Il 5 dicembre a Jesi una conferenza su Amedeo Modigliani, tra arte e letteratura

Domenica 5 dicembre presso la Sala conferenze della Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi (ingresso da Via Francesco di Giorgio Martini) si terrà l’evento “Amedeo Modigliani, l’uomo e l’artista” voluto e organizzato dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi. Esso segue un percorso di appuntamenti sull’arte contemporanea che, in precedenza, ha visto la trattazione di opere dell’artista Gustave Klimt con una conferenza tenutasi nel 2019.

Nel 2020 si sono celebrati i cento anni dalla morte del geniale pittore livornese ma, a causa delle limitazioni dettate dall’emergenza Coronavirus, non è stato possibile organizzare un evento per ricordare la grandezza dell’artista noto per i nudi femminili, le figure filiformi e per essere stato amico e collega di importanti artisti di spicco, tra pittori e intellettuali, del secolo scorso.

La vita e l’opera artistica di Modigliani sono state raccontate da sempre attraverso la leggenda e il mito, nati alla morte dell’artista. Inquieto e capriccioso, Modigliani ha incarnato quel modello perfetto di “pittore maledetto”. Le sue opere parlano, però, un linguaggio perduto di ricerca “classica” e di impenetrabile tensione verso la perfezione. Spesso nei ritratti di donne o nelle sue sculture gli occhi ermetici e socchiusi raccontano storie che portano in sé qualcosa di tragico e fatale, un po’ come la parabola della sua esistenza che sappiamo essere stata costellata di esperienze irripetibili, inquieta malinconia e da un epilogo intenso e drammatico.

L’iniziativa, che si terrà con il patrocinio morale del Comune di Livorno, di Jesi Cultura e della Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi, verrà presentata dalla poetessa e scrittrice Marinella Cimarelli (Consigliere Ass.ne Euterpe) e vedrà la conferenza della prof.ssa Monia Fratoni, storica dell’arte, dal titolo “Amedeo Modigliani. Lo sguardo altrove” che si snoderà con l’ausilio di opportune diapositive atte a mostrare e commentare alcune delle opere più importanti di Modigliani.

Ad arricchire il pomeriggio artistico saranno anche alcuni contributi letterari tra i quali alcuni inediti (sia poetici che estratti di una scenografia) del noto poeta Dante Maffia (candidato in passato al Premio Nobel) e socio onorario da anni dell’Associazione Culturale Euterpe dedicati all’amore tra il pittore livornese e la tormentata poetessa russa Anna Achmatova. Tali brani saranno letti da Roberta Javarone, come pure quelli di alcuni estratti di racconti dell’antologia “Il grande racconto di Modigliani” (Edizioni della Sera, Roma, 2020) cura di Monia Rota dove figura, tra gli altri, il racconto “Alice” dello scrittore e Consigliere dell’Associazione Euterpe Stefano Vignaroli.

Modigliani, dunque, non solo celebrato artista ma anche esponente centrale nello sviluppo di un fermento culturale attivissimo, tanto nella capitale francese degli anni Venti che in seguito. Il critico letterario Lorenzo Spurio, presentando gli inediti di Maffia, traccerà brevemente il variegato e florido contesto letterario nel quale Modigliani a lungo lavorò a contatto con intellettuali di prim’ordine, con attenzione all’amore travolgente e tormentato con la poetessa russa Anna Achmatova (1889-1966).

Gli interventi musicali – alla chitarra – saranno a cura del Maestro Massimo Agostinelli.

Per partecipare alla serata è richiesta la prenotazione unicamente mediante mail all’indirizzo: ass.culturale.euterpe@gmail.com dove si dovrà indicare nome e cognome delle persone che parteciperanno e numero di cellulare. Data la riduzione dei posti in sala, riceveranno la conferma di prenotazione coloro che, in ordine cronologico, rientreranno nella platea di posti liberi. Al luogo dell’evento si accederà solo dietro conferma di prenotazione, mediante esibizione del Green Pass, misurazione della temperatura e mascherina indossata.

Info:

www.associazioneeuterpe.com

ass.culturale.euterpe@gmail.com

Pagina Facebook

“Spirito e corporalità: la poesia di Nichi Vendola”, saggio di Stefano Bardi

Saggio di Stefano Bardi 

Bari, città di 319.482 abitanti dislocata su un territorio che inizia a nord nella città di Giovinazzo e termina a sud-ovest, nella città di Loseto. Territorio il barese costituito da fasce pianeggianti denominate conche che si espandono fino nelle città di Capurso, Triggiano, Bitritto, Modugno e Bitonto. Città accarezzata da un clima mediterraneo con inverni miti ed estati calde, afose e temporalesche; la cui economia è principalmente basata sull’agricoltura orto-frutticola, sull’industria chimica, petrolchimica, tessile, meccanica e sui servizi. Città che si dispiega nelle prossimità delle note Murge, altopiani carsico-tettonici inizianti nel barese e terminanti nel territorio della città di Matera. Il territorio murgese è costituito da rilievi collinari calcareo-rocciosi, da doline, da gravine e, nel caso dell’interno del territorio provinciale barese, da rilievi montuosi al di sopra dei 600 metri, dalla scarsezza di fiumi e dalla presenza di corsi d’acqua sotterranei.           

