N.E. 02/2024 – “Poesia e spiritualità al femminile”. Articolo di Francesca Luzzio

Alle donne che trovano nella poesia la valvola salvifica della loro vita 

Spiritualità”: parola complessa, eterogenea, considerata la sua essenza polisemica, infatti può essere spirituale la religiosità, intesa come dovere ed impegno nella fede, oppure è spirituale la ricerca del divino, l’apertura interiore verso il trascendente, ma si può anche farne una considerazione realistica, ossia si può vedere l’incorporeità nella realtà e, sebbene non percepibile con i sensi fisici, considerarlo la fonte da cui la materia tangibile trae vita.

La spiritualità, considerata la sua eterogeneità semantica, è ravvisabile in tantissimi poeti, a cominciare dalle origini della letteratura italiana e, solo per citare il più famoso, ricordiamo                       Il Cantico delle creature di S. Francesco d’Assisi. Tuttavia non volendo esplicare un lungo elenco di autori in cui la spiritualità, intesa nella pluralità delle sue esplicazioni è presente, si ritiene opportuno fermarsi alla contemporaneità che, pur caratterizzata dal consumismo e dall’alienazione etico-morale, tuttavia non manca nei versi di alcuni poeti e poetesse.

La poetessa Patrizia Cavalli (1947-2022)

In tale delimitazione temporale, particolarmente rilevante è la silloge di Patrizia Cavalli, Poesie (Einaudi). La poetessa sostiene che solo ai versi è possibile affidare un ruolo significativo, in vista di quei valori che definiamo come religiosi, o meglio spirituali. La poesia infatti rivendica l’approfondimento di valori che si possono indicare anche con il termine di verità. D’altronde, la filosofia del Novecento ha rivalutato tale funzione e in particolare Haidegger ha affermato il primato della poesia come e in quanto forma di conoscenza.                                                                

Rilevante è anche la concezione della poetessa Chandra Livia Candiani che nella silloge Il silenzio è cosa viva (Einaudi), sostiene che il silenzio favorisce la meditazione che non divide quel che consideriamo spirituale da quel che consideriamo ordinario e i gesti quotidiani possono diventare, possono diventare forme di preghiera, spiritualità.

Infine si vuole ricordare, come espressione del poliedro vivere e sentire la spiritualità, Mariangela Gualtieri che nella raccolta Senza polvere senza peso (Einaudi). La poetessa con una scrittura in viva tensione compone versi di suggestione lirico-visionaria, in cui le inquietudini dolenti della precedente raccolta, aspirano a distendersi in immagini di interiore gioia. Infine appare opportuno evidenziare e lodare la scelta di pubblicazione della suddetta, prestigiosa casa editrice che ha dato voce alla spiritualità presente nelle suddette poetesse.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Figli di Dedalo”, poesia di Doris Bellomusto

La morte offende i vivi

con voce roca richiama

al lieve incanto dell’essere

ci strappa dall’oblio,

stringe il nodo

spinge al volo incauto

le nostre ali di cera.

Siamo tutti figli di Dedalo,

condannati al sogno

di un mondo senza gravità.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Poesia e spiritualità, tra confronto e identità”, articolo di Valtero Curzi

Il concetto espresso nell’affermazione “Poesia e spiritualità” potrebbe essere confuso o scambiato con “Poesia è spiritualità”; ma quell’accento sulla “e”, trasformandola da congiunzione in affermazione d’identità, muta tutto il percorso concettuale che si dovrebbe prendere per parlare di Poesia. Infatti, accostare due termini (o concetti) con una “e”, congiunzione, significa oggettivarli, porli di contro, per similitudine o contrasto. Alla stessa maniera si pongono come principio identitario perché poesia è alla fine spiritualità, come espressione dello spirito. Quindi il dualismo identità-opposizione assume una dimensione concettuale che ha diverse particolarità, influenzando poi la poesia stessa come espressione della sensibilità e sentimento.

Se l’identità, nel principio cardine della logica occidentale, come vuole Aristotele, non ammette negazione, perché ciò che è se stesso non può esser altro, per contro però, proprio per dover essere se stesso, ha necessità di confrontarsi con altro, in quanto è l’esistenza di quest’ultimo a blindarlo nel suo essere assolutamente sé. Però formulare il rigido “Poesia è spiritualità” relega la poesia nel solido schema della sola espressione spirituale, intesa questa nell’interpretazione di espressione non in senso lato di espressione dello spirito, ma particolare di espressione dello spirito religioso o filosofico.

Di conseguenza dovendo poi allargare l’orizzonte interpretativo a un significato di spiritualità, ossia azione dello spirito, a ogni attività di pensiero umano, il concetto di spiritualità ne sarebbe fortemente sminuito e depotenziato come valore morale etico di vivere l’esistenza. Su questa via, percorrendola tutta, giungiamo al fondo di sostenere che la poesia al fine può non essere spirituale, nel senso di spiritualità come connotato di valore etico, ma definirsi poesia intellettiva, cioè prodotto d’intelletto e ragione e sensibilità in senso lato.

Chiariamo, ora, il concetto di “spiritualità”: particolare sensibilità e profonda adesione ai valori spirituali, in particolare l’insieme degli elementi che caratterizzano i modi di vivere e di sperimentare realtà spirituali, sia con riguardo a forme di vita religiosa, sia con riferimento a movimenti filosofici; sotto questa luce la poesia deve definirsi in canoni ben definiti e determinati. Ma se prendiamo il termine “poesia” dal latino “poesis”, e prima ancora dal derivato greco, abbiamo «fare, produrre», siamo su “capacità e “abilità” di produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o secondo altri tipi di restrizione; con un certo grado di approssimazione si può dire che il significato di poesia è individuabile nell’uso corrente e tradizionale nella sua contrapposizione a prosa, perché i due termini implicano rispettivamente e principalmente la presenza o l’assenza di una restrizione metrica. Però una poesia che si limita e rispetta restrizioni metriche, ossia di modo di esprimersi, ha necessità primaria di agire sotto l’egida e guida della ragione e forse non necessariamente della logica in quanto, attraverso la metafora può superare anch’essa, in certi limiti. Quindi deve presupporsi un qualcosa che unisca sensibilità e ragione, sentimento e coscienza critica razionale e questo ponte lo possiamo trovare nel «calcolo poetico concettuale», forma di pensiero definibile come un ossimoro, figura retorica consistente nell’accostare parole che esprimono concetti opposti, perché, in effetti, un dualismo contrario esiste.

