“The Call Center”: spavento Vs curiosità nella poesia-telefonata della performance di Francesca Fini e Davide Cortese. Articolo di Lorenzo Spurio

Articolo di Lorenzo Spurio 

Ben dice Antonietta Tiberia in un recente articolo apparso sulla rivista romana Il Mangiaparole: «Ogni tanto qualcuno ci informa che la poesia è morta. Ma non è vero: la poesia è ben viva e lo sarà finché la porteremo nel cuore. Per questo, dobbiamo ringraziare quei poeti che tanto si adoperano, con mezzi diversi, per renderla accessibile a tutti, per portarla nei luoghi dove non arriverebbe oppure proporla a persone che non la cercherebbero mai di loro spontanea volontà».[1]

Senz’altro curiosa e innovativa la performance poetica di Francesca Fini[2] e Davide Cortese[3] che lo scorso novembre (esattamente il 3 novembre 2019)[4] si è tenuta presso la stanza media del Macro Asilo a Roma. Il progetto, dal titolo inequivocabile “The Call Center”, aveva a che vedere con l’idea di un contatto diretto tra un produttore di poesia e un ipotizzabile ricettore. Un pubblico qualsiasi, trasversale, non scelto, non dotto (non necessariamente), frutto di nessun tipo di scelta e selezione, volutamente indistinto e potenzialmente teso verso un qualsiasi identikit umano. Si tratta dell’evento-avvenimento che Cortese e Fini, con le istallazioni della stessa Fini, hanno voluto portare in scena: una sorta di reading poetico cadenzato, a colpi di cornetta. Performance che non può non far pensare all’invettiva del poeta americano John Giorno (1936-2019) che in Dial a Poem, munito di una cornetta nera (esposta in mostre con suoi reperti e opere) provvedeva a chiamare a random un pubblico declamando poesie di William S. Burroughs, Allen Ginsberg, Diana De Prima, Clark Coolidge, Taylor Mead, Bobby Seale, Anne Waldman e Jim Carroll.[5]

Nel progetto di Fini/Cortese era previsto che il performer, in questo caso non semplice dicitore ma poeta egli stesso, fosse munito di un elenco telefonico della Capitale dal quale trarre numeri di casuali destinatari. Si apprestava così a chiamare, in maniera ordinata, una platea incognita di possibili fruitori della poesia, dietro sua sollecitazione. Viene fatto il numero, la cornetta dall’altro capo del filo squilla e si attende quel tempo, normalmente assai breve, affinché il destinatario si approssimi a rispondere alla chiamata. Ma chi trova dall’altra parte? Non un familiare, non un amico né un collega di lavoro. Oppure – se vogliamo – al contempo tutto questo e anche dell’altro. Trova una voce qualsiasi, di una persona sconosciuta, che chiede di poter recitare una poesia.[6] Una beffa? Forse sì per alcuni. Una perdita di tempo? Altrettanto plausibile nel pensiero di altri. C’è chi storce il naso e, sbigottito, non perde tempo a riattaccare per ritornare alle sue mansioni credute di rango superiore all’ascolto di alcuni sani e gratuiti versi. Chi, intimorito (come non poterlo essere in questa società che grida e inveisce, fatta di persone che ti cercano sembrerebbe solo per un proprio fine di qualche tipo, non di rado economico?) intuisce una possibile inchiesta su prodotti, su tendenze e usi nelle famiglie o, al contrario, di un probabile call-seller, un venditore, un molesto ripetitore di formule persuasive, procacciatore di intercalari di cortesia per cercare di allontanare la discesa della cornetta e la rottura del contatto. È ciò che accade nella gran parte dei casi, è vero, come dar torto a chi, preso in un momento di piccola pausa dal lavoro o chi, tra gli sforzi del seguire un familiare malato, riceve una chiamata imprevista il cui contenuto è nullo, privo di significato, astratto? Ed è proprio in ciò che risiede la potenzialità di questo progetto: nel cercare in uno sconosciuto – potrebbe essere il nostro vicino che mai salutiamo – di farsi accogliere nella propria casa, senza nessun fine disgiunto dal contenuto del messaggio. Quello di usufruire di un bene immateriale, collettivo, gratuito e non deteriorabile quale è la poesia. Se è vero che sono pochi coloro che possono rispondere positivamente a una chiamata di questo tipo, nel lasciarsi coinvolgere da una relazione misteriosa, nel concedere un po’ di tempo all’altro fornendo il solo ascolto nel recepire il messaggio, non c’è neppure da biasimare la poca confluenza e propensione dell’altro a rendere praticabile questo tipo di esperimento.

