quello della temporalità – uno dei fili rossi del volume – è quello del cromatismo; la Nostra non manca di riferirsi al sistema di luce e ombre, ai fenomeni ottici e luminosi che decretano la visione, nell’uomo, di determinati colori o condizioni particolari. Ecco che il motivo della “Variazione” appare in varie poesie, essa ha a che vedere con la percezione e il grado di avvicinamento all’oggetto che ci si pone di analizzare; non una minuzia né un dettaglio trascurabile dal momento che, come asserisce, “Ogni variazione vale / inclusa questa / di questa scarna parola / da assaporare” (12). In un’altra poesia che appartiene sempre a questa prima sezione si legge: “Minime variazioni / arrivano lentamente” (14). Le poesie di Luciana Raggi, forse più di altre che appaiono fruibili più velocemente ma assai più convenzionali, necessitano una duplice lettura dal momento che vari possono essere i significati a seconda del tipo di legame che vogliamo far emergere tra i singoli vocaboli che la compongono.

I temi che possono essere posti in rilievo dei quali, più o meno direttamente, si parla nella nuova silloge sono il tempo che passa e il tempo d’attesa, il cambiamento e la rinascita, la dispersione e la mutabilità, la rifrazione e il rispecchiamento (spesso, in questa società difficile, risulta complicato mostrarsi per quel che si è ma altrettanto complicato è riuscire a riconoscersi), la cecità emozionale e l’incongruenza di linguaggio. L’idea del cambiamento, come già anticipato, non sempre è benevola, vale a dire in alcuni contesti prende la forma di una cornice nella quale si parla di un’età che decade, che si consuma o dalla quale, per qualche ragione, si tende ad allontanarsi se non addirittura a fuggire.

Che a dominare sia l’isotopia del vedere con tutte le sue relative connotazioni è evidente non solo dal titolo e dall’uso di una terminologia specifica che fa riferimento, appunto, alla dimensione dell’oculistica e dello studio della luce, ma anche alla stupefacente immagine di copertina, dove nei toni di un verde acquamarina e leggermente sfumato si intravede un primo piano di un occhio (non è dato sapere se di uomo o di donna, non è questo che realmente interessa) con la pupilla fissa e lucida, pur nella nerezza delle linee che la contornano, fissa a guardare chi si pone avanti, trasmettendo anche un senso di soggezione: sembra di vedere all’interno del bulbo oculare una perla luminosissima, una superficie argentata che richiama e intimorisce al contempo, una sorta di specchio che ricalca dell’altro. La postura dell’occhio sembra normale, ripreso in un momento comune e a testimoniarlo sono ciglia e sopracciglia che, in posizione rilassata, consentono di trasmettere l’idea, appunto, di un occhio che semplicemente guarda. Che non ammicca, né si sgrana, che non implora né condanna. Soprattutto, che non piange. Il fenomeno di sguardi, di luci e parvenze di forme ricorre un po’ tutta l’opera e si associa a quel mutismo della parola che non è negazione del dire quanto, forse, rivelazione e dialogo con mezzi extralinguistici, tanto prossemici che intuitivi, codificati in un veicolare segni, risposte e messaggi proprio attraverso il “saper vedere” e il “saper mostrare”: “Non servono parole: / l’impatto luminoso / cambia la scena” (21).

Versi di grande impatto e degni dell’alta tradizione lirica se ne trovano a decine in questo libro dignitosissimo nella versione grafica, ricchissimo, appunto nelle fortunate e versatili immagini in grado di costruire. Qualche esempio merita senz’altro di essere riportato: “Ogni cosa ha un’anima / che non si fa catturare” (22); “Il mondo non mi vede: / mi girerò a guardare sul muro / la luce che muore” (24). Il poeta milanese Rodolfo Vettorello, sull’onda – credo – di un’invettiva e un monito alla riflessione, tempo fa ebbe a scrivere che “Gli arcobaleni non servono a niente, come la poesia” riannodando la situazione di una questione nevralgica negli studi di settore che già fu oggetto di Montale in sede di conferimento del Nobel ovvero l’utilità o meno della poesia. Ecco che, leggendo i versi di Luciana Raggi, credo che si possa con facilità contestare la similitudine assiomatica di cui sopra che, pur utile per animare un dibattito, trova nel fascino verso il divenire, il cambiamento di luce, la sfumatura di forme e le linee vaghe di ombre e possibilità una risposta seducente pur ariosa, imprendibile eppure sì vincente.

La seconda sezione del volume, “Nomade fra le parole”, è anticipata da un estratto di un brano del cantautore-poeta Roberto Vecchioni e da un estratto dalla poetessa confessionale e intimista Emily Dickinson. Viene qui posto il tema dell’erranza del poeta, non tanto quella della mania deambulatrice ottocentesca né del flaneur disincantato ma proprio l’erranza, il sentimento di mancata radicalità del linguaggio: “Sto qui // qui a guardare il bianco: // nomade / tra le parole dette” (37). Particolare attenzione va mostrata ad alcune liriche di questa partizione: “Come ciechi i poeti / a tentoni cercano il bianco / per lasciare impronte del viaggio” (40); “Certe parole non dicono quel che dicono / vivono squilibrate per variazioni minime. / Di ciò che significavano prima / domani non ci sarà memoria. // […] / Attraversa metafore e analogie / spostamenti metonimie / gioca a disfare e rifare // […] / Nella pazienza del poeta” (44).