Infatti “calcolo”, deriva da “calcolare”, ovvero determinare misure, quantità, rapporti mediante calcoli matematici, e, in senso più esteso, valutare qualcosa, metterla in conto. È una operazione transitiva di azione mentale poggiante sulla Ragione, sulla determinazione razionale di definizione logica. Il termine concetto, invece, coincide con quello di universale con il quale il soggetto crea una propria rappresentazione astratta degli oggetti percepiti ed è un simbolo mentale, tipicamente associato con una corrispondente rappresentazione in una lingua o nella simbologia. Il calcolo, pertanto, è intimamente legato al concetto di riuscire a vedere la realtà o sentirla, nel caso del discorso poetico. L’ossimoro sta nella contraddizione propria della visione di calcolo concettuale raffrontata con la poeticità, perché quest’ultima è essenzialmente facoltà della poesia, intesa sia come generica capacità creativa sia come arte letteraria e quindi tipica di ciò che ispira poesia o è degno di essere trattato in versi; attitudini proprie della dimensione sentimentale o di sentimento che nulla ha a che fare con il calcolo concettuale predefinito, sebbene anche nella poesia sia presente la concettualità come sfondo interpretativo di ciò che si vuol esprimere. 

L’incontro o scontro, quindi, fra il pensiero poetante e la poesia pensante è quel luogo in cui la Pura Emozione del sentire deve necessariamente farsi carico della sua realtà, perché non può esistere e definirsi se non si concede e accede, poi, alla materialità che la salvaguarda.

La poesia è quella forma di “esternazione” di un arcano sentire, e per “sentire” deve intendersi non ciò che i cinque sensi possono manifestare, in altre parole manifestare quel che interpretano materialmente anche se in una forma assolutamente particolare, ma piuttosto quell’“avvertire” un paradigma del vivere in una forma metafisica, oltre la fisica, e percorrerla però con quella condizione che è propria dell’ente esistenziale, cioè la ragione la quale è presa d’atto del reale contingente.

Il «calcolo poetico concettuale», pertanto, diventa l’unità di misura, e strumento di analisi e valutazione della Poesia e sue espressioni. La poesia in quel suo viaggio, fra il sentire e il dover necessariamente farsi carico del suo stato contingente di reale in cui sta, deve creare una dimensione sua, in cui interpretare un’altra realtà, questa si meta-fisica, dove la meta è oltre, altrove, e il fisico non è la realtà stessa, ma quello stato concettuale ed emozionale che decifri l’esistenza di chi attraverso la poesia comunica e trasferisce il proprio “sentimento” all’esterno di sé.

In una lettera del suo epistolario il poeta romantico inglese dell’800 John Keats si chiede se esista un luogo tra l’essere e il non essere, e se c’è, quello è il luogo della poesia. Perché se il reale non coincide con ciò che è, allora, il poeta che scrive del proprio stato guarda non in ciò che è e nemmeno in quel che non è, ma in un’altra dimensione. Lì sta la poesia! Siamo nella realtà della irrealtà della poesia.  Ed è in quello scambio di significato della “e” congiunzione con la “è” come determinazione di uno stato d’essere, il farsi esistenza di qualcosa. Per Keats, poi, la questione della Poesia è “salvezza” di compimento perché ciò che non si compie, che non arriva a manifestarsi nell’assolutezza del suo essere bellezza-verità, è fallimento; se non c’è creazione perfetta, né formazione compiuta non v’è salvezza. E questo avviene nella presa d’atto dell’Assenza e delle mancanze rispetto a un’idealità sentita e vissuta che lascia il Poeta incompiuto nella sua stessa dimensione da cui vuol uscirne. E anche in questo caso la comparazione “poesia e spiritualità” ha un suo significato profondo perché “salva” la poesia, ossia il fare, produrre del poeta in una possibilità ampia di manifestarsi in modi e forme altrettanto ampie.

Al pari la “poesia è spiritualità” chiude in rigidi schemi sia il poeta sia la sua poetica, perché non ammette diversità. Scrive sempre Keats che “il Poeta è la più impoetica delle creature” perché dovendo essere la poesia “compiuta”, che vuol dire assoluta, il poeta che non è assoluto ma mancante, non è poetico. Perché non è poesia ciò che è pensato per ricatturare ciò che è assente. Se la poesia è desiderio di ciò che non è, perché già stato, lamento di ciò che è, che è meno di ciò che speriamo, allora la poesia è impazienza del significato. L’incompiutezza cui è condannato il Poeta, per voler esprimere l’assoluto del suo sentimento e fallire in questo perché costretto a fermarsi sull’assenza e mancanza della realtà in cui guarda e sente. Ed egli, il Poeta, con la Poesia passando sopra la realtà, trasfigurandola riesce con l’immaginazione a creare una possibile realtà che seppure sia assente e mancante diviene realtà proiettata e definita. L’irrealtà della poesia diviene pertanto realtà vissuta dall’emozione del sentimento, e siccome il Poeta “vive” di emozioni, quella realtà dell’irrealtà diviene la “sua realtà”, che poi cerca di trasferirla, esternando il suo “sentire”. Passaggio, questo, dal sentire al dire, attraverso il linguaggio cui il Poeta stesso deve affidarsi per determinarlo. Ecco il significato diversivo tra la comparazione in un “e”, e l’identità di un “è”.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Rifiorire” e “Terapie Spirituali”, due aforismi di Claudio Tonini

Rifiorire

Spiritualità è far addormentare il proprio dolore con una ninna nanna d’amore, risvegliando così dolcemente, al tempo stesso, la propria assopita felicità.