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Le variabili, i contorni, ne abbiamo già accennati alcuni, possono essere innumerevoli, tutti plausibili e più o meno onesti anche se, dopo che il mittente chiarifica che non si tratta di una vendita telefonica ma di una persona che si offre di leggere una poesia, non si capisce il perché della diffidenza nel continuare a sentire per qualche altro minuto. Si comprende che, al di là dei canonici motivi del poco tempo, della frustrazione collettiva, della poca fiducia nell’altro, si assommano una serie di altri motivi quali l’incomprensione propriamente detta, la considerazione della poesia alla stregua della vendita dell’enciclopedia Treccani, l’inutilità dei contenuti, finanche la paranoia vera e propria. Tutti aspetti che nascono, si fortificano e si estremizzano nel brevissimo tempo del rapporto comunicativo che intercorre tra l’alzata della cornetta e la chiusa della chiamata, in alcuni casi davvero una manciata di secondi.

Le poesie che il performer legge sono di sua produzione o appartengono ad autori del mondo classico ai quali lui (e la curatrice, come il caso di Lowell)[7] si sentono particolarmente legati; tra di essi Walt Whitman, Gregory Corso, Emily Dickinson e Amy Lowell. Cito dalla descrizione della iniziativa: «L’esperienza alienante[8] dei call center, dove il poeta Davide Cortese ha lavorato per un periodo della sua vita, si trasforma in un’azione surreale che capovolge completamente il significato delle telefonate commerciali, instaurando con lo sconosciuto dall’altra parte del filo un’inaspettata relazione poetica priva di scopi utilitaristici». Il funzionamento di questo attacco d’arte, questa performance poetico-sonora, di questo esperimento sociologico: «Davide si siede al tavolo e apre le pagine bianche. Senza pensarci troppo sceglie un numero a caso e chiama. Quando intercetta una presenza umana dall’altra parte del filo, comincia a recitare una poesia, dalla pila di libri che tiene accanto al telefono. Una roulette russa poetica, inaspettata, imprevista e imprevedibile, scevra da mediazioni, presentazioni, preliminari, filtri e formule di cortesia. Ogni nuova telefonata, una poesia: contemporanea, viscerale, secca, dura, tra i denti. Le reazioni degli sconosciuti sono altrettanto sorprendenti e inaspettate: silenzio, sconcerto e, come qualcuno ha avuto poi il coraggio di confessare, puro terrore. Nella maggior parte dei casi, appena Davide comincia a recitare le sue poesie, la gente reagisce ammutolendo. Immagino occhi sgranati e fronti aggrottate, in qualche angolo della città, davanti a qualcosa di evidentemente inimmaginabile e incomprensibile: uno sconosciuto che ti chiama per dedicarti una poesia». 

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Pur vero, come sostiene Giulia Bertotto in un recente articolo dedicato a questa performance, che la lettura di una poesia – in questo contesto e con tali modalità – è «un’azione invadente ma non prepotente».[9] Come dire, è vero… la telefonata può scioccare (oltre che scocciare!) tanto da far rimare il destinatario alla cornetta senza un filo di voce, interdetto e curioso al contempo, da motivarlo in pochi frammenti di secondi a chiudere quella telefonata-boutade o a dare qualche secondo aggiuntivo “omaggio” al chiamante per farsi meglio interpretare. Eppure, per quei pochi che lo scopriranno (che crederanno nel beneficio del dubbio), noteranno che non avranno niente da perdere: nessuno li minaccerà, nessuno chiederà firme elettroniche, pin del proprio bancomat, né dovrà sorbirsi gli intercalari osannanti e mielosi di un venditore di fumo. O forse sì, perché, in fondo, cos’è la poesia? Perché si usa la telefonata se non per comunicare qualcosa di urgente, utile o necessario? La poesia possiede qualcuna di queste caratteristiche? Sì per alcuni (pochi), no per tutti gli altri (la stragrande maggioranza). La telefonata – che giunge imprevista, puntuale, aprendo a un incognito – desta sempre un grande mistero (chi si celerà dall’altro capo del filo?; adesso, che cosa sarà successo?!; lo sapevo che mi avrebbe trovato, ora cosa faccio?!) solo una volta alzata la cornetta può svelare la sua vera natura ma nel caso di questa poetry-call (che nulla ha a che vedere con un call for paper accademico con una sua deadline) non dissipa il suo gradiente di mistero e suspence anche una volta che l’interlocutore ha chiesto “chi è?”, “cosa vuole?” dal momento che sta proprio all’interlocutore – unico padrone del mezzo, ma non del meccanismo nel quale indirettamente è stato introdotto – decidere se continuare questo “gioco”, chiamiamolo così, nella sua accezione di qualcosa di infantile e di indescrivibile al contempo, o per lo meno tentare di comprenderne un po’ meglio i contorni. Cosa che, come Cortese stesso ha rivelato, in pochi hanno deciso di fare.