La città di Bari, come mostra il critico e accademico Daniele Maria Pegorari, è dal punto di vista letterario e poetico, rappresentata da due principali correnti stilistiche: la poesia sperimentale nata alla fine degli anni Sessanta per arrivare fino ai giorni nostri, rappresentata dai poeti Lino Angiuli e Francesco Giannoccaro. Angiuli poetizza la sua natalità geografica, antropologica, in chiave comico-irreale dove i reminiscenziali manufatti e gli intimi luoghi cari al poeta si uniscono fra di loro per creare un nuovo mondo animato da ombre e corporalità. Il dialetto è concepito da Angiuli come un gigantesco campo in cui la lingua italiana e il dialetto si fondono fra di loro in modo così da creare una nuova lingua poetica dai toni elegiaco-liturgici. Giannoccaro, invece, concepisce la poesia come un cammino nel quale incontrare nuovi amici in grado di capire, patire, conservare gli altrui patimenti spirituali ma anche, come desolato e triste pianto di ribellione contro la società dei suoi tempi governata dall’assenza dei valori. Un pianto, infine, in grado di liberare gli intimi affetti del poeta imprigionati in forme di tenebrosità sociale. La seconda corrente poetica si basa, invece, sulla poesia del quotidiano e sulla poesia impegnata raccolte nell’esperienza della rivista barese Vallisa dal 1981 ai giorni nostri. Poesia ben rappresentata dalla lirica proletaria e operaia in chiave etica di Daniele Giancane, dalla poesia intesa come una fotografia della quotidiana decomposizione sociale di Enrico Bagnato, dalla poesia popolare in chiave angelico-evangelica di Anna Santoliquido e dalla poesia cosmica, antropologica, corporale e filosofica di Fortunato Buttiglione[1].

Accanto a queste due correnti poetiche ne andrebbe aggiunta una terza basata sulla spiritualità e sulla carnalità trattata dal poeta Nicola Vendola detto Nichi Vendola (Bari, 1958), maggiormente noto per essere stato Governatore della Regione Puglia dal 2005 al 2015 (aspetto che qui non ci interessa, in nessun modo, trattare). La sua attività poetica, che si sviluppa nel periodo 1973-2003, è stata raccolta nell’opera Ultimo mare (2003).

51CEzcMbOVL._SX351_BO1,204,203,200_Il 1983 fu l’anno della raccolta Prima della battaglia contente le poesie scritte nel periodo 1973-1983. Opera in cui la battaglia simboleggia il cammino terreno verso le braccia della Morte. Cammino che, come mostra Vendola, rivela la Vita per quello che in realtà è ovvero, una nave popolata da spettri dagli occhi versanti lacrime, dalle nostalgie brumosamente[2] luminose e dalle carni “musicalmente paradisiache”[3]. Spettri che altro non sono che i riflessi della nostra anima dannatamente alla ricerca di verginei e ambigui amori[4]. Spettri che simboleggiano gli Uomini poiché condannati a conservare nel loro cuore i palpitanti, frenetici, passionali, fugaci, dolorosi amori da loro consumati durante la loro terrena esistenza[5] e ormai mutati in nostalgie dalle sacre parole e dalle infettanti lacrime, che, si lasciano stringere dalle calorose braccia della Morte[6]. Un’altra condanna per gli Uomini durante il loro cammino, è quella di vedere i propri sogni mutare in vacue e anonime fotografie dagli infettanti visi femminili[7] ma anche in flash-back capaci di mostrarci il terreno corpo come un mondo animato da depravate carni[8] e ansiosi profumi[9]. Carni, infine, che lanciano urla colme di un arcaico dolore in grado di uccidere i più luminosi pensieri e allo stesso tempo declamanti canti purificatori, in grado di trasformare i nostri amori in chimeriche visioni durante l’eterno riposo[10].

Il 1997 è l’anno della raccolta La debolezza contenente le poesie del periodo 1983-1997. Debolezza qui poetizzata da Vendola come la fragilità degli Uomini divisa in cinque sezioni: La debolezza, L’alba di poi, Angeli, Dissipazioni e Filo rosso. Fragilità declamanti timide e impaurite parole innanzi alla Morte che acceca i loro taciti e ancestrali sguardi[11] che vengono accarezzati e schiaffeggiati nel loro silenzio, da un vento colmo di gioie[12]. Fragilità dalle brumose ombre e dall’incerto cammino pari al terreno cammino poiché seguono le folli strade che conducono nelle braccia di Satana[13]. Fragilità, infine, dalla paurosa voce che si nutre dei suoi stessi dolori, in grado di infettare le verginità e le puerilità della sua anima[14]. Debolezze quelle umane che, secondo Nichi Vendola, non sono solo destinate al patimento più lacerante, ma anche alla divina purificazione in modo da poter rinascere in dilucoli[15] bagnati da umide brezze, in grado di far fiorire a nuova vita rimpianti cosmico-ancestrali[16]. Dilucoli poetizzati da Vendola come dei mondi non illuminati da intensi colori e animati da palpitanti emozioni, ma come universi popolati da scheletrici fiori d’acciaio, coccolati da funerei requiem in grado di mutare i timidi sogni in sanguinanti incubi. Anima, quella degli angeli vendoliani, in eterno cammino all’interno di riflessi che riproducono abbracci e pianti di commiato intrappolati in interminabili viaggi di spettrali velieri[17]; angeli dalle membra emananti aspre e fuligginose ombre rappresentanti perfette nudità terrene del tutto estranee ai loro velati sguardi[18]. Membra, infine, destinate a consumare la loro esistenza in un cammino di sangue che muta le loro reminiscenze, in insipidi flash-back psichici, insignificanti ombre prive di vita e destinato a concludersi in un dolce commiato dalle reminiscenziali nostalgie diventate ormai affetti, parole, sguardi e voci insignificanti[19].             