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Terapie Spirituali

Scrivere è sognare il paradiso prendendosi cura della propria anima in una stanza refrigerata del proprio torrido e personale inferno.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – Intervista alla scrittrice e antropologa Loretta Emiri. A cura di Lorenzo Spurio

Loretta, benvenuta e grazie per aver permesso questa intervista. Ha recentemente dato alle stampe un volume dal titolo “Romanzo indigenista” (auto-pubblicato sulla piattaforma Amazon), potrebbe parlarcene un po’?

Iniziai a scrivere questo romanzo nell’agosto del 2013 e l’ho ultimato nel novembre del 2019. La privilegiata convivenza di oltre quattro anni con gli yanomami nella loro lussureggiante patria-foresta, mi ha segnata profondamente; nella loro cultura il nome attribuito a una persona può variare nel corso della sua esistenza, quindi ho affidato il racconto della mia vita a quattro voci, che cambiano se rimandano a infanzia, adolescenza, maturità o vecchiaia. La scelta è stata influenzata anche dall’opera di Pirandello, che mi affascina fin da quando ero un’adolescente. Il contenuto del romanzo ricostruisce il mio andare e venire dal “primo” al “terzo mondo”, dal Brasile al mondo yanomami considerato “primitivo”, dall’Europa all’America Latina, dalla narrativa alla saggistica, dalla poesia alla fotografia, dalla lotta per la conquista e il riconoscimento dei diritti indigeni alla lotta per l’affermazione e il rispetto della mia individualità. Nella cultura yanomami il tempo è scandito dal susseguirsi delle stagioni, per cui possiamo definirlo “circolare”: la concezione indigena mi ha permesso di oltrepassare quella occidentale, che raffigura il tempo come se fosse una linea retta su cui le date appaiono in ordine cronologico. I paragrafi del libro rimandano ad ambiti geografici e temporali diversi; il criterio di inserimento in una sezione piuttosto che in altra, non segue l’ordine cronologico, né quello della stesura dei capitoli, ma è determinato dalla maggiore intensità con cui ho vissuto uno degli eventi durante un determinato ciclo della mia vita. Mi piace affermare che ho atomizzato e ricreato il tempo, così il passato è presente e il presente è già futuro.

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Per il fatto che ha vissuto a contatto vari anni con la comunità indigena Yanomami in Brasile e per aver dedicato molti studi e volumi a quella realtà è considerata una delle maggiori studiose e divulgatrici nel nostro Paese. Può raccontarci come è nato il suo amore verso il mondo indigeno brasiliano e come si è avvicinata ad esso?

La ringrazio per considerarmi una delle maggiori studiose e divulgatrici, in Italia, della vita e cultura yanomami, ma a pensarla come lei è un ristretto numero di persone. Poiché lotto contro preconcetti e stereotipi, sono poche le porte che mi vengono aperte per realizzare una sensibilizzazione più ampia circa la problematica yanomami. Case editrici e mezzi di comunicazione preferiscono divulgare notizie sensazionalistiche, farcite di stereotipi, esotismo, superficialità.

Quando ero ancora una bambina, due desideri si installarono nella mia mente: diventare scrittrice e operare nel “terzo mondo”. Quando arrivò l’età giusta per fare drastiche scelte di vita, decisi che prima avrei svolto volontariato internazionale; l’esperienza, poi, mi avrebbe fornito temi interessanti da salvaguardare attraverso la scrittura, ed è ciò che ho fatto. Nelle Marche, dove ancora non vivevo, conobbi due persone che lavoravano con gli yanomami. La loro testimonianza e le stupende foto che uno dei due proiettò, mi fecero innamorare di questo popolo; la sua situazione esistenziale, all’epoca già difficile, mi fece decidere di operare in mezzo a loro, con loro.    

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Loretta Emiri impegnata in un’attività di alfabetizzazione nel Demini, negli anni Ottanta.

Il termine “Yanomami” che contraddistingue tanto la comunità e la loro lingua, che cosa significa?

Il termine “Yanomami” è generico e fu adottato in Brasile da coloro che per primi lavorarono con questo popolo, cioè antropologi, funzionari governativi, missionari. Nel dizionario da me scritto si legge: YÃNOMAMÈ = (1) homem, pessoa, gente. (2) Yanomami de língua yãnomamè. (3) Língua yãnomamè. Per quanto riguarda la lingua, va precisato che della famiglia linguistica yanomami fanno parte ben sei lingue differenti, ognuna delle quali con molti dialetti.

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Quale peculiarità si sente d’individuare nella comunità Yanomami rispetto alle altre del contesto dell’Amazzonia brasiliana che ha conosciuto e/o studiato nel corso del tempo?

Con gli yanomami ho vissuto a lungo; con le altre etnie presenti nello Stato di Roraima ho avuto contatti sporadici, per cui non sono in grado di determinare le peculiarità di queste ultime. Posso solo dire che la differenza maggiore è lo spazio che occupano: gli yanomami vivono in foresta, la maggioranza degli altri gruppi vive nella savana. È l’occupazione territoriale e l’utilizzo delle sue risorse che determina il formarsi delle peculiarità delle società indigene. 

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Esiste un senso di spiritualità nella comunità Yanomami? In quali manifestazioni concrete si esplica?

Il senso di spiritualità tra gli yanomami è talmente forte che hanno preservata intatta la foresta amazzonica fino ai nostri giorni. Gli yanomami sono animisti, per cui credono che ogni essere vivente, compresi vegetali, animali, cose, possiede uno spirito ed esso, a seconda della situazione, può essere benefico o malefico. Questo concetto determina che la vita del popolo yanomami sia impregnata di spiritualità, anche nelle più banali e normali attività quotidiane.   

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Come definirebbe il concetto di “anima”?

Moltissimi anni fa mi invitavano a partecipare ad una riunione di preparazione del “Corso di Abilitazione al Magistero per Maestri Kaingang”. Durante l’incontro, non ricordo in che contesto, impiegai la parola “anima”. Uno dei presenti mi fece notare di averla usata in modo improprio. Dal momento che la loro religione vanta molti spiriti, sostenne che un termine intimamente legato al concetto di un solo dio non poteva essere applicato ai Kaingang. Obiezione e argomentazione vennero formulate in modo così schietto e diretto che sentii di essere stata raggiunta da una rivelazione. Da qual momento, riferendomi agli indigeni (ma anche a me stessa) non ho più utilizzato la parola “anima”, preferendo l’uso della parola “spirito”. 

