Quando il narratore è… interno. “Nel guscio” di Ian McEwan, recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini

Alla fine deve ad Amleto meno di quanto sia stato fin troppo evidenziato (fra gli altri da un entusiasta Antonio D’Orrico su “La lettura” del 30 aprile) l’ultimo romanzo di Ian McEwan Nel guscio (Einaudi 2017), noir anomalo e intrigante scritto con sarcasmo, genialità, sguardo attento al nostro complesso presente: il tutto tanto più sorprendente in quanto il punto di vista narrativo non è quello di un colto e navigato intellettuale come il tono farebbe, sin dall’incipit, supporre.

Lei è Trudy (Gertrude): può contare su una bellezza piena ed indiscutibile – capelli “biondo grano di una guerriera sassone che si inanellano lucenti sino al bianco polpa di mela delle spalle e naso piccolo come un bottone di perla” (chi la descrive ha nel DNA una spiccata vena lirica ed è…di parte) – e su una formazione in pillole maturata ascoltando radio, audiolibri divulgativi, podcast eterogenei, dalla bachicoltura nelle Ardenne alla strategia attuata dal Führer nella medesima regione. Particolare non trascurabile nell’economia dell’intreccio, è al temine di una gravidanza. I “lui” sono due fratelli: il marito e padre del protagonista, John Cairncross – poeta misconosciuto idealista e premuroso, disposto a subire umiliazioni, sconfitte, delusioni in nome di un sonetto, accomodante al punto da accettare la “pausa di riflessione” impostagli dalla moglie a seguito di una mai ammessa crisi matrimoniale e lasciarle il sontuoso edificio georgiano di famiglia in Hamilton Terrace – e Claude, suo attuale convivente (Shakespeare, certo: se è per questo compare persino lo spettro), agente immobiliare a corto di inventiva e fantasia, ottuso, insulso, senza nemmeno il fascino del “mascalzone sorridente, conchiglia priva dell’ospite e, come cospiratore, più cretino di lei”.

61Obc59f4-L.jpgA riferire/giudicare/deprecare l’intento dei cognati di uccidere il legittimo genitore e ad accompagnarci nei meandri di menti adulte di volta in volta appassionate e/o disperate, edotto, suo malgrado, nelle perverse dinamiche degli amanti (“arrivano al primo bacio pieni di cicatrici, oltre che di voglie” e “non si amano in dicembre come si amavano a maggio”) non meno che nei meccanismi della vendetta (“può essere consumata cento volte in una sola notte insonne”), è la più precoce voce narrante del romanzo post-moderno che ci sia dato ricordare: un feto, ormai non più fluttuante nella bolla sognante dei propri pensieri – come…da giovane – ma pronto ad affacciarsi alla vita e spirito critico già pienamente consapevole che “l’esistenza cosciente coincide con la fine dell’illusione di non essere”…Chi legge dovrà abituarsi, il narratore si esprime così ed è merito dello scrittore aver evitato i rischi di un gioco cerebrale ed artificioso grazie ad una massiccia dose di provvidenziale, godibile ironia. Testimone suo malgrado – silenzioso sino ad un certo punto – dell’avvincente plot, su cui nulla sveliamo, amerebbe nascere in Norvegia per la munifica assistenza pubblica; l’Italia è una seconda scelta (“rovine e cibo”) che, comunque, batte la Francia, con l’autostima dei suoi abitanti e il Pinot nero, del quale è in grado di indovinare il vitigno attraverso il semplice bouquet decantatogli da una placenta in buona salute. In ogni caso predilige il Borgogna e il Saucerre Chauvignol con il suo “sentore gentile di pietrisco siliceo” (tutto la madre). Prematuramente afflitto da un senso di tedio esistenziale e non esente da tendenze suicide pre/neonatali di fronte alla disperazione per il progettato omicidio – “nascere morti”, che ossimoro – ricorre spesso al francese e ad un lessico forbito (non origine ma eziologia, non pallida, chiaro, follia comune ma diafana, epidittico, folie à deux…felicità? Meglio citare la pakistana Valle di Swat). Tutto il padre. Non si commuove ascoltando una lirica moderna (“troppo ripiegate in se stesse, vitree e sdegnose nei confronti dell’altro”), apprezza Owen e Keats, Poggio Bracciolini e l’Umanesimo italiano, Lucrezio e l’Ulisse (che fa addormentare l’adorata genitrice, Joyce non è Omero), si esprime spesso per metafore (solida comunque la conoscenza dell’intero apparato retorico) e ha confidenza, per accorata empatia con lui, dell’aubade, del pirrichio[1], del trimetro giambico e delle più recenti acquisizioni della linguistica. Esperto di filosofia – del resto “i nascituri sono stoici imperscrutabili, Budda sommersi accettano che le lacrime siano nella natura delle cose…sunt lacrimae rerum”; Hobbes, Platone, Kant, Cartesio e Confucio tornano utili per le citazioni quotidiane – lo è altrettanto delle emergenze globali sia da un punto di vista politico (tensioni sociali, strategie belliche e progettualità imperialiste di Cina, Medio Oriente, Russia, USA e Califfato islamico) che socio-economico e tecnologico: pannelli solari, parchi eolici, abbassamento del livello dei ghiacci e crisi dei mercati non hanno segreti per lui. Pacifista convinto, ecologista (stavamo per scrivere militante), antiamericano viscerale (“un popolo irritabile di obesi, dal grilletto facile e governati da una Costituzione insondabile come il Corano”…piccolo caro), sinceramente afflitto dalla prospettiva che “nove miliardi di eroi non riescano a risparmiarsi cortesie nucleari” (squadre fatte: India/Pakistan, Israele/Iran, USA/Cina: “aggiungere liberamente altre formazioni, affluiranno i giocatori dei non-stati”), si professa tenacemente ottimista (scelta troppo facile il pessimismo, “cimiero di intellettuali di ogni latitudine”) e, tutto sommato, fiducioso nelle umane sorti e progressive[2] di un pianeta abitato da esseri ingegnosi ed infantili che devono, alla fine, scontare “il complicato dono di una coscienza” ipertrofica, per dirla con un altro strenuo estimatore di se stesso rintanato nel sottosuolo – meno accogliente, certo, del liquido grembo materno – in tempi non sospetti.

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Ian McEwan. Foto tratta da: http://www.artspecialday.com/9art/2017/06/21/ian-mcewan-scrutatore-realta/ 

Con un’intensità assoluta e devota che manderebbe in estasi Freud, il nostro ama – sempre timoroso di non essere corrisposto – la “bellissima, amorevole, assassina” madre, titolare del dolore anche fisico che lui stesso inizia ad avvertire, ormai conscio di quello interiore per il quale (benedetto Heidegger) verrà gettato nel mondo. E di lei è in grado di percepire “nel rallentamento del battito cardiaco un’incrostazione di noia a livello retinico” (per le poesie che un marito ostinatamente innamorato le recita) e nel “disagio/danneggiamento di granulociti e piastrine gli accessi di rabbia” (per l’esistenza stessa del medesimo): una sorprendente ottica narratologica la sua, confinata “in un guscio di noce, in due pollici d’avorio (perché no, quando la letteratura tutta, e l’arte, e ogni impresa umana altro non sono che puntini nell’universo del possibile, puntino esso stesso in una moltitudine di universi possibili”) che lo costringe – risvolto tecnicamente inevitabile ma poco felice – ad “uscire” anzitempo dall’utero per descrivere/commentare scene e colloqui in esterno. Non incline alla chiacchiera – “espediente da adulti (!) per scendere a patti con il tedio e la malafede – possiede, come accennavamo, un raffinato senso dell’umorismo (si leggano i passi dedicati ai rapporti intimi che “lo zio verme” impone a Trudy e “buona creanza, se non buon senso clinico, sconsiglierebbero”), senz’altro una delle cifre di questo libro spiazzante e convincente. Come (quasi) tutta l’opera di un indiscusso maestro della narrativa contemporanea.

MARCO CAMERINI

 

NOTE

[1] Invitiamo il lettore a non dare soddisfazione al futuro neonato, decisamente saccente e presuntuoso, andando a cercare sul vocabolario il significato dei due termini che riguardano strutture e metri della lirica classica e trobadorica: fate finta di nulla e tirate dritto.

[2] La citazione, come la seguente, è dell’estensore di questa recensione…tanto per non sfigurare.

