“Spatriati” di Mario Desiati. Recensione di Gabriella Maggio

Recensione di GABRIELLA MAGGIO

Prima di Claudia, la realtà era quella che mi raccontavano e non quella che vedevo“, dichiara all’inizio del romanzo Francesco Veleno, il protagonista di Spatriati di Mario Desiati, edito da Einaudi, vincitore del Premio Strega 2022. Cresciuto nell’apatia del quieto vivere, Francesco non si rende conto della crisi matrimoniale dei suoi genitori se non quando risulta evidente che la madre ha una relazione con il padre di Claudia.

Pur cercando di salvare le apparenze, le due famiglie di Francesco e di Claudia sono al centro dei discorsi degli abitanti di Martina Franca. Mentre Francesco tende a chiudersi in se stesso, Claudia affronta a viso aperto la situazione, mostrandosi in pubblico con gli abiti del padre. È una ragazza libera, diversa dai compagni di scuola nelle letture, nei gusti musicali, nell’indipendenza del pensiero. Non si comporta, né si veste mai come gli altri. A chi glielo chiede risponde: “È già difficile essere uguale a me, figuriamoci essere uguale agli altri”. È la relazione tra i loro genitori che spinge Claudia ad avvicinare Francesco, che chiuso nel suo silenzio l’ha già da tempo notata e se n’è innamorato.Tra i due nasce un legame fortissimo, una reciproca intima dedizione che va oltre l’amore come innamoramento e dura nella vita adulta senza però limitare la libertà e la possibilità di fare le esperienze che si presentano ad entrambi.

Claudia e Francesco si confidano tutto, sostengono le scelte reciproche, non si giudicano, si accettano. Il loro rapporto maieutico è anche sostitutivo del genitore che prima di loro ha seguito il proprio impulso che l’ha sottratto ad un quieto vivere castrante. Francesco è in qualche modo anche un padre per Claudia e lei la madre per lui. Di pagina in pagina il lettore percepisce che il loro rapporto è complesso, è intellettuale, emotivo, viscerale e s’intreccia a quello con il luogo d’origine, Martina Franca, con i suoi paesaggi e i suoi colori, le sue tradizioni. Se talvolta le strade di Francesco e Claudia sembrano dividersi, alla fine tornano sempre a rincontrarsi perché entrambi condividono “i semi della poesia, l’intreccio delle radici” l’attenzione al mondo interiore. Ma anche per la complicità di sentirsi fuori del tempo e l’illusione di essere salvi, perché ormai liberi di assecondare quello che ciascuno sente di essere, non le aspettative della società.  Claudia aiuta il più timido Francesco a conoscersi e a seguire le proprie inclinazioni, invitandolo a Berlino, dove si può essere liberamente trasgressivi e sperimentare l’istinto del proprio corpo: “Lì Claudia era libera, si amava e si perdeva, lavorava e mangiava, falliva e ricominciava da capo, senza mai sentirsi uno zero”. 

A Berlino Francesco incontra Andria e con lui vive l’esperienza decisiva e liberatoria della sua  vita. Spatriati, come dice il titolo, nel dizionario martinese-italiano indica chi è incerto, senza meta ed esprime compiutamente  la lunga strada che i due giovani percorrono prima di ritrovare  se stessi. Altre parole martinesi crestiene, malenvirne, che danno il titolo ai primi capitoli del libro, richiamano la cultura paesana, il pensiero meridiano, la gioventù trascorsa nella provincia mediterranea, dove andare lenti è conoscere le differenze della propria forma di vita. Le parole tedesche Ruinenlust, Senhsucht, Torschlußpanik che danno il titolo agli altri capitoli si riferiscono  all’età adulta  vissuta  a Berlino, alle  percussioni della musica techno, all’accettazione e alla pratica dell’essere spatriati.