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L’anima è qualcosa di strettamente legato all’umano o si ritrova anche negli altri esseri viventi? Esiste un’anima dei luoghi?

Considerando quanto detto sopra, l’anima è qualcosa di strettamente legato all’uomo di religione cristiana, che si rapporta individualmente con una sola divinità. Gli indigeni rispettano e interagiscono con i molti spiriti che popolano la foresta, con ciò riuscendo a mantenerla intatta e sana, perché la foresta tutta è il loro luogo ancestrale, sacro per eccellenza.   

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Loretta Emiri partecipa alla conferenza di apertura del Seminario UFRR, insieme a Dawi Kopenawa Yanomami, nell’ottobre del 2023

La spiritualità dell’essere ha a che vedere imprescindibilmente con il suo attaccamento alla dimensione prettamente religiosa o può concernere anche altre dimensioni avulse alla religione?

Come abbiamo visto, nel caso degli yanomami non c’è separazione tra dimensione religiosa e dimensione fisica, materiale. Questo concetto per me è fonte di ispirazione e meditazione costante. Nel mondo occidentale, succede spesso che le belle parole sostituiscono le buone azioni, così che “tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare”. E tra il dire e il non fare c’è sempre di mezzo tanta ipocrisia, superficialità, indifferenza verso gli altri. Spesso mi capita di chiedermi se io stessa sono coerente con ciò che scrivo e ciò che nella pratica faccio; quando questo tipo di dubbio mi assale, apro l’archivio e dissotterro testi, che sempre mi tranquillizzano a rispetto.  

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Lei ha curato un dizionario yanomami-portoghese. Esistono delle parole nella lingua yanomami che risultano di difficile traduzione in italiano? Quali? Può farci degli esempi?

Realizzai la mia ricerca nella lingua yãnomamè, che è una delle sei che fanno parte della famiglia linguistica yanomami. Sia in portoghese che in italiano le parole che risultano di difficile traduzione sono quelle che derivano dalla cosmogonia yanomami. Nel dizionario, per tradurre il termine rixi ho utilizzato la locuzione “alter ego”, seguita dalla spiegazione “essere simbolico che vive una vita parallela a quella dell’uomo”. Una parola corta come rixi è la rappresentazione di una serie di concezioni, fra cui: ogni individuo possiede un alter ego; vivendo vite parallele, le due entità mai s’incontreranno; la morte dell’alter ego provoca quella dell’uomo a cui è abbinato. Alla traduzione bisogna aggiungere spiegazioni e note affinché il lettore si avvicini il più possibile alla comprensione del sofisticato concetto che può celarsi dietro a una singola, semplice parola.  

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Quali sono attualmente le condizioni della comunità Yanomami? Subisce interferenze e minacce dalla società consumistica o riesce a preservare la sua anima primordiale?

Il contatto degli yanomami con i fronti di espansione della società capitalista ha i connotati di un bollettino di guerra. Nel 1974, la strada Perimetrale Nord, voluta dai militari all’epoca al potere, tagliò a sud il territorio yanomami; il contatto con i lavoratori della strada ridusse tredici villaggi a otto piccoli gruppi di superstiti, a causa di epidemie introdotte e verso le quali gli yanomami non avevano anticorpi. Nel 1977, la seconda epidemia di morbillo dall’arrivo della strada uccise la metà della popolazione di tre villaggi. Nell’agosto del 1987 oligarchie e politici locali fomentarono l’invasione del territorio yanomami, dentro il quale confluirono circa quaranta mila uomini; non si sa quanti yanomami sopravvissero alle armi da fuoco e all’avvelenamento da mercurio utilizzato per l’estrazione dei minerali. Anche se l’area yanomami è stata omologata nel 1992, le invasioni non sono mai cessate. La situazione è drasticamente peggiorata durante la presidenza di Bolsonaro, che l’invasione l’ha criminosamente fomentata. Durante il suo mandato, in territorio yanomami sono entrate macchine potenti e uomini fortemente armati legati a fazioni criminose, che hanno prodotto il disastro finale. Nel gennaio del 2023 il governo Lula ha dichiarato Emergenza in Salute Pubblica di Importanza Nazionale, in decorrenza della mancata assistenza agli yanomami. Oggigiorno il popolo yanomami è in pieno collasso territoriale, sanitario, culturale.

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Loretta Emiri prende parte in diretta alla trasmissione “Geo” di Rai Tre che ha dedicato spazio ad alcuni aggiornamenti sulla problematica yanomami. Ottobre 2023.

L’attività “storica” dei missionari cattolici del Vecchio Continente ha riguardato anche la comunità Yanomami? Quale è stata la ricezione e quali sono stati gli esiti di questa attività di evangelizzazione?

Io decisi di operare tra gli yanomami del Catrimâni perché all’epoca i missionari che con loro già lavoravano non erano preoccupati con l’evangelizzazione, ma con la sopravvivenza fisica e culturale di questo popolo. Resta il fatto che le varie chiese che tra gli yanomami hanno operato, e ancora operano, hanno contribuito a dividere questo popolo, perché ognuna di esse affronta a modo suo la situazione senza interagire, dialogare, collaborare con le altre in funzione del benessere e dell’unità del popolo yanomami. 

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Ha assistito a feste o rituali che contraddistinguono la vita sociale della comunità Yanomami? Se sì, può raccontarcene qualcuna (le principali o quelle che l’hanno suggestionata maggiormente)?

In uno dei miei racconti, descrivo il rituale funebre, a cui ho assistito, di un giovane amico yanomami. La lettura del testo risponderebbe egregiamente alla domanda, per cui vi segnalo il link:

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A quale divinità (o molteplicità di divinità) gli indios Yanomami sono votati?

Oltre al fatto che si rapportano con sacralità allo spirito insito in ogni cosa, gli yanomami tramandano la memoria dell’eroe mitologico Omá. Quando gli sciamani devono entrare in contatto con l’aldilà, cercano la collaborazione degli Hekurapè, spiriti minuscoli come la propria immagine riflessa negli occhi.  