Il 2001 è l’anno del poemetto Lamento in morte di Carlo Giuliani dedicato all’attivista no-global deceduto il 20 luglio 2001, durante gli scontri del G8 a Genova. Poemetto dai toni denunziatori ed epici, poiché mostrano la città di Genova come un luogo governato dall’avido sangue della Legge[20] che inquinò la Democrazia[21]. Legge totalitaria da Vendola condannata attraverso la voce degli innocenti ingiustamente incarcerati poiché solo la loro voce è in grado di mostrarci che cosa realmente significa il potere totalitario. Attraverso questa opera Vendola, con la denuncia di quei fatti di sangue, vuole simboleggiare la conquista della Libertà[22].

Il 2003 è l’anno della raccolta Ultimo mare inserita nell’opera omnia ricompilativa, sempre delle stesso anno, insieme alle raccolte poetiche fin qui analizzate. Opera, quest’ultima, dal poeta intesa come una guida di viaggio per gli uomini attraverso i punti cardinali incominciando dalle estremità profumate di morte e di silenzio[23] per giungere alle ignude, misteriose, confuse ed erotiche quotidianità animate da incomprensibili partenze, assenze, ritorni sterili, arrugginite emozioni, affannate fughe e ombre confuse[24].                                          

    STEFANO BARDI

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

Bibliografia:

CATALANO ETTORE, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009.

VENDOLA NICHI, Ultimo mare, San Cesario di Lecce, Manni, 2003.

 

NOTE

[1] DANIELE MARIA PEGORARI, La poesia in Terra di Bari in ETTORE CATALANO, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009, pp. 154-156, 158-159, 161-163, 165-166.  

[2] Con l’aggettivo brumosamente si rimanda alla nebbia. 

[3] NICHI VENDOLA, Ultimo mare, San Cesario di Lecce, Manni, 2003, p. 119. “[…] Domani morirò con triste grazia. / Domani, ieri / e mordo nei ricordi. / Ai corpi vili, s’adattano gli accordi”. 

[4] Ivi, p. 121. “[…] Ignaro di orologi / vago tra la palude ed il deserto / in cerca di cristalli / di rose. / Amo anche le ombre”.

[5] Ivi, p. 124. “[…] Tu che corri che fuggi che inciampi / che vivi”.

[6] Ivi, p. 127. “[…] Amor mio, amor mio / parlami ancora le tue parole d’incenso / e di neve struggenti  / stringi questa mano che stringe la tua morte […]”.

[7] Ivi, p. 138. “[…] gocce di chemio / e di rimmel. / Questa donna che spacca il muso / pure gli angeli”.

[8] Ivi, p. 137. “[…] questo tuo corpo emigra / da lampione a lampione / senza tregua”. 

[9] Ivi, p. 143. “Black-out dell’odore / e un letto che muore sudore. / Perle, schizzi di nulla: […]”.

[10] Ivi, p. 135. “[…] Il cerchio disperante / della roccia / si chiude attorno al tempo mio / che non ha tempo / come una spirale di nulla / che sfiora ma non rompe / la tua rotondità”.

[11] Ivi, p. 45. “[…] al collo meridiano dei silenzi / al punto estremo della mia / radice”.

[12] Ivi, p. 47. “[…] al battito di brezza / del lutto permanente”.

[13] Ivi, p. 51. “[…] a passi svelti / come un’impostura”.

[14] Ivi, p. 57. “[…] di fughe di cicoria e anfetamina / è come sfinge sotto un temporale: / finge, seduce e – sibillina – / alla Nube sacrifica i ragazzi”.

[15] Dilucoli = sinonimo di albe.

[16] Ivi, p. 63. “[…] Germogliano rimpianti / mattutini”.

[17] Ivi, p. 94. “[…] di specchi / vorticosi / narciso mio / straniero / tramonto e congettura / d’un veliero”.

[18] Ivi, p. 96. “[…] dei nudi corpi in nuda prospettiva / lungo una gotica siepaglia […]-[…] (arato amato annerito / rinnegato)”.

[19] Ivi, p.112. “[…] Sognare, forse Nino / come perduto dentro il suo maglione / come fanciullo dentro un’equazione / e gli occhi gli occhi / dopo ogni perché”.

[20] Ivi, p. 21. “[…] la morte all’imbrunire / lontano dal cancello / chiuso dentro l’imbuto / di un altro carosello / di carri armati e irati / di un celerino a uccello / ti spezzano i carati / del sogno tuo degli anni / l’ora del manganello / rintocca nei tuoi panni / l’ostia di nuovi giorni / si frange a questo luglio […]”.