Nel riferirsi all’universo linguistico-comunicativo della parola importante risulta, oltre al non-detto (“Fra nodi di silenzi / celato nella solitudine / una folle idea s’affacciò improvvisa”, 56) e all’evocativo, anche il mal-detto, ciò a cui la poetessa si riferisce con l’accezione di “impigliati in risse di parole feroci” (52) e, finanche, il mal-compreso, spesso all’origine di sovrapposizione e caos, precarietà di linguaggio, mancata interrelazione e impiego di sistemi non codificati, cacofonia o riluttanza dinanzi alla sfera semantica. Ci sono, infatti, nel rapporto dialogico anche esperienze infelici di confronto, che slittano nell’incomprensione quando non addirittura nel diverbio: “Rigettate / nella furia dell’urlo // […] / Acidi suoni / […] / Parole a lungo masticate / mai digerite” (55). Finanche, come già intuito, la mimica corporale, la comunicazione extralinguistica che può imporre un segno distintivo, tanto nel bene che nel male: “Uno sguardo intenso / arretra le parole” (58).

A stemperare il (possibile) divario derivato da un allontanamento o un dissidio (più o meno complicato) originato dal dire furioso o da un’incomprensione di fondo, sembra venire in assistenza l’ultima sezione del volume, dal titolo che apre alla speranza di un ravvedimento o, per lo meno, a una possibile occorrenza di concordia ritrovata, “L’arte dell’incontro”. Questa volta i “padri putativi” che la Poetessa richiama nelle note in esergo a questa nuova partizione, oltre a Vinicius de Moraes è l’immancabile Eugenio Montale che parla di “un segno intellegibile / che può dar senso al tutto”, versi tratti da “Esitammo un istante” che fa parte del noto Diario postumo. Versi che nella loro asciuttezza e perentorietà, nella sinottica versione che ha dell’epigrammatico quanto della rivelazione, ben si condensa la poetica della Raggi con questa opera che presenta – non solo in questa partizione – un’evidente fascinazione per la poetica di Montale, ma anche di Raboni e Sereni, finanche della nostalgica Pozzi; in quel senso di mistero che ritorna – se si eccettua la virata spirituale nella Raggi per lo più assente[1] – pare in alcuni passi di leggere brani della Guidacci.

Di questa sezione finale si apprezzano in particolar modo le liriche di chiusura, poste “a specchio” dedicate rispettivamente alla Città Eterna dove la Poetessa vive e lavora da molti anni, a Sogliano al Rubicone, nel Forlivese, dove la Poetessa, invece, è nata e a Matera, la città visitata con particolare trasporto nei cui componimenti non può lasciarsi trasportare anche dal sentimento civile rimembrando l’eccelsa (e poco studiata e tributata) figura dell’attivista, poeta, scrittore e sindaco di Tricase, Rocco Scotellaro che, col romanzo L’uva puttanella e l’intera produzione poetica, parlò dei drammi del Meridione contadino: “Sguardi tristi / dal dolore antico / gente segnata dalla fatica / di un lavoro paziente / scandito dalla natura / dalla prepotenza delle stagioni./ […] / Rocco adulto che lotta / per un giusto riscatto / e ancora Rocco morto / pianto dalla sua gente. / […] / Rocco e la sua poesia” (84). Il messaggio totale di questo nuovo lavoro poetico della Raggi, in “questo errare inquieto” (75) in mezzo a “ragion[i] liquid[e] [che] […] avvolg[ono]” (76) è di certo lucente e positivo, dettato da slancio vitale: “Spinti dal rifiuto / sull’orlo del baratro / nella ferita dell’urlo. / Smarriti confusi / in fiala avanziamo” (79). C’è, dopotutto, una grande esigenza di rivelazione, una voglia di dire, di ampliare idee, di costruire, pur partendo da diorami improbabili e ombre sul muro, consensi sicuri e realtà di speranza: “non perdiamo le parole // urliamo la pace” (28).

LORENZO SPURIO

Jesi, 10/01/2021

Note: La riproduzione del presente testo, sia in formato integrale che di stralci e su qualsiasi tipo di supporto, non è consentito se non ha ottenuto l’autorizzazione da parte dell’autore. E’ possibile, invece, citare dall’articolo con l’apposizione, in nota, del relativo riferimento di pubblicazione in forma chiara e integrale.