Frenesia del vivere, disinteresse, disattenzione e fastidio, ma anche mancanza di coraggio – bisogna rivelarlo – nel predisporsi al nuovo, nel gettarsi verso l’incognito. Spazio sconosciuto che si può conoscere e abitare, semplicemente lasciando qualche secondo in più al mittente per recitare qualche altra battuta. E poi, in fondo, anzi in principio, la questione cardine: la poesia. Ovvero quella strana materia scolastica fondata sul ripeti a memoria, fai copia-incolla cerebrale e ripeti alla bisogna, usa e getta… quella cosa pedante da libri a rilegatura pesante di stoffa scura che prendono polvere in qualche angusta libreria di legno che sembra scricchiolare al passaggio, come un qualche lamento di anime. Può destabilizzare una poesia? Può arrecare disturbo, disagio o addirittura spavento l’assistere alla lettura di una poesia? Semmai può creare incomprensione per questa proposta che avviene in maniera incisiva e invadente… Lo spiazzamento che si crea tra l’apertura della chiamata e la decisione istintuale di mettere fine alla conversazione improbabile e assurda, viene coperto da un tempo brevissimo. In pochi – stando alle dichiarazioni dello stesso Cortese caller-poeta, poet-performer che viaggia sulle linee telefoniche – decidono di accettare la sfida e di dedicarsi tempo (non è solo un dedicare tempo all’altro, allo sconosciuto mittente, ma a se stessi, ed è questo il bello) pervasi dai propri dilemmi, ammorbati dal temperamento bizzoso di chi, con una telefonata di quel tipo, si è in qualche modo visto offeso, disturbato, quasi violato nel suo universo domestico. Ci sono anche le eccezioni, è vero e, in quanto tali, non vanno dimenticate e sono meritorie di menzioni; come ha riportato Antonietta Tiberia nel suo articolo «[Alcune] persone, specialmente donne anziane sole, hanno ringraziato per il piacevole intermezzo nel loro pomeriggio di solitudine domenicale».[10] Lo spettro delle risposte è assai ampio: dalla prepotente indifferenza che non dà scampo al performer e che lo silenzia subito chiudendo la chiamata dopo pochi secondi, a un atteggiamento di curiosità mista al tormento che, invece, motiva l’apertura della chiamata… vale a dire il destinatario non interviene (in nessun modo, in nessuna forma) ma resta in ascolto, un po’ inebetito e un po’ affascinato. Dall’altra parte ci sono casi che evidenziano un reale interesse, finanche (raro) una reale partecipazione dell’interlocutore che fa domande, interviene, commenta, addirittura (rarissimo) esprime un giudizio critico o un parere su quel testo o che, avendo introiettato il meccanismo e avendolo trovato utile e divertente al contempo, chiede di poter recitare lui stesso una sua poesia. Nel chiamare a caso i numeri tratti dall’elenco, in effetti, c’è la stessa possibilità di chiamare un meccanico che un poeta, un chirurgo appena rientrato a casa da una dura giornata di lavoro o un modesto carpentiere, come pure un italiano o uno straniero, un anziano o un bambino (e potremmo continuare così all’infinito!) ad ulteriore evidenza di questa applicazione fortemente libera e partecipativa, democratica, scevra da parametri di qualsiasi natura. Così come sono variegati i profili umani dei destinatari, altrettanto lo sono le loro risposte, le loro non risposte, le loro esitazioni, fughe, riprovazioni e condanne.

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Alcune considerazioni dello stesso Cortese in merito alla performance possono aiutarci a comprendere ancor meglio il raggio d’azione e gli intendimenti di questo procedimento, finanche gli esiti raggiunti. In una recente intervista da me condotta al poeta, questi ha rivelato che «Le mie aspettative non sono state deluse. Ero convinto che in molti sarebbero rimasti ad ascoltare, anche solo per curiosità, e così è stato. […] Certamente l’avere all’altro capo del filo un perfetto sconosciuto fa mettere sulla difensiva. Ma lo avevamo messo in conto. Faceva parte del gioco. […] Da questa performance si può desumere che anche tra quelli che non si professano amanti della poesia ci si può ritagliare uno spazio d’attenzione per quest’arte meravigliosa». 

Chi meglio della stessa ideatrice della performance può parlarcene? A continuazione qualche mia domanda posta a Francesca Fini e le sue preziose risposte.[11]

1) Com’è nata l’idea di questa performance e quali obiettivi si proponeva? Essi possono considerarsi raggiunti?

La performance è nata in seguito ad una riflessione che personalmente porto avanti da moltissimo tempo sulla possibilità concreta di realizzare una performance interattiva e immersiva, in cui la separazione tra pubblico e privato, spettacolo e spettatore, venga realmente abbattuta. La risposta a questo eterno quesito, nel caso delle performance che implicano un coinvolgimento del pubblico presente nello stesso spazio del performer, è chiaramente no. Nel senso che il coinvolgimento viene condizionato dalla consapevolezza dello spettatore di essere coinvolto nell’azione artistica, dalla sua preoccupazione di calarsi in una parte e, quindi, di vestire la maschera di ciò che ci si aspetta da lui in quanto spettatore-attore. Comincia quindi, inevitabilmente, a recitare una parte. E dove c’è recitazione, dove c’è rappresentazione, non c’è più performance art. Ho notato come quasi sempre le performance cosiddette interattive, realizzate cioè coinvolgendo il pubblico presente nello spazio performativo, consapevole di diventare parte dell’opera, naufraghino in una sciatta mistificazione concettuale, in una maldestra simulazione di spontaneità e autenticità. Ho quindi immaginato un performance radicale che si basi sul coinvolgimento di un pubblico veramente inconsapevole, ignaro di diventare parte di un’azione artistica. L’idea del telefono è stata prodotta da queste riflessioni, e da lì si è poi sviluppato il concept generale della performance “The Call Center”, con la collaborazione di Davide Cortese, che in scena è semplicemente se stesso, nella doppia veste biografica di poeta e di operatore di call center. Gli obiettivi credo siano stati felicemente raggiunti.