[21] Ivi, pp. 28-29. “[…] Una maglietta sporca / Un grido senza soglia / Cova una morte porca / La sua più viva voglia / Lasciate questa stanza / Lasciate i ragazzini / Lasciate quei capelli / Lasciate gli orecchini / Lasciate gli occhi belli / L’idrante non li spegne / Piange il termosifone / Mattanza dei calzini / Urlano i rubinetti / Crocifissi assassini / Scappano le pagelle / Inciampano i volantini / Volti di casco nero / Guanti senza più tatto / Spezzare braccia al pero / Pisciare in faccia al gatto / Strappare i riccioloni / Ammutolire il matto / Al Diaz questi bambini / Imparano lo sfratto / L’igiene dei celerini / Il fascio al suo contatto […]”. ; Ivi, pp. 31-33. “[…] Grida non supplicare / Vola con le falene / Nudo da scorticare / Nella palestra oscura / Morire di paura / Ore da cavalcare / Sibila triste notte / Tenebra muta e botte / Sull’occhio tumefatto / Dal guanto che ti fotte / Olfatto / Non sentire / Il sangue che raggruma / La vita e le sue spire / La fine a spuma a spuma /Mamma vieni che sfuma / L’alba delle mie ire / Mi sento di morire / Mi portano lassù / Nel bianco corridoio / In piedi a nessun gesù / Ecco ora muoio muoio / Mamma non vieni più / Mi strappano gli anelli / Mi segano nel cuoio / Ancora manganelli / Presto presto che muoio / Mi sputa nella bocca / Mi sputa nella bocca / Mi sputa nella bocca / Saliva d’albicocca / Saliva che mi fende / Straripa tra le tende / Ogni mio corpo tocca / Tracima ficca offende / Saliva come un veto / Nell’atrio a Bolzaneto / Che lenta al dopo ascende / Guardiana nel pineto / Rotoli come onde / Di un mare scolorato […]-[…] Lasciami tacere / Lascia ch’io non ti veda / Ascia ascia e colpire / La nuca il mento il cuore / È lunga lunga strada / Io non cammino più / Mi fermo a Bolzaneto / Non grido e scendo giù”.         

[22] Ivi, p. 27. “[…] non dire al carabiniere / cos’è la verità / morta con l’estintore / è un guizzo d’autorità […]-[…] nel cielo tuo a spirale / nella tua morte lesta / nel lutto che ci desta / al corpo tuo che sale”.

[23] Ivi, pp. 15-16. “[…] le ossa dei bambini disseccati / i nostri geroglifici laccati / delle macerie all’ora della cena / la polvere da sparo e le trielina / il cielo imploso e rosso e bianco e nero / e questo rutilante cerchio assiro / che chiude i conti dell’eternità […]-[…] quando resta la nostra carcassa / tu ti calcoli un rapido sonno […]”.

[24] Ivi, p. 18. “[…] Fu un secolo avvolto nel telo / di troppe partenze spartite partite / sparite / e ritorni penitenze astinenze / dal sogno. / Giorni di bassa marea / di astri ossidati nel volo / di corse braccate dall’asma / a sgranare le ombre di sabbia […]”.

Plath, Hughes, Carver, Gallagher, Campana e Aleramo in uno spettacolo-evento a cura della poetessa Laura Corraducci

Venerdì 15 febbraio alle ore 21:15 si terrà, presso il Teatro Comunale di Gradara (PU), lo spettacolo-evento “Dell’amore, della parola e altri tormenti” ideato e a cura della poetessa pesarese Laura Corraducci.

ll recital ripercorre in modo poetico e narrativo le intense e tormentate storie d’amore di tre coppie di celebri poeti che, con il loro talento, hanno marcato in modo fortissimo la letteratura e la poesia del secolo scorso: l’inglese Ted Hughes e l’americana Sylvia Plath, il famoso autore di racconti americano Raymond Carver e la poetessa Tess Gallagher e, infine, uno dei più straordinari poeti italiani del Primo Novecento, Dino Campana e la bellissima Sibilla Aleramo.

Il filo conduttore dello spettacolo sarà la Poesia declinata nella sua forma più elevata per raccontare il tormento, la tenerezza, la passione e la follia nelle opere e negli amori di questi grandi autori. Le parole e i versi dei poeti saranno accompagnati dalla suggestione delle immagini e della musica.

INFO.

0721.3592515

366-6305500

23ec609f-feb2-47df-880e-57043b775346

“Il fuoco di Lorenzo” di Annalisa Soddu, recensione di Lorenzo Spurio

Il fuoco di Lorenzo
di Annalisa Soddu
Ilmiolibro, 2011
ISBN: 978-88-91003-24-9
Pagine: 46
 
Recensione di Lorenzo Spurio

Il fuoco di Lorenzo definAnnalisa Soddu è medico-psichiatra e scrittrice. Entrambe le due componenti a cui dedica ampio spazio nella sua vita sono racchiuse nel suo primo libro, “Il fuoco di Lorenzo” pubblicato nel 2011 con ilmiolibro.

Quello che il lettore si appresta a leggere aprendo questo libricino (le pagine non sono molte, ma di contro i contenuti sono ampi) è una fotografia sul mondo che ne rivela dettagli fastidiosi, a tratti sconvenienti e in via generale dolorosi. Si parla di patologie, ma più che di malattie concrete e riscontrabili all’occhio, di malattie insidiose, invisibili perché della mente umana. Nella silloge di racconti si spazia tra comportamenti problematici (l’anoressia, l’alcolismo, la perversione sessuale) che possono dar vita a episodi ulteriormente allarmanti e che sono sanzionati dalla Legge.