[1] Nella poesia che apre la sezione “L’arte dell’incontro” è possibile leggere: “Non importa ragionare sull’esistenza di Dio / Bisogna essere dolci capirsi / […] / Pascolare speranze / […] / Rifrangere residui di dubbi e formattare certezze / […]/ Emettere il respiro che è centro del mondo” (63). Altro riferimento a Dio si trova in una poesia molto breve che mi sembra utile riportare in forma integrale: “Quel Dio / che spesso si sottrae // l’ho sentito quel giorno / in riva al mare. // Nel guizzo dell’onda / sussurrava il ritorno. // Era donna. / Portava in grembo l’infinito” (71).

The Nail: il volume bilingue italiano-inglese della triade poetica Matranga-Billeci-Barracato

Articolo di Lorenzo Spurio

È uscito in questi giorni – per i tipi di Billeci Edizioni di Borgetto (PA) – un interessante volume bilingue di poesie di tre autori siciliani. Il libro, dal titolo The Nail (che, tradotto, sta per “il chiodo”, proprio quello che compare ben piantato nella prima di copertina), contempla una scelta di poesie di Dorothea Matranga, Francesco Billeci e Antonio Barracato con, a fronte, la versione in lingua inglese.

Un progetto poderoso curato – nelle traduzioni – da Dorothea Matranga che nelle ultime ore – assieme agli altri co-autori – ha felicemente lanciato sui Social la lieta notizia dell’avvenuta pubblicazione. The Nail è uno di quei lavori che, tanto per la confluenza sintonica di voci che sono poeti ma anche amici, quanto per la dimensione volutamente aperta a un’internazionalità e dunque a un destinatario potenzialmente allargato all’inverosimile, si evidenzia da subito come vincente e in grado di far parlare di sé. Questo anche per la preziosa prefazione della poetessa e critico letterario Francesca Luzzio che – meglio di qualsiasi vestito – riesce a cucire in maniera splendida e irripetibile una lettura puntigliosa e fresca di questo nuovo volume.

La copertina del libro

The Nail è l’ennesimo – e non previsto – segno che testimonia un clima di ampia effervescenza culturale nell’ambito del Palermitano che si unisce a una grande capacità espressiva e volitività che contraddistingue le tre fervide menti dalla fertilissima produzione letteraria. Tanto per citare alcuni di questi “punti fermi” che contraddistinguono questa triade autoriale possono essere richiamati – tra i tanti percorsi, collaborazioni, iniziative – il noto Concorso Internazionale di poesia “La vita in versi” di Cefalù organizzato dal poeta Antonio Barracato che annualmente vede la cerimonia di premiazione nell’elegante Teatro Cicero di Cefalù, come pure il Cenacolo Letterario Letterario Italiano “25 Novembre” sempre di Cefalù (con sua seconda sede a Borgetto) dove gravitano vari poeti dell’hinterland palermitano, finanche la copiosa e diversificata produzione di volumi dell’editore Billeci (con un fresco progetto antologico dal nome Il meglio di me al quale hanno partecipato, tra gli altri, i poeti Francesco Camagna, Andrea Lazzara, Antonio Barracato, Rosa Rampulla, Pietro Pinzarrone, Vita Alba Tumbarello, Rossana Licari, Rosa Di Pino e lo stesso Francesco Billeci) che testimonia una presenza importante, in termini di promozione e diffusione culturale sul territorio, di certo non trascurabile e meritoria di nota. Non si dimentichi neppure la fondazione del movimento – e la creazione del relativo genere letterario della corto poesia – da parte di Barracato e Matranga, istituzionalizzato in un apposito Manifesto, diffuso anche per mezzo di una pubblicazione in volume – per la quale sono stato onorato di scrivere la prefazione – e dal riconoscimento da parte della comunità letteraria nazionale che in taluni contesti di premi letterari ha ravvisato l’interesse e l’esigenza dell’inserzione del detto genere tra le sezioni di partecipazioni.

Così si è espressa Francesca Luzzio presentando questo testo: «La presente trilogia propone una coralità di voci, dove con levità affabulatoria ed insieme con forza icastica i tre poeti nei modi di un’epica minima, attenta al quotidiano, si raccontano in versi non solo parlando del proprio io, ma proponendo anche il loro heideggeriano “esserci” con occhio attento alla realtà circostante e  non è un caso  che  essi dedichino anche versi alla poesia perché è proprio questa che consente loro di raggiungere quelle incommensurabili atmosfere».

I tre autori del libro. Da sinistra Francesco Billeci, Dorothea Matranga e Antonio Barracato

Quanto alle principali tematiche delle poesie che il lettore incontrerà in questo volume Luzzio ci informa che si ritrovano in particolar misura temi come il tempo, la malinconia, l’idea dello scorrere, il cambiamento e la ricerca di verità (Matranga); la catarsi, la purezza del sentimento, la religiosità, i riflessi esistenziali e gli intenti sociali (Barracato); gli affetti, il dolore, l’interesse verso gli altri e la solidarietà, finanche alcune tematiche scottanti (e attualissime) come l’immigrazione (Billeci).