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Esistono testi in forma scritta della comunità Yanomami che hanno affrontato il tema della religiosità, della spiritualità e del rapporto con l’aldilà?

Un libro scritto dall’antropologo francese Bruce Albert e dal leader Davi Kopenawa Yanomami è stato tradotto in italiano con il titolo La caduta del cielo. È una vera e propria enciclopedia yanomami, allo stesso tempo è una biografia e un’autobiografia; c’è dentro di tutto: società, cultura, lingua, cosmogonia, religiosità, scontro con l’invasore uomo bianco. Ne suggerisco la lettura a quanti vogliano avvicinarsi alle concezioni filosofiche della società yanomami.

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Nel 2018 ha pubblicato un libro dal titolo “Discriminati”. Può dirci di cosa si tratta e da che cosa è stata mossa per scrivere quest’opera? Chi sono i discriminati di oggi?

Discriminati è un libro che non avrei dovuto pubblicare. Il progetto iniziale includeva racconti vari e il titolo era Racconti discriminati; discriminati perché rifiutati da un’altra casa editrice. Nello sciocco desiderio di vedere un nuovo libro pubblicato, permisi che alcuni racconti fossero esclusi e un altro, che niente aveva a che vedere con la struttura del libro, vi fosse inserito. Dovetti inghiottire anche il titolo differente. Naturalmente i discriminati di oggi sono anche gli yanomami, le minoranze in generale.

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Grazie per aver risposto con attenzione e disponibilità alle domande di questa “chiacchierata” che ci hanno fatto conoscere da più vicino la comunità Yanomami.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “L’arbìtrio”, poesia di Flavia Tomassini

Vedi come declina al grigio

il pantone del cielo,

vedi come si arrende

al transito terrestre

così basso e greve

si addensa sulle teste

il calco del presente,

storna le ragioni

esime le opinioni,

così che ogni forma

dilegui l’intento

di un compromesso

tra Dio e l’uomo –

se le tue mani

ombrano la sera –

ghirlanda del poeta

è questo purgatorio.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Esistono incontri”, poesia di Izabella Teresa Kostka

Esistono incontri

indelebili come un pennarello

che imbratta le pagine della memoria,

frasi, parole, a volte offese

impossibili da cancellare con qualsiasi gomma.


S’intrecciano le esistenze

abbattendo ogni muro

che come un tramezzo separa i mondi,

assistono alla nascita di un nuovo ordine

risorto dalla strage sull’umana scacchiera.


Son tele dipinte quei nostri giorni:

i bianchi sorrisi sui neri volti,

le macchie rossastre sulle mani bianche,

i contorni sfumati di un acquerello

lasciato dissolversi sotto la pioggia.


Pedoni, guerrieri, martiri e vittime

occupano le sedie sulla giostra,

s’incontrano e scontrano in una corsa

che ha avuto inizio,

ma mai avrà fine.


In un ritrovo di sguardi

si compie la vita.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Poesia e spiritualità: la ricerca interiore tra fede e laicità”, saggio di Maria Grazia Ferraris

….Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura….

(Giacomo Leopardi)

Cercando  le definizioni di “spiritualità” nei dizionari  ci si trova immersi in affermazioni nebulose, ripetitive, generiche che concordano solo nell’eliminazione degli aggettivi  qualificativi, quali – interiore, religiosa, cattolica, laica, naturale, orientale… – e insistono sul tema della ricerca  interiore, introspettiva, presente e costante  in ogni essere umano, a prescindere dalla sua cultura, dalla sua confessione religiosa, dal suo “status” di persona e di valori, tensioni e aspirazioni, che fanno a meno  dal credere nel “Trascendente”. Si ipotizza una ricerca individuale, attingendo all’esperienza, ma anche al patrimonio di conoscenze e sapienza della società nella quale viviamo.

La spiritualità si caratterizza allora attraverso la valorizzazione del quotidiano perché nulla di quanto si vive è ‘profano’: cambia invece la condizione vitale che differenziandosi determina modalità diverse nel vivere la vita. Questa dimensione interpretativa è strettamente unita alla poesia e alle sue manifestazioni.

La spiritualità della poesia si innesta nella spiritualità del singolo e della sua vita, è ricerca che ha come fine la realizzazione di se stesso, o l’autocompimento esistenziale, la maturazione dell’esistenza, nel dialogo con gli altri e all’incontro con la dimensione religiosa, metafisica.

La filosofia del Novecento, ha rivalutato la funzione della letteratura e quindi della poesia anche ai fini del pensiero, di una riflessione radicata sulla verità e le sue ragioni.

L’affinità tra linguaggio religioso-spirituale e linguaggio poetico si rivela nel loro dimorare nelle profondità dell’esperienza umana, rasentando i confini del dicibile. La poesia restituisce, con assoluta evidenza, la complessità della vicenda umana alla ricerca dell’anima, del divino, in virtù di uno sguardo orientato oltre la successione del tempo e del visibile; uno sguardo che attraversa il silenzio, per attingere alla fonte della vita della parola.

Moltissimi i poeti che si sono espressi e confrontati sul tema. La spiritualità è il contatto con la propria umanità. La parola poetica riesce a toccare il nocciolo della verità ed è proprio questa sua capacità unica, senza eguali, che trasforma l’arte in una forma di umanesimo spirituale e, attraverso le parole, ci mostra il vero volto spoglio, duraturo e nitido delle cose. La poesia è la vera “lampada d’oro” che illumina il cammino di molti lettori che si accostano al canto di sirene delle parole. Per alcuni Autori che hanno fatto la scelta di coincidenza di spiritualità con fede religiosa, la poesia trova la sua strada maestra. È il caso di David Maria Turoldo.