L’esperienza letteraria di Annalisa Soddu è interessante perché questi racconti, privati di toponomastiche e di riferimenti precisi, sono frutto della sua esperienza diretta di psichiatra con persone deboli, sofferenti o apparentemente sane ma che secernono i semi della follia.

Non c’è spazio per il giudizio e la morale: la Soddu presenta la realtà per come è, senza mitigarla, inserendosi in quelle lacune delle mente, negli inceppamenti del normale raziocinio, per vedere come gli affetti dalla patologia reagiscono se sottoposti a cure, i motivi dell’insorgenza del problema –nel caso sia possibile indagarne- e il clima familiare/sociale che circonda il malato.

Nella gran parte delle storie qui contenute, infatti, si osserva una struttura tripartita dei personaggi, di coloro che intervengono attivamente sulla scena:

  1. il malato (a volte consapevole del suo morbo, della      sua pazzia, altre volte inconsapevole; più spesso normale agli occhi di      tutti, ma profondamente tormentato internamente);
  2. il gruppo familiare (si parla spesso della figura      materna, ma anche di quella del padre e, invece, in altri casi di assenza      dei genitori. Alcuni dei disturbi, delle fissazioni che poi alcuni      personaggi avranno da adulti sarà motivato come conseguenza di un trauma      vissuto durante l’infanzia). Se decidiamo di allargare questo gruppo      possiamo, inoltre, inserire anche gli amici;
  3. lo psichiatra (che corrisponde alla stessa autrice      che interviene per colloquiare con i malati, capirli, fare la diagnosi e      prescrivere i medicinali da prendere per controllare la situazione).

Annalisa Soddu conduce il lettore mano nella mano nelle pieghe tortuose della psiche, tra gli sbalzi d’umore, le azioni violente e sconsiderate, l’indifferenza che spesso la società (il mondo esterno) ha nei confronti del ‘diverso’, tra intervalli di euforia e depressione che arrivano a manifestarsi come un vero e proprio annichilimento dell’anima e del corpo.

Annalisa-Soddu-Small-200x300La convinzione che il lettore si va facendo leggendo questa raccolta è che se una patologia esiste, se un personaggio ha una certa condotta, al di là dell’eziologia della patologia, ha di certo a che vedere con una realtà pregressa dove, pure, può trovarsi annidato un trauma, un episodio sconcertante che l’individuo non ha mai superato da solo e che lo ha portato poi a una sorta di autodifesa, adottando gesti/comportamenti sbagliati. Ma come si legge nel primo racconto, la Soddu sembra andare oltre le motivazioni di carattere prettamente psicologico, scienza che pure spesso non riesce con accuratezza a svelare le ragioni di siffatte anomalie della mente (“le cause di queste malattie maledette non si conoscono”, p. 11)  per osservare invece quasi sull’onda di un convincimento popolare che “Quando si nasce con la sfortuna addosso, è difficile scollarsela” (p. 9). Dunque intervengono anche delle ragioni che rispondono a un pensiero di tipo fatalista, idea che ritorna anche nel secondo racconto in cui nell’incipit viene nominata la “malasorte” (p. 13).

Il tormento può essere la conseguenza di uno stato di una condizione di solitudine dovuta a lutti e all’isolamento dominato da stati d’alternanza tra depressione ed euforia  come avviene nella seconda storia narrata; la pazzia, l’incontrollabilità delle azioni, può essere motivo di preoccupazione ulteriore quando si è madre e si deve supervisionare la crescita dei propri figli e proprio per questo la donna de “La signora G.” finirà per essere allontanata dalla sua famiglia con un TSO. Quello che si configura come un gravissimo disturbo alimentare può essere spiegato a livello psicologico ricorrendo a un episodio di violenza sessuale subito in tenera età. Episodi clinici quali l’incesto e la pedofilia sono spesso i più difficili da trattare all’interno dell’ampio panorama delle deviazioni sessuali, perché frequentemente la vittima si sente colpevole di quanto successo e si rifiuta quindi di denunciare l’uomo o di raccontare l’accaduto (“Si divertiva a farla sentire una puttana, per tenerla in pugno e indurla a stare zitta; ecco perché in lei c’è la più totale confusione, perché lei ha attribuito a se stessa la colpa di tutto, quando invece era una bambina, e lui un porco”, p. 25).

Il mondo che circonda chi ha subito un grave danno psichico o fisico (la famiglia, le amicizie, la società) può apparire spesso insensibile nel sondare un malessere nell’aria che consenta la confessione del malato, più spesso si denota una difficoltà da parte della società –anche nei familiari- nel “diagnosticare”, ossia nell’individuare dei segnali che andrebbero colti. In altre circostanze è la stessa società, per mezzo delle sue istituzioni e strutture, che sembra essere incapace di dare giusta accoglienza a chi ne avrebbe bisogno perché il sistema sanitario è debole: “Il Comune non ha soldi per trovargli una casa popolare; il servizio psichiatrico non lo può tenere che per pochi giorni, le case di cura qualche giorno in più, ma poi lo devono mandare via” (p. 35). C’è una velata polemica nei confronti dello Stato, che è tanto più dura per il fatto che l’autrice, psichiatra, conosce in prima linea tutto ciò che concerne il sistema d’accoglienza di menti pericolose.