Pur essendo il significato più chiaro e diretto, quello di “chiodo”, a cui il titolo del libro si riferisce, credo che vada anche detto altro; nell’utilizzo parlato della lingua inglese non è infrequente l’espressione (la costruzione verbale) to nail (something) per sottolineare la perfezione con la quale una determinata attività viene condotta; il phrasal verb to nail (something) down sta proprio per “fissare”, “precisare”, “definire con precisione” e tale ulteriore sfaccettatura del lemma impiegato dai tre autori per il loro nuovo libro non credo proprio che possa dirsi casuale dal momento che – come già detto – sono tanti i temi – anche di indagine sociale – sui quali non esitano a esprimersi, con chiarezza, trasporto, voglia di esternazione.

Il volume, pur presentando tre sillogi in sé indipendenti appartenenti a tre autori distinti, si apprezza come opera unica nel ricco intrico di legami e corrispondenze che s’instaurano tra immagini, tematiche, codici e linguaggi dei tre poeti. Non è, dunque, come leggere tre libri separati uniti sotto un’unica copertina, ma è un’opera unica che va concepita nella sua originalissima totalità. Tanto è vero che, come è stato recentemente osservato (cito dal Comunicato stampa), «[il libro produce] un forte impatto emozionale per le coinvolgenti tematiche trattate e i motivi che hanno portato alla realizzazione di questo ambizioso progetto culturale, che si ripropone di far conoscere le opere e il volume in tutto il mondo […] Il titolo The Nail è stato scelto come simbolo di costante e capillare penetrazione che punta alla rinascita dei valori universali e sani principi per il risanamento dell’Io, nel modo di sentire heideggeriano che è anche il loro “esserci” in questa triplice intesa dell’accorato verseggiare con lo scopo soprattutto di farsi ascoltare».

Alcuni cenni bibliografici dei tre autori

Dorotea Matranga (in arte “Dorothea”) è nata ad Alcamo (TP) nel 1954, vive a Bagheria (PA). Poetessa, scrittrice e critico letterario. La sua formazione, d’impostazione classica, l’ha portata a vivere un crescente amore verso la letteratura e la scrittura. Per la narrativa ha pubblicato il romanzo Funnyman ovvero il Venditore di sogni (2014), varie sue poesie figurano in antologie. Per la critica letteraria ha scritto e pubblicato molti saggi e recensioni diffusi su riviste online e cartacee. Collabora con le riviste «Convivio» e «CulturElite». In unione ad Antonio Barracato ha ideato la corto-poesia-italiana con il relativo Manifesto “Ipseità dell’io” ha fornito le linee programmatiche e formali di questo movimento. Dirige il Circolo Culturale “Giacomo Giardina” di Bagheria dove riveste il ruolo di responsabile per le attività letterarie. Ha partecipato a numerosi reading poetici e concorsi letterari vincendo molti podi, menzioni e premi speciali, è accademica di varie accademie. È Vicepresidente dell’Associazione “Cenacolo Letterario Italiano Via 25 Novembre” di Cefalù.

Francesco Billeci è nato a Borgetto (PA) nel 1973, città nella quale vive. Poeta, scrittore, cuntastorie e sceneggiatore siciliano, dirige le Edizioni Billeci e l’omonima Associazione Culturale contraddistinta, nel logo, da un bel girasole luminoso. Numerosissime le pubblicazioni in volume, afferenti a tutti i generi letterari; si ricordano le raccolte di poesie: Diario di bordo, I binari dell’anima, I ginestri di Portella, Rarichi du passatu, Germogli di fede, Na valìggia china di paroli, Lu Cuntastori, Versi liberi 1999-2016, Germogli di fede 2016, Poesie del cuore, Strade Parallele, Varcare la soglia, Perfume de amor, il meglio di me, Cockitail Letteraio, Faiddi di Puisia. Per la prosa, invece, i romanzi Il passato non si dimentica, La Biglia Verde, Segreti di mafia, I Bambini non si toccano, Delitti e segreti di Cosa Nostra, Agende di vita vissuta, Raccontare e raccontarsi, Il destino di un sogno, il Profumo Magico dell’origano, Il contatore dell’amore, Mai più Veronica, il contatore della Passione, la mia vita tra le dita. Ha pubblicato anche commedie teatrali: Ogni gruppu veni o pettini, Ogni nodo viene al pettine, Pane, pizzu e Libbirtà vers in lingua italiana e siciliana, Giuseppe La Franca (vittima di mafia) e Teatro 2016. Ha scritto la sceneggiatura del film Cambuca non è mafia /Giuseppe La Franca… vive ancora. Numerosissimi i premi ricevuti da ogni zona del territorio nazionale.