L’ultimo capitolo, Amore, è da intendersi, come  dice  in un’intervista  Desiati,  nel significato del dialetto martinese, “e non vuol dire amore come potremmo pensare, bensì è sinonimo di sapore. Una polisemia così sconvolgente che l’ho trovata perfetta per quello che avevo in testa di far succedere nell’ultimo capitolo. Volutamente ho lasciato in sospeso la definizione di amore con i suoi esiti finali”. Particolare rilievo ha nella narrazione il richiamo a poeti e scrittori pugliesi che alimentano  la formazione di Claudia e successivamente quella di Francesco. Spatriati è narrato in prima persona da Francesco con un linguaggio a volte poetico, che denota la costante ricerca linguistica dell’autore. La lettura scorre agevole e coinvolgente.

GABRIELLA MAGGIO

L’autrice della presente recensione ha autorizzato il gestore del blog alla sua pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in seguito. La riproduzione del presente testo, in forma integrale o di stralci e su qualsiasi tipo di supporto, è severamente vietata in assenza dell’autorizzazione esplicita da parte dell’Autrice.

“Dolce e amara terra: la poesia dialettale del salentino Pietro Gatti”, a cura di Stefano Bardi

Saggio di Stefano Bardi 

Brindisi, capoluogo salentino di 86.811 abitanti caratterizzato prevalentemente da un’economia mezzadro-marittima a base di uva da tavola, vino, ulivi, mercati ittici. Terra di Confine è stata giustamente definita questa città divisa da un Nord, fatto di città industriali, e da un Sud composto prevalentemente da città mezzadre. Provincia che è costellata di aspre e “selvagge” cittadine Ceglie Messapica. Cittadina che ancora oggi conserva un dialetto difficile, quasi incomprensibile e difficilmente irriproducibile, costituito da due elementi: lingua cegliese e lingua messapica. Una lingua, la prima, che risente fortemente del vocabolario barese e tarantino, mentre la seconda, ormai del tutto scomparsa, altro non è che l’antica lingua illirica nata a sua volta dall’alfabeto greco e poi radicatasi nella Murgia meridionale nelle città di Brindisi e Lecce con una vasta espansione nel tarantino, fino alla fine dei suoi giorni nel 272 a. C.  Un dialetto difficile ma melodico e adatto per la poesia, come è stato dimostrato dal suo figlio più illustre, ovvero il poeta Pietro Gatti (Bari, 1913 – Ceglie Messapica, 2001). Terra, quest’ultima, in cui visse la sua infanzia e la sua intera vita.

Ceglie Messapica

Una vista del comune di Ceglie Messapica

Il 1973 è l’anno della raccolta a tiratura limitata Nu vecchje diarie d’amore (Un vecchio diario d’amore), dedicata al matrimonio della figlia Mimma, dove l’amore è visto come un bocciolo di rosa che fiorisce, un aspro dolore dalla dolce fragranza, un’avida ombra ultraterrena.    

Segue la raccolta A terre meje (La terra mia), pubblicata nel 1976. Opera dedicata alla sua amata Ceglie Messapica dove il dialetto da lui usato come sostiene l’ex Sindaco, Pietro Federico, mostra tutta l’asprezza e arretratezza di questa città con le campagne dalla rossa terra come l’argilla, con i suoi maestosi ulivi malinconici e con le sue case pitturate di bianco che rimandano all’innocenza di tanti ragazzi buttati per la strada[1]. Parole queste che vanno ampliate con quelle del critico letterario Mimmo Tardio che vede la città brindisina come una sorta di Inferno dantesco composto da villani, buzzurri, screanzati, incivili, reietti e dalle categorie socialmente più dannate.

Tema prediletto dell’intera opera è quello del legame Madre-terra che il poeta realizza attraverso la decantazione delle origini mezzadre e della terra intesa come una grande Madre Universale che ci coccola, ci perdona, ci spoglia socialmente, ci isola da tutti rinchiudendoci in un mortale sepolcro[2]. Anche le parole del critico letterario Ettore Catalano vanno aggiunte perché mostrano l’opera gattiana come una raccolta omaggiata alla sua aspra terra e allo sfruttamento dei suoi contadini, dal poeta concepiti come fatica, sangue e polvere[3].