 

2) Porterete questa performance in altri contesti, riproponendola, con la partecipazione di un pubblico come fatto al Marco Asilo di Roma?

La performance “The Call Center” è pensata come dispositivo portatile, adattabile a qualsiasi contesto espositivo e a versioni site-specific. Sono già in contatto con altri festival interessati ad ospitarla, anche all’estero, e con una società per realizzare un vero e proprio set, con gli stessi strumenti e arredi che vengono utilizzati in un call center, lavorando con veri operatori di telemarketing commerciale, che affronteranno una sfida assolutamente nuova, quella di tenere al telefono il potenziale cliente con la poesia.

 

3) La performance può essere definita come un esperimento sociologico? Se sì, ora che è terminata, quali dati di lettura e analisi possono essere dedotti e riferiti?

Ogni opera di performance art pubblica è, di fatto, un esperimento sociologico: innesca una serie di domande, a cui spesso non si trovano risposte esaurienti, sul rapporto tra arte e vita, tra esperienza e rappresentazione, tra verità e finzione. Nel caso di “The Call Center”, questo principio è del tutto evidente. Naturalmente nessuno di noi ha scelto di registrare i dati prodotti dalla performance per una sua lettura analitica, e neppure abbiamo sviluppato preventivamente un criterio scientifico per la registrazione di questi dati. Perché abbiamo scelto di rimanere nel campo effimero dell’arte performativa, il cui impatto è sempre transitorio, la cui narrazione si apre a infinite possibili letture e il cui criterio fondamentale non è quello del senso ma della sensazione. La sensazione più clamorosa che sicuramente questa performance ci ha dato – comunicandola con forza al pubblico presente in sala, quello sì, vero spettatore oltre la quarta parete – è che oramai siamo abituati esclusivamente a comunicazioni di carattere utilitaristico e commerciale. Da cui, ovviamente, abbiamo imparato a difenderci. La comunicazione puramente empatica, priva di secondi fini, tra sconosciuti, non è più considerata qualcosa di possibile per lo stile di vita contemporaneo. Si cerca dietro la strategia, la fregatura, il trucco. La chiacchiera inutile ma utile, senza scopo ma con un fine, per ammazzare il tempo e così dargli un senso, quella dei nostri nonni e di quelli prima di loro, è severamente bandita. Con Davide abbiamo provato che invece questo tipo di comunicazione fa parte del nostro DNA già antico. Ce ne siamo accorti ascoltando lo scambio con quegli interlocutori – pochi ma buoni – che hanno deciso di far cadere il sospetto, di stare al gioco, di farsi trascinare in una situazione così insolita e surreale. E quando riattivi quella latente porzione di codice del nostro DNA, in un sonnacchioso pomeriggio domenicale, scoppia la magia.

Lorenzo Spurio

 

Bibliografia

Bertotto Giulia, “L’arte contemporanea nella poesia: The Call Center”, Slam Contemporary, 3 novembre 2019, https://slamcontempoetry.wordpress.com/2019/11/11/larte-contemporanea-nella-poesia-the-call-center/

Di Genova Arianna, “John Giorno, l’artista che regalava poesia al telefono”, Il Manifesto, 13/10/2019, https://ilmanifesto.it/john-giorno-lartista-che-regalava-poesie-al-telefono/

Tiberia Antonietta, “Poesia al telefono. Call Center poetico al MACRO asilo”, Il Mangiaparole, n°7, luglio/settembre 2019, p. 44.

Intervista a Francesca Fini per performance novembre 2019: https://www.youtube.com/watch?v=DfJ1okAHKRI

http://performart.altervista.org/the-call-center-performance-art-tv/

https://abitarearoma.it/the-call-center-davide-cortese/

https://vimeo.com/groups/21825/videos/385885170

 

Note di riferimento 

[1] Antonietta Tiberia, “Poesia al telefono. Call Center poetico al MACRO asilo”, Il Mangiaparole, n°7, luglio/settembre 2019, p. 44.