La ricerca inquieta di Dio, Tenebra luminosa, l’invito alla preghiera, la natura, sono riflesso di Lui. Questi temi si intersecano nella sua poesia in un suo costume espressivo costituzionalmente severo, essenziale, garante dei valori di fondo di matrice evangelica e garantiti in qualche modo in un Friuli dalla civiltà contadina in condizioni di necessità più che di libertà. Una preghiera la sua che è un soliloquio, ma anche un dialogo col cielo. I luoghi, le persone (casa, paese, fiume, la terra, la vigna…) acquistano “il di più” di significato e valore da superare, la funzionalità contingente: “che io possa ancora vedere / il sole che sorge / una nuvola d’oro, / Espero che riluce la sera / in un limpido cielo.” È sempre sottinteso il fondo storico-sociale nella sua arpa, ma come larga cornice, di sapore biblico, come possiamo constatare in Preghiera: “…salutare il giorno/ e dare speranza agli umili / e dire insieme la preghiera….”, pur consapevole che la poesia, oltre che preghiera, vuol essere  invito gioioso al canto:

Svegliati, mia arpa,

che voglio destare l’aurora:

cantare i silenzi dell’alba

chiamare le genti sulle porte,

e salutare il giorno:

e dare speranza agli umili

e dire insieme la preghiera

del pane che basti per oggi:

allora anche i poveri ne avranno d’avanzo.

Amen.

(Poesia “Preghiera”)

Oppure il caso di Clemente Rebora, in Frammenti lirici, che Silvio Ramat definiva poesia “metafisica”, come se l’io fosse in attesa di una rivelazione vaga e indefinita, eppure aperta nel mondo religioso, nell’ora “divina” che prima o poi giungerà confortante: -spazio e tempo sospeso-, come se l’universo si fosse fermato improvvisamente e in tale condizione rivelasse il suo profondo essere permettendo di comprendere appieno il suo esistere. Allora, con l’inno alla vita, che si esprime sotto forma di inquieto fremente monologo, si scoprirà la malia del vivere, la profusione del sentimento che annulla il fastidio ripetitivo del giorno qualunque, sconfinando attraverso i palpiti fecondi nella vita profonda dell’universo:

Divina l’ora quando per le membra

Lene va il sangue, e vivere è malìa:

Nel vero effusa la persona sembra

Luce nell’aria; e ignora come sia.

Da fonti aperte nasce il sentimento

Che d’ogni cosa fa ruscello, e intorno

D’amorosa bontà freme anche il lento

Fastidio ch’erra nell’usato giorno.

Onde sconfina l’attimo irraggiato

Nel vasto palpitar che lo feconda,

E scopre il senso intenso in ciascun lato

dell’universo una vita profonda.

(Dalla poesia “Divina l’ora quando per le membra”)

La spiritualità laica o naturale che dir si voglia, attraversa il quotidiano, i nostri dubbi e limiti, come per Franco Loi in questa poesia carica di disincanto:

Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,

forse memoria siamo, un soffio d’aria,

ombra degli uomini che passano, i nostri parenti,

forse il ricordo d’una qualche vita perduta,

un tuono che da lontano ci richiama,

la forma che sarà di altra progenie…

Ma come facciamo pietà, quanto dolore,

e quanta vita se la porta il vento!

Andiamo senza sapere, cantando gli inni,

e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.

(Da Liber, 1988)

Loi medita sull’essere poeta oggi, sulle sue ambiguità e contraddizioni, sull’estraneità della poesia allo svagato mondo contemporaneo, sull’incertezza ed inquietudine che ne genera, coinvolgendoci nella malinconia del vivere.

Interessante ed originale l’itinerario compiuto dalle poetesse. Prima in assoluto mi sembra la poesia di Emily Dickinson, che ha un’anima grande, immensa, mai definibile una volta per tutte, perché rompe la quotidianità, le cornici, i quadri storici di riferimento che ogni critico si impegna a trovarle, inutilmente.  Sa immaginare la vita e la sua gioia, ma anche rasentare, frequentare l’assoluto, la “finita infinità”: il sovrumano, il divino, sa volare umilmente attenta nel suo giardino quotidiano, ma anche volare alto, più di un metafisico, sa vedere con occhi liberi: l’amore è assoluto, come la morte, come la poesia, “estatica nazione”.  Il quotidiano la sfiora, ma non la cattura, non l’impiglia, non la isola, non l’avvilisce. Lei sa uscire dalle sue strette, sa volare.

Non accostarti troppo alla dimora di una rosa:

se una brezza le preda

o rugiada le inonda

cadono con timore le sue mura.

E non voler legare la farfalla,

o scalare le sbarre dell’estasi:

garanzia della gioia

è il suo rischio perenne.

(c.1878)

E ancora: in se stessi bisogna cercare, camminare, scavare, unendo cuore e mente in un unico continente, inseguendo la bellezza, che “non ha causa”:

La bellezza non ha causa:/esiste.

Inseguila e sparisce.

Non inseguirla e appare.

Sai afferrare le crespe

Del prato quando il vento

Vi avvolge le sue dita?

Iddio provvederà

perché non ti riesca.

(c.186)

E conclude – le parole al minimo, lasciare parlare gli spazi bianchi – una lotta impari e improba ingaggiata con la forza della disperazione nei confronti della ultrapotente “parola”:

‘Ha una sua solitudine lo spazio

 solitudine il mare

e solitudine la morte- eppure

tutte queste son folla

in confronto a quel punto più profondo,

segretezza polare

che è un’anima al cospetto di se stessa –infinità finita 

Finita infinità.’

(c. 1695).

La più vicina al suo sentire mi sembra essere in Italia la poetessa milanese Antonia Pozzi, di cui ora è nota sia la storia umana che spirituale, rimanendo valido quello che di lei scriveva  la grande filologa Maria Corti: “Il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi”. Una vita brevissima, suicida a soli ventisei anni, ricca di interessi culturali, di incontri e di passioni contrastate, insopportabili nelle loro contraddizioni. Nel suo canzoniere, pubblicato postumo, vi è una continua ricerca dell’autenticità dell’esistenza nelle parole, e le parole della Pozzi, come ha scritto Montale, «sono asciutte e dure come i sassi», ridotte al «minimo di peso».

Tristezza di queste mie mani

troppo pesanti

per non aprire piaghe,

troppo leggere

per lasciare un’impronta.-

tristezza di questa mia bocca

che dice le stesse

parole tue

altre cose intendendo-

e questo è il modo

della più disperata

lontananza.