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La terra di Pietro Gatti ha una doppia valenza, sia intesa come il luogo abitativo del poeta sia come la campagna cegliese da esso liricizzata come un dolce Paradiso Terreste e come uno scrigno colmo di nostalgie[4], un luogo dalle rosse rocce come il sangue dei contadini e dalle fragili ossa come l’umana esistenza[5], come un animale morente ormai privo di forze e infine, come una donna tutta nuda che ebbra dal sole osserva la Vita che si muove accanto a lei[6]. Terra che, però, non è solo campagna, ma anche un luogo dove il poeta viaggia nei suoi ricordi d’infanzia e dove la nenia del baracciaio[7], si trasforma in un lacrimoso lamento riguardante la sua vita fatta di miserie, sacrifici, rinunce e sogni mai realizzati[8]. L´infanzia come uno stupendo plenilunio lunare e avvolto da un’atmosfera priva di spazi, confini e materialità[9]. Una terra che simboleggia la Vita, essa che è un’asfissiante e falsa fratellanza terrena destinata a essere soffocata dalla morte, intesa da Gatti come un luogo popolato da liete ombre che vivono all’interno di luminosi Campi Elisi nell’attesa di rinascere a nuova Vita per riviverla nuovamente[10]

Il 1982 è l’anno della raccolta Memorie d’ajere i dde josce (Memorie di ieri e di oggi): memorie del passato e memorie metafisiche. Una prima memoria riguarda la sua dimora a Ceglie Messapica vecchia, concepita come il balcone del mondo dal quale osservare la paesana esistenza composta da esistenze casalinghe, da puerili schiamazzi di innocenti pargoli, da mortifere melodie ecclesiastiche e da serate illuminate dalle stelle sotto le quali giovani ragazzi si scambiamo baci furtivi. Una seconda memoria è illustrata attraverso il volo delle rondini, che simboleggia il cammino terreno degli Uomini fatto di luci, tenebre, ombre, lacrime, dolori e infine di eterni riposi riscaldati da paradisiache visioni. Una terza memoria è illustrata attraverso l’allodola, ovvero, un angelo dal divino canto[11]. Una quarta memoria riguarda Ceglie Messapica. Città dove il poeta visse la sua puerizia dai soffocanti sorrisi ma, in particolar modo, da serate avvolte da stelle sotto le quali si raccontavano fole ormai dimenticate[12]. Una quinta memoria riguarda i temporali salentini, ovvero demoniache creature che distruggono e creano nuove vite, dai puri spiriti e dalle verginee melodie. Una sesta memoria riguarda le vendemmia e in particolar modo i grappoli di uva, che non vengono raccolti a causa della dimenticanza dei contadini. Grappoli che simboleggiano le esistenziali speranze, di tutti Noi. Una settima memoria infine, è legata alla Vita medesima del poeta cegliese fatta di dolori, oscure reminiscenze, dolcezze[13], ma anche caratterizzata dal desiderio di fermare e riavvolgere il tempo per risorgere a nuova Vita.[14] 

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Il poeta cegliese Pietro Gatti. Fonte: http://www.midiesis.it/midiesis/?p=24540