[2] Francesca Fini è un’artista interdisciplinare la cui ricerca spazia dalla video-arte al documentario sperimentale, dal teatro alla performance art, dalle arti digitali all’installazione pittorica, inoltrandosi in quel territorio di confine dove le arti visive si ibridano, cercando di proporne una sintesi nuova proprio nel linguaggio performativo contemporaneo. Negli anni ha performato ed esibito il suo lavoro in numerosi contesti di alto livello sia in Italia che all’estero tra cui al MACRO (Roma), Manege Museum (San Pietroburgo), Schusev State Museum of Architecture (Mosca), Arsenale (Venezia), a Toronto, Chicago, San Paolo, Rio. Ha realizzato “Ofelia non annega”, un lungometraggio sperimentale, che mescola il linguaggio della performance art a quello dell’archivio storico. I suoi video sono distribuiti da Video Out di Vancouver e VIVO Media Art Center.

[3] Davide Cortese è nato sull’isola di Lipari (ME) nel 1974 e vive a Roma. Per la poesia ha pubblicato ES (1998), Babylon Guest House (2004), Storie del bimbo ciliegia (2008), Anuda (2011), Ossario (2012), Madreperla (2013), Lettere da Eldorado (2016) e Darkana (2017). I suoi versi sono inclusi in numerose antologie e riviste cartacee e on-line, tra cui Poeti e Poesia e I fiori del male. Nel 2015 ha ricevuto in Campidoglio il Premio Internazionale “Don Luigi Di Liegro”. Autore anche di raccolte di racconti.

[4] Non si è trattata della prima performance di questo tipo dato che già due anni prima, nel novembre del 2017, venne realizzato, sebbene in una dimensione domestica nello studio di Francesca Fini. Qui si trova il video di quella esperienza: https://www.facebook.com/performancearttv/videos/544181842601278/ mentre a questo link un estratto della performance romana: https://vimeo.com/groups/21825/videos/385885170

[5] «Dial-A-Poem scaturì da uno scambio con il sodale Burroughs; all’inizio, le linee previste erano dieci, poi crebbero: bisognava strappare più persone possibile dalla banalità del loro everyday», in Arianna Di Genova, “John Giorno, l’artista che regalava poesia al telefono”, Il Manifesto, 13/10/2019, https://ilmanifesto.it/john-giorno-lartista-che-regalava-poesie-al-telefono/

[6] In altri casi il perfomer declama direttamente la poesia senza nessuna richiesta in tal senso e il messaggio poetico, l’attacco d’arte, anticipa un qualsiasi tipo di rapporto dialogico tra mittente e destinatario.

[7] Davide Cortese in una recente intervista privata da me fatta ha dichiarato che «Amy Lowell è un’autentica passione di Francesca Fini e piace molto anche a me. Francesca ha dedicato a questa affascinante poetessa un film meraviglioso: Hippopoetess». Nessuno dei destinatari, come rivelato dallo stesso Cortese, è stato in grado di accennare o intuire l’autore di determinate liriche lette durante la performance.

[8] L’uso del corsivo è mio per sottolineare alcune parole-chiave nella descrizione del progetto fatta dallo stesso autore-performer.

[9] Giulia Bertotto, “L’arte contemporanea nella poesia: The Call Center”, Slam Contemporary, 3 novembre 2019, https://slamcontempoetry.wordpress.com/2019/11/11/larte-contemporanea-nella-poesia-the-call-center/

[10] Antonietta Tiberia, “Poesia al telefono. Call Center poetico al MACRO asilo”, Il Mangiaparole, n°7, luglio/settembre 2019, p. 44.

[11] Intervista condotta a livello privato per e-mail il 24-01-2020.

 

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Ninnj Di Stefano Busà a 360° sul concetto di amore

L’AMORE COS’E’? 2° puntata dopo il mio articolo l’AMORE S’IMPARA che molti di voi avranno perso di leggere…