 

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A Senigallia il 17/02/2019 il “Book Show” con M.Cesaretti, V.Curzi, C. Perrone, S. Cardinali e G. Fratini a Palazzetto Baviera

L’Associazione Culturale Euterpe di Jesi con il Patrocinio del Comune di Senigallia, su proposta del socio e poeta anconetano Mauro Cesaretti, organizza l’evento culturale denominato “Book Show” che si terrà a Palazzetto Baviera a Senigallia (AN) il prossimo 17 febbraio alle ore 18. L’iniziativa, già proposta da Cesaretti nei mesi scorsi nel capoluogo lombardo con […]

via A Senigallia il 17 febbraio il “Book Show” con cinque autori della Provincia di Ancona — Associazione Culturale Euterpe

Concetto e venature di “vita” in poesia. Note su poeti anconetani. Da Scataglini a Curzi e Ausili. Articolo di Stefano Bardi

Articolo di Stefano Bardi

Il poeta anconetano Franco Scataglini (1930-1994) nel 1977 diede alle stampe la raccolta So’ rimaso la spina, opera dal titolo fortemente simbolico; qui la Vita è intesa come una creatura che ci spolpa, proprio come l’irruenza delle onde del mare. Un primo tema è quello della Vita, che ci priva di qualsiasi cosa per noi importante, ci cancella, ci azzera e ci immerge in un oceano colmo di solitudine e di emarginazione. Un’esistenza, quella terrena, che è paragonata alla scrittura, poiché come essa è un cancellare gli errori dopo gli sbagli e un canto disperso, nel dolore quotidiano[1]. Vita che ha la sua parte oscura ch’è la dipartita, concepita dal poeta anconetano come una Vita senza energie, sogni, passioni e in particolar modo senza profumi.[2] Un Vita che è paragonata agli invernali moli, luoghi dove non c’è vita, solo malinconia e vite in decomposizione. In tale cornice, gli uomini di Scataglini finiscono per apparire come una sorta di pupazzi di neve, ovvero come delle creature dal cuore glaciale e dalle mortifere parole[3]. A dominare, negli spiragli della silloge, è forse il tema dell’amore, inteso come un qualcosa che ci “cucina” la carne e lo spirito fino all’osso[4], ma anche come il principale motore delle azioni e nella nostra vita[5].

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Il poeta anconetano Franco Scataglini. Foto tratta da: https://tinyurl.com/ycrwr2hc

Vorrei allargare il mio pensiero critico e la mia riflessione riferendomi a due poeti contemporanei: Valtero Curzi e Marco Ausili. Il filosofo, poeta e scrittore Valtero Curzi (1957) nel 2017 ha dato alle stampe la raccolta Il tempo del vivere è mutevole. Varie sono le chiavi di lettura, una prima è quella con la quale il poeta paragona la dolcezza esistenziale alla dolcezza del ciliegio che, anche se  muore al primo vento, rimane per sempre dentro di noi.[6] La vita è concepita come una dolce melodia che culla la nostra mente e ci conquista con i suoi sensuali arieggi.[7] Per una lettura accessoria credo che bisogni chiamare in causa la canzone Come le onde del mare di Gianmaria Testa. Le onde di  Curzi e di Testa strappano i nostri sogni e i nostri affetti per farci immergere in mondi animati da una pacata oscurità.[8] Centrale è la tematica dell’amore che ritorna nella lirica “Ti vengo a cercare”. Testi dove l’Amore, con le sembianze di una donna, è visto come una creatura da amare, lodare, glorificare e contemplare nelle sue brume, nei suoi viaggi psichici e nei sui labirinti spirituali.[9] Accanto al tema della Vita, c’è posto anche per il tema dell’Uomo e del cammino esistenziale. Uno Uomo che non è fatto di carne e di ossa per il poeta senigalliese, ma è un’ombra che vaga all’interno di un mondo annebbiato, alla ricerca di una Terra Promessa sulla quale approdare.[10] Nella poesia “Stazione Centrale” è rappresentato un effimero viaggio in treno, dove non ci sono fermate ma solo partenze.

L’opera di Curzi ha toni pascoliani, dannunziani e ungarettiani al contempo. Per quanto riguarda la reminiscenza pascoliana, dobbiamo parlare della poesia “La notte di San Lorenzo” dove le stelle cadenti rappresentano la morte delle gioie; per quella dannunziana della poesia “Piove, a Maggio” in cui è simboleggiata la tristezza in grado di calmare ogni cosa, concepita come un acqua magica.[11] Un riferimento ungarettiano lo possiamo trovare in “Una foglia”: una foglia caduta dal ramo e adagiata sulla fredda terra, che simboleggia tutta la fragilità degli esseri umani nel loro ultimo istante di vita.[12].

Concludo questa breve dissertazione ritornando nella città dalla quale sono partito, Ancona, parlando del poeta Marco Ausili (1988) che nel 2017 ha pubblicato l’opera Global carmina e altre poesie. Qui il tema è riscontrabile in tre precise sezioni, che sono: Lo spazio di un’estate, La paura della vita e Sentieri ininterrotti. Nella prima, la Vita è paragonata al mare che è visto come una fonte battesimale dalla quale far risorgere le nostre carni purificate[13] e come un baule in cui sono conservate le nostre reminiscenze, i nostri patimenti, i nostri amori e infine, i nostri defunti.[14] Nella seconda, la Vita altro non è che la Morte. Dipartita che è concepita dal giovane poeta come una sorella che ci prenderà per mano e ci condurrà alla vita eterna[15] e come la sovrana dei camposanti, intesi da Ausili come i luoghi che conservano per l’eternità le nostre gioie e le nostre melodie esistenziali. Nell’ultima sezione la vita è concepita come conoscenza e diffusione del passato[16].   

STEFANO BARDI                

 

 

Bibliografia di Riferimento:

SCATAGLINI F., So’ rimaso la spina, Edizioni L’Astrogallo, Ancona, 1977.

CURZI V., Il tempo del vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017.

AUSILI M., Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017.

[1] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 23 (“[…] tuta scancelatura / dopo dulor de sbai. […]-[…] el biatolà d’un dindo / spèrsose ‘nte la piova.”)  

[2] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 26 (“[…] Pei morti ai quatro venti / ‘st’asenza de perfumo.”)

[3] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 76 (“Né tera né cielo / è i omini, fiola, / ma pupi de gelo / co’ morta parola. […]”)

[4] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 67 (“[…] Spolpato sopra e soto / so’ rimaso la spina.”)

[5] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 120 (“[…] Tuto è corpo d’amore / mischiato al bene e ‘l male, / tuto è ‘l fenomenale / èssece: serpe o fiore / ortiga o albaspina / infedeltà, costanza / fortuna, malandanza / sesso d’omo o vagina / e te, dialeto caro / che da l’infanzia sorti / t’ha cinguetato i morti / su l’alto colombaro […]”)

[6] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 21 (“[…] Terrò l’ultimo fiore / nel mio sguardo.”)

[7] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 23 (“[…] M’ascolto sereno / senza mutar nulla nel mio pensare / lasciando l’armonia conquistarmi.”)

[8] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 27 (“[…] E io sento in quel morir placido / il viver che ci contiene / mi perdo / nei miei pensieri / ed è già subito sera.”)

[9] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 80 (“Ti vengo a cercare / nella tua incertezza / che ti percorre / e ti inseguo / nei meandri dei pensieri / che t’avvitano. […]”)

[10] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 75 (“Cerco il mio tempo / dove posarmi / come alla sera / nel guardar le stelle disperse / nell’universo scuro di chiaro offuscato. […]”)

[11] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 66 (“[…] Piove lieve e fermo / come dolce malinconia / che tutto quieta. / Piove come il meditare / nella matura esistenza percorsa / in ogni pensiero nato e appena sbocciato.[…]”)

[12] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 64 (“[…] Mi serra il cuore / quel tuo stato sottile / d’immensa fragilità / che ci coglie. / Sento doloroso / l’adagiarti ormai morta / sull’arida terra. / Ti guardo… / e fuggo dai miei pensieri.”)

[13] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017,  p. 19 (“[…] Risalivano. La meraviglia / del respiro, come ora usciti / dall’amnio. Tra le dita / il trofeo immacolato.”)

[14] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017,  p. 22 (“[…] Ancora nell’orecchio chiuso / il rumore del mare / come fatto si fosse conchiglia / pescata dall’acque. / La mente festante di ricordi / infine piegandosi tacque.”)   

[15] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 29 (“[…] Lo sento, sta arrivando. / E presto i suoi passi passeranno / dove passi ogni tanto, / senza avvertire il mio passaggio / il passato, perduto mio transito.”)

[16] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 62 (“[…] Non siamo mai chiusi / dentro una stanza, / siamo comunque nel mondo, / della sua medesima sostanza.”); M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 63 (“[…] Passerà l’intera mattina / a ricostruire sereno tutto / il figlio contento di creare, / con calma, senza lutto.”)

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

“Dasior” debutta in poesia. Sabato 24 novembre a Senigallia la presentazione del libro di Simona Riccialdelli, “La mia essenza”

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Articolo di Lorenzo Spurio

Soltanto adesso posso vivere l’adesso,

non mi resta tempo per pensare a che fare;

farlo e non farlo, tutto assurdo!

Sabato 24 novembre alle ore 18 a Senigallia (AN) presso la suggestiva ambientazione dell’Auditorium San Rocco (Piazza Garibaldi n°1) si terrà la presentazione al pubblico del libro di poesie di Simona Riccialdelli (in arte “Dasior”) dal titolo evocativo, “La mia essenza”, edito dalla casa editrice Bertoni di Perugia.

È ben evidente che il legame della Riccialdelli con la poesia sia veramente sentito e ben radicato e ce ne rendiamo conto sin dalla breve nota che ha posto in apertura al volume: “Incantevole questo percorso artistico per gioco, dove tutto prende forma come per magia e dove viaggio senza ritorno. Mi sento al meglio soltanto qui, nell’espressione di ciò che ha sempre vissuto in me, nel giocare con le lettere, per comporre atti di vita”.