(PoesiaSfiducia”)

Eppure rimane il senso e il valore della ricerca, dell’approdo, la speranza di una risposta leggera e alla fine liberante:

[…] Ma giungerà una sera

a queste rive

l’anima liberata:

senza piegare i giunchi

senza muovere l’acqua o l’aria

salperà – con le case

dell’isola lontana,

per un’alta scogliera

di stelle – 

In Italia Alda Merini scrive poesie, specie religiose, che nascono dall’insistenza dolorosa e sincera sul tema dell’impossibilità per tutti di salvarsi dalle angosce…: “Quando l’angoscia spande il suo colore / dentro l’anima buia / come una pennellata di vendetta…”. L’angoscia è il senso refrattario di ciò che a noi è dovuto per diritto di vita. L’angoscia non nasce solo dalle frustrazioni che stimolano l’Es a procedere sul versante opposto a quello della follia. Il dualismo follia-ratio è un salto di qualità che viene molto spesso annullato dall’ambiente in cui si vive.… nel mio caso la poesia mi ha salvato la vita. Fatta a tentoni, fra mille burrasche e dimenticata da tutti… L’anima ha mille sentieri e soprattutto mille tentazioni nascoste. Se l’anima è franca, se ha conosciuto il valore e il peso della morte, conosce le radici della vita e sa che sono amare ma salutari. Non esiste una medicina né per l’anima né per il dolore, perché se il dolore è una vetta che sorge improvvisamente nel cuore, la morte cerca di renderlo eterno e di farne un languore umano. Ma la morte non è una nemica, è soltanto un grande filantropo che ama gli uomini e un grande filologo che conosce la natura delle parole. Ciò che vale nell’anima è la nudità…. L’anima ha la semplicità dell’acqua ed è la prima natura dell’uomo…”.

La raccolta Tu sei Pietro è del 1961. Nella chiusa della lirica Rinnovate ho per te, di questa raccolta, appare una straordinaria affermazione autobiografica: “Ché cristiana son io ma non ricordo/ dove e quando finì dentro il mio cuore/ tutto quel paganesimo ch’io vivo”. Nel 2002 ha pubblicato Magnificat da Frassinelli. Toccante e sincero il suo miserere:

Miserere di me,/ che sono caduta a terra/come una pietra di sogno.

Miserere di me, Signore,/ che sono un grumo di lacrime.

Miserere di me,/ che sono la tua pietà.

Mio figlio/ Grande quanto il cielo.

Mio figlio,/ che non è più vivo.

Miserere di me,/ o universo,

egli era la punta di uno spillo/l’ago supremo della mia paura.

Miserere di me/ Che sono morta con lui.

Miserere della mia grandezza,/miserere della mia stanchezza,

miserere della misericordia di Dio.

Ma il tema religioso non è mai frutto si sublimazione definitiva. Si sente infatti come “una piccola ape furibonda”, “una donna non addomesticabile”, costretta a dire la verità, pur essendo “piena di bugie”.

L’angoscia è di una puntualità incredibile: ha fatto un corso accelerato di storia e ti ripete sempre le stesse cose, non ha la minima fantasia. E se tu chiedi all’angoscia: Dov’è tuo fratello? L’angoscia ti risponde puntualmente: sono io il custode di mio fratello. E finalmente, dopo queste parole auliche, tu entri profondamente nella Bibbia e scrivi il Magnificat.”

Tra le poetesse contemporanee riserverei un posto privilegiato a Louise Glück, premio Nobel per la letteratura 2020. È straordinaria per la sua originalità poetica la raccolta che l’ha resa famosa anche in Italia: L’Iris selvatico, un libro complesso e denso che è un dialogo tra i fiori del giardino, il giardiniere e Dio. La Glück non è particolarmente credente, ma sa trasformare il  vissuto soggettivo in una ‘metafisica del quotidiano’, come in questa straordinaria dolorante severa e spoglia preghiera-confessione:

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo

esiliati dal cielo, creasti

una replica, un luogo in un certo senso

diverso dal cielo, essendo

pensato per dare una lezione: altrimenti

uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza

senza alternativa… Solo che

non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,

ci esaurimmo a vicenda. Seguirono

anni di oscurità; facemmo a turno

a lavorare il giardino, le prime lacrime

ci riempivano gli occhi quando la terra

si appannò di petali, qui

rosso scuro, là color carne…

Non pensavamo mai a te

che stavamo imparando a venerare.

Sapevamo solo che non era natura umana amare

solo ciò che restituisce amore.

(Poesia “Mattutino”)


Bibliografia

Dickinson Emily, Poesie di E. Dickinson, traduzione e note di M.  Guidacci, BUR, 1996

Dickinson Emily, Tutte le poesie, “I Meridiani”, Mondadori, Milano, 1997

Glück Louise, L’iris selvatico, traduzione di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, 2020

Glück Louise, Ricette per l’inverno dal collettivo, traduzione di M. Bacigalupo, Il Saggiatore, 2022

Loi Franco, Liber, Garzanti, 1988

Loi Franco, Poesie scelte e breve nota bibliografica, a cura di Nelvia Di Monte, 2021

Merini Alda, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, a cura di Ambrogio Borsani, Mondadori, 2009

Merini Alda, Magnificat. Un incontro con Maria, Ed. Sperling & Kupfer

Merini Alda, Tu sei Pietro, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, Milano, 1962

Pozzi Antonia, Parole. Tutte le poesie, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Milano 2015

Pozzi Antonia, Poesia che mi guardi. La più ampia raccolta di poesie finora pubblicata e altri scritti, a cura di G. Bernabò e O. Dino, con approfondimenti critici, Luca Sossella Editore, Bologna 2010

Rebora Clemente, Frammenti lirici, 1913

Rebora Clemente, Frammenti lirici, a cura di G. Mussini, Interlinea, 2008

Turoldo David Maria, Dialogo tra cielo e terra, a cura di E. Gandolfi Negrini, Piemme, 2000

Turoldo David Maria, Diario dell’anima, San Paolo, 2003.