Ma in queste fasi di blackout della mente, di sinapsi interrotte, di atteggiamenti deviati e condannabili, ciò che preme sottolineare è la sperimentazione da parte del malato di una realtà altra da quella odierna, a volte onirica, altre volte utopica. In tutti i casi il paziente malato si eclissa dalla realtà sana per costruire un suo mondo dove, però, finisce per essere lui/lei l’unico abitante. In simili circostanze la malattia, oltre a portare al deperimento del corpo (come nel caso dell’anoressia), conduce alla sperimentazione di una realtà finta, surrogata, ricreata, di quel microcosmo indotto dal trauma e dalla patologia stessa.

Doloroso il racconto “La moglie di Pietro” in cui la voce narrante è quella della povera Luisa uccisa dal marito perché geloso in maniera ossessiva e violento che in un raptus di follia arriverà ad uccidere la sua donna. La storia riecheggia i tanti casi di femminicidio che la Cronaca riporta e per i quali sembra che la legislazione italiana si stia finalmente movendo –sebbene con gravoso ritardo- ai fini di una maggiore salvaguardia della libertà della donna nei casi in cui l’ex marito o fidanzato dimostri atteggiamenti ossessivi e denigratori.

Annalisa Soddu con una prosa spigliata ed essenziale, senza ridondanze né descrizioni pedanti, riesce a cogliere l’essenza di ciascuna storia e lo fa in maniera sorprendentemente vivida perché l’autrice osserva il mondo del disagio psichico in almeno quattro modi diversi:

1)      quello dello psichiatra, del medico curante, di colui che deve intravedere terapie e un sistema di controllo della patologia;

2)      quello della cittadina italiana che si indigna nei confronti di episodi di emarginazione o che denuncia senza peli sulla lingua l’insoddisfacente legislazione e organizzazione nel gestire fasce della popolazione con patologie psichiche che necessitano di assistenza e monitoraggio continuo;

3)      quello della donna sensibile che non rimane impermeabile alle sofferenze degli altri, ai disturbi e al clima di desolazione che aleggia intorno a queste persone; ed infatti la psichiatra nei vari racconti fa quasi difficoltà a scindere il privato dal pubblico, il suo coinvolgimento emotivo dalla sua professione tanto che lei stessa in “Aveva la SLA” ricorda un simpatico invito di un dottore sotto il quale aveva fatto il tirocinio: “Giovincella, devi dominare le emozioni, i pazienti si spaventano!” (p. 40);

4)      quello della scrittrice che utilizza le vicende da lei sperimentate nella realtà per trasporle sulla carta cercando le giuste parole per far arrivare con schiettezza e senza tanti formalismi il suo pensiero su quanto narra.

Il risultato è sconvolgente: drammi, patologie, deliri, ossessioni, violenze subite e perpetuate, allucinazioni auditive e fenomeni di perdita d’identità campeggiano tra queste pagine. Il lettore dovrebbe tenere a mente, come si diceva all’inizio di questa recensione, che questi racconti sono anche e soprattutto delle cronache fedelissime di quanto avviene ogni secondo in ogni parte del mondo.

Tu che ne sai/ […] / Di un certo tipo di vita/ Tu che ne sai./ Della vita del cuore. Che ne sai”, conclude la scrittrice nella lirica dal titolo “Dedicata a loro”.

  

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 28 Agosto 2013

“Vita, morte e miracoli di un uomo qualunque” di Matteo Deraco, recensione di Lorenzo Spurio

Vita, morte e miracoli di un uomo qualunque
di Matteo Deraco
Sovera Edizioni, 2012
Pagine: 80
ISBN: 9788866520368
Prezzo: 9 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

La gente è solo capace a etichettarti, spremerti, prendere e prendere e prendere, e se prendi prima o poi devi pure dare. Al contrario, quando dai non sempre arriva qualcosa.

 

copLa narrazione si apre con il protagonista alle prese con due gravi disdette dalla vita: l’abbandono della compagna e l’esser licenziato. I due fatti chiarificano da subito l’animo deluso e scoraggiato del protagonista che deve fare i conti, più che con un semplice licenziamento lavorativo, con un vero e proprio “licenziamento dalla vita”: privato di amore e lavoro, infatti, si sente deluso e questa condizione anima in lui una serie di pensieri e convincimenti con i quali sembrerebbe chiudersi a riccio dal mondo. In realtà la fine del suo rapporto di lavoro non è vissuta come dramma dato che subito, con chiari ed espliciti riferimenti a Bukowski e alla beat generation, osserva «ma davvero non me ne fregava poi molto del lavoro».

E’ palpabile l’intenzione di Deraco di raffigurare nel romanzo il senso di incertezza lavorativa della nostra attualità e infatti nelle prime pagine osserva: «Anzi, con la depressione galoppante, il senso d’inutilità e di precariato, il senso d’immobilismo e di fallimento, di volta in volta facevi un passetto indietro.» Quadretto quanto mai realistico e deprimente della nostra realtà dove il precariato, la disoccupazione e il tormento sono manifestazioni comuni ed universali. Deraco vede la vita attraverso il lavoro o, meglio, attraverso la mancanza di esso e la descrive come una serie di vicende momentanee che hanno un inizio e una fine (lavori per un po’, poi ti cacciano) che descrivono ciclicamente l’impegno dell’uomo nel darsi da fare, cercare lavoro e a volte addirittura inventarselo, farsi “la gavetta”, anche se spesso neppure questa conta.