Il 1984 è l’anno della raccolta ‘Nguna vite (Qualche vita) che, come mostra il critico letterario Ettore Catalano, è incentrata sulla Morte con reminiscenze emotive, terrestrità e musicata col commovente canto degli figli di Madre Natura che simboleggia lo strazio delle innocenti vittime sopraffatte dalla Vita (contadini e popolo)[15]. Si può avvicinare il noto carme Dei Sepolcri di Foscolo. In entrambi i poeti assistiamo al dialogo con i morti; nel poeta cegliese non è un colloquio con le voci illustri dei grandi Uomini ma un colloquio monovoce compiuto con l’ombra dei suoi genitori e dei suoi amici. Una madre che è ricordata dal figlio poeta come un dolce angelo dalla melodiosa voce e dal caloroso petto, come una compassionevole creatura portatrice di amore[16] e come una stupenda raccontatrice di fole[17]. Un padre rimembrato come una sapienziale fonte di Vita e gli amici infine, come dei fantasmi che si sono scordati totalmente di lui fino addirittura ad averne paura. Un’opera, in conclusione, composta da ricordi e da dolorose reminiscenze da lui spiritualmente assolte che lo accompagneranno fino alle fine dei suoi giorni[18].         

               

Bibliografia:

AA.VV., Puglia, a cura di Bruno Fratus e Rossella Tomassoni, ATLAS, Bergamo, 1982.

CATALANO ETTORE, I cieli dell’avventura. Forme della Letteratura in Puglia, Progedit, Bari, 2014.

CATALANO ETTORE, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Progedit, Bari, 2009.

Ceglie Messapica, da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Ceglie_Messapica.

VALLI DONATO, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Manni, San Cesario di Lecce, 2010, 2 vol. – Tomo I.

 

STEFANO BARDI 

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

[1] PIETRO FEDERICO, Saluti del sindaco in DONATO VALLI, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Manni, San Cesario di Lecce, 2010, 2 vol. – Tomo I, p. 25  

[2] MIMMO TARDIO, La poesia dialettale contemporanea in terra brindisina, in ETTORE CATALANO, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009, p. 328.

[3] ETTORE CATALANO, Alcune considerazioni sulla scrittura poetica di Pietro Gatti in ETTORE CATALANO, I cieli dell’avventura. Forme della letteratura in Puglia, Bari, Progedit, 2014, pp. 48-49. 

[4] DONATO VALLI, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Op. Cit., 2 vol. – Tomo I, p. 71 (“A terra mea bbone, / come se disce a lle muerte de case, / c’angore vìvene atturne: / le rape forte i ambunne / d’a grameggne, ca na ppué scappà a tutte sane, / scapuzzate a ffatìe, i ppo sobbe a lle mascere / da ppeccià u tiembe de fiche, / a sera tarde: i scattarizze de cardune / i vvambe sembe chhjù jerte a sserpiende de fueche / i jùcchele i zzumbe de le peccinne, / ca u core te rite chjine de priésce / scurdànnese pe nnu picche. / – Le fafarazze none, p’a cuscine.- / A terra meje, cu ttanda recuerde d’u tiembe lundane assé, / tutte appennute ô cendrone arruzzunute, / com’a ggiacchette / jinda case dìu puvuriedde; […]”)         

[5] Ivi, Op. Cit., 2 vol. – Tomo I, p. 73 (“[…] A terra meje, / totte nu colore de sanghe seccate da sembe, / chjene de petre de tuttu nu munnu sgarrate / – o pure jòssere de quanda muerte? – / anzieme cu a maledezzione / d’a stese de le pendemare; / sembe a lla ripe d’a vite, […]”) 

[6] Ivi, Op. Cit., 2 vol. – Tomo I, p. 78 (“[…] Ma none: / cà a terre dorme totta stennute / angore ambriache de sole, / sunnànnese u sole, / i dda a  ‘n giele le stelle a ttremende / fitta fitte accussì. […]”)

[7] Baracciaio = sinonimo di carrettiere.

[8] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 86 (“[…] Nu cande: u traeniere. Canzone? / nu laggne d’u core, na vósce / de chjande ind’ô viende ca ì ddòsce. / Nu cande: / nu chjande. / Nu spoche d’u core. / Dulore./ De cose ca ì vvute i ì pperdute? / de cose sunnate i ccadute? / de tutte? de niende? / nô sé: nu lamiende / d’u core / ca fasce dulore. […]”) 

[9] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 127 (“[…] I u tiembe cu passave / pe ind’ô sulenzie de gnne ccose come / ô fiate de le muerte, a luna dosce / sobbe a lle chjuppe ferme. / Senza tiembe.”)  