Turoldo David Maria, Il dramma è Dio: il divino la fede la poesia, Milano, BUR, 2002

Turoldo David Maria, Nel lucido buio. Ultimi versi e prose liriche, Milano, 2002



Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “(esercizi di minduflness)”, poesia di Alessandra Carnovale


fermare il pensiero
l’assillo del tempo, il confronto
che rende perdente

due respiri profondi
poi segui il tuo ritmo

un nuovo ciclo

e ancora        inspira                espira

             radicarsi nel presente

diventare albero
imparare dal gatto
guardarsi intorno
concentrarsi sul paesaggio 

sollievo, per un attimo 

ultimo espediente
prima del farmaco


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N.E. 02/2024 – “Attesa”, poesia di Maddalena Corigliano

Trovato ha il dilucolo l’errabondo mio andare.

La pena del giorno morta è con l’onda debole…

Passata pare la tempesta.

Un soliloquio quieto strappato ha l’anima al pensiero corto

e si è inondata d’ampi respiri.

Un chiarore di luna, tra le frondose chiome,

radiare ha voluto la luce?

E tu anima mia, perduta nel silenzio, non temi più perigli?

Grande è la mano del Signore che accompagna l’attesa.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Algamemoria” e “Il mosaico del nulla”, due poesie di Marco Colletti

Algamemoria

E se le anime invece che in cielo

volassero in mare? E se fosse

questo il vocio delle onde,

un sommesso richiamo e disperato

di chi ci vuole parlare, di quelle

luci spente negli abissi e di quei

morti che ancora ci bagnano i piedi

al fulgore della gibigiana. Tra

le bolle della spuma, i gusci spezzati

e taglienti, quel tutto affannarsi

di minuscoli granelli che fasciano

le dita, nel fruscio di un mantello

che corre oltre ogni orizzonte.

Che siano le gocce e non le nubi

a tremare di vite millenarie, di chi

abbiamo amato e di chi si è odiato,

ora forzati, in un liquido compatto,

a scivolare dal tepore dei raggi

nel buio inconoscibile. Oceano

mi spacca la mente e a brandelli

scende tra le alghememorie, lenta

come il peso dei relitti, lo strappo

delle vele ancora al sole e il forziere

della vita che già muore.


*

Il mosaico del nulla

Che cos’è Dio se non questo zampillio

della vita nonostante la morte?

Ostinati al respiro e fantasmi del tempo,
attraversiamo le onde dell’assetata quiete,

mentre la vita scorre verso mete

che non vogliamo, come un papavero

rosso che, colto, muore lo stesso giorno.
Li incrociamo davvero gli altri destini

o quella strada sterrata è una sola

e solitaria? Di ciottoli dolorosi e bianca

polvere sotto i passi feriti, sferzo l’inganno

che il vento mi impone, di sentire il mio
corpo e il brivido dell’anima carne,
che brucia senza meta come incenso

svanito. A un passo dal nulla, ma ancora

immagine incerta, mi ancoro figura

vibrante di un altrove, che può essere

ovunque e chiunque di qualcosa.

La accolgo tra le mani questa apparenza

di vita, che scivola come sabbia dell’ultima

clessidra. Allora mi vedo e dentro me

tutto il mondo mi assale, verso un mosaico

alato che adagio prende il volo.


Questi testi vengono pubblicati nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionati dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Dall’oblio dell’essere al naufragio nell’essere”, articolo di Guglielmo Peralta

Secondo Heidegger, il pensiero metafisico da Platone in poi avrebbe determinato l’oblio dell’essere.  Ritengo, tuttavia, che Nietzsche con la dottrina del nichilismo lo abbia ancora di più condannato alla sparizione. Dopo Nietzsche, è venuto meno quell’aspetto positivo del «nichilismo attivo»: la pars costruens della sua concezione filosofica, secondo la quale al senso del vuoto, generato dal crollo delle illusioni, e alla disperazione «passiva», sarebbe subentrata la presa di coscienza del nulla come perdita di tutte le certezze, la quale avrebbe dovuto condurre a riscoprire le potenzialità della natura umana e a migliorare l’uomo elevandolo all’essere superiore annunciato, all’Übermensch, creatore di valori “al di là del bene e del male”, dotato di «volontà di potenza», capace di  pronunciare il suo ‘diktat’, di dire  «sì» alla vita.

In questo nostro tempo di profonda crisi spirituale, morale, sociale, in cui il mondo sembra avviarsi alla deriva, con la sua umanità al tramonto, minacciata dalla fantatecnologia con la creazione dell’umanoide, del ‘superuomo’ tecnologico, urge la domanda sull’essere, su come salvarlo dall’oblio. Come fare ce lo ha suggerito Leopardi negli ultimi due versi dell’Infinito, dove l’essere è il mare dell’immensità in cui “naufragare” dolcemente. Questo ‘naufragio’ è l’approdo all’essere ed è la sua rivelazione mediante la poesia, quella vera autentica, la quale ha questo potere epifanico, illuminante. Per questo Ungaretti poté dire: “M’illumino d’immenso” condensando, riassumendo in quest’unico verso i due versi del Recanatese sintetizzandone il senso. Illuminarsi d’immenso, infatti, significa immergersi nella luce dell’essere, approdarvi, rivelarlo. Questo ‘svelamento’ ad opera della Poesia è possibile perché la Poesia, come asserisce ancora Heidegger, è la dimora dell’essere e, in quanto tale, la sua natura è ontologica. La poesia ontologica, o l’ontologia poetica, allora, deve prendere il posto della metafisica. Perché essa è la sola in grado di “manifestare” l’essere, di salvarlo dal naufragio nell’oblio. Ed è l’utopia necessaria per contrastare la realtà distopica e l’intelligenza artificiale con la quale la natura umana è ‘trasvalutata’ e sostituita dalla ‘natura’ artificiale, annunciante la morte dell’uomo, il quale può ‘risorgere’ se si lascia illuminare dall’immenso, se intraprende il cammino verso l’illuminazione.  La scrittura, il processo creativo è questo cammino, è obbedire (obaudire), dare ascolto alla voce interiore, al carpe lucem: l’imperativo, l’invito a cogliere l’essere, ad approdare nella sua luce salvifica. 


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