Antonio Barracato, cefaludese di nascita, si è laureato con lode in Arti visive e discipline dello spettacolo all’Accademia delle Belle Arti. Da ragazzo ha frequentato lo Studio fotografico degli zii e, fortemente motivato, ha subito provato grande attrazione verso la fotografia, passione che non ha mai abbandonato. Oggi può vantare una nutrita collezione di premi letterari nazionali per la fotografia, come pure per la poesia, essendo prolifico poeta, tanto in lingua che in dialetto. Ha pubblicato vari libri – sia per la poesia che per la prosa: Strati e stratuzzi, Pensieri in versi, A nostra civiltà, I miei versi, Poesia senza confini, La mia poesia, Perfume de amor – Yo respiro amor, (raccolta di poesie tradotta in lingua spagnola), Squarci di vita, Verità celate, Il meglio di me. È anche autore di testi per canzoni e opere teatrali. È l’ideatore e il direttore del Gruppo «i Narratura» di Cefalù, esponente del direttivo dell’Associazione SiciliAntica, sede di Cefalù, Consigliere dell’Associazione Accademia dei poeti siciliani “Federico II”, versatile organizzatore di eventi culturali (anche virtuali come recenti reading molto partecipati e apprezzati a distanza – mediante riprese video – in tempi di pandemia e di distanziamento sociale) e una serie di altre iniziative tra cui  “Cefalù la poesia si fa strada”, l’iniziativa rivolta alle carceri (“La poesia dentro”) che negli anni ha coinvolto i detenuti della Casa Circondariale “Cavallacci” di Termini Imerese e del Carcere “Ucciardone” di Palermo; il Concorso Internazionale di poesia “La vita in versi” di Cefalù, il Premio Letterario Nazionale di poesia Città di Chiusa Sclafani, è anche direttore del blog culturale «Cefalù Art», fondatore e direttore del Cenacolo Letterario Italiano “Via 25 Novembre” di Cefalù, fondatore – assieme a Dorothea Matranga – del movimento e genere letterario della corto-poesia-italiana.

Lorenzo Spurio su “Amazzonia verde d’acqua” della brasiliana Márcia Theóphilo

Sulla rivista online “Kmertro0” è stato pubblicato nella giornata di oggi l’intervento critico di Lorenzo Spurio sul nuovo libro della poetessa brasiliana Márcia Theóphilo, voce indiscussa dei diritti delle popolazioni indigene, Amazzonia verde d’acqua uscito per Mondadori nei mesi scorsa. L’approfondita analisi è stata pubblicata sotto il titolo di “Io canto il verde che va difeso. Márcia Theóphilo contro le barbarie dell’uomo che distrugge la sua unica dimora”.

Márcia Theóphilo, già vincitrice – tra gli altri – del Premio alla Carriera del Premio “Città di Vercelli – Festival di Poesia Civile” e del Premio di Poesia “L’arte in versi” di Jesi.

A continuazione un estratto di questo testo: “L’ultimo libro della poetessa brasiliana Márcia Theóphilo, Amazzonia verde d’acqua (Mondadori, 2020), può essere considerata la summa della sua opera letteraria dal momento che prosegue in un percorso iniziato ormai decenni fa, se si pensa che i primi libri pubblicati dalla poetessa e antropologa nativa di Fortaleza e da molti anni in Italia, vennero pubblicati negli anni Settanta. Il nuovo volume – non una vera opera omnia – presenta al suo interno alcuni testi già letti altrove, in sillogi precedenti, in lavori che hanno avuto ampio apprezzamento e diffusione se si pensa che, a tutt’oggi, la Theóphilo è tradotta in numerose lingue, tra le quali anche lo svedese, oltre alle maggiori lingue del ceppo neolatino. Il volume si presenta corposo al tatto ma di agevole fruizione nelle tante liriche che lo compongono, adeguatamente provviste della loro versione in portoghese-brasiliano (non è dato sapere se sono nate direttamente in questa lingua e poi “versate” nel nostro idioma o il contrario, ma tant’è); i materiali sono divisi in alcune sotto-sezioni che in qualche modo “anticipano” e agglutinano le varie simbologie e campi concettuali che la Poetessa intende far prevalere”.

Per leggere l’intero saggio di approfondimento cliccare qui.

Concorso di Poesia “E’ un brusio la vita” – omaggio a Pier Paolo Pasolini

BANDO DI PARTECIPAZIONE

EMUI EuroMed University in collaborazione con il Centro Studi e Ricerche Pier Paolo Pasolini (Roma- Madrid), Le Ragunanze e l’Associazione Euterpe organizza il concorso di poesia “E’ un brusio la vita”.

Art. 1 – La partecipazione è gratuita.

Art. 2 – È possibile partecipare con una raccolta di poesie inedite a tema libero (min. 10 – max. 40). Sono gradite poesie di impegno civile, con riferimento alle opere di Pier Paolo Pasolini.

Articolo 3 – Per partecipare al concorso è necessario inviare alla mail international@emui.eu la propria opera poetica in formato Word indicando nel corpo della stessa nome, cognome, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza completo (Via, città, cap.), telefono fisso e cellulare, indirizzo mail e le seguenti dichiarazioni:

  • Dichiaro di essere l’unico autore delle opere e di detenere i diritti a ogni titolo.
  • Acconsento il trattamento dei miei dati personali secondo la normativa vigente nel nostro Paese (D. Lgs 196/2003 e GDPR)

Articolo 5 – I materiali dovranno essere inviati entro e non oltre il 30-11-2020

Art.6 – Le opere verranno lette e giudicate da una Commissione composta da personalità del mondo della cultura nazionali e internazionali.

Art. 7 – Il primo classificato si aggiudicherà la pubblicazione della raccolta in formato ebook nella collana ‘Poesia sotto forma di dubbio’ con EuroMed Editions (fornito di codice ISBN) e sarà inserito nel sito della piattaforma interuniversitaria www.emui.eu. Inoltre riceverà una copia dell’antologia di autori vari ‘Pier Paolo Pasolini, il poeta civile delle borgate. A quarant’anni dalla sua morte’, a cura di Michela Zanarella e Lorenzo Spurio, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino (FI), 2016, volume organizzato dalla Ass. Le Ragunanze di Roma e dalla Rivista di letteratura “Euterpe” con il Patrocinio Morale del Comune di Roma e del Centro Studi “Pier Paolo Pasolini” di Casarsa della Delizia (PN). Gli altri autori premiati riceveranno attestato di merito e video lettura di una delle poesie incluse nella raccolta.

Art. 8 – Ai sensi del D.Lgs 196/2003 e del Regolamento Generale sulla protezione dei dati personali n°2016/679 (GDPR) il partecipante acconsente al trattamento, diffusione e utilizzazione dei dati personali da parte della Segreteria che li utilizzerà per fini inerenti al concorso in oggetto.

Per maggiori informazioni scrivere a: international@emui.eu e consultare il sito www.emui.eu

Esce “Amazzonia verde d’acqua”, l’enciclopedia poetica della salvaguardia ambientale della poetessa brasiliana Márcia Theóphilo

Articolo di Lorenzo Spurio 

978880472744HIG-310x480 (1)Esce domani, 16 giugno 2020, per i tipi di Mondadori, nella serie “Lo Specchio”, il nuovo libro della nota poetessa brasiliana Márcia Theóphilo. Poetessa, scrittrice e antropologa tanto in portoghese, sua lingua d’origine, che in italiano, nel corso degli anni ha visto le sue opere poetiche venire tradotte in varie lingue straniere, dall’inglese allo svedese, dal francese allo spagnolo. Particolare attenzione va riposta verso la sua fluente produzione poetica e letteraria, interamente incentrata sull’impegno per la difesa ambientale dell’Amazzonia. La Theóphilo ha ottenuto numerosi premi letterari, alla cultura e alla carriera, com’è il caso del prestigioso Premio Letterario “Città di Vercelli”, in seno al Festival della Poesia Civile (premio che, negli anni precedenti, è andato, tra gli altri, ad Adonis, Lawrence Ferlinghetti e Eugenij Evthushenko), il Lerici-Pea e, recentemente, il Premio alla Carriera in seno all’ottava edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” di Jesi, presieduto dal sottoscritto e con Michela Zanarella quale presidente di Giuria. L’articolo di tale conferimento, congiuntamente alla motivazione critica, possono essere letti cliccando qui.

Márcia Theóphilo è nata nella città brasiliana di Fortaleza nel 1941. Vive da vari anni a Roma. La sua ingente opere letteraria si dispiega nei vari generi anche se sembra essere la poesia il suo vero canto d’anima. Influenzata dai canti oriundi e dalla sapienza popolare della nonna, la Theóphilo ha fatto dell’Amazzonia, oltre che il suo destinatario principale d’amore, il suo maggiore contesto di studio e approfondimento, dedicandogli tutto il tempo e la sua energia. L’Amazzonia viene dalla Theóphilo studiata in termini naturalistici, con un tuffo completo nella fauna e flora così tipiche di quello spazio, dai lessemi spesso intraducibili nella nostra lingua, ma anche in termini miticosimbolici in quella ritualità di sapienza misterica ed esoterica delle popolazioni indigene, in chiave sociologica, antropologica e tanto altro ancora. Celebre, tra le altri, la sua lirica “Boto”, al delfino rosa. Tra le opere poetiche in italiano vanno ricordate (varie di essi con note di presentazioni del fiorentino Mario Luzi del quale fu grande amica) Siamo pensiero (1972), Basta! Che parlino le voci (1974), Catuetê Curupira (1983), Il fiume l’uccello le nuvole (1987), Io canto l’Amazzonia (1992), I bambini giaguaro (1996), Kupahúba. Albero dello Spirito Santo (2000), Foresta mio dizionario (2003), Amazzonia respiro del mondo (2005), Amazzonia madre d’acqua (2007), Amazzonia. L’ultima Arca (2013), Nel nido dell’Amazzonia (2015), Ogni parola un essere (2017) e Amazzonia è poesia (2018).

Il nuovo volume, Amazzonia verde d’acqua, della Theóphilo, che è stata amica e frequentatrice di Dario Bellezza, Amelia Rosselli e Rafael Alberti (solo per citarne alcuni) vanta una nota critica di prefazione stilata dal poeta Maurizio Cucchi. Nelle note di accompagnamento e di presentazione del volume che compaiono in rete sui siti che rendono l’opera acquistabile, è possibile leggere questo: “Nel vortice e nell’incanto di queste pagine si realizza al livello più alto il grande canto dell’Amazzonia di Márcia Theóphilo, che nei decenni ha composto un disegno epico articolatissimo, una narrazione in versi che è poesia di fantasmagorica atmosfera. Con strenua vitalità, ci parla di un mondo dove la natura – di cui gli umani sono semplice parte – «lavora senza posa», e dove agisce un’energia diffusa e inarrestabile, nel movimento di un continuo rinascere. La poesia di Márcia Theóphilo, nota fin dagli esordi in ambito internazionale, si impone per una rara ampiezza di respiro, che le consente di convocare sulla pagina umani personaggi e figure mitologiche, in un vorticare prodigioso degli elementi, dove «non solo gli animali ma tutto in natura ha un’anima», o dove operano senza sosta «memorie di verdi immensità». In questa esoticissima realtà troviamo la dea Giaguaro, che «si trasforma in tutte le cose / che vivono sulla terra / piante e animali / fiumi e piogge», mentre anche «gli alberi raccontano la loro storia». Ma è l’io stesso dell’autrice a mescolarsi alle molteplici presenze di un reale magico e immenso, fatto di «impensate foreste senza fine / di fiori e frutti tropicali / e cuori di antichi animali», su cui la nostra ormai plurisecolare “civiltà” opera con colpevole indifferenza o ottuso disprezzo. Ed ecco, allora, il suggestivo spargersi di Márcia Theóphilo nei suoi versi e il continuo rigenerarsi della sua opera, in simbiosi intatta con l’habitat delle sue radici, con l’orizzonte naturale in cui da sempre si esprime e ci comunica la sua inconfondibile, preziosissima, testimoniale presenza poetica”[1].

Un approfondito e avvincente articolo-recensione di Roberto Galaverni uscito sulle pagine de Il Corriere della Sera di oggi anticipa la fortunata uscita del volume. Nell’appropriato occhiello introduttivo si legge: “Il canto della brasiliana Márcia Theóphilo è colmo di onomatopee: lascia parlare impetuosamente la natura in due lingue (portoghese e italiano) e rilancia il legame imprescindibile tra cose e parola. Lì c’è l’anima di tutto e di tutti”. Per riferirsi alla nuova opera poetica Galaverni parla di “specialissima lirica corale” ad intendere questo linguaggio allargato e condiviso, partecipe, tra io poetico e natura, nelle sue molteplici e variegate manifestazioni.

La poesia della Theóphilo, così ben capace a dipingere nelle sue venature e speziate fragranze una realtà a noi lontana, quella appunto della foresta dell’Amazzonia, il più grande “polmone verde” del Pianeta, immancabilmente chiama nella mente dell’attento lettore le notizie amare di qualche mese fa relative ai gravi casi di incendio che hanno colpito vari parti di quel territorio naturalistico decretando inquinamento, sottrazione di terreni boschivi e seria minaccia per le popolazioni indigene che lì vivono. Ha, al contempo, permesso di farci ragionare sull’importanza della biodiversità e la salvaguardia del Pianeta, tematiche imprescindibili dalla poetica della Nostra e sempre così ben individuabili nelle sue opere. Vale a dire sulla minaccia che riguarda tutti e non solo i brasiliani e gli amerindi: quella della battaglia ecologica che va combattuta con serietà e impegno per consentire la custodia e la preservazione dell’ecosistema in cui viviamo, unico per tutti: la Terra. Ecco perché le poesie dell’Amazzonia e sull’Amazzonia della Nostra, al di là dell’accentuato colorismo locale, dell’esotismo frizzantino della natura variegata e beata di quelle terre, della fertilità del Río grande che fluisce impetuoso, vanno lette in tal senso: come un’invocazione all’impegno, a darsi da fare, a comprometirse – per dirla in spagnolo (altra lingua in cui la sua opera è tradotta) – in una questione che è di tutti.

La salvaguardia del boto, il delfino rosa, come pure di specie arboricole particolarissime e di canti  e formule orali della tradizione amerinda autoctona debbono essere conservati perché sono patrimonio comune di cui il primo ambientale e culturale al contempo e il secondo immateriale e, pertanto, forse ancor più esposto alle intemperie della contemporaneità e del generale disinteresse. Márcia Theóphilo anche in questo senso fornisce un contributo molto importante, degno di osservazione e di una più ampia conoscenza.

LORENZO SPURIO

Jesi, 15/06/2020

E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. 

[1] Tratto dal sito della Mondadori, casa editrice che ha pubblicato l’opera. https://www.oscarmondadori.it/libri/amazzonia-verde-dacqua-marcia-theophilo-2/

“Come una storia d’amore” di Nadia Terranova. Recensione di Gabriella Maggio

Recensione di Gabriella Maggio 

71ykfUW7EmLCome una storia d’amore, edita da Giulio Perrone nel 2020, raccoglie dieci storie ambientate a Roma, città dove oggi vive la scrittrice di origini messinesi. Significativa l’epigrafe da Passaggio in ombra di Mariateresa Di Lascia, premio Strega alla memoria nel 1994, in cui l’essere pellegrina …in una terra senz’anima annuncia il senso delle storie raccontate da Nadia Terranova, connotate da dolore, senso di estraneità, solitudine.

Per i quartieri e le strade di Roma si sviluppano le vicende di personaggi alle prese con la quotidianità, una coppia di anziani che fa la spesa al mercato e incontra casualmente Andrea, il trans gentile, di cui pagherà il funerale in Via della Devozione; lo choc di Veronica infaticabile parrucchiera davanti all’incidente mortale di una sconosciuta in Freezing; la solitudine di Paola, in crisi di coppia e di lavoro, che trascorre le giornate su Facebook spiando la presunta felicità della Sconosciuta in La felicità sconosciuta.

Accanto a queste storie ve ne sono altre narrate in prima persona dove si coglie un’eco autobiografica dai Corvi al Pigneto, a La lavanderia sbagliata, a Due sorelle a L’ora di libertà. Diversamente incisive in questa prospettiva autobiografica e per il senso che danno alla raccolta sono Il primo giorno di scuola, Roma in uscita, Lettera a R. che affrontano in maniera diretta il rapporto che la scrittrice ha con Roma. La città è il luogo in cui s’innerva il tempo della narratrice e diventa co-protagonista necessaria. Da Roma in uscita si apprende il senso e il valore della sua vita romana: penso a quando sono arrivata a Roma e un nome di città era sinonimo di un nome proprio. Roma per me è Carlo. Sono passati ventidue anni e Carlo è sempre Carlo, anche se non stiamo più insieme, e Roma non è più Roma, anche se stiamo ancora insieme”.

Il primo giorno di scuola tratta il tema della memoria personale che s’intreccia con quella storica. Ė ambientato nel Ghetto l’unico luogo in cui non sentivo fretta di allontanarmi, intimamente vicino perché come Messina è stato distrutto e ricostruito e per gli avvenimenti del 16 ottobre ’43, citati in un “tra parentesi”, perché c’è sufficiente letteratura in merito. Lì la scrittrice può ripercorrere la sua infanzia, l’ambiguo suo primo giorno di scuola, l’anno della prima media quando è morto il padre, interrogarsi sulla felicità, che l’ha sempre schivata. Ha cominciato a studiare l’ebraico: Ho bisogno di studiare. Una lingua che si scrive al contrario è perfetta per me. Ho bisogno d’invertire le cose… Lettera a R. chiude la raccolta. La narratrice, facendo un bilancio degli anni romani, scrive una lettera d’amore alla città scontrosa, che ti accoglierà subito e non ti accoglierà mai, dove è giunta per restare, enfatizzando così il passaggio dall’infanzia all’amore, all’età adulta. Dopo quindici anni ha costruito un rapporto intimo con Roma, evidenziato dall’uso della sola iniziale “R.”, e vuole raccontarla dal suo punto di vista: odiarla in pace senza schierarti e amarla in pace senza celebrarla. Tanto è stato scritto e detto sulla città e la scrittrice non vuole aggiungere altro se non la sua esistenziale versione, di una persona che non ha signoria su nulla se non sui propri dettagli (La lavanderia sbagliata).

Nelle dieci storie che raccontano realtà quotidiane, il filo conduttore, a parte l’ambientazione romana, è l’impegno di esprimere la nudità di ciò che è; mancano gli uomini, nominati appena e rappresentati con l’occhio delle donne, che restano spazio esistenziale d’indagine privilegiata, di una sorta di pellegrinaggio nella vita scandito dall’impervia difficoltà dell’incontro con l’altro. Ma questo non implica un punto di vista egoistico, anzi manifesta un’attenzione simpatetica verso gli altri, come per Nilima, in La lavanderia sbagliata.

La scrittura scorre asciutta, incisa di domande, di parentesi, di dialoghi, di inversioni, enumerazioni. Come una storia d’amore segue di poco Addio fantasmi, romanzo pubblicato da Einaudi –Stile libero big, finalista al Premio Strega 2019.

Leggendo la conclusione del romanzo: Rido e finisce un’epoca nel rumore di un tuffo, nel mare che si apre e ingoia senza restituire…e il piccolo orologio al mio polso segna, finalmente, le sei e diciassette.” si gioisce con Ida, che dice addio ai suoi fantasmi. Leggendo poi Come una storia d’amore ci si accorge invece che i fantasmi ci sono sempre anche nella cornice romana: “Non lasci mai nulla, tu,non sei una che lascia. Devi solo cercare nuove strade” (in Lettera a R.) dice di sé la Terranova.

GABRIELLA MAGGIO

 

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