Parlare d’amore è fuori moda in questi tempi sterili, disagiati, fortemente impregnati di egoismo, di vigliaccheria, di miserie umane. Vuoti a perdere noi umani, in questa gazzarre di pornografia, di mostruosi edifici del sesso, di scambi interplanetari di rapporti inquinati, inquietanti: virtuosismi fuori misura (li definisco). Dio! Penserete questa ci viene a parlare di SENTIMENTI…ora, qui…Ebbene sì, vi dichiaro la mia convinzione che solo l’Amore potrà salvare il mondo, vi assicuro che non è nemmeno la Bellezza come disse uno dei grandi. L’amore è una palestra, una scuola di vita, qualcosa che ci arricchisce e ci consegna in parte all’immortalità. Chi ama ed è amato non muore.
Purtroppo, per il genere umano, non tutti lo sanno fare. Vi è una discrasia ad amare che è pari alla intolleranza tra i generi. Qui, non vi sto parlando di surrogati, di accoppiata di corpi, questa è assolutamente bandita dal tema trattato. Vi parlo di armonia tra anime, vi parlo di sentimenti che nulla hanno a che fare con la lussuria del sesso, della carne, con la strabiliante quanto insignificante didascalia dell’amore. Ma attenzione, non vi sto dicendo di escludere tout court questa esigenza, vi sto invece affermando che bisogna distinguere le due cose: l’individuo è fatto di carne e di spirito ed è a quest’ultimo che mi riferisco. Amare veramente è una materia difficile. E’ come una “laurea” non vi pervengono tutti, perché bisogna frequentare una scuola del cuore altamente sensibile alla Verità. Si tratta di un sentimento che non è accessibile ai più, bisogna imparare, imparare e imparare, essere nella forma e nella sostanza dell’oggetto d’amare. Il territorio che ci si para davanti è immenso, impenetrabile, fondo, da dare le vertigini. Si tratta di un abisso inesplorato dove la visuale è zero, per raggiungere la dimensione prefissa occorre camminare molto, fare tanta strada, bisogna superare vette altissime e dirupi, e sprofondare in tenebre che hanno dopo di loro “la luce”.
Purtroppo, la facoltà di amare, la necessità di un procedimento psicologico di crescita, di condivisione con l’altro di noi, di affiatamento con qualcuno che ci affianca, ci accompagna, o vive con noi, è una capacità attitudinale non naturale che non tutti possiedono.
Amare, poi è una cosa talmente difficile, così, rara e portentosa da divenire col tempo un privilegio, qualcosa che abbiamo o non abbiamo, quasi facente parte del DNA di appartenenza.
E non è escluso che si scopra nel tempo, che l’amore è un enzima, magari una sorta di ormone. E’ stato accertato che è un procedimento chimico all’inizio nella fase dell’innamoramento, ma credo che proseguendo nelle indagini si possa pervenire ad un altro fattore osmotico che prevede la conoscenza della materia trattata nei suoi minimi dettagli. Di recente hanno scoperto che l’innamoramento porta un’accelerazione e un aumento della melatonina: un ormone che si trova nel nostro sistema organico e che sovraintende alla scelta della persona di cui ci si innamora. Perché non potrebbe essere altrettanto anche in Amore? E non solo nell’accoppiamento sessuale?
a13Vi sono meccanismi oscuri che ci dominano, complicatissimi filamenti, accessi o collegamenti più o meno palesi che ci fanno essere diversi gli uni dagli altri, dentro un patrimonio genetico, all’interno di un tessuto umano, spirituale, morale, affettivo, logico, emozionale, che è difficilissimo da comprendere e altrettanto impossibile gestire, far confluire, armonizzare a nostro piacimento.
La parte più intima del nostro generatore intellettuale, la massa intellettiva del nostro cervello, quella più profonda, deputata ai sentimenti, al raggiungimento della felicità accanto ad un altro essere umano è quella più difficile da gestire. Ritengo perciò che sia sempre una crescita intellettiva, qualcosa che mettiamo in gioco quando siamo più responsabili, più maturi interiormente.
Cresce con noi, di pari passo, o non ci sfiorerà mai, se non l’aiutiamo a venir fuori, divenendo un tutt’uno con la nostra capacità di amare, all’interno di un sistema interiore di condivisioni e di rapporti interpersonali difficilissimi da comprendere, ma ancora più difficile da realizzare. Il successo o l’insuccesso dipendono da molte ragioni, non ultimo l’ambiente in cui siamo vissuti fino a quel momento, le crisi che ci hanno attraversato, le esperienze devastanti o felici che ci hanno fatto crescere o degenerare in atteggiamenti di difesa, di chiusura, di egoismi, di assuefazioni, di rifiuto.
Non vi è al mondo materia più difficile e più maledettamente imponderabile e incomprensibile della mente umana.
Dentro di noi è come se coabitassero mille persone diverse: una miriade di suggestioni, di atteggiamenti, di reazioni, di suggestioni, di emozioni, alle quali bisogna aggiungere, di necessità, anche il passato delle persone che ci hanno accompagnato, che ci sono vissuti a fianco dall’infanzia fino alla maggiore età: più esattamente e presumibilmente genitori, parenti, figli, fratelli, sorelle, amiche. E’ come se, vivendoci accanto, ci lasciassero dei segni, delle escoriazioni, delle ferite, oppure ci orientassero più felicemente ad intuire le regole dell’amore, ce ne indicassero gli orientamenti, o più in generale c’insegnassero a saper cogliere l’AMORE con la Maiuscola, quello vero, profondo, autentico, non distruttivo, non infelice e arido, non devastante e paranoico, non instabile e nevrastenico. SEMPLICEMENTE L’AMORE.
