“La Cina in dieci parole” di Yu Hua, recensione a cura di Rita Barbieri

DIECI PAROLE

recensione a cura di RITA BARBIERI

 

“A volte per incontrare una parola serve l’occasione giusta. Ciascuno di noi nel corso della vita entra in contatto con tantissime parole: alcune si comprendono immediatamente, altre restano impenetrabili anche dopo un’intera esistenza”

     L’ultimo libro di Yu Hua, La Cina in dieci parole, edito in Italia da Feltrinelli, riesce nel titanico tentativo di restituire un’immagine non stereotipata  della Cina attuale: fuori da luoghi comuni, sinocentrismi  e da ottiche pseudorientaliste. Per farlo si serve di ricordi, immagini, personaggi, fatti e luoghi evocati, come spiriti di una tradizione senza tempo, dal potere suggestivo delle parole. Parole che, come formule di un incantesimo comunitario arcaico, richiamano alla mente concatenazioni di eventi che non seguono un ordine cronologico, quanto piuttosto quello di una logica strettamente personale e autoriale. Una parola è così in grado di riferirsi sia al periodo maoista, sia a quello tumultuoso degli anni ’90, sia a quello attuale: assumendo significati e connotazioni diverse a seconda dei tempi e delle interpretazioni.

È il caso, per esempio, della parola “popolo”(renmin): declinata in ogni sua accezione e occorrenza perché, se il termine non cambia, l’oggetto che contrassegna cambia eccome. Ancora più significativa è “rivoluzione” (geming), associata tanto alla Rivoluzione Culturale (fase più acuta del maoismo), quanto al periodo di trasformazioni economiche che hanno inizio a partire dagli anni ’80 con la politica della porta aperta.

Ma accanto a queste troviamo anche parole che scardinano le serrature chiuse dell’autore: “lettura”, “scrittura”, “Lu Xun”. Chiavi d’accesso a un mondo intimo, privato che consentono a Yu Hua di analizzare la propria storia personale in prima istanza come ‘cinese’ e solo in secondo luogo come ‘scrittore’. Finalmente in queste pagine troviamo svelato il percorso che ha portato il dentista di una piccola cittadina del Sud della Cina a diventare uno dei più importanti romanzieri contemporanei: “Ho cominciato a scrivere a ventidue anni, mentre cavavo denti. Cavavo denti per mantenermi e scrivevo per non cavarne più. (…) La scrittura è come la vita: se ti sottrai alle esperienze, non ne capirai mai il senso. Per lo stesso motivo, se non scrivi, non saprai mai cosa sei in grado di creare.” Sembra dunque di vederlo questo ‘dentista obbligato’ (ai tempi, come sottolinea lo stesso autore, era il governo stesso ad assegnare un impiego e cambiarlo era estremamente difficile, se non impossibile) che, senza nessuna preparazione medica, inizia a praticare la professione sotto l’occhio neanche tanto vigile di un dentista più anziano. L’autore racconta, con l’ironia che gli è consona, il panico delle prime estrazioni e l’invidia provata per coloro che giù in strada passeggiavano liberamente in qualità di membri del Centro culturale. Da lì il desiderio di entrare a far parte di quel circolo ristretto tanto più che, in  epoca socialista, ogni lavoratore percepiva sempre lo stesso stipendio qualunque fosse la sua mansione: “in ambulatorio ero un poveraccio che faticava, al Centro culturale ero un poveraccio libero e felice.”

Così Yu Hua comincia a scrivere: non seguendo una vocazione o un desiderio irrefrenabile, ma valutando pragmaticamente pro e contro. I suoi primi testi (tra quelli tradotti in italiano possiamo citare “Torture” e “Cronache di un venditore di sangue”) sono tutti intessuti di sangue, violenza, crudeltà, traumi. Sono fatti di trame visionarie, allucinate, splatter dispiegate con uno stile sintetico, breve e talvolta derisorio: tendono a scioccare il lettore più che a coinvolgerlo nella narrazione. Fino ad arrivare a “Brothers” libro che, secondo molti critici, segnala la definitiva svolta stilistica: qui violenza e sangue non sono più i ritornelli standard di un pentagramma lineare, ma momenti topici di una storia struggente e bellissima che prosegue nel successivo “Arricchirsi è glorioso”. Su questo improvviso cambio di marcia si è molto dibattuto e solo adesso Yu Hua si sente di avere e dare una risposta specifica. Racconta di sogni terribili che lo perseguitavano in notti insonni e agