“Deltaplano” di Michele Miano. Recensione di Lorenzo Spurio

Deltaplano
di Michele Miano
Introduzione di Davide Foschi
BastogiLibri, Roma, 2014
ISBN: 9788898457595
Pagine: 43
Costo: 8€
 
Recensione di Lorenzo Spurio
 
 
 
Un oceano di silenzio è muro
di queste illusioni
cassa ridondante di echi ormai lontani. (14)
 

Se è vero che qua e là nella poetica di Miano si ravvisano immagini in qualche modo funeste, collegate a un cupo sentire il dolore e la morte, come avviene nella lirica “Primavera” in cui la nuova stagione che si caratterizza per la rinascita dell’ambiente è collegata a immagini dure quali i “morsi di gelo”, le “profonde solitudini” e il tagliente “filo di vento”, non è mai un dolore che deprime o che angoscia il Nostro né il lettore che ne sperimenta la lettura perché mitigato dall’esperienza e fautore della costruzione di immagini. Michele Miano è un maestro nel plasmare la materia; ed è così che l’infinità della volta celeste diventa un mare in cui le stelle finiscono per annegarsi, per perdersi, fluttuare un po’ difficilmente, prima di inabissarsi completamente in quel blu denso e fagocitante (“Verso sera”, p. 7)

Il vento nelle liriche del Nostro non è mai portatore di una forza distruttiva o di un soffiare imperterrito, ma piuttosto è un residuo di vento, una ventilazione languida come il “filo di vento” (8), “un alito di vento” (9), “l’aria tiepida” (9) che ne caratterizza la mitezza degli ambienti e descrive questo aerare come lieve, appena percettibile. Gli spazi vengono descritti sempre da chi li abita, ed ecco allora che si incontreranno colombi, farfalle, ma anche germogli che lentamente crescono, proprio come le strilla di un ragazzino che gioca.

L’impiego nel lessico di una dimensione dicotomica o ossimorica è prevalente nella scrittura di Miano dove, come già detto, troviamo primavere di dolore, o “amaro miele” (11) ed ancora la sonnolenza di un’esistenza vissuta (s)regolatamente (“in bilico sul baratro”, 13) alla quale segue una nuova alba, fonte di un rinnovato auspicio e motivo di compiacimento con la natura tutta.

Non c’è nelle liriche di Miano la criticità che ci si aspetterebbe in un autore erudito che osserva il mondo e lo descrive vagliato dalla sperimentazione di certi sentimenti; ne consegue che non è propriamente esatto parlare di ermetismo della sua poetica perché non vi ravvedo il pessimismo di fondo; le immagini, laddove sono gravate di un sentimento esistenziale che potrebbe essere improntato alla desolazione, finiscono invece per essere impiegate come da contro-canto allo sviluppo della lirica e delle suggestioni sulle quali essa si regge.

La temporalità degli eventi nella poesia di Miano sembra essere sospesa e pare che l’autore l’abbia volutamente tale poiché non ci si sofferma mai con precisione e si configura come una sospensione del tempo; il Nostro è convinto che quando il ricordo è vivido e quando il sentimento è eternante, allora le categorie temporali non esistono e c’è un interscambio continuo ed efficace tra passato e presente: “E il giorno è come la notte/ la notte è come il giorno” (15).

Nel volume c’è anche spazio per un Miano indignato che denuncia le ambiguità del presente, le storture della vita contemporanea dove il Natale, emblema di pace, condivisione e speranza, ha una doppia natura: felice e agiato per i “ricchi e i grassi” e indecente e una giornata sventurata come tante per i “poveri e [i] reietti” (10). Il poeta è anche espressione del tempo in cui vive del quale non manca di osservare una certa delusione nei confronti della disagiata condizione sociale del presente, tanto morale quanto economica (parla di “clienti insolventi”, 20; di “paese di morti di fame”, 24; di “[persone] aggrovigliat[e] nella lotta per il boccone quotidiano”, 25). Non è sufficiente –sembra dirci Miano sussurrando all’orecchio- perseguire alacremente solo i propri interessi personali e fondare una ideologia del sé quando il mondo è società, senso di comunità e bisogno di condivisione. E’ così che dedica dei versi anche a tutti coloro che per mille ragioni non hanno voce –vuoi perché silenziati o censurati, vuoi perché perseguitati, massacrati od uccisi-: “Per frantumare il silenzio/ è necessario il coro degli angeli,/ grido senza voce dei condannati,/ gemito dei non nati./ Filastrocche mai cantate dagli uomini” (22).

Nella mente dell’io lirico c’è vita in tutto e per queste ragioni è possibile percepire la voce anche delle cose, dell’immateriale e dell’astratto, laddove siamo capaci di costruire un saldo legame con l’atto esperenziale e l’epifania del sentimento e vivificare in questa maniera immagini (illusorie) ed emozioni (evanescenti); il poeta è in grado di cogliere il “mormorio delle cose e dei ricordi” (18).

E’ così che Miano afferra e viviseziona il “nervo delle cose” (17) e istituisce quel necessario patto con il concreto, con la vita di tutti i giorni, fatta di intervalli di pace e delusioni che lui consacra sinteticamente nell’ “armistizio con la realtà” (26). Armistizio che è possibile solo laddove si abbia reale coscienza del proprio stato e una confidenza con se stessi che renda capaci di osservare il mondo che ci circonda con giustizia e curiosità nelle sue tante disparità e degenerazioni. Solo in questo modo è possibile, allora, scoprirsi uomini e donne completi che posseggono la fioca fiamma di una lanterna per svelare il difficile “sillogismo dell’esistenza” (17).

Un libro che offre validi spunti di riflessione e di autoanalisi, assieme a un insegnamento profondo che arricchisce la coscienza e la denuda nei confronti del reale: “Questa strada senza sole/ afflitta di nubi, dal frastuono della sera” (31) che è la vita, è il percorso che ci è stato dato e che dobbiamo onorare a chi ci ha voluti nel mondo, in questo “tempo balordo” (35) dal quale l’autore spera si risolleverà.

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 28.10.2014

“Neoplasie civili”, la nuova silloge poetica di Lorenzo Spurio

Il mondo in metastasi nelle liriche

di Lorenzo Spurio

E’ uscito Neoplasie civili (Edizioni Agemina)

 
copertina-Lorenzo-Spurio-weLo scrittore marchigiano Lorenzo Spurio, che ha al suo attivo una serie di volumi di narrativa e di saggi prevalentemente su autori anglosassoni (è anche un critico letterario), esce con un nuovo libro, questa volta di poesie.
Neoplasie civili è il titolo di questa raccolta di poesie scritte negli ultimi anni; la silloge propone un percorso attento attraverso drammi quotidiani, storie di cronaca nera ed episodi spietati di violenza che riguardano il mondo tutto nella società odierna.
Il mondo lirico di Spurio è asciutto ma concreto, a volte duro ma quanto mai necessario e vivido e l’occhio critico del nostro è quello di una persona che osserva con acume le incongruenze della realtà e le fa sue sulla carta per denunciarle, per rompere quel velo di indifferenza e di apatia che contraddistingue chi nella vita presente ha ancora la fortuna di vivere in un paese dove non cadono bombe, non si muore di fame o ancora, salvo sporadici ma durissimi casi, sembra ancora che ci si rispetti l’un l’altro.
Poesie scevre da orpelli, da particolarismi formali, ma che offrono al lettore una traccia di riflessione, che scuotono la coscienza, indignano e feriscono.
Il cuore della silloge è proprio quella formazione cancerosa a cui ci si riferisce nel titolo che minaccia, ammorba, fagocita, dilania e distrugge un’esistenza fisicamente sana e moralmente incorrotta.
La poetessa Ninnj Di Stefano Busà nella sua nota critica iniziale conclude dicendo che Neoplasie civili è “[una raccolta di] vividi canti di sdegno, […] cronache di denuncia di un mondo fatto di lassismo, sopraffazione e ingiustizia dove il poeta, come un novello vate della postmodernità, rompe la logica del bavaglio e proclama con onestà la cruda realtà d’oggi…

 

Lorenzo Spurio è nato a Jesi (AN) nel 1985. Laureato in Lingue e Letterature Straniere, è scrittore e critico letterario. Ha all’attivo varie raccolte di racconti tra cui la più recente “La cucina arancione” (2013) e numerosi saggi tra cui “Jane Eyre, una rilettura contemporanea” (2011), La metafora del giardino in letteratura (2011), Ian McEwan: sesso e perversione (2013). “Neoplasie civili” è la sua prima opera di poesia.
Collabora a varie riviste ed è direttore della rivista di letteratura Euterpe e socio fondatore della Associazione Culturale TraccePerLaMeta. Gestisce un suo sito (www.blogletteratura.com) dove pubblica recensioni, articoli, commenti ad opere letterarie.
E’ Presidente del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” e Presidente di Giuria del Premio di Letteratura “Ponte Vecchio”- Firenze.

 

  

Titolo: Neoplasie civili
Autore: Lorenzo Spurio
Prefazione: Ninnj Di Stefano Busà
Postfazione: Cinzia Demi
Editore: Agemina, Firenze
Collana: La Fenice – poesia
ISBN: 9788895555744
Pagine: 64
Costo: 10 €
Info per acquisto: edizioniagemina@alice.it

“La questione della lingua e la questione dei soggetti: il senso della esclusione dalla storia nel romanzo” di IURI LOMBARDI

a cura di IURI LOMBARDI
E’ sempre più complesso parlare di lingua nell’età liquida, in particolare per quanto concerne il romanzo. Il romanzo che da sempre, dal momento che vide la luce come genere, ha in sé il senso dell’unità e della misura; quell’etimo ideologico, intelaiatura o architettura che dir si voglia: è organico per eccellenza. E per organico, dal punto di vista non solo stilistico (secondo il mio parere si può e si deve iniziare a parlare di stile dalla nascita del romanzo), si intende quel blocco unico che nel suo insieme ricrea un medesimo microcosmo, una dialettica, in termini Hegeliani, di contrasto tra il fuori e il dentro al sé, cioè il dentro del romanzo, a partire, ed è una delle tante unità di misura, dalla lingua. Il romanzo, che come genere vide la sua nascita nell’Inghilterra del preromanticismo, non solo pose un nuovo modo di vedere la realtà circostante (da prima unilaterale, poi sempre più corale), ma fece da spartiacque alla questione della lingua, sino allora adoperata per due generi soltanto, quindi in parte propriamente di settore: per la poesia (allora solo lirica) e per la drammaturgia. C’era poi la lingua giornalistica delle celebri gazzette o periodici di settore, che altro non era che un fanalino di coda della lingua della poesia perpetuata nella prosa di cronaca. Il romanzo è lo attante di una rivoluzione non solo di genere, non solo letteraria, ma di costume, psicologica, antropologico e trova nel suo essere non riforma del possibile ma rivoluzione, di unità nella lingua. Lingua che si evolve, non strettamente legata alla questione del bel suono, delle sillabe e del metro, né della forma dialogata, subordinata ad una lingua di regia, quindi didascalica, e che vive al di là della letteratura, entra nel quotidiano: diventa linguaggio del narrabile. E il linguaggio del narrante, coincidente a quello dello attante, inaugura, volente o nolente, l’età dell’industria. Stagione dell’industria che nel mio dire non è sinonimo di rivoluzione industriale – che rimane a prescindere un periodo legato alla storiografia della storia-, ma si tratta di una età in cui l’uomo inaugura un nuovo epos proprio nella narrativa tramite il romanzo. L’etimo della parola industria significa per l’appunto operosità ed è da questa stagione dell’operosità – del cambiamento sociale che si ebbe, con la nascita di lì a poco delle congregazioni politiche moderne, gestione del lavoro, suddivisione sociale ecc- che muta per sempre il punto di vista del tangibile. Il romanzo, genere magistrale per eccellenza, è rivoluzione in quanto punto di vista, lettura del tangibile, analisi e indagine antropologica della realtà umana. Indagine che si muove sul piano narrativo per ristabilire il senso del mito (de)costruendolo da prima e ripristinarlo poi. In sostanza, il romanzo è il ritorno del mito, dell’eterno, è l’affermazione di una nuova mitologia rapportata all’età dell’industria, del moderno.
savianeomnibusQuesta rivoluzione, tuttavia, si ebbe principalmente nella lingua, in Italia con i Promessi sposi, lo sciacquare i panni in Arno del Manzoni, il romanzo trova genesi della propendesi dell’unità politica e amministrativa della nazione. Quindi, coincide con una rivoluzione di costume che fece da laboratorio di una lingua non solo letteraria ma unitaria. Il romanzo entrava con occhio indiscreto da parte dell’io autoriale ( e non discuto qui in questa sede l’idea proustiana tra l’io scrivente e l’io narrante, ossia tra l’uomo e la sua opera) nella realtà del quotidiana proiettandola verso una unità, una organicità contemplativa del reale. La rivoluzione e non la riforma – sino ad ora i passaggi e i dibattiti accademici sulla lingua si limitarono alla poesia da Dante e Petrarca sino a Bembo e poi sino alla Arcadia- fu quella di autenticare un passaggio storico attraverso la lingua. Lingua che non era e non coincideva solo nell’uso quotidiano (vediamo la variante del fiorentino coevo e colto del Manzoni), ma nell’uso europeo, che si faceva meta-linguaggio che oltrepassava la lingua foneticamente intesa, per costituirsi essa stessa linguaggio tangibile, reale. Il romanzo quindi diventava il manifesto patriottico, la lingua di un paese, sia essa d’espressione poetica o contemplativa, sia essa di servizio, ossia spicciola, sempre identica ad un grado di identità universale che parlava e poneva al centro della sua indagine l’uomo con i suoi sentimenti, le paure, la mimica. Diventava quindi espressione di un linguaggio. Linguaggio dell’operativo, industriale. E partendo dal presupposto che la realtà è linguaggio, il tangibile non esiste in quanto intrappolato dalle maglie, dal dramma del linguaggio, e che quindi il reale nella rivisitazione dell’uomo come direbbe Lacan non è altro che il passaggio costante e continuo dal visionario al simbolico, ma come linguaggio ci si deve riferire all’uomo e a quanto lo circonda, il romanzo fu il promotore di questa ermeneutica del linguaggio. Ermeneutica che lo attante-romanzo, intesa come rivoluzione e in termini di crescita, di sviluppo e sperimentazione della lingua, s’ebbe proprio nel passaggio uterino del genere narrativo quando questi, se pur inversamente proporzionale alla storia di un continente, l’Europa, visse l’accordo tra il visionario al simbolico. In altri termini il romanzo smise d’essere espressione linguistica e di linguaggio, laboratorio di sperimentazione della lingua, in coincidenza del passaggio dalla stagione industriale o paleo-capitalistica a quella capitalistica e tecnologica. Qui, in questa stagione muore la lingua del romanzo per essere soppiantata violentemente dalla lingua della tecnologia, quindi da una lingua media e standard, inodore, incolore: la lingua della comunicazione internazionale. Il linguaggio della tecnologia.
Il romanzo stesso diventa quindi massificato, non più un opera da contemplare, se vogliamo buttarla sul piano dell’empatia, ma da consumare. In altri termini, il romanzo, sia esso epistolare, storico, sociale, ecc, diventa un’opera aritmetica che blocca l’indagine ermeneutica ed esegetica se non addirittura interpretativa della lingua e del linguaggio: è il prodotto commerciale. Quindi diventa lo spettro di se stesso, lo specchio cui si riflette la propria morte. Il romanzo, che chiamerei narrativa massificata, diventa consolazione dal punto di vista empatico, mezzo di estraneazione del pensiero dal punto di vista letterario. Diventa il vessillo, il baluardo e l’armatura dell’uomo medio, della società alienata e destituita da un tipo di linguaggio lontana dalla sua natura. La lingua stessa, non più suddivisibile in generi, diventa unificata, tranne rare eccezioni, e non più di indagine. Come il linguaggio tecnologico si fa meta-testuale, meta-linguistica, ossia somma di allusioni, di interscambi apparentemente plurimi ma fortemente isolati. Il romanzo che non compie più la rivoluzione linguistica è privo di destinatario e la sua lingua prevede adesso solo due protagonisti: il solito mittente che si sdoppia. Come un socia-network, le chat acquisisce un linguaggio di sola andata, in cui la condivisione è alta ma non prevede più un messaggio, diventando di volta in volta solo identica forma che si perpetua all’infinito. Il linguaggio, inteso come insieme dei segni, del romanzo non è più contemplativo, ma di consumo. Il suo linguaggio è quindi neutro e senza una posizione ideologica o una intelaiatura ontologica. Si rinnova nell’autenticarsi della ripetizione come diceva Deluze.
Ma la morte del romanzo, intesa come fine ontologica ed ermeneutica del linguaggio e del suo fine, come possibile messaggio, significato di un significante, si ripercuote anche nei contenuti, nei soggetti sviluppati. L’io scrivente ricattato dalle logiche di mercato e del piacere comune (infatti anche coloro che non sono vincolati commettono lo stesso peccato) non s’addentra in indagini vere, non va a riflettere la dimensione del reale, ma si limita a vederne e a narrarne solo gli aspetti marginali, i più minuti dando espressione ad un immobilismo disarmante. Espressione non presente nei libri di intrattenimento degli anni 60 o 70 fino agli 80 del novecento, in cui anche se la lingua era bloccata e morta, già una premessa alla lingua tecnologica, erano comunque uno squarcio di analisi del vissuto capitalistico o consumistico. Basti pensare a ruote di Arthue Hailey, oppure all’ultimo Moravia, o ancora al Saviane degli anni settanta del novecento, le cui opere erano concepite attraverso un linguaggio non più letterario ma pseudo- tecnologico. Ora, è assai importante capire cosa intendo o si può caratterizzare per pseudo-tecnologico; ebbene, tale definizione appartiene, storicizzando, ad una stagione prima dell’avvento della tecnologia reale. Il linguaggio quindi tecnologico – che in parte può essere associato, ma soli in pochi ed esuli casi ad un linguaggio neo-letterario, in quanto identificativo per lo scrittore – lo si può vedere in Saviane, piuttosto che in Prisco o in Brancati. In Saviane, infatti, l’unità linguistica e stilistica viene attentata da un linguaggio tecnologico con il frequente passaggio dall’io alla terza persona, come esercizio ludico che permette allo scrittore di sperimentare una propria lingua, un proprio linguaggio, e al lettore di essere coautore della pagina. E questo può ricordare, ma si va per associazioni, limitandosi ad una considerazione appena delineata, il linguaggio dei video game, dei social-network, se pur rapportato in un ambito letterario. Se Saviane è infatti riconoscibile per questa peculiarità stilistica, Alberto Moravia scrivendo in un italiano standard non lo si riconosce, se non per i contenuti e le sue tesi sulla omologazione dell’uomo contemporaneo.
Ora, alla luce di quanto detto, il romanzo prima di morire – cioè prima di essere un prodotto commerciale – compie assieme alla lingua una ulteriore rivoluzione: quella di spingere la morte in primo piano, lo scabroso, l’orrido, il non dicibile, a differenza del teatro – disquisendo in termini aristotelici dell’unità di tempo e di azione e di luogo- che invece ebbe ad occultarla per secoli. Se infatti nel teatro la morte poteva avvenire solo dietro le quinte e quindi non svelata al grande pubblico (era permessa solo la notizia, tramite il coro o un personaggio protagonista), il romanzo la mette in primo piano. Avviene il debutto della morte. Un esordire dello scandalo, del poco ortodosso che squarcia i veli del pudore e – ecco la rivoluzione del linguaggio- l’oltraggio avviene non tradendo la tradizione ma allineandosi con il gusto della massa. Dalla stagione industriale in poi, vale a dire dal tempo del romanzo, il pubblico sembra abituarsi allo scandalo, alimentarsi di questo, vuoi per alibi vuoi per occulte ragioni, e la letteratura compie un balzo secolare. Il romanzo sembra acquisire le ragioni di una partita senza precedenti. Il genere per eccellenza per secoli rimarrà e funzionerà come specchio del sociale. Uno specchio che si infrange solo dopo, secoli dopo, quando il romanzo diventa un prodotto commerciale, non più un’opera di contemplazione, e quindi non più il messaggero popolare.

Se la morte del romanzo la dobbiamo quindi all’arresto della evoluzione linguistica da intendersi come sperimentazione nell’ambito della letteratura, questa avviene anche perché altre realtà linguistiche (vedi il cinema, internet ecc) lo hanno soppiantato, portando questi a non essere più lo specchio del reale. Ad essere un prodotto di puro intrattenimento. Un oggetto di scambio oramai troppo indebolito per essere portavoce di un atto rivoluzionario. Esso stesso non è più lui: sopravvive come merce di consumo.

 

IURI LOMBARDI

Firenze, 19-03-2014

 

“Il capitalismo nella società del postmoderno” di Ninnj Di Stefano Busà

di Ninnj Di Stefano Busà

 

L’era capitalista sta per essere schiacciata sotto il peso delle sue nefandezze.

Capitalismo nella società del postmoderno sta oggi ad indicare un apparato negativo, un sistema di far fruttare il denaro in maniera disonesta e indiscriminata, senza regole, senza remore morali, odioso libertinaggio speculativo di forme economico-finanziarie che hanno assunto la caratteristica di veri cataclismi nell’ottica brutale di una logica violenta e millantatoria, che si avvale solo d’ingenti somme di denaro da far fruttare al massimo del rendimento consentito. La logica da cui prende le mosse origina da una contaminazione a livello egoistico personale che fa di tutto per “arraffare” ricchezza inquinata, dove il malaffare e la disonestà fanno la parte del leone, nutrendosi di volta in volta di ordinamenti obsoleti, di sotterfugi e millanterie, contravvenendo ogni remora morale. Esorbitante diventa l’individualismo egocentrico e l’accaparramento di guadagni illeciti.

1AFC7Il termine “capitalista” si trova per la prima volta secondo P: Bernitt nel 1790 pronunciato da Mirabeau, stante ad indicare nella Francia di allora una persona ricca, con un potere enorme ricavato esclusivamente dai redditi delle sue sostanze. Il significato del termine divenne in seguito dominante e fu usato in molti altri casi in cui vi fosse necessità di speculare sul reddito e di farlo fruttare indiscriminatamente, invadendo anche il denaro pubblico e investendolo di ufficialità, ove non vi sia neppure l’ombra delle garanzie, contaminando in tal modo, l’economia che si vede invasa da titoli-spazzatura che vanno ad intaccare l’economia del povero risparmiatore indifeso di fronte a cotanto meccanismo di genialità perversa.

Per “capitalismo”, allora, è inteso un sistema di produzione sussidiaria che scinde il reddito da lavoro, anzi lo esclude: facendo della forza produttiva dell’interesse e dell’investimento la sue armi vincenti, il suo massimo punto di forza. Già il termine stesso: “interesse privato” esprime un luogo intensamente accrescitivo di trasformazione del guadagno che da facile diventa illecito e, in tal modo, trascina con sé tutti gli egoismi ad esso connessi e le negatività, le nefandezze implicite o esplicite di attribuzione del denaro con caratteristiche improprie, quasi sempre di natura deprecatoria e iniqua.

Spesso il termine “capitalismo” è seguito da oscuri presentimenti negativi, quali espressioni derivanti da una frattura che, se sta nell’ordine delle cose come iniqua, ne segna certamente una involuzione di segno etico-morale, in funzione di quella sventurata sete di potere e di arrivismo economico che ogni individuo porta in sé, nella sua parte più malvagia e perversa.

In realtà, nella società del postmoderno il dio-denaro divenuto segno distintivo di malaffare e di mercato illecito, ha prodotto solo scompensi e catastrofiche inversioni di accaparramenti illeciti  dell’economia planetaria; ha forgiato una società “malata”, priva di scrupoli, compromessa a tal punto da rappresentare un pericolo per le nazioni, poiché va ad inserirsi in un sistema di scambi direzionali difettivi dell’ordinamento etico del mondo.

Il “capitalismo” moderno accoglie in sé il fondamento più deprecabile dell’individuo, in quanto l’istinto perversivo di accaparramento dei beni materiali è divenuto nel tempo sempre più invasivo ed esponenziale dominandone il senso speculativo con mezzi illeciti. I danni che ne derivano sono nell’ordine morale, ma anche di “potere” sugli altri.

La degenerazione del prodotto speculativo inquina e corrode la mente, paralizza le capacità economico-finanziarie di un popolo o nazione, riduce le norme vigenti in mere e improponibili devianze, entro cui il genere umano viene stritolato da un complicatissimo meccanismo che lo ammorba e corrode, in un deterioramento e pervertimento della logica e della coscienza. 

100 THOUSAND POETS FOR CHARGE – 100mila poeti per il cambiamento

100mila poeti per il cambiamento: oltre 500 eventi nel mondo.

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In Italia una raccolta no profit di poesie su pace, diritti umani, ambiente, etica e lavoro.
Destinatari la politica e le Istituzioni.
Albeggi Edizioni ha aderito alla manifestazione 100 Thousand Poets for Change, che si svolgera’ il 28 settembre in tutto il mondo, con un’antologia di poesie sui temi della pace, dei diritti umani, della sostenibilità ambientale, dell’etica nell’economia e del lavoro, prodotta senza scopo di lucro, che verrà consegnata a rappresentanti istituzionali e resa disponibile gratuitamente sul web. L’obiettivo dell’iniziativa è ridare dignità alla poesia come mezzo di espressione della denuncia civile e sociale, esortando le Istituzioni a mettere al centro dell’agire di governo e politico l’Uomo, i suoi bisogni, il suo futuro.
29 le poesie inedite di: Lucianna Argentino, Claudio Arzani, Fabio Barcellandi, Carlo Bordini, Marisa Cecchetti, Marco Cinque, Massimiliano Damaggio, Andrea Garbin, Giuseppe Iannarelli, Giovanna Iorio, Roberta Lipparini, Gianmario Lucini, Gabriella Modica, Paola Musa, Benny Nonasky, Guido Oldani, Paolo Polvani, Valeria Raimondi, Riccardo Raimondo, Ottavio Rossani,Francesco Sassetto, Adriana Scanferla, Jamshid Shahpouri, Christian Sinicco, Angelo Tonelli, Caterina Trombetti, Claudia Zironi e dei due fondatori dell’iniziativa mondiale Terri Carrion e Michael Rothenberg.
Scrive nella sua prefazione il poeta e critico Ottavio Rossani: Le condizioni sociopolitiche del nostro Paese richiamano i poeti ad esercitare il rigore logico ed il coraggio passionale per denunciare la vergogna delle incompiutezze, delle stragi, della corruzione, delle cadute etiche, della perdita dei valori, delle lacune professionali in tutti gli ambiti produttivi, e di una burocrazia ancora cieca e sorda davanti ai cittadini.
Le poesie di questa raccolta toccano infatti argomenti di forte impatto sociale, politico e di cronaca. C’è la guerra, con le sue atrocità, e la sua vicinanza; c’è il bisogno di etica nella politica e nella società; c’è l’ambiente e le sue sofferenze; ci sono sguardi preoccupati sulle nuove povertà, sulla vergogna delle carceri, sulle tendenze razziste e xenofobe in Europa. Ci sono sguardi pietosi su fatti di cronaca, come i suicidi dei ragazzi derisi per la loro diversità, la violenza che si consuma tra le pareti domestiche, i fatti di Genova, il fioraio suicida ad Ercolano al quale sono state dedicate due poesie. Ci sono versi di profonda indignazione
verso chi profana le Istituzioni e versi di profondo amore per lʼItalia, per la sua bellezza.
Iniziata nel 2011 con una call to action su facebook, 100 Thousand Poets for Change sta oggi davvero scuotendo le coscienze del mondo, chiamando a raccolta artisti di varie discipline da ogni angolo del pianeta, con la Stanford University curatrice di un enorme archivio permanente globale. La gente è ovunque alla ricerca di un cambiamento positivo – scrivono Michael Rothenberg e Terri Carrion nella presentazione.
Sabato 28 settembre il museo dei bambini Explora di Roma accoglierà l’iniziativa mondiale ospitando alle 16 un workshop poetico in cui un gruppo di autori dell’antologia incontrerà i bambini per avvicinarli alla poesia.
Chi, meglio dei bimbi, come futuri attori del cambiamento.

“Herzog” di Saul Bellow, recensione di Anna Maria Balzano

Herzog di Saul Bellow

Recensione di ANNA MARIA BALZANO

 

imagesCA7ZGSPEHo riletto Herzog dopo molti anni, spinta dal desiderio di capire perché ricordassi ben poco di questo romanzo, opera di un grande scrittore americano, Saul Bellow, Premio Nobel per la Letteratura. I primi capitoli mi hanno indotto a credere di aver rimosso sia la trama che il significato del libro, a causa della lentezza narrativa e di quella che mi era sembrato un eccessivo sfoggio di erudizione, con le frequenti citazioni di artisti famosi, letterati, filosofi, storici. Procedendo nella lettura, ho dovuto ammettere, con un doveroso atto di umiltà, di non aver affatto colto, anni addietro, diciamo pure capito, il vero significato di quest’opera, grandiosa, non solo nella sua qualità espressiva e nell’impianto narrativo, ma soprattutto per il messaggio drammatico, ma non distruttivo che ci consegna. Un atto di umiltà, dunque, doveroso per chi persegue la più impeccabile onestà intellettuale.

Definirei Herzog un romanzo d’analisi, un antiromanzo, se vogliamo attenerci al vero significato del termine romanzo, facendo riferimento alla sua etimologia e al rapporto con il romance. Chi si aspetta un romanzo che descriva una storia ricca di avvenimenti e di azione rimarrà deluso. Qui siamo di fronte a un’analisi approfondita del pensiero, dei sentimenti, delle schizofrenie e delle idiosincrasie di un personaggio/intellettuale, che non trova più alcuna collocazione in un mondo eccessivamente meccanicistico e materialista: quello che in qualche modo ha rappresentato Woody Allen nei suoi migliori film.

La prima questione che ci si pone é se considerare Herzog eroe o vittima del dramma che sta vivendo. Il fallimento della sua vita sentimentale, due divorzi, numerose relazioni occasionali, fanno di lui il modello dello psicotico depresso; saranno i suoi insuccessi, il suo annientamento come uomo/amante la molla che lo indurrà ad iniziare il suo viaggio spirituale che dovrà condurlo alla sua Terra Promessa. E certamente la scelta del nome Moses non è casuale. Né il personaggio Moses disdegna di essere considerato addirittura pazzo: d’altronde nella tradizione letteraria anglosassone spesso la follia viene considerata il mezzo attraverso il quale si può giungere alla conoscenza del vero. Non si dimentichi il Lear di Shakespeare, uno per tutti.  

Sarà proprio nella casa di Ludeyville, che aveva acquistato per Madeleine, per farne il loro nido d’amore e che si era in breve trasformata in un inferno, dove ritornerà alla fine delle sue peregrinazioni più spirituali e intellettuali che fisiche: quello stesso luogo che lo aveva visto infelice, quando era  ben curato, ora, invaso dalle erbacce e nido di insetti e animali selvatici, nonché luogo di ritrovo di coppie occasionali introdottesi per consumare approcci sbrigativi, diventa l’ambiente ideale in cui può ritrovare la sua serenità a contatto della natura più spontanea e incolta, realizzando il sogno del beau sauvage  che alberga in ogni artista/intellettuale. Qui dopo aver ricostruito come una sorta di puzzle la sua vita, dall’infanzia, senza tralasciare, anzi insistendo sulle sue origini ebraiche, abbandonato dagli affetti più cari, senza amore e senza amicizia, ricomincerà a vivere con l’aiuto di Ramona, l’unica donna che forse avrebbe potuto accettarlo per quello che era. Diversa Ramona da Madeleine, che nella sua superficialità, era stata attratta dal suo spessore di uomo di cultura, solo per soddisfare un’esigenza snobistica.

Vivendo e sopravvivendo alla sua profonda sofferenza, Moses Herzog affida questa difficile operazione di riscatto alle numerose lettere che scrive a personaggi illustri, viventi o deceduti, senza mai spedirle, in cui analizza sentimenti, teorie, avvenimenti storici. Sarà lui stesso a confessare di andare alla ricerca della realtà attraverso il linguaggio.

In conclusione non si può certo affermare che questo grande romanzo di Bellow sia di facile o amena lettura, ma certamente è un’opera illuminante sulla sfera intellettuale e sentimentale dell’individuo, che troppo spesso giace sopita nel caos involgarito della vita moderna.

 

QUESTA RECENSIONE VIENE PUBBLICATA DIETRO GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.

 

 

 

E’ uscito il nuovo libro di racconti di Iuri Lombardi: “Il grande bluff”

Il grande bluff
di Iuri Lombardi
Lettere Animate Editore, 2013
ISBN: 9788897801887
Pagine: 123
Costo: 10 €
Link alla vendita del libro
 
 
9788897801887SINOSSI: Il libro è una raccolta di racconti scritti negli ultimi dieci anni dell’autore e affrontano tematiche diverse legate tra di loro ad un filo sociale e civile. Una certa attenzione, presente in tutti i racconti, è il tema della emarginazione, di ogni tempo e luogo. Un libro sulla società e sul mondo “moderno” che vuole far riflettere e stuzzicare idee e pensieri di persone forse assopite nel consumismo.

 

 

 

 

 

 

 

L’AUTORE

23119048_la-sensualit-dell-erba-di-iuri-lombardi-recensione-di-lorenzo-spurio-0IURI LOMBARDI nasce a Firenze nel 1979.
All’età di diciannove anni inizia a fare il giornalista presso alcune testate locali. Nel 2005, dopo anni di costante rapporto con la stampa, sia come free-lance sia come pubblicitario, approda in radio con un programma sul cinema presso Novaradio di Firenze dietro i microfoni di Universo di celluloide. Nel 2006 esce il primo romanzo, scritto a quattro mani con lo scrittore Vincenzo Labanca, Briganti e Saltimbanchi: una storia storica-antropologica, ambientata in Lucania al tempo dei briganti; del 2009 è il secondo, Contando i nostri passi; un romanzo di formazione sugli anni della gioventù universitaria. Nel 2011 esce il terzo romanzo, La Sensualità dell’erba; una storia complessa e fortemente attuale sugli intrecci di sesso e potere.Nel 2013 pubblica per Photo City Iuri dei Miracoli e sempre nello stesso anno per Lettere animate la raccolta di racconti Il Grande Bluff-l’efebo ed altre coincidenze.
Da anni attivo collaboratore e protagonista della cultura fiorentina tramite eventi, spettacoli, dibattiti organizzati, collabora a diverse riviste letterarie. É presidente dell’associazione culturale PoetiKanten ONLUS.
http://www.iurilombardi.altervista.org/bio.html
http://www.facebook.com/iuri.lombardi

“Il lavandino insanguinato”, poesia di Lorenzo Spurio

Il lavandino insanguinato

poesia di LORENZO SPURIO  

9469753-flusso-di-sangue-nel-lavandinoPensavo ai manigoldi d’altri tempi,
ma la mente si lambiccava con quelli
della monotonia dell’odierno.
Le comete si sgretolavano
come il grano dorato
mietuto
seccato
polverizzato
fino a scomparire.
Mangiavo un pane scuro
cotto al forno, forse troppo
perché spesso feriva le fresche gengive,
ma il suo sapore m’invitava.
Sangue sul lavandino
e il giorno dopo
anche la mollica era roccia
e le briciole sembravano
croste di pelle essiccate
di un mostro cattivo,
morto per vecchiaia
senza dover combattere.

DI LORENZO SPURIO(C)

E’ SEVERAMENTE VIATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE POESIA SENZA IL PEMERSSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Se avessi previsto tutto questo – In cerca d’amore nella Catania di fine millennio” – di Luca Raimondi

Se avessi previsto tutto questo – In cerca d’amore nella Catania di fine millennio – di Luca Raimondi
Edizioni Il Foglio, 2013
ISBN 9788876064197  
Pag. 240
Euro 15
Sinossi:

Stampa21 (1)Carlo Piras, studente all’Università di Catania, vive i suoi diciotto anni incastonati nella metà degli anni ’90, in un Paese dove da pochi mesi è crollato il primo governo Berlusconi e tutto sembra finalmente andare per il verso giusto. Soprattutto in una città che sembra vivere la sua rinascita. È qui che Carlo spera di trovare nuovi amici e – forse, magari – il grande amore. Attorno a lui il mondo si muove contromano, però. Le lezioni lo lasciano perplesso, le notti sembrano stordirlo e le ragazze sono enigmi che si muovono su gambe bellissime. Il primo vero scacco coincide col mancato conseguimento della patente, ma è la cugina installata in casa a destabilizzare Carlo, che comincia a fare i conti col proprio passato di ragazzo e col futuro da uomo. L’insonnia morde, la solitudine divora. I tentativi di conquistare le ragazze di cui si innamora rivelano la sua inadeguatezza alla vita.    

“Luca Raimondi attinge all’autobiografia ma se ne distacca ironicamente, raccontando una generazione che pagava in lire e rimorchiava artigianalmente. Un romanzo di formazione impastato di umorismo ma speziato di malinconia. Un’epopea quotidiana tardo-adolescenziale in cui l’amore e l’amicizia sono i valori da esaltare e (occasionalmente) tradire. La vita com’era meno di vent’anni fa, non troppo diversa da quella di oggi. La vita, insomma”. (Roberto Alajmo).

         

Luca Raimondi è nato nel 1977 ad Augusta, in provincia di Siracusa. Presso l’Università di Catania si è laureato in Filosofia nel 2000 e in Scienze dell’educazione nel 2003. Ha pubblicato con le Edizioni Dell’Ariete i romanzi “Cerniera lampo” (1996) e “Cuore del vuoto” (1998), con Aracne “Marenigma” (2009), con Melino Nerella il lungo racconto contenuto in “Amore, rabbia e verità” (2009) e quello più breve in “Le eccellenze del gusto” (2011). È autore anche di alcuni saggi, tra cui “Nient’altro che un sogno. Pasolini e la Trilogia della vita” (Bastogi, 2005), “Il pensiero pedagogico di Pier Paolo Pasolini” (Sampognaro & Pupi, 2006) e “Comunicare la cultura” (Bonanno, 2007). Regista, montatore e sceneggiatore, tra il 2002 e il 2008 ha diretto sei edizioni del festival “Corto Siracusano” (www.cortosiracusano.it), nel cui ambito ha pubblicato il volume “Fronte del corto. Scenari siciliani del film breve”. Collabora con il periodico on line “Diorama” (www.dioramaonline.org).   

“Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile”, Edizioni Agemina (2012)

Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile
di AA.VV.
Curatore: Pina Vicario
Edizioni Agemina, Firenze, 2012
ISBN: 978-88-95555-52-5
Pagine: 134
Costo: 10 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio
Uomo!
Riprendi il tuo posto,
evita il danno e l’imbarazzo
di un mondo spogliato.
(“Uomo” di Sandra Carresi, p. 91)

Antologia-2Appena una settimana fa ho avuto il piacere di conoscere la signora Pina Vicario, poetessa e dirigente di Edizioni Agemina, una realtà editoriale di piccole dimensioni ma che sta seguendo numerosi e validi autori del panorama culturale contemporaneo. In quell’occasione la signora Vicario mi ha omaggiato di una copia del volume poetico-antologico dal titolo Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile, edito per l’appunto dalla sua casa editrice. Ne sono stato molto contento, perché un’antologia di poesia civile è probabilmente quello di cui avevamo realmente bisogno in questo oggi difficile e alienante, come pure la stessa Vicario osserva nella sua interessante nota di prefazione. Parlare di poesia civile significa imboccare un percorso il cui inizio va rintracciato in decenni e secoli a noi distanti perché, anche se i testi di storia di letteratura dedicano uno spazio approssimativo al genere, la poesia civile, voce dell’uomo e del popolo (ossia dell’uomo che si unisce) sulle problematiche che soffre sulla sua pelle, è sempre esistita. Diversi i problemi, le esigenze, le denunce o gli “inganni sociali”, ovviamente, uguale, invece, il senso di oppressione, emarginazione e sconfitta del “povero cristo” che soffre direttamente sulla sua pelle condizioni d’indigenza che contrastano, invece, con l’opulenza di chi comanda per il bene del paese. O che dovrebbe farlo.

Per questo l’antologia si apre con una prima parte nella quale si da’ spazio ad alcuni grandi poeti di sempre: William Blake, il precursore del romanticismo inglese, l’esistenzialista Ungaretti, il pessimista Leopardi, Neruda e vari altri scrittori di altissima levatura che, a loro modo, danno la rappresentazione del dramma sociale. Tra questi ci sono versi “potenti” e dolorosi come quelli di San Martino del Carso di Ungaretti e delle considerazioni amare sul senso del nascere, il genio recanatese scrive in “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: “Nasce l’uomo a fatica,/ ed è rischio di morire il nascimento” (cit. p. 10).

La seconda parte del volume, quella più ampia, da’ invece voce ai poeti contemporanei, più o meno noti, presentando anche una scheda biografica per ciascuno di essi. Un’analisi esaustiva dell’intero volume presumerebbe una scrittura critica attenta per ogni componimento; mi soffermerò brevemente solo su alcuni testi e versi, invitando però il lettore a leggerli tutti, con altrettanto interesse ed attenzione.

Marzia Carocci, poetessa e critico-recensionista fiorentino, celebra il valore della donna nella lirica “8 Marzo 1908” che rievoca la tragica morte in un rogo scoppiato in una fabbrica americana, evento attorno al quale poi nacque la “festa della donna” che tutti gli anni celebriamo. La Carocci ammonisce il lettore invitandolo a ricordare quel sacrificio e il valore-dono che la Donna stessa rappresenta: “E tu donna, che ancora lotti invano/ musa, mistero, madre del tuo tempo/ ricorda che quel fiore profumato/ è rosso sotto un giallo camuffato/ del sangue delle donne forti e fiere” (p. 31). Rosalba Satta Ceriale in “Ma la poesia non muore” riconosce il valore di questo genere letterario: difesa, approdo, consolazione e forza per concludere “Ma la poesia non muore con l’inganno” (p. 39). Nicoletta Corsalini, invece, dipinge in una lirica incalzante con dei versi reiterati, la violenza dell’uomo che si macchia di peccato, reato e prepotenza con le sue atroci azioni senza rendersi conto che ferisce se stesso nel momento in cui le compie.

Parlare di sociale non significa parlare solo di povertà, ma di tutte quelle realtà che pongono l’uomo in una difficoltà inarrestabile nel condurre una vita dignitosa: abbandono, esilio, l’essere orfani, la violenza sessuale (si legga la poesia “Broken” di Davide Rocco Colacrai, basata su di un doloroso episodio d’incesto, p. 67), l’offesa ricevuta, la prostituzione (si legga la bellissima lirica di Loretta Giannangeli intitolata “La giovane prostituta nera”, p. 55), la denigrazione, lo schiavismo, lo sfruttamento lavorale (leggere “La fabbrica che uccide” di Paolo Tonelli, p. 114), la sofferenza per la guerra (leggere “Partigiani” di Giorgia Francesconi, p. 105 che si chiude con dei versi magnifici: “Fammi lottare per il meriggio della Vita”), il vagabondaggio, la mancanza di un lavoro, la discriminazione religiosa, il razzismo e così via. C’è dolore, ma non rassegnazione in queste pagine, le lacrime si mescolano alla nuda terra, alla polvere e le grida sembrano squarciare il silenzio. In “11 settembre” Maria Grazia Castagna rievoca l’attacco più doloroso che la società contemporanea abbia mai subito scrivendo “l’umanità si accartoccia/ opulente e sciocca/ nel delirio” (p. 108).

Questo volume regala al lettore pepite d’inestimabile valore, pagina dopo pagina. Solo dalla riflessione sul mondo e dalla comprensione, che giungono solo grazie alla compartecipazione e alla condivisione d’idee, si può modificare la società nel bene, proprio come “L’uomo di fumo” di Daniele Carboni in cui l’uomo, dopo aver “emarginato, rifiutato e cancellato”, giunge a una riflessione aperta sul senso dell’esserci.

Non ci sono migliori parole che quelle usate da Anna Maria Folchini Stabile nella sua poesia “Corrono gli anni…”, un quadretto di consapevole e riconoscente storia dell’uomo, dell’italiano nella fattispecie, con riferimenti ad eventi storici dolorosi. La speranza e l’ottimismo, che sono elementi comuni in molte poesie di questo libro, non sono una manifestazione effimera dell’utopia che tutti i giorni rincorriamo, ma sono esse stesse rivelatrici di una lucida volontà di migliorarsi, aiutarsi e scoprirsi utili all’altro a partire dai più piccoli gesti:

Ci saranno
giorni migliori
quando tutto
avrà compimento,
quando ognuno,
conosciuto il suo ruolo,
farà della storia
il suo Credo (p. 113).

Lorenzo Spurio

Jesi, 13-02-2013

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Spesso ti dicono di non arrenderti” di Santi Moschella, recensione di Anna Maria Folchini-Stabile

Spesso ti dicono di non arrenderti
di Santi Moschella
Armando Siciliano Editore, 2012
ISBN: 9788874426744
Pagine: 136
Costo: 10€
 

Recensione a cura di ANNA MARIA FOLCHINI-STABILE (poetessa e scrittrice)

copertina santi moschella_copertina definitiva perlungo.qxdIl romanzo si sviluppa intorno a un luogo sacro nella memoria collettiva degli Italiani, la stazione di Bologna, dove nel 1980 si compì la tremenda strage impunita che vide perire, tra gli altri, Onofrio Zappalà, un giovane ferroviere siciliano che casualmente si era trovato sul luogo dell’attentato e che morì insieme alle numerosissime vittime.
Dopo molti anni nella medesima stazione si ritrova un altro Onofrio,  il protagonista del romanzo che è in attesa del treno, in considerevole ritardo, che lo riporterà a casa dopo un colloquio di lavoro che gli permetterà, lasciata la sua Sicilia, di raggiungere quella stabilità economica tanto agognata  per realizzare i suoi progetti futuri di uomo e di vita professionale.
Una trama molto semplice che, peró, permette all’Autore di affrontare molti temi che costituiscono le radici stesse del vivere civile e sociale e che ben si offrono alla lettura personale , ma anche guidata nella discussione in classe, su argomenti molto sentiti e dibattuti in questi anni.
Se emerge in primo piano il dibattito sull’immigrazione e sul fatto che il lavoro delle giovani generazioni è tema scottante di questi tempi, non mancano nel corso della narrazione suggerimenti all’approfondimento del discorso sull’ambiente e sulla cura e il rispetto dovuti al contesto ambientale in cui si vive. Fortissimo è il legame tra il protagonista e i due anziani che fanno da contorno alle sue vicende, la nonna Carmela e  lo “zio” Cola Presti che rappresentano il “ponte” affettivo e di memoria tra le generazioni a testimonianza che siamo tutti figli ed eredi del passato che ci ha preceduto e che, quindi, nessun uomo può prescindere dalla sua “storia”.
Importanti momenti narrativi sono quelli dedicati al valore del volontariato e dell’associazionismo, all’impegno – anche politico e inteso come scelta di fronte – per comprendere che in nessun ambito il cittadino puó rinunciare alla capacità di maturare una coscienza propria che gli permetta di scegliere la sua posizione nella giungla degli opportunismi che condizionano il vivere nel mondo attuale.
Un libro “buono” da leggere e meditare per riscoprire quelli che sono i valori e gli ideali fondamentali che costituicono l’uomo nella sua essenza e favoriscono i rapporti tra gli uomini tutti.
“Onofrio [il protagonista] é la parte più nobile che c’è in ciascuno di noi. È l’anima che attraverso il sogno riesce a vedere una nuova realtà e si batte per costruire giorno dopo giorno uomini migliori”.
Un libro “necessario” nel momento storico in cui stiamo vivendo e in cui la superficialità dei modelli proposti dai mezzi di comunicazione tende ad abbassare le mire personali giovanili invalidando gli insegnamenti e i suggerimenti educativi oppure a ridurre il tutto a fuga dalle responsabilità personali purchè si affermi l’egoismo del singolo.
Un libro da leggere che si inserisce nella tadizione dei grandi scrittori siciliani e che di nulla manca rispetto a Sciascia e Bufalino, perchè Santi Moschella riporta il lettore al messaggio fondamentale e chiarissimo: ogni essere umano che ha in sè “valori”, è egli stesso “valore” e il vivere sociale è una ricchezza che trova fondamento nella parte positiva del cuore dell’uomo.

Anna Maria Folchini Stabile

Angera, 13 dicembre 2012

 

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LA PRESENTE RECENSIONE VIENE PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.

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