Ma anche a saperlo individuare non è facile, come non lo è saperlo gestire, farlo crescere e progredire… Occorrono, senza ombra di dubbio, intelligenza, dosi massicce di autoconsapevolezza, di autocontrollo, di equilibrio. Non è facile per nessuno amare e restare con lo stesso indice di gradimento per sempre. Intervengono fattori esterni, estranei al sentimento, che demoliscono ogni giorno le certezze, rimuovono la stima, deludono, irritano. Non si può essere sempre come rocce adamantine dentro un mare in tempesta, vi sono momenti oscuri, esigenze diverse, tempi diversi e diversi modi di sentire lo stesso sentimento, che ci deviano, ci confondono. Ma basta essere maturi, cresciuti nell’orbita di un sentire che non vuole a nessun costo giungere a situazioni irreversibili, avere il privilegio della logica, della comune ragionevolezza, per non arrivare a passi estremi di autolesionismo e di intolleranza.
Saper riportare tutto nella normalità, di un percorso comune, adulto, ragionato, educato alla tolleranza, alla comprensione, duttile, per poter progredire, crescere, perdonare, vedere le cose attraverso lenti bifocali di autodisciplina e cultura interiore, che è diversa da quella della preparazione dei corsi di studio. Questo è un metodo, una conoscenza di anime. Qui parliamo di morale e della coscienza dell’essere. Si possono avere, in tal senso, due lauree ed essere analfabeta in -amore- analfabeta in tatto, in comportamento. in educazione, meritare zero in disciplina morale e in sinergia intellettuale.
Tutto ciò è delle menti eccelse, non per comuni mortali (ci sussurriamo all’orecchio) invece non è così. Chiunque può accedere alla grazia di un Amore grande, basta non lasciarsi condizionare da fatti estranei, da esperienze che se hanno segnato i genitori, i fratelli, gli amici, non è detto che debbano coinvolgere e travolgere anche noi. Bisogna avere la mente lucida, iperattiva, in grado di discernere il bene dal male autonomamente e sapersi dire, ogni giorno, davanti allo specchio: io sono un essere razionale, ho un indice di media intelligenza, non voglio essere plagiata o suggestionata da chicchessia, voglio agire da solo, voglio sbagliare o avere esperienze autonome che mi fanno crescere, senza implodere in me stesso come un allocco.
Questo dovete fare cari amici e amiche. Ognuna delle esperienze di chi ci è stato vicino ha invece seminato zizzania nei nostri cuori, ha eluso la nostra sorveglianza intellettiva, ci ha condizionato, ha lasciato un segno, una traccia dentro di noi, ha manomesso la parte più delicata del nostro sentire, generando nei meandri più oscuri della coscienza una sorta di allarme, una specie di (in)compatibilità col mondo esterno, con l’altrui.
Mi spiego meglio: nessuno di noi vive solo, isolato in cima all’Everest, indipendentemente dall’amore o dall’affinità con l’altrui, siamo tutti legati gli uni agli altri, in una catena di sentimenti più o meno falsati, più o meno contraddittori, conflittuali con il nostro prossimo: ambienti lavorativi, rapporti interpersonali con colleghi, amici, vicini, viaggi, le nostre professioni ci portano ad intrecciare volenti o nolenti rapporti con il prossimo.
Può capitare che la persona che ci viva accanto lasci involontariamente dentro di noi un segno indelebile che non si cancellerà mai più. I genitori ad es. che sono stati i primi protagonisti della vita precedente vissuta in famiglia, hanno lavorato nel nostro subconscio quanto non osiamo neppure supporre. Il loro esempio nell’età giovanile, o nei primi anni di vita, quando la coscienza non è adulta, ma è virtualmente recettiva, fattibile, plasmabile, ondivaga, può essere determinante per una soluzione felice da parte di chi ha vissuto serenamente l’ambiente familiare, ma può anche essere un disastro per l’infelice adolescente che diventando uomo o donna si trovi sbalzato fuori, senza avere potuto imparare nulla. Si, amici, avete capito bene. L’amore s’impara, come a scuola la lezione di latino. Nulla si deve lasciare al caso e chi è analfabeta o non ha frequentato lezioni non può essere il primo della classe, perché gli manca il nozionismo atto a fargli scattare l’intelligenza, gli è del tutto estraneo o assente il meccanismo di penetrazione, di discernimento, di articolazione del bene e del male, in poche parole, tutta quella complessa struttura abilitata ad apprendere la cultura dell’amore, proprio come si apprendono le nozioni, le regole della matematica, delle lingue straniere, della fisica.
La serenità vissuta accanto può essere determinante nel suo sistema di crescita e può pregiudicare tutto l’impianto psicologico del bambino, che sarà il futuro adulto. 
Per l’infelicità, poi ci serviamo da soli. Quando abbiamo vissuto carenze di affetti devastanti, quando abbiamo dovuto superare solitudine, incubi notturni, castighi immeritati, esperienze choc, che ci lasciano defraudati dall’enzima amore, al resto pensiamo con la nostra carica di crudeltà, d’indifferenza, di egoismo, di cattiveria. Ma davvero vogliamo peggiorare le situazioni? Se appuriamo che, qualcosa non va nel nostro organismo, andiamo dal dottore, se qualcosa non va nella nostra sensibilità, nel nostro organico sentimentale, siamo tentati di guarire da soli. No. bisogna lasciarsi aiutare, perché il cervello, l’anima, lo spirito sono di gran lunga la materia più difficile in assoluto, da controllare, da curare per non rimanere coinvolti in una infelicità complessiva, devastante per se stessi e per gli altri.