[10] Ivi, 2 vol. Tomo I, p. 102 (“[…] I ttutte ì vivve come ci sté mmore.”)

[11] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 221 (“[…] Tu quase nô vite stu ttìppete de priésce de lusce, / ma u cande, stu rise de lusce / d’u ciele d’a terre de tutte, / jete na mascìe pe ll’àneme angandate; / cande, / de jedda stesse ambriache: na terreggnole.”)

[12] Ivi, 2 vol. – Tomo I, pp. 225-226 (“O paìsu mije / nange s’à ffatte maje u sciuéche d’a vendalore, / ci na ppròpete da ‘nguarchetune, pe sfìzzie, / – pe ccude c’agghje sendute cundà – / ca certe a jere vedute a ‘nguna vanna lundane. / Ci sape percé. / O pure u sacce assé bbuene. […]-[…] Janghjenne tott’a scale ô pezzule d’a strate. / Le fatte ca ne cundamme! Sscerrate. Da ci sape quand’ave.”) 

[13] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 334 (“[…] totte nu recuerde / de sanghe, de nu core ca m’a mmuerte / na sacce cchjù da quanne, coru d’ate. / I mm’u sende pesà nu pisu dosce, / i ccarche u mije facche jete vive / jiddu sule, da sembe. Me suffòche.”)   

[14] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 299 (“[…] Jind’a ll’àtteme / m’er’ a da ccògghje na sumende – u sacce / ji quâ – da sottaterre, cu ffiureve / jind’a sta mane agghjuse a ccungaredde / com’a nnu core, pe nn’eternetà / totta meje. […]”)  

[15] ETTORE CATALANO, Alcune considerazioni sulla scrittura poetica di Pietro Gatti, Op. Cit., p. 50. 

[16] DONATO VALLI, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Op. Cit., p. 361 (“[…] jùtemè, pure tu, stinne a manodde, / m’a bbellu bbelle, attiè! cu nna tte fasce / nu male assé…”)   

[17] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 382 (“[…] Uéh, ma’! cuèndeme a vite, com’a suenne / mu pe mme, m’a chhjù mmegghje, i mm’addurmesche. / Ci sape ca…”)  

[18] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 420 (“[…] I ppure me trapanèscene u core jate sulenzie angandate / o affannuse spettanne – d’addà – ci ji me vote / i mme llundaggne senze… / Perdunàteme. Sine.”)

“La terra del rimorso” di Stefano Modeo. Recensione di Stefano Bardi

Recensione di Stefano Bardi

21nNax0z7FL._SX351_BO1,204,203,200_.jpgMare! Tema questo che è stato sempre presente nella poesia italiana dal Medioevo agli anni Duemila e che negli ultimi anni del secondo Novecento è stato usato come specchio della Vita, proprio come è dimostrato dalla raccolta d’esordio La terra del rimorso del giovane poeta Stefano Modeo (Taranto, 1990) del 2018.

Un titolo questo che richiama alla memoria il saggio La terra del rimorso dell’antropologo, filosofo e storico delle religioni Ernesto De Martino (Napoli, 1908-Roma, 1965) seppur comunque con notevoli differenze, volume che tratta il tema del rimorso. Per quanto riguarda il filosofo e studioso napoletano la Terra è il Salento e il rimorso da lui studiato attraverso il fenomeno antropologico e musicale del tarantismo riguarda le ferite storico-sociali arcaiche del Salento, che erano viste da Ernesto De Martino come squarci memorialistici non più riparabili e peggio ancora del tutto estranei all’intera storia del Salento uscendo definitivamente di scena, dalla cosiddetta Questione Meridionale iniziata da Gaetano Salvemini e poi ripresa dopo anni dall’intellettuale napoletano.