Il linguaggio colorito e giovanile (la parola “cazzo” ricorre con una smodata frequenza) si sposa con una narrazione che non ha grandi pretese se non quella di un giovane di guardare con i suoi occhi il mondo che lo circonda, in maniera sfiduciata e poco combattiva, dopo tante “sconfitte” subite, provate sulla propria pelle. I rimandi, sia tematici che linguistici, a Bukowski, il padre della letteratura contemporanea che con spregiudicatezza e sagacia sconfessò le difficoltà, i drammi, le collusioni del mondo lavorativo, sono palpabili a più livelli e in maniera chiara. Lo stesso titolo del romanzo nel quale si dice “di un uomo qualunque” vuol forse sottolineare la specificità di un essere vivente garantendone l’anonimato che, però, vive una condizione che non gli è esclusiva e che, invece, è generalizzata e abbastanza comune. L’uomo qualunque, dunque, siamo noi e tutte quelle persone che possono ritrovarsi nei pensieri che l’io narrante fa.

Vi sono considerazioni anche piuttosto forti come quella ai nostri padri, che hanno fatto il ’68 e si ritrovano ora, nella loro attualità a “fregarsene” che non mi sento di condividere, ma che può essere una lecita osservazione o lo sguardo critico e a tratti sfrontato nei confronti della religione: « Dio non c’era, e per quel che mi riguardava non c’era mai stato. Dio era solo una stampella psicologica da tirare fuori nel momento del bisogno, e poi rimettere via quando non serviva più». Il protagonista vedrà Dio nell’immagine della suora che condivide con lui lo scompartimento del treno, nel Cristo di Maratea, ma anche nelle valige, nell’alcool, in episodi di fortuna e tanto altro, chiarificando il suo panteismo laico e l’utilizzo di “Dio” quale personaggio sui generis al quale demandare fortune/sfortune (si ricordi, ancora, Bukowski).

Il protagonista è un uomo arrabbiato, che non crede nei compromessi e nelle bieche leggi dell’oggi, ma finisce per apparire poco combattivo e partecipativo: l’unico gesto di tutto il romanzo in cui sembra prendere una decisione realmente importante è quando decide di lasciare la sua ragazza. Per il resto si gongola nel disprezzo verso il mondo, nella critica e nell’autocritica, nell’analisi della tragica condizione del momento, descrivendola, schifandosene senza, però, “attuare” in una qualche maniera significativa sulla sua esistenza. E’ un osservatore del mondo, a distanza, quasi un vouyer, ma raramente entra in quel mondo per agire da protagonista con consapevolezza.

Animo inquieto e sprezzante, indifferente agli altri e soprattutto ai giudizi del mondo, ricorda appunto il celebre Chinaski: «Me ne fregavo, come me ne fregavo di tutto il resto»; il protagonista nutre un atteggiamento sconsiderato, narcisista e violento tanto da arrivare a sviscerare nelle prime pagine del libro la sua indisposizione e animosità nei confronti dell’intero mondo (misantropia):  «Avrei sterminato tutti i commessi delle poste lenti, tutti gli stronzi che suonavano il clacson, tutte le vecchie in fila alla cassa al supermercato. Mi toglievano aria, mi levavano vita». Il lettore pagina dopo pagina si chiede se in realtà il comportamento ossessivo e meticoloso del ragazzo nei confronti di Chiara, l’ex-ragazza, non sia eccessivo e preoccupante e se la sua narrazione sia vagliata da una mente instabile, che vede le persone/la società in maniera distorta che allo stesso tempo imputa l’errore negli altri facendo poca autoanalisi. E’ lo stesso ragazzo ad osservare nel cuore della narrazione: « Fondamentalmente ero un egocentrico del cazzo e un sociopatico».

Domina un linguaggio giovanile, scanzonato e molto colorito con chiari e continui rimandi alla “poetica” di Bukowski e una serie di modi di dire e “frasi fatte” sgranate con gratuità al lettore; numerose anche le citazioni a pezzi di canzoni e ad autori italiani e stranieri (Ligabue, Vasco, Negramaro, Fabrizio De André, Radiofreccia, Guccini, Guns’n’roses), come pure ai film (L’ultimo bacio, V per vendetta).

Un romanzo atipico ed effervescente di un giovane e delle sue visioni sul mondo. Un’analisi nelle pieghe del proprio io che, al termine delle vicende narrate, lo porterà ad osservare il mondo con uno sprizzo di lucidità: «Fino a quel momento non ne avevo fatto entrare poi molte, di persone, all’interno del mio mondo».

Una scrollata al sé, e una maggiore consapevolezza del vivere nel hit et nunc.

  

Lorenzo Spurio

(scrittore, critico-recensionista)

 

Jesi,  4 Luglio 2013

 

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Penne d’aquila” di Susanna Polimanti, recensione di Lorenzo Spurio

Penne d’aquila
di Susanna Polimanti
Kimerik Edizioni, Patti (Me), 2011
ISBN: 978-88-6096-716-9
Pagine: 173
Costo: 12 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

images“Penne d’aquila”, dell’amica Susanna Polimanti, è un romanzo che non lascerà indifferente il lettore. Il perché di questa affermazione il lettore lo sviscererà lentamente, pagina dopo pagina.