NINNJ DI STEFANO BUSA’

“RISVEGLI:Il pensiero e la coscienza. Tracciati lirici di impegno civile”. Una raccolta poetica di taglio civile

RISVEGLI: Il pensiero e la coscienza Tracciati lirici di impegno civile.

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La poesia contempla al suo interno, da quando è nata, una infinità di generi e di forme espressive che sono state coltivate da autori che hanno reso grande la letteratura nazionale e mondiale e che hanno dato viva testimonianza di come il sentimento, pur mesto e indignato, possa trovare manifestazione concreta nelle parole. La poesia civile nasce in tempi lontanissimi con le prime epigrafi ed attestazioni dei poeti greci di cui si tramandano per lo più frammenti e con il passare del tempo, salvo pochi autori quasi mai di spessore editoriale ma contenutistico, ha vissuto tempi alterni di fama e di discredito perché spesso la si è voluta stringere in maniera indecorosa dentro schemi ideologici che hanno affossato autori all’interno di determinate schiere politiche. Crediamo che la poesia civile, se ben fatta e se pensata con una finalità unica che è quella di declamare una realtà denunciandone i difetti, le mancanze e le storture, possa avere anche nel nostro oggi un significato. Non un elemento di compatimento generale né di un pacifico sit-in di parole, piuttosto un velo di Maya che viene squarciato e che permette agli occhi più restii, quelli meno sensibili e filantropici, di vivere non solo il dramma personale, ma quello della collettività. La collettività è l’espressione plurale di un sentire singolo, soggettivo, privato che vive la necessità di un raffronto, un colloquio, una considerazione. PoetiKanten Edizioni ha voluto lanciare l’iniziativa di una antologia di poesia civile la cui partecipazione alla selezione di materiale è regolata dal presente bando di partecipazione. 1. Si partecipa alla selezione inviando unicamente testi di poesia a tematica civile che abbiano, cioè, un chiaro interesse sociale e che dimostrino un interesse verso fatti di cronaca accaduti, situazioni di disagio, marginalità ed indigenza, crisi economica, ingiustizia, forme di sopraffazione e tutto ciò che può rientrare all’interno di un interesse civico ed etico dell’uomo nel mondo. 2. Si partecipa alla selezione di poesie gratuitamente. Coloro che poi verranno selezionati per la pubblicazione saranno tenuti all’acquisto di tot copie a prezzo fisso secondo le modalità di seguito elencate. 3. Ogni poeta potrà inviare un massimo di 3 poesie in formato Word (ciascuna poesia non dovrà superare i 30 versi di lunghezza, eccettuati spazi tra le strofe e il titolo), accompagnate da un proprio profilo bio-bibliografico di massimo 25 righe Times New Roman p.t 12 e con un file contenente i propri dati personali (nome, cognome, indirizzo di residenza, numero di telefono, mail e l’autorizzazione contenuta al punto 4 del presente bando). 4. L’autorizzazione da includere nella scheda dei dati è la seguente: “Dichiaro sotto la mia responsabilità che i presenti testi sono frutto del mio unico ingegno e che, pertanto, sono io l’unico autore. Dichiaro, inoltre, che detengo i diritti sui presenti testi ad ogni titolo”. 5. I materiali dovranno essere inviati a mezzo posta elettronica all’indirizzo poetikantenedizioni@gmail.com entro il 10 giugno 2015. 6. L’antologia verrà pubblicata da PoetiKanten Edizioni nel corso del 2015 e presenterà un numero di autori non inferiore a 30. La curatela del progetto sarà dei poeti e scrittori Marzia Carocci, Lorenzo Spurio e Iuri Lombardi. 7. Gli autori che verranno selezionati per l’antologia verranno contattati a mezzo mail a partire da Settembre 2015 e agli stessi verrà richiesto di sottoscrivere un modulo di liberatoria che acconsenta alla pubblicazione delle poesie assieme all’attestazione di impegno di acquisto di 3 copie della antologia a prezzo complessivo di 30 € (spese di spedizione con raccomandata incluse). 8. È richiesto di inviare materiale moralmente responsabile, ossia che non offenda l’etica, la religione e che non sia portavoce di discriminazioni di ciascun tipo. 9. L’antologia, dotata di regolare codice ISBN verrà messa sul mercato e diffusa anche attraverso i siti di vendita dei libri. Sarà cura dell’organizzazione far sapere agli autori presenti in antologia le indicazioni inerenti alla presentazione del volume al quale sono caldamente invitati a partecipare. 10. La partecipazione alla selezione di materiale per l’antologia in oggetto è regolata dal presente bando di concorso che, chi vi partecipa, ha letto e sottoscrive integralmente. Info: poetikantenedizioni@gmail.com