Cosa ben diversa è l’opera del giovane poeta Modeo, che può essere considerata come un diario in versi e come una denuncia che riguarda la sua natia Taranto, dove l’antico rimorso è sostituito da quello odierno, ovvero il male che infetta con i sui veleni e le sue impurità questa città fino a trasformarla in un’oscura e mortale città. Un rimorso o un dolore che infetta ogni cosa dell’esistenza cittadina e che viene mostrato dal poeta attraverso il mare, da lui inteso sia come specchio nel quale vedere gli oscuri mali di Taranto, sia come elemento naturale sempre con uno sguardo sociale.

Un primo quadro, ci mostra Taranto popolata dagli offesi o più semplicemente dagli abbandonati figli di Dio che consumano una Vita senza futuro, senza etica, costretti a un’eterna vacuità psico-sociale perché hanno scelto volontariamente di non abbandonare la loro terra natia.

Un secondo quadro ci mostra una Taranto priva di affetto e d’amore, dove le piazze sono un vacuo cuore, animate da esseri umani che sono delle ombre irriconoscibili che non pronunciano più parole d’amore.

Un terzo quadro tratta un tema attualissimo, ovvero quello dei migranti; un quarto quadro riguarda il mare, che può essere visto come elemento naturale e una creatura senza vita a causa delle infezioni industriali e delle ingordigie umane; il mare è anche visto in chiave socio-lavorativa, per mezzo del popolo operaio tarantino che è costretto a lavorare fra nubi tossiche o nelle gelide battute di pesca invernali. Un popolo che a sua volta metaforizza l’intero popolo italiano dei giorni nostri dall’infausti destini, che li priva di qualsiasi ribellione socio-linguistica e che li condanna a vivere fino alla fine i suoi giorni, nell’indigenza e nella povertà.

Un quinto quadro riguarda gli operai delle acciaierie, che secondo lo sguardo del giovane poeta sono visti per la società tarantina e per i loro padroni di lavoro come dei numeri produttivi. In mezzo a tutti questi quadri di dolore, patimenti e infausti destini c’è la poesia di luce “XXII” dai toni intimi e reminiscenziali, in cui il giovane Modeo ritorna indietro nel tempo fino alla sua infanzia, per mostrarci una Taranto piena di luce, di gioia, di amore e per fare questo usa la metafora della cartolina dove è racchiusa la Taranto dalla quale un giorno tutto il male che la infetta sparirà. Insomma, un viaggio intimo e spirituale quello fatto da Modeo. Un viaggio e un urlo di denuncia per una società infettata dal male che prende il nome di sfruttamento, razzismo migratorio, droga e malavita.

STEFANO BARDI

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

“Granelli di tempo” di Rosaria Minosa, recensione di Lorenzo Spurio

Granelli di tempo

di Rosaria Minosa

Publisfera Edizioni, Cosenza, 2015

Prefazione di Benito Patitucci

Pagine: 94

ISBN: 978889763249

Costo: 10 €

 

Recensione di Lorenzo Spurio

 

Dopo varie partecipazioni a concorsi e premi letterari nei quali è risultata più volte vincitrice e segnalata, Rosaria Minosa ha deciso di raccogliere un nutrito numero di poesie in Granelli di tempo (Publisfera, Cosenza, 2015), la sua prima silloge poetica.

La Minosa non è nuova nel campo della scrittura e, versatile penna, ha già dato alle stampe due volumi, questa volta di narrativa, che sono rispettivamente Il sorriso rubato (2011) e Il buio, la luce, l’amore (2012) di cui quest’ultimo ho già avuto modo di leggere e recensire.