L’evento, patrocinato dal Comune di Senigallia e dal Circolo di Iniziativa Culturale – Rivista “Sestante”, vedrà l’intervento del romanziere e critico letterario locale Luca Rachetta mentre le letture saranno eseguite dall’attore Mauro Pierfederici. Gli intermezzi musicali saranno a cura della flautista Elena Solai. Rachetta, nella sua prefazione ha osservato che “dai versi della Riccialdelli sprigiona un deciso invito ad aprirsi al mondo e agli altri  […], unica via per poter vivere appieno la semplicità e la positiva spensieratezza, percorrendo così il cammino lineare verso l’amore e la felicità”.

L’evento sarà presentato e condotto dal poeta, critico letterario e curatore editoriale Bruno Mohorovich che, nella nota di postfazione al volume, così parla della poesia nella Riccialdelli: “[essa] trov[a] la sua ragione d’esistere. Una vita la sua, attraversata dalla sofferenza che trova compimento in una ricercata e sopraggiunta fede; una fede vissuta, quella che aiuta nei momenti difficili, l’antidoto alla sofferenza, […], la chiave che apre la porta non verso una vita diversa, ma… la Vita”.

 

L’autrice

46485551_458548217882675_6732369749105180672_nSimona Riccialdelli è nata a Senigallia (AN) nel 1963. Ha trascorso parte della sua infanzia ad Arezzo, frequentandovi gli anni scolastici elementari, assorbendo l’atmosfera di questa città. Ritornata a Senigallia nel 1 974 dove ha proseguito gli studi. Pittrice (numerose le sue presenze in collettive sul territorio locale) e poetessa, da sempre ama scrivere. È stata premiata al Concorso Letterario “Patrizia Brunetti” di Senigallia nel 2017. Recentemente alcune sue poesie sono apparse nell’antologia “Marche. Omaggio in versi” (Bertoni, Perugia, 2018) a cura di Bruno Mohorovich ed Elisa Piana.

 

È severamente vietato riprodurre in qualsiasi maniera, sia in forma integrale che di stralci, il presente articolo senza il permesso da parte dell’autore.

III Concorso di racconti brevi “Storie in viaggio” (scadenza il 30 giugno) con premiazione a Corinaldo, nel luogo natale di Santa Maria Goretti

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Dopo le precedenti edizioni che hanno avuto la loro cerimonia di premiazione rispettivamente nei comuni di Cingoli (MC) e Camerata Picena (AN) ed essendo il Premio volutamente itinerante, l’Associazione Culturale Euterpe di Jesi (AN), con il Patrocinio del Comune di Corinaldo, indice la terza edizione del Concorso di Racconti Brevi “Storie in viaggio” la cui partecipazione è regolamentata dal presente bando.

1. Sezione Racconto
Si partecipa con racconti editi o inediti, ma in quest’ultimo caso è richiesto di indicare in che libro o antologia sono stati precedentemente pubblicati. L’autore, comunque, deve essere l’unico detentore dei diritti sul testo che invierà. È fatto divieto di partecipare con racconti già presentati allo stesso concorso in edizioni precedenti o modificati nel titolo o leggermente rimaneggiati rispetto a opere già presentate, sia che siano risultate finaliste che no.
2. Tematica
La tematica indicata è “Il viaggio” che può essere interpretata liberamente a intendere viaggi fisici, di spostamento sul territorio nazionale o internazionale e di viaggi interiori, percorsi di approfondimento e di crescita personale, educativo, morale, spirituale o di altra tipologia.
3. Caratteristiche
Si partecipa unicamente con testi scritti in lingua italiana. Non verranno accettati racconti in altre lingue né in dialetto, anche se provvisti di relativa traduzione in italiano. Ciascun partecipante può inviare un solo racconto in formato Word (estensione .doc o .docx) di lunghezza complessiva 3 cartelle editoriali (1 cartella = 1800 battute).
I testi, in forma rigorosamente anonima, dovranno essere in carattere Times New Roman corpo 12
4. Contributo
Per la partecipazione al concorso è richiesto un contributo per spese organizzative pari a 10€. I soci fondatori e onorari della Associazione Culturale Euterpe e tutti i membri di giuria delle passate edizioni non potranno prendere parte al concorso. I soci ordinari dell’Associazione Culturale Euterpe in regola per l’anno di riferimento (2018) hanno diritto a uno sconto del 50% sul contributo di partecipazione.
I riferimenti per l’invio del contributo sono i seguenti:
Bollettino postale: CC n° 1032645697
Intestato ad Associazione Culturale Euterpe
Causale: III Concorso Storie in Viaggio – nome autore
Bonifico: IBAN: IT31H0760102600001032645697
Intestato ad Associazione Culturale Euterpe
Causale: III Concorso Storie in Viaggio – nome autore
6. Invio degli elaborati
Per prendere parte al concorso è richiesto l’invio a mezzo e-mail all’indirizzo
concorsostorieinviaggio@gmail.com del proprio racconto comprensivo di titolo e sprovvisto di dati personali o segni di riconoscimento. Al testo andrà allegata anche la scheda di partecipazione e la ricevuta del versamento del contributo richiesto. Nell’oggetto della mail è richiesto di indicare “3° Concorso Storie in viaggio”. La mancanza di uno dei materiali richiesti comporta l’esclusione.
7. Scadenza
Il termine ultimo per inviare le proprie partecipazioni è fissato al 30 Giugno 2018.
Non verranno presi in considerazioni elaborati pervenuti dopo tale data.
8. Pre-selezione
Una prima commissione di Giuria, definita di pre-selezione, e composta da alcuni membri del Consiglio Direttivo della Associazione Culturale Euterpe, provvederà a effettuare una preselezione dei materiali pervenuti – in forma rigorosamente anonima – dalla quale scaturiranno venti racconti finalisti. L’esito della pre-selezione verrà pubblicato sul sito della Associazione (www.associazioneeuterpe.com) e inviato a mezzo mail a tutti i partecipanti.
9. Graduatoria
Una seconda commissione di giuria, definita giudicatrice, valuterà in forma completamente anonima i testi dei venti finalisti e proclamerà i vincitori durante la serata di premiazione. Saranno proclamati i primi dieci vincitori e i restanti dieci – a pari merito – quali Menzioni d’Onore.
10. Cerimonia di premiazione
Tutti i finalisti sono tenuti a partecipare alla serata finale che si terrà domenica 23 settembre 2018 presso la Sala “Ciani” del Consiglio del Comune di Corinaldo (AN).
Partecipando a questo concorso l’autore dichiara la propria presenza fisica e disponibilità a intervenire alla serata di premiazione, nel caso figurasse tra i finalisti.
I finalisti che non si presenteranno personalmente o per delega alla premiazione non avranno diritto a ricevere il premio a domicilio. Si potranno spedire, dietro pagamento delle relative spese, solo il diploma e copia della antologia del Premio.
11. Premi
I premi consisteranno in targhe per i primi dieci vincitori assoluti e motivazione della giuria e in coppe o altri trofei per i successivi dieci, a pari merito, che verranno premiati quali Menzioni d’onore. Tutti i premiati riceveranno anche il diploma.
12. Commissioni di giuria 
La commissione di pre-selezione è composta da alcuni membri del Consiglio Direttivo della Associazione Culturale Euterpe di cui verrà dato conto in sede di premiazione.
La commissione giudicatrice è composta da esponenti del panorama culturale e letterario nominati all’uopo dalla Associazione Culturale Euterpe, i cui nomi verranno rivelati il giorno della premiazione. I giudizi di entrambe le commissioni sono definitivi e insindacabili.
13. Raccolta antologica
I racconti dei venti finalisti verranno pubblicati in un’opera antologica, disponibile il giorno della premiazione.
14. Visita guidata
L’evento sarà anticipato da una visita guidata della città (gratuita) che avverrà con la
collaborazione della Pro Loco di Corinaldo per coloro che vorranno (maggiori indicazioni su orari e punti di ritrovo verranno fornite in un secondo momento) a mezzo mail.
15.Ultime disposizioni
La partecipazione al Premio è subordinata all’accettazione del presente bando in ogni suo articolo. Ai sensi del D.Lgs 196/2003 e della precedente Legge 675/1996 i partecipanti acconsentono al trattamento, diffusione e utilizzazione dei dati personali da parte dell’organizzazione per lo svolgimento degli adempimenti inerenti al concorso e altre attività promosse dalla Associazione Culturale Euterpe di Jesi.
LORENZO SPURIO – Presidente Ass. Culturale Euterpe
STEFANO VIGNAROLI – Presidente del Concorso
GIOIA CASALE – Segretaria del Concorso
Per info inerenti al concorso:
ASSOCIAZIONE CULTURALE EUTERPE – JESI
http://www.associazioneeuterpe.com – ass.culturale.euterpe@gmail.com
Mail concorso: concorsostorieinviaggio@gmail.com
Tel. (+39) 327-5914963 – Pagina FB
ASSOCIAZIONE TURISTICA PRO LOCO DI CORINALDO
Via del Velluto n°20 – 60013 Corinaldo (AN)
http://www.procorinaldo.itiat1@corinaldo.it
Tel. (+39) 071-679047

 

 

 

 

 

3° CONCORSO STORIE IN VIAGGIO EDIZIONE 2018
LA PRESENTE SCHEDA È REQUISITO FONDAMENTALE PER LA PARTECIPAZIONE

 

Nome/Cognome __________________________________________________________________
Nato/a a _______________________________ il ________________________________________
Residente in via ________________________________Città_______________________________
Cap __________________________________ Provincia __________________________________
Tel. ____________________________________ E-mail ___________________________________
Partecipo al Concorso “Storie in viaggio” indetto dalla Associazione Culturale Euterpe di Jesi (AN) con il racconto dal titolo
________________________________________________________________________________
________________________________________________________________________________
Esso è [ ] EDITO [ ] INEDITOSe edito è stato pubblicato in __________________________________________________________________________________________________________________________________________________
L’autore è iscritto/tutelato alla SIAE ? [ ] SI [ ] NO
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Dichiaro, sotto la mia responsabilità, che il racconto è di mia completa produzione e che ne detengo i diritti ad ogni titolo [ ] SI [ ] NO
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“Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi: il dono della vita alla parole” di Elisa Ruotolo. Recensione di Lorenzo Spurio

Elisa Ruotolo, Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi: il dono della vita alla parole, Illustrazioni di Pia Valentinis, rueBallu, Palermo, 2018.

Recensione di Lorenzo Spurio

Sorrido senza in fondo goderne.

Pratico ed essenziale il volume di Elisa Ruotolo recentemente pubblicato da rueBallu di Palermo sull’ampia e pluri-evocata figura della poetessa lombarda Antonia Pozzi (1912-1938). Nel libro, curato nei dettagli grafici e compositivi in maniera pregevole e stampato su Materica (carta naturale realizzata con fibre di cotone riciclate di pura cellulosa provenienti dalla gestione responsabile delle foreste), la scrittrice ci propone un percorso intimo e amicale con una delle più grande poetesse del secolo scorso.

Il piccolo compendio finale del volume è dedicato a raccogliere una manciata di poesie di Antonia Pozzi tra cui la stupefacente lirica “Canto della mia nudità”: un canto soave di svelamento e di denuncia della propria disagiata condizione esistenziale. In essa, infatti, la vulnerabile poetessa di Pasturo (LC), annotava: “pallida è la carne mia/ […]/ E un giorno nuda, sola,/ stesa supina sotto la troppa terra,/ starò, quando la morte avrà chiamato”. La Ruotolo affida al lettore curioso e insaziabile l’intera vicenda personale della Pozzi, dell’Antonia in quanto donna, figlia e amante, ben più che quale poetessa sebbene, com’è noto, sia piuttosto impossibile adoperarsi a un’operazione di scissione tra le due componenti.

8564331_3129674.jpgLa caratteristica di questo volume è quella di accompagnare il lettore in un percorso umano, che è appunto quello della Pozzi, con precisione e grande rispetto delle vicende altrui. Gli apparati grafici e iconici che sono stati impiegati (opera dell’artista udinese Pia Valentinis) si delineano come pregnanti e insostituibili in un progetto che risulta essere lodevole – come già accennato – non solo per i contenuti – densi e nevralgici – ma per la cura editoriale, degli inserti, dei disegni, della composizione dei capitoli e di ogni minuzia che è studiata ad arte per compendiare al meglio un progetto che è vivo, multidisciplinare, interattivo e, pertanto, assai coinvolgente.

Non un saggio accademico, neppure un approfondimento monografico sulla grande penna lombarda che nel maledetto anno delle leggi razziali (1938) decise di trapassare la dimensione reale, piuttosto un pamphlet colorato e avvincente, un itinerario curioso e trattato con sapienza e profonda conoscenza della materia, reso, però, in forma appetibile, d’ampio approvvigionamento in un pubblico che non è di nicchia, ma trasversale, compreso quello giovanissimo che potrà trovare particolare giovamento anche dai notevoli inserti grafici.

S’inizia il percorso sulle pagine tinte da una cromia decisa e pulsante, quella dell’arancione, sebbene sia piuttosto vicino anche a una possibile sfumatura del cachi. Sono le pagine contrassegnate dal titolo “Tu con me, su questa terra nuda”. Sono pagine incipitarie, di fondamentale significazione per l’autrice del volume, che dettano le motivazioni-fondamenta di un’operazione editoriale di questo tipo. La Ruotolo, infatti, ci narra della sua conoscenza con la poetessa, di come avvenne, e del grande potere della parola della Pozzi che, da subito, l’affascinò notevolmente. Da lì nacque la sua esigenza di approfondire “La vicenda umana di questa straordinaria poetessa, che aveva consumato rapidamente i suoi anni agli inizi del Novecento”. Bella la definizione che la Ruotolo dà di questo tempo breve della Pozzi da lei “consumato rapidamente”: con impeto e desiderio, con voluttà e voglia d’amore che poi, dinanzi ai limiti imposti dai tempi e dalla morale, trovarono una fine diversa, impetuosa ed eclatante, definitiva e struggente, eppure voluta e creata. Difatti la Ruotolo non manca di parlare del grande amore per la vita tipico della Pozzi: “Antonia amò come di rado si riesce nella vita, fino a donarsi completamente, a svuotarsi, a sfinirsi”. La sua morte viene così richiamata, in queste prime pagine, quale atto ultimo di un processo fisiologico dettato dalla consunzione, dalla dissipazione del proprio animo interiore. Quello che oggi definiamo ‘suicidio’, parlando della sua persona, in realtà non sarebbe che il punto di limite della fine di quella vita felice, vissuta nella pienezza della totalità e del logorio per l’impossibilità di poterla continuare nel tempo. La consumazione di sé, che sembra ben diversa da una vera e propria fuga dal mondo e dunque ad un atto sovversivo portato alle estreme conseguenze, è più un gesto altruistico dettato dalla consapevolezza e dalla lucidità dinanzi all’incapacità di una prosecuzione nel reale.

La Ruotolo, con questo testo, ci consente di percepire quella stessa “angoscia del riporsi interni nelle mani altrui” che lei stessa ha sperimentato leggendo e approfondendo il percorso umano della Pozzi. Risulta importante anche sottolineare come la scrittrice abbia messo in luce, con impareggiabile resa e grande apertura, quanto la Pozzi fosse una donna viva e ardente (“non fu mai capace di tiepidezza, ma sempre e solo d’incendio”) abbattendo quella che può essere una facile e comune convinzione nel vedere nella poetessa di Pasturo una donna sottomessa e ritirata, sfiduciata e inetta, fredda, disinteressata alla vita. Le sue poche foto che circolano ce la trasmettono come un’anima trafitta da un disagio difficile da spiegare, dall’espressione mesta o preoccupata e, comunque, raramente è ritratta in uno stato di vera pace o equilibrio. La Ruotolo tiene a sottolineare in questo volume anche quegli aspetti che, nel trascorso di anni tesi a studiare la sua figura di intellettuale, hanno marcato molto sulla sua insofferenza, solitudine e istinti di morte. La scrittrice, infatti, ce la descrive fortemente attaccata alla vita, smaniosa di diventare madre, affettuosa con gli amici (meno con la famiglia, con eccezione della nonna), passionale e focosa, in cerca di quella libertà che le avrebbe concesso di vivere nella pienezza dei suoi desideri. “Antonia amava vivere, ma il suo era un amore straziante, che non s’adatta ai compromessi, né s’accontenta delle briciole”, scrive la Ruotolo in queste primissime pagine. In altre parole: un amore impossibile, di cui ha consumato gli esordi, vissuto platonicamente, agognato e nutrito privatamente, sino a che – dinanzi agli impedimenti irremovibili – s’è degradato lentamente, privandola di quell’energia autentica che le era propria e che l’aveva caratterizzata in quanto donna aperta, affettuosa, capace di credere in un rapporto d’amore.

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Uno scatto di Antonia Pozzi alpinista

Il capitolo che segue, “Io, Antonia. Il tempo bambino”, è ben speso a fornire il contesto generazionale nel quale la Pozzi è collocata con particolare attenzione alla sua fase infantile nella quale sperimenta forme di scollamento e solitudine (che poi la fagociterà) a partire da un sentimento di nutrita diversità. La scuola, con insegnanti suore, sembra essere il luogo che sente maggiormente in sintonia, ed è anche piuttosto brava, ma anche lì non disdegna quell’innata solitudine che la fa “una cosa di nessuno”. L’istituto scolastico è percepito dalla Pozzi e ricordato dalla Ruotolo come positivo non in funzione di un ampliamento di conoscenze con persone terze e dunque in termini sociali, amicali ma semplicemente perché è il luogo che le permette di raggiungere ciò che cerca: la conoscenza. Per tutto il suo breve percorso di vita, infatti, la Pozzi sarà una grande studiosa di letteratura e non solo, arrivando a intrattenere importanti relazioni con noti esponenti della letteratura dell’epoca, quale il critico Dino Formaggio (1914-2008) o il poeta Vittorio Sereni (1913-1983). Già da ragazza la Pozzi sente che lo studio e, più in generale, la conoscenza sono ingredienti insostituibili, mezzi dei quali, seppur in dose e forme diverse, non potrà più farne a meno.

Segue così il capitolo che la Ruotolo ha voluto indicare in maniera netta e distintiva “Gli anni dell’obbedienza”; tale periodo fa riferimento a una trattazione in cui la scrittrice, calata negli occhi e nella persona di Antonia, descrive se stessa soprattutto in ambito familiare quale una presenza che “non fac[eva] rumore”. Ricorda così della dolcezza controllata della madre e della severità del padre, uomo mite ma austero, deciso e padrone, finanche insensibile: “Ogni suo sguardo mira a giudicare le mie mancanze”. Eppure, circondata da un contesto non così partecipe e costruttore dell’entusiasmo della giovane, che scopre la sua più grande amica, la poesia: “Le parole mi hanno vestita e poi abitata”. Paradossalmente sono le parole, che non hanno una vita propria e che sono creazione di qualcuno, che dànno alla Pozzi motivo, forma, ragione e senso alla sua vita. Un po’ come quei versi che Neruda diceva che lo toccavano al punto tale che era la poesia che lo chiamava, la Pozzi via la Ruotolo è un corpo nudo, un’entità vuota, un campo d’assenza che trova identità e significazione solo con l’atto di copertura, di vestizione, offerto dalla poesia. Abiti che sono versi, tessuti che sono parole allineate, copertura che è l’anima arricchita: “Ogni parola aggiungeva senso, sottraeva spazio al niente e lo riempiva”. La poesia per la Pozzi non è erudizione o sofisticazione retorica ma richiamo e necessità: forma di scoperta di sé e completamento, distruzione di quella penuria devastante, arricchimento e costruzione interiore e, al contempo, dialogo con la propria anima che si scorge, riaffiora, e ci scoperchia chi siamo. Ecco perché il pensiero che la Ruotolo pone, ovvero l’ossessione di Antonia che qualcuno la obblighi a smettere di scrivere, si configura come uno svilimento personale, un denudamento che la renderebbe vuota, debole, priva di quel senso intimo che ha scoperto nell’essenza della scrittura. “La poesia adesso mi guarda e mi completa”, scrive la Ruotolo poco dopo, a sottolineare ancora una volta quanto la parola, da entità vacua e astratta, possa avere una grande capacità materica da compenetrare, completare, vanificare quelle assenze, cucire quelle fenditure che fanno il corpo leso, indistinto e lacunoso.

Seguono le pagine dedicate ad Antonio Maria Cervi, l’insegnante del quale la Pozzi s’innamorò e dedicò varie poesie; è il tempo in cui si sente ormai lontana dall’infanzia di Pasturo, sebbene serbi il ricordo di ogni dettaglio dell’ambiente (“potrei dire quante foglie ha perduto il tiglio”) e sboccia quell’amore folgorante verso il professore, forse l’unico che, per citare Virginia Woolf nella sua lettera d’addio indirizza al marito Leonard, avrebbe potuto salvarla. Difatti il professore è la valvola di una sorta di rinascita in Antonia, la svolta luminosa che sembra riportarla alla leggerezza e al colore dei tempi andati; se in casa si respira pesantezza, verticismo e dunque inadeguatezza, col professore, col semplice avvicinamento alla sua persona o al colloquiare con lui, in Antonia si rafforza la speranza e nasce l’amore verso l’altro. È l’inizio di un cambiamento che, prima era stato cercato e voluto e ora avviene spontaneo, nella sua forma più bella, quella di un amore viscerale, inspiegabile eppure necessario, quel sentimento vorticoso e incircoscrivibile che le fa maturare l’idea di un nuovo cominciamento alla vita, di una primavera inaspettata. Con Cervi, la Pozzi rinasce e ritrova se stessa, l’amore e la poesia sono balsami a disagi e solitudini pesanti che ora sembrano relegati a un tempo lontano.

La sezione successiva, anticipata da una colorazione carta di zucchero, ha come tematica “La separazione” ed è, se vogliamo, l’esordio della nuova decadenza emozionale di Antonia. La Pozzi, via la Ruotolo, dice “durò un anno appena e andasti via da me”. Siamo nella presa di coscienza di un rapporto che è finito e nel clima di profonda nostalgia e rimpianto per i pochi bei momenti trascorsi insieme. Qualcosa è accaduto e le condizioni preesistenti, quelle che avevano visto il riaccendersi del desiderio alla vita di Antonia, sono venute meno: la loro relazione è stata bandita e tra di loro s’è imposta una distanza che non sarà più coperta. La figura autoritaria del padre di Antonia, con amicizie significative con esponenti del Regime, ha relazione con il trasferimento lavorativo del prof. Cervi? Non lo sappiamo con indubbia sicurezza ma, vista la sua posizione privilegiata, è possibile avanzare un’idea di questo tenore. La conclusione, comunque, è amara per la giovane Antonia: l’unica blanda concessione sarà la possibilità di conservare la relazione con l’insegnante a mezzo epistolare. “La vita prese a debordare da me, incapace com’ero d’abitare lo spazio breve della mia campana di vetro”.

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Antonia Pozzi

Ripiomba così il tempo della solitudine, un’età amara priva di un varco di speranza che invece può essere configurata nei tempi dell’attesa. Antonia non attende né spera in un ritorno del prof. Cervi e in un loro congiungimento perché sa che ciò non potrà avvenire. Avendo elaborato questa impossibilità d’amore, questa lontananza che elude ciascun tipo di rapporto, la Pozzi scriverà: “Io ti porto con me dovunque io vada”. Si tratta di un autoconvincimento importante che ha il sapore amarognolo della sconfitta, il loro amore da reale passa a platonico per consumarsi poi in un niente dopo che avrà elaborato con lucidità la messa al bando dello stesso[1], in quel clima di sottomissione e divieti così naturale e caro all’augusto genitore, che tutto dispone come crede illudendosi che anche il sentimento possa essere delimitato da volontà e intransigenze personali. Vacilla anche l’affetto che ha sempre nutrito per i genitori e che ha dato per naturale e scontato: “So bene di amarvi, ma so per certo che l’amore non dovrebbe nutrirsi di paure e soggezioni; dovrebbe essere fiducia e confidenza, e io non ne ho mai avute al vostro pensiero” scrive la Ruotolo ricalcando fedelmente l’oppressione e la riluttanza della Pozzi dinanzi alla famiglia, in particolar modo il padre.

Ecco che nelle parti narrative che seguono la Pozzi via la Ruotolo non manca di esprimere il suo senso d’inadeguatezza al mondo familiare, la sua nullità, la sua insofferenza dovuta alla lontananza coatta dal suo amante che comincia a vagheggiare immagini di una precoce dipartita: “Sono ossessionata dal senso della fine e da questa emorragia di ore che mi vuole vecchia anzitempo”.

La speranza della nuova relazione con Dino Formaggio, pure osteggiata dal padre della Pozzi, produrrà un episodio grossomodo analogo rispetto a quello vissuto dalla ragazza con l’insegnante Antonio Maria Cervi e contemporaneamente s’inasprisce l’opposizione della donna nei confronti dello spadroneggiante fascismo, fautore di drammi e protagonista di lì a poco di una ecatombe paurosa.

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Ci approssimiamo così alla stazione ultima di questa laica via-crucis, cammino di un sacrificio completo di Antonia Pozzi posta in un contesto socio-familiare vetusto e bigotto, destrorso e pieno di pregiudizi che in breve tempo l’hanno fatta sfiorire. Il riferimento al cammino cristologico della Passione è significativo e ricalcato dalla stessa Ruotolo che, tramite la Pozzi, dice “Ormai non conto più i tagli e so cosa vuol dire essere crocifissi in questa vita”. Ed è così, conscia che non è più in grado di sostenere tutto ciò che accade intorno a lei che esce di casa, abbandonando quelle “stanze nude in cui ancora si dorme” dileguandosi da questo “tempo breve” a lei concesso. A testimonianza del suo percorso lascerà scritti e poesie nei cassetti della sua camera ma, ancor più spavaldamente, il padre deciderà di distruggerne in grande quantità o di modificarli a suo modo; quelle “parole tenute sotto il bavaglio” di cui parla la Ruotolo in queste pagine ultime, di commiato di Antonia, che ha già ben in mente il volo che si appresta a compiere. Ultimo perché irreversibile. L’ultima chiamata è stata lanciata, ma non è un appello, forse ha più a che vedere con una sfida o una condanna.

“Sono stanca di pagare con l’obbedienza una felicità che non arriva. Stanca di questo disagio d’avere ciò per cui gli altri mi dicono fortunata e che mi pesa addosso come una lapide. Stanca per tutto l’amore che ho dato. Adesso sì, il cuore può sostare. […] E mentre la Nena[2] guarda altrove, anima mia, da questo fosso in cui il cielo s’è fatto lontano, io ti lascio andare”.

Lorenzo Spurio

Jesi, 10-05-2018

 

NOTE

[1] Poco dopo la Pozzi, via la Ruotolo, scrive “Possibile mai vivere queste due vite senza impazzire, o morire?”

[2] Si tratta della nonna di Antonia Pozzi, la persona della famiglia a lei più cara in assoluto alla quale la lega ore di spensieratezza e giochi verbali.

“È come innamorarsi”, poesia di Michela Zanarella tradotta in portoghese

È come innamorarsi

Di Michela Zanarella

È come innamorarsi ogni volta della vita

concedersi al giorno che arriva

con l’anima aperta all’amore.

Serve alle mie ciglia

ritornare verso i tuoi occhi

forse per toccare ancora

il silenzio che ci ha permesso

di cercarci oltre uno sguardo.

Per questo ti dico

vieni a guardarmi il cuore

potremmo provare a correre

dove c’è posto per il sole

potremmo fare del cielo

l’asfalto per una luce senza tempo

 

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Traduzione in portoghese

É como se apaixonar

A cura di Monica Puccinelli

É como se apaixonar toda vez que a vida

se entregua ao dia que chega

com a alma aberta ao amor.

Necessito meus cílios

volte aos seus olhos

talvez  para tocar novamente

o silêncio que nos permitiu

nos procurar além de um olhar.

É por isso que eu digo a você

venha e olhe para o meu coração

nós poderíamos tentar correr

onde há um lugar para o sol

nós poderíamos fazer do céu

um asfalto para uma luz atemporal.

 

L’autrice della poesia dichiara, sotto la sua unica responsabilità, di essere la naturale e unica proprietaria dei diritti sul testo poetico. La pubblicazione della poesia e della sua traduzione è consentita su questo spazio dietro concessione e autorizzazione dell’autrice e del traduttore senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

 

 

Si chiude la trilogia “Infinito” del poeta anconetano Mauro Cesaretti; è uscito “Se è Amore, lo sarà per sempre”

Il poeta e performer anconetano Mauro Cesaretti torna in libreria e negli store online con la sua nuova silloge di poesie, Se è Amore, lo sarà per sempre edito Montag.  Trascorsi già quattro anni dal libro d’esordio, Se è Vita, lo sarà per sempre, che ha dato il via alla sua carriera letteraria, e dopo aver pubblicato Se è Poesia, lo sarà per sempre nel 2017, quest’anno conclude la stimata trilogia “Infinito” con l’uscita dell’ultimo volume.

Rispetto ai precedenti volumi della trilogia, Se è Amore, lo sarà per sempre è un’opera che vive l’amore negando l’amore stesso, che scopre l’essenza attraverso le varie sfumature del cuore, che soffre il dolore degli sbagli attraversando i ricordi. È, per dirla in sintesi, la conclusione della trilogia, ma anche l’inizio stesso, poiché volutamente il poeta ha inserito delle liriche risalenti al suo primo periodo per dare un senso di ciclicità e ricongiunzione.

In origine la trilogia doveva proporsi come una raccolta unica con tutte le poesie giovanili e solo successivamente è stata smembrata in tre volumi, ciascuno con un suo tema: vita, poesia e amore. Quello che ha rimesso in gioco l’intero progetto, infatti, è stata la morte del padre. Il tragico avvenimento, accaduto a cavallo tra il primo e il secondo libro, ha portato il giovane autore a far confluire alcuni canti nelle altre due sillogi mescolando quello che doveva essere il piano editoriale iniziale. Questo ultimo libro raccoglie le prime poesie d’amore dei 13-16 anni, quelle scritte per la sua ragazza del liceo e altre liriche varie elaborate durante l’arco dei suoi 19 anni.

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Il poeta anconetano Mauro Cesaretti

“È un’emozione indescrivibile poter pensare a questo piccolo traguardo della mia vita!”, ha spiegato Cesaretti, aggiungendo “Finalmente sono riuscito a portare a termine questo progetto incominciato cinque anni fa, che dopotutto mi ha permesso di elaborare al meglio la mia poetica e i miei pensieri intellettuali.”

Con questa raccolta Cesaretti può vantare ben 300 poesie, anche se come dice lui stesso, varie di esse sarebbe meglio definirle “riflessioni” o “piccoli pensieri” per rispetto dello studio concepito dietro ad altre composizioni. Nei suoi libri, infatti, ha cercato l’unione dei suoi appunti personali con le liriche, al fine di far capire l’origine del sentimento o la derivazione dei concetti.

Compagna di viaggio di questa trilogia è stata la Body Poetry, questa singolare e riuscita accoppiata di parola e movimento da lui sperimentata quale performance durante le presentazioni. Tale procedimento esibitivo gli ha permesso di collaborare con più maestranze provenienti da ambiti artistici diversi scoprendo in questo modo i vasti campi d’applicazione della poesia che solitamente viene rinchiusa tra una copertina e un retro di un libro, quando invece essa si propaga in quelli che sono aspetti teatrali e interpretativi volti al coinvolgimento e all’immedesimazione dei singoli individui.

COPERTINA.jpgDopo aver ideato anche il progetto di video-poesie “Istanti”, nel quale ha fatto confluire alcune poesie dei vecchi libri e sei esclusive di Se è Amore, lo sarà per sempre, da gennaio 2018 partirà sul canale youtube Mauro Cesaretti, l’ultima sperimentazione coreutica, Body Poetry – NeoBallet, interpretata da Homar Perchiazzo e Beatrice Guerri con l’accompagnamento musicale di colonne sonore reinterpretate da Jacopo Megarelli e Alessandro Bondi.

“Mi aspetto di poter stimolare la fantasia e suscitare emozioni nei miei lettori appassionandoli a quella che è stata la mia storia e le mie esperienze. Con ciò spero anche che si possano rivedere in alcune situazioni del mio vissuto trovando conforto e piacere!” ha rivelato il promettente artista.

“La vita è un viaggio” di Michela Zanarella, tradotta in arabo da Mostafa Touny

La vita è un viaggio

di MICHELA ZANARELLA

 

Ogni uomo

cammina scalzo nel suo domani,

inciampa e poi riprende il passo,

mentre la sorte

ha il gergo del mare.

La vita è un viaggio,

una trama di rossori e sconfitte.

La meta è oltre il tempo,

nel grembo sicuro

di un silenzio inatteso.

Rimane l’impronta

del tramonto cercato,

l’esile vibrazione di un binario

sospeso,

il filo rosso di terre lontane.

 

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حـــــياتنا رحــــــــلة

 

كل رجل يسير نحو غده حافي القدمين  ،

يتعـــثر ثم يستــــأنف الخـــــطى

في حين  مصيره كقانون البحار. .

الحياة عبارة عن رحلة،

نســـــيج من الشــــــفق والهــــزائم.

والهدف من ذلك خارج نطاق الزمن،

 فى كنف آمن من الصمت  الغير متوقع

ويبقى أثـــر الغروب المأمول ،

الاهتزاز الطفيف لمسار معلق ،

النسيج الأحــمر لبــــلاد بعيدة ..

Traduzione in arabo di Mostafa Touny

“Lapilli di vita” di Michela Zanarella tradotta in giapponese da Taro Aizu

Lapilli di vita

In queste ossa

viaggio

e insieme mi porto

lapilli di vita.

Scavo calore

consumo il fiato,

amo.

Voglio andare

con la pelle

a restare magia

nel destino.

Voglio esplodere

di te

e sapere il sapore

del mare.

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Traduzione di Taro Aizu

生命の火花

この骨の中を

私は旅する

そして私は

小さな生命の火花を持って行く

私は熱を取り出し

息を吸い

愛する

私はこの皮膚の中に

とどまりたい

私は将来も

不思議なままでいたい

あなたには

私から外へ噴き出してほしい

そして 私は

海の味を知りたい。

(tratta da “Meditazioni al femminile” 2012 © Michela Zanarella)

La profonda spiritualità nella poetica di Anna Scarpetta. A cura di Lorenzo Spurio

La profonda spiritualità nella poetica di

Anna Scarpetta

a cura di Lorenzo Spurio

 

Non è semplice azzardare un commento critico organico sulla vasta opera poetica di Anna Scarpetta, poetessa di origini orgogliosamente partenopee che vanta di un’ascendenza familiare di tutto rispetto nel mondo del teatro napoletano e italiano, quella dei De Filippo-Scarpetta. Questa teatralità congenita nel sangue di Anna Scarpetta è una delle sue componenti fondamentali e, per chi la conosce, sa bene che la sua genuina spontaneità condita da un frequente ricorso a una mimica facciale evocativa, ne contraddistingue fortemente la persona e, oserei dire, anche il personaggio. Ci occuperemo qui, in questo contesto, della sua natura di poetessa che nel corso degli anni l’ha vista “scoprirsi” delle sue convinzioni esistenziali, credenze religione, vedute sul mondo e un recupero attento di luoghi e momenti che sono stati consegnati al ricordo. In questo breve percorso tra le suggestioni della sua poetica, sostenuta spesso da un fervido animo confessionale, ci soffermeremo sulle sue produzioni più recenti in ordine di tempo sottolineando da subito che la difficoltà incontrata dal critico nel fornire un giudizio analitico sulla sua opera è dovuta da una sorta di effetto di sospensione (e che necessiterà in futuro di rilettura e rivisitazione) essendo l’opera della Nostra un cantiere aperto, un working in progress che non ci consente di criticare, qui ed ora, in maniera insindacabile.

In Le voci della memoria (2012) si chiarifica subito una delle sfere semantiche-concettuali pregne di importanza nella produzione della Nostra, ossia quella che fa riferimento al mondo del tempo andato collegato al ricordo. Questo ricordo, palpabile pagina dopo pagina, a tratti trasfonde una sensibilità nostalgica e quasi crepuscolare, altre volte, invece, è il motivo d’indagine sociale del presente. La prima poesia raccolta nella silloge, “Le voci della memoria”, quella che dà il nome all’intero libro, ci inserisce subito in questa dimensione: il ricordo è forte e sempre vivo “ad ogni stagione, ogni amaro inverno, sempre”[1]. Il ricordo, sembra suggerire la poetessa, ci appartiene sempre, anche quando non ne siamo consapevoli ed è la somma di tutti i ricordi, di quelle pietre preziose, che danno senso al nostro esistere.

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Anna Scarpetta

La lirica “Io sono qui” si configura come una sorta di preghiera laica nella quale la Scarpetta sottolinea l’importanza del hic et nunc: sono qui ora, penso, rifletto, mi faccio domande, considero il nulla, vaglio il mistero, sempre consapevole di quella cosa che ogni secondo si autodistrugge, il tempo. È questa una presenza costante nelle poesie di Anna Scarpetta: il tempo presiede ed osserva tutto, invisibile e a volte impercettibile e, come la morte –che poi è la fine del tempo-, è un’entità che ci rende umani e tutti uguali: “così tu, alla fine, tempo/ sei uguale per tutti dovunque” (11).

Le liriche della poetessa ci consegnano una poesia vivida e riflessiva, solo a tratti filosofica, di semplice lettura, frutto di un’attenta e continua analisi dell’inconscio di una donna ricca dentro, consapevole del trascorso del tempo e che ha fatto e fa tesoro dei momenti passati, per imprimerli sulla carta. È un tentativo, questo, di affrescare la vita anche se – come sostiene lei stessa- “ci vorrebbe un’altra vita/ per capire cos’è la vita” (12). Anna Scarpetta è una donna che non rifugge il passato, né che ci ha litigato, ma che ci dialoga, lo interroga e lo richiama quasi che esso fosse lì, personificato, davanti ai suoi occhi. È un passato fatto di gioie e dolori, come quello di ognuno di noi ma che in più punti appare come una grande mamma che accoglie, riscalda, protegge con la sua “calda memoria” (14).

Un interessante omaggio e lode al nostro paese è contenuto in “Italia bella patria” dove si fa riferimento alla grandezza del popolo italiano e dei suoi uomini illustri. Il canto dell’inno è –forse- il momento in cui l’Italia si riscopre fiera della sua italianità; per la Scarpetta l’Italia è “bella e sospirosa” (18), segno forse che c’è qualcosa negli italiani che provoca disinteresse, tormento, affanno e credo non sia errato leggere un riferimento alla presente crisi economica, causa di tanti disagi sociali. È infatti forte il tema sociale in “Soffrono i bambini del mondo”, un canto accorato dai toni cupi e mesti che parla di bambini orfani, soli, non amati, abbandonati, affamati, che la poetessa affida nelle mani della Madre: “avvolgi e consola” (21). Nella figura della Madre va vista la Vergine, la nostra madre celeste ma anche la Madre Terra, la divinità precristiana che si identificava con la Terra e ogni manifestazione attiva nella natura. Scorrendo da una poesia all’altra la poetessa mantiene un dialogo continuo con il dio Chronos “con il suo sguardo regale di marmo” (23).

La Scarpetta è una donna che dà tutto alla poesia e che, al tempo stesso, da essa riceve tutto. La poesia è fonte di conoscenza del mondo e di noi stessi, dà senso alle cose ma sa anche “lenire in silenzio e quietare il dolore/ di chi si accusa con colpa e patisce” (24).

Nella bellissima poesia “Chi siamo noi” la poetessa risponde che siamo dei sognatori, dei lavoratori, delle anime sensibili. Siamo ammassi di memorie, eredi del passato, viaggiatori. In “Verranno tempi migliori” si respira, forse, l’atmosfera più ottimista e speranzosa dell’intera silloge: la poetessa intravede tempi più felici e prosperi per tutti che saranno capaci di soprassedere alle logiche materialistiche e personalistiche dell’oggi (narcisismo, consumismo) attraverso la fede, unica vera arma di salvezza. In “Il tempo  è di Dio”, Anna Scarpetta ci ricorda che il tempo non è nostro ma che “è innanzitutto di Dio” (32) e che ci è dato sotto forma di un regalo. C’è l’implicito avvertimento a non sprecarlo, a dargli il giusto valore e a utilizzarlo bene. Rallentamenti, ellissi, retrospezioni, acceleramenti sono segni dell’utilizzo umano del tempo mentre il Signore ce lo ha affidato come una materia bianca, compatta e unica.

Insieme ad Anna Scarpetta
Insieme ad Anna Scarpetta

Nella successiva silloge, Sono soltanto un granello di sabbia (2013) si respira un’aria soave e pacata dove a dominare sono le immagini che fanno riferimento al mondo cattolico: molte delle poesie, in realtà sembrano delle vere preghiere, proprio per la profondità dei richiami e per la pervasiva e credente considerazione della vita quale percorso terrestre che si caratterizza per la sua finitudine.[2] La parola nelle poesie di Anna Scarpetta si fa lode, invocazione, condanna, rinuncia ed esortazione, ma essa è anche appello alla sensibilità dell’uomo, elogio dei sentimenti e apologia del credo cristiano. Non è un caso che sia proprio la prima lirica della silloge, “Io sono soltanto un granello di sabbia” che è quella che dà il titolo all’intera raccolta, che esordisca con questi versi: “Io sono, soltanto, un granello di sabbia,/ dell’immenso deserto, Signore” (7) in cui la poetessa, partendo dalla constatazione della minuziosità del suo essere in rapporto alla mondialità delle esperienze, evidenzia e rende grazia al Divino per il “dono” che le ha fatto: quello della poesia. Ma, siccome sappiamo che la poesia non è che la forma più autentica, vivida e sofferta di espressione umana, con questa espressione la poetessa non fa che eguagliare la poesia alla vita. E come si evince in questa prima lirica c’è una grande attenzione nella poetessa nei confronti del tentativo di auoto-definirsi, di identificarsi e di svelare agli altri chi è, come avviene anche nella poesia “Non so più chi sono”.

Centrale, come era stato per la precedente silloge poetica della poetessa, è il tema del tempo. Il colloquio che la poetessa intrattiene con esso si fa qui più aspro e si nota un certo indurimento del linguaggio dovuto, molto probabilmente, dalla desolante constatazione che esso è l’unico “eterno vincente” nella continua lotta della vita. La poetessa fornisce le più ampie caratterizzazioni per evocarlo (“il tempo,/ silenzioso, con la sua faccia di marmo scolpito”, 12; “il tempo, col suo volto annoiato”, 22; “il tempo, così infame e crudele”, 25; [tu], come statua regale”, 46, ecc.), e nella gran parte di esse si intuisce un certo disprezzo e sconsiderazione, che fanno seguito alla presa di coscienza della sua pericolosità e al contempo della sua tragica ineluttabilità. Ed è così che esso non è altro che “il vero palco delle pittoresche scene degli orrori” (8), cioè esso è un davanzale verso il mondo che assiste indisturbato e senza fretta alle rappresentazioni della vita, del mondo, delle famiglie, agli inganni e ai tormenti, alle guerre e ai sistemi di vendetta, ma anche ai momenti più belli che solo nel ricordo potranno conservare la loro leggiadria.

Il sentimento religioso è facilmente intuibile anche attraverso i chiari riferimenti alla vita intesa come percorso, come cammino errante e l’uomo come misero “abitante delle fatiche umane”, come pellegrino per le vie del mondo, a volte consapevole, altre volte meno ed obbligato ad esodi carichi di dolore a causa di guerre, scontri religiosi, deportazioni. Perché va subito osservato che varie liriche qui contenute hanno un forte intendimento civico, morale e mettono il lettore di fronte a realtà sociali endemiche, cancrenose, corrotte e ignominiose. Ècosì che Anna Scarpetta fotografa i massacri che avvengono al silenzio dei governi e dei mass media europei, come in Libano, dove la poetessa ci “narra” dei pianti e dei lutti di Beirut. Il pensiero non può non andare anche ai massacri in Sudan e quelli leggermente più conosciuti perpetuati da Assad, in Siria. Nella poesia “Libano” la speranza sembra esser ormai abbattuta e tutto ricade su una tortuosa domanda la cui impossibilità di risposta ferisce ancor più gli uomini di quella terra e demoralizza il mondo: “Agli occhi del mondo, tra due fuochi, ardi muto Libano,/ c’è chi si chiede, invano, ma tutto questo perché” (14).

copIl tema sociale ritorna nella lirica “Berlino est”, quadretto chiarificatore del senso di giubilo l’indomani dell’abbattimento del Muro che divise i berlinesi a seguito di un conflitto ideologico disprezzabile ed era presente anche in Le voci della memoria (2012) nella poesia che la poetessa aveva dedicato ad Anna Frank, la povera ragazza olandese nascostasi con la sua famiglia nell’appartamento di Prinsengracht  ad Amsterdam per vari mesi prima di essere scoperta e mandata in un lager. Con un ricco complesso aggettivale, la Scarpetta ripercorre i vari momenti dell’esistenza della ragazza, dalla giovinezza spensierata e felice mai avuta che, in altri contesti, le avrebbe di sicuro consentito di sviluppare una vita di soddisfazioni e di gioie terrene.

Si susseguono liriche più dolci e positive nelle quali la poetessa rievoca momenti passati e ricorda i suoi cari, soprattutto la madre, celebrata in due liriche e in maniera particolare nella bellissima “Sei volata via, madre” dove l’atroce ricordo della dipartita della madre è associata a una colorazione bianca, quasi accecante, che la poetessa vede e riconosce nella neve e nei gabbiani dal piumaggio candido. Ed anche qui, dove la lirica è pensata come commemorazione della madre, Anna Scarpetta non si risparmia per criticare la spietatezza di questo mondo nel quale siamo chiamati a vivere: “Sola sei andata via da questo strano mondo” (18). La “stranezza” del mondo è spiegata nella lirica “Il male del mondo” che è un vero pugno allo stomaco. In essa la poetessa plasma la parola in maniera meditata affinché sia acuminata, folgorante e distruttiva proprio come è l’efferatezza del mondo, la cattiveria diffusa negli animi imbarbariti nel nostro oggi: “Il male ha mostrato tutta la sua malvagità agli occhi del mondo/ coi suoi aguzzi artigli, graffiando volti di sfide verso il futuro/ ricacciando all’indietro tempi nuovi, che non sanno avanzare” (23). La poetessa non esplica quali intende essere i “mali” del mondo e lascia volutamente aperta la questione al lettore che può facilmente leggerli nell’aumento di femminicidi, nei suicidi per colpa della crisi economica, nelle inspiegabili tragedie familiari, nella bestialità di alcuni atteggiamenti umani e nelle invidie logoranti, negli abusi, nelle catastrofi naturali, ma anche nelle dolorose e fulminanti patologie a cui spesso non vi sono rimedi.

Per ultimo, ma non per importanza, ci sono liriche curiose dove Anna Scarpetta chiarifica la sua felice propensione nei confronti delle nuove tecnologie, esplicate soprattutto nel mezzo informatico al quale la poetessa riconosce grande capacità: con Facebook, ad esempio, si può ritrovare amici e parlare con loro, anche dopo tanti anni di lontananza e silenzio, e il web è molto positivo perché accorcia le distanze e fa viaggiare più veloce le notizie come sottolinea all’apertura di “Grazie a te web”. La versione digitale del libro, che oggigiorno sta combattendo una prima battaglia con il suo progenitore cartaceo –battaglia che a mio modesto parere sta perdendo e clamorosamente- è motivo addirittura di una lirica, “Ebook”, dove la poetessa ricorda, elogia e innalza il valore del cartaceo, custode di tradizione, fruitore di un contatto diretto e dispensatore del fresco profumo di stampa o acre di invecchiamento.

Il pensiero finale che la poetessa fornisce al lettore e sul quale si appella a una sua maggiore considerazione è quello che verte sul futuro: che cosa ci aspetta nei tempi a venire? Riusciranno le persone veramente brave e sincere a farsi valere in un mondo dominato da tante nefandezze? Anche la poetessa trasmette un sentimento d’incertezza al riguardo: “Da dove dovranno venire questi nuovi tempi/ carichi di profili, scolpiti di albe boreali, rinchiusi/ nell’immane destino che ancora non si profila” (41).

C’è bisogno di cambiamento e di gente valida che possa proporre una svolta. Subito. I tempi attuali sono fermi e stantii, pur nel loro ineluttabile incedere. Un plauso alla poetessa per darci tanti spunti su cui riflettere, predisponendo sulla carta timori che sono di tutti come quello dell’ombrosità di un futuro che si annuncia quale copia sbiadita di un difficile e depresso presente. A dominare incontrastato su tutto sono la centralità del passato e della tradizione, il senso e la validità dell’istituto familiare e la forza dell’insegnamento cristiano. La poetessa è talmente coraggiosa da pronosticare addirittura  un futuro scenario che la riguarderà nel suo rapporto con la poesia: quando la memoria verrà meno – e con essa tutti i vari ricordi- allora non sarò niente ed avrò perso tutto; in un’altra poesia osserva “voglio ricordare tutto, senza azzerare mai nulla”. È la parola che si fa testimonianza e che vive ogni volta che torniamo a leggerla.

LORENZO SPURIO

[1] Anna Scarpetta, Le voci della memoria, Ismeca, Bologna, 2012, p. 9.

[2] Aggiungo che Anna Scarpetta è stata recentemente premiata al I Concorso Letterario Internazionale Bilingue TraccePerLaMeta per la sua poesia religiosa dal titolo “Sulla via di Damasco”, ulteriore segno che evidenzia questa sua nuova apertura nei confronti di un genere poetico molto diffuso e seguito.

“Sussurri e silenzi (aforismi)” di Emilio Rega, prefazione di Lorenzo Spurio

“Sussurri e silenzi”

Raccolta di aforismi di Emilio Rega

Prefazione di Lorenzo Spurio

 

sussurri-e-silenzi-emilio-rega-L-FRKGB5Gli aforismi di Emilio Rega contenuti in questo libro spaziano tra tematiche molto diverse tra loro: l’autore riflette sul senso e sui limiti dell’arte, soprattutto quella poetica, da’ insegnamenti esemplari partendo dalla constatazione di una società disturbata e minacciata dalla corruzione, fornisce analisi personali sulla natura del sé cosciente nel nostro periodo storico. Il percorso che il lettore è chiamato a intraprendere non è unico, ma molteplice: si potrà partire a leggere dall’ultimo aforisma per poi tornare indietro a leggere tutti gli altri, si potrà aprire il libro a caso e leggere oppure iniziare la lettura dalle prime pagine come canonicamente viene fatto. Perché un libro di aforismi, per quanto sia dotato di una struttura concettuale, è un testo sfuggevole, ispirato e denso di prospettive: gli aforismi non sono semplici sintagmi, né haiku dal verso rotto, tanto meno delle parole in libertà o dei ricercati sillogismi. O forse sarebbe opportuno dire che sono tutte queste cose allo stesso tempo, ma sono anche delle preghiere laiche, delle critiche taglienti, dei sassi scagliati, rapidi flussi di coscienza e tant’altro. Lo stesso autore in uno dei suoi aforismi scrive: Contrariamente a quel che si pensa in generale la scrittura di un aforisma efficace non è immediata: occorre  prima pensarne almeno altri due o tre privi di nerbo. Rega è sicuramente un autore che ha instaurato un certo rapporto amicale e confidenziale con questo genere poetico, se teniamo conto che questa raccolta di aforismi non è che la sesta nella sua ampia produzione; si ricordi, ad esempio, Oltre le stelle (Edizioni dell’Oleandro, 1997, con prefazione di Dante Maffia) e Ad libitium (Mario Baroni Editore, 1999).

In questo libro si parlerà delle ragione con le sue manifestazioni (scienza, conoscenza, empirismo) e dell’universo irrazionale (la religione, l’amore); curioso a questo riguardo l’aforisma che, laconico, recita: L’amore esalta lo spirito, la passione annichilisce l’anima.

Alcuni aforismi rasentano un’atmosfera comica che, però, proprio per la sua drammatica rispondenza alla scoraggiante situazione che viviamo, finiscono per mostrarsi altamente grotteschi e paurosi: Troppo intelligente? Licenziato! dove l’autore, dotato di grande sintetismo, ingloba un mesto colloquio a due voci fatto di domanda e risposta, una risposta che, con il punto esclamativo che la segue, ne sottolinea ancor più vivamente il senso alienante della condizione umana. In altre parole, forse meno “aforistiche”, Rega consacra sulla carta una sacrosanta verità: sono gli ignoranti, gli opportunisti o i raccomandati (a volte le tre sfaccettature, addirittura, sono presenti in un unico essere) ad andar sempre avanti e a vedersele tutte andare dritte. Idea questa che Rega ripropone anche in un altro aforisma, ancor più esplicito: Le migliori intuizioni le ha il cosiddetto idiota , non l’intelligente.

Quasi mosso da una forza avanguardistica (Il passato pesa come un macigno sulle nostre teste e nonostante ciò non possiamo non fare i conti con esso) , l’autore rintraccia nei segni degradati della nostra contemporaneità (fiction, vip, personaggi famosi, l’arrivista, il fascino perverso della celebrità) degli stereotipi vergognosi, il cui superamento è necessario per metter fine all’ilarità e gratuità dominante nel nostro comune vivere quasi a sottendere che la genuinità e quel sentire di purezza non possono essere rintracciati in persone che hanno fatto dell’esaltazione dell’ego la loro religione: L’egoismo acceca l’uomo e lo rende stupido, scrive Rega in un altro aforisma.

E in questa riflessione a tratti vorticosa a tratti amara neppure la religione viene risparmiata, l’autore scrive: Quel tarlo del dubbio che ti toglie il gusto della fede. Ma la domanda, spontanea e lecita, che mi pongo: può un tarlo, per quanto ossessivo e fastidioso possa essere, minare la ferma credenza di un cattolico? O di un credente in generale dato che qui non si parla propriamente di cristianità? Al lettore sta a decidere sulla questione.

Rega non risparmia proprio nessuno ed è chiaro il suo messaggio carico di disprezzo e di sfiducia nei confronti del nostro mondo: c’è gente che parla solo perché ha la bocca, sembra dire l’autore; ci sono megalomani, potenti, false dive, arroganti e so-tutto-io: tutti condividono una grande ignoranza di fondo, ignoranza che, offende la cultura e chi realmente opera per essa: L’Italia è un tale paese di ignoranti che basta avere una laurea o aver frequentato un Master per sentirsi chi sa chi (per non parlare dei rappresentanti del mondo accademico).

Emilio Rega è critico e a tratti polemico (Italiani: “brava gente” o gente furba?) con la gente che lo circonda, con la società e con i tempi in cui vive. Non è un provocatore, né un qualunquista, ma una persona dall’animo meditabondo a cui piace soffermarsi per guardare la realtà da fuori e cercare di interpretarla. Il grande Gozzano scriveva in una sua lirica che il mondo è “quella cosa tutta piena di quei cosi con due gambe che fanno tanta pena”. Qui, in questa opera, si respira quella stessa aria.

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 21-04-2013

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