Il linguaggio chiaro e pulito, la ricca presenza di citazioni e riferimenti a testi “classici” della letteratura europea e non solo, rendono il percorso del lettore ulteriormente piacevole e motivo di riflessione sui temi che Susanna Polimanti affronta. Dolore, solitudine e senso d’apatia si intervallano a momenti d’evasione, flirt amorosi, serate spensierate con le amiche per poi risprofondare nella sofferenza per la dipartita di un congiunto, la desolazione interiore e lo scoraggiamento per una situazione lavorativa traballante, insicura, e ulteriore motivo di tormento. Ma il romanzo non è un elogio alla sofferenza, né una presa di coscienza sulla miserevolezza e la condizione disagiata dell’uomo nella società contemporanea, piuttosto è la trasposizione su carta di un animo sensibile che ha combattuto battaglie che l’hanno forgiata. Perché il libro è chiaramente una summa organica di motivi e riferimenti biografici della scrittrice (la citta natale dove scorre il fiume Topino, che è chiaramente la città di Foligno, la “cittadina delle Marche piena soltanto di salite e discese” (32) in cui vive che è di certo la città-capoluogo di Fermo, il lavoro di traduttrice-interprete, etc).

Il lettore è affascinato dalle pieghe intimistiche del romanzo ed accompagna mano nella mano la sua eroina, Virginia, ragazza dall’animo inquieto, sofferente, taciturna e minata –lo si dirà nelle primissime pagine del romanzo- da ricadute e svenimenti che, oltre a indebolirla, la conducono a domandarsi di continuo il perché di quegli avvenimenti.

La narrazione prende una virata più colorita quando la narratrice ci parla della sua introduzione al mondo del lavoro con colloqui, licenziamenti, contatti con dirigenti e quant’altro nella sua attività di interprete e traduttrice in imprese del calzaturiero nel Fermano (altro riferimento alla stessa autrice dove appunto vive ed ha lavorato).

“Penne d’aquila” è un romanzo di formazione: seguiamo Virginia dall’adolescenza fino alla maturità e nel trascorso degli anni intuiamo una crescita morale che si esplica nella felice riconciliazione con sé e nella scoperta del bello nel semplice, ma è anche e soprattutto un romanzo d’amore perché la componente formativa, di conoscenza del mondo, tipica del bildungsroman, non può non passare attraverso la conoscenza, l’attrazione e l’amore verso qualcuno. L’amore è di certo un elemento conoscitivo ed esperenziale di fondamentale importanza nel percorso di crescita e qui, nel romanzo di Susanna, è il tema che aggruma tutta la narrazione, come il finale agrodolce evidenzierà. Ma la crescita non può avvenire neppure senza aver sperimentato realtà spaziali differenti da quella natia ed è per questo che l’esperienza universitaria di Bologna, la singolare vacanza-studio in Germania, le trasferte lavorative a Copenaghen e a Shangai, oltre a significare momenti di lucido ritrovamento di se stessa, di pacificazione e di osservazione dei suoi problemi da fuori, funzionano come rinvigorimento di quell’essere a tratti depresso a tratti perturbato dai sentimenti contrastanti che l’amore spesso genera. Ma nella vita di Virginia –il cui nome non può che richiamare la grande scrittrice inglese che soffrì di depressione e che introdusse il celebre “flusso di coscienza”-  non mancano forti contraccolpi e momenti bui ad aggravare la pesantezza di un vivere tormentato quali sono la morte del padre, prima, e quella di una grande amica. Momenti difficili che pongono l’autrice ad elucubrazioni ancora più particolareggiate e di difficile risposta che affida soprattutto ad alcune citazioni che la scrittrice ha deciso di mettere all’inizio di ciascun capitolo.

Un romanzo d’indagine nelle pieghe dell’io, alla continua ricerca della ragione del mal di vivere e al contempo di una esasperata volontà di sentirsi amata. A volte –sembra sussurrarci l’autrice all’orecchio- non c’è una spiegazione chiara e definita a ciò che ci accade. Possiamo collegarlo a qualcos’altro o rintracciarne la causa in ciò che più ci fa piacere, ma il più delle volte le cose accadono per caso, per sbaglio, per coincidenze. Ed è proprio per questo che Virginia ed Angelo riusciranno a rincontrarsi dopo trenta anni e a riscoprirsi attratti, coinvolti, uniti in un amore mai del tutto esplicitato, ma che ancora una volta verrà vissuto troppo velocemente.

Nelle ultime pagine leggiamo: “Aveva imparato a sorridere, anche quando le circostanze le avevano impedito di farlo” (172). Il tempo dona esperienze, nuove amicizie, amori, regala viaggi, momenti di condivisione, ma porta con sé anche l’aggravarsi di malattie e ci priva di persone care. Forse, allora, la soluzione di tutto sta nel saper colloquiare con esso, riconciliandosi agli eventi passati senza rancori né recriminazioni, per consentire a quelle ali invisibili che tutti abbiamo, di spiegarsi e di dar vita a un soave volo. E magari di sorvolare sui lidi adriatici delle Marche di cui Susanna ci parla e dei quali io stesso condivido un grande attaccamento.

 

Lorenzo Spurio

(scrittore, critico letterario)

 

Jesi, 6 Giugno 2013

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E RIPRODURRE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

Un sito WordPress.com.

Su ↑