In Granelli di tempo la Nostra ha raccolto una serie di poesie che ha scritto in un arco di tempo abbastanza esteso e che solamente ora, giunta a un percorso creativo più maturo, ha deciso di fornire al lettore svelando tutta se stessa. All’interno le tematiche toccate sono le più disparate e distanti anche se è possibile cogliere un filo che le riconduce sempre all’interno di quella macro-tematica indicata nel tipo ossia il Tempo, visto sia nel suo passaggio e veloce incedere che la porta a rievocare ricordi, vecchi momenti o a ricongiungersi ad esso con rammarico per non aver fatto/detto qualcosa. Ma il tempo non è solo immagine di un passato che si cerca di recuperare e rivivere, è anche e soprattutto il tempo liquido del presente nel quale trovano spazio le considerazioni della donna su quanto accade attorno a lei.

È sia un tempo privato ossia intimo e personale che la riguarda direttamente in quanto attrice e spettatrice di eventi familiari, amorosi e amicali, ma anche un tempo pubblico che riguarda noi tutti con tragedie stradali, morti improvvise e impensabili e disagi seri che riguardano il senso di collettività. L’unione dei due “tempi” è forse meglio ravvisabile nella lirica “Taranto, città mia” (79-80) dove, a partire dal bozzetto felice di una città fresca, profumata e ridente (la Taranto del passato, dunque dei ricordi di Rosaria) lascia ben presto il posto a quella di una città mefitica e ferita, cancerosa e invivibile ossia la Taranto odierna massacrata dai fumi pericolosi del complesso industriale dell’Ilva. Così scrive la Nostra: “Ora tutto questo è svanito…/ […]/ [L’]aria è pesante, malsana,/ l’odore del ferro entra dentro di te/e invade il tuo corpo…” (79).

 

Firenze, Aprile 2014 - Assieme a Rosaria Minosa

Firenze, Aprile 2014 – Assieme a Rosaria Minosa

Dipendente del CERRIS (Comunità Educativa-Riabilitativa per Preadolescenti e Adolescenti) di Verona, una struttura residenziale che accoglie persone con problematiche e disagi sociali di vario tipo, Rosaria Minosa mostra la sua comprensione e vicinanza verso i disturbi che possono intaccare chi, pur vicino a noi, vive una vita nel dolore, nel silenzio, allontanato o deriso da chi è certo di appartenere al mondo dei cosiddetti normali. L’animo filantropico e solidaristico della donna spunta con chiarezza e vigore da ogni singolo verso dove non è solo l’animo di una donna che ha fatto esperienze con un mondo spesso dimenticato a parlare, ma soprattutto quello di una persona che ha fatto suoi i precetti cattolici della fratellanza, del rispetto e della condivisione. Affascinanti nel loro stile minimale e nel linguaggio piano e diretto privo di macchinazioni retoriche sono le poesie dedicate a grandi mali sociali quali la violenza di genere, l’emarginazione e il razzismo spiegato ai ragazzini con un sistema matematico di inclusione tipico dell’insiemistica che viene insegnato nelle scuole per una più facile comprensione.

Quel senso di dolore che fuoriesce da molte liriche e che in altre circostanze potrebbe diventare opprimente come un nodo in gola, in realtà è motivo per la Nostra di una maggiore gratitudine verso la vita e la bellezza. Il ricordo di una cara amica scomparsa prematuramente, l’incidente stradale che condurrà un giovane a una vita vegetativa e tutte le altre manifestazioni che chiarificano che nel nostro mondo “non c’è pace” (19) non sono per Rosaria dei veri e propri lutti, dei punti fissi e invalicabili ai quali si giunge con costernazione e sfinimento emotivo e fisico, sono, invece, sfide, pure intricate e dolorose, che ci vengono poste lungo il cammino. Sfide fatte per combattere, con consapevolezza e convinzione, per non lasciarsi ammorbare da quel buio che è sempre dietro l’angolo e che potrebbe devastare la nostra esistenza proprio come quelle nuvole grigie che la Nostra cita e che dobbiamo essere più propensi a colorare giorno per giorno per farne risaltare le tinte più abbaglianti e calde che possano cullarci e toglierci i tormenti di torno: “Apri il tuo cuore e non essere triste./ Per un momento,/ non pensare a questa società” (47).

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 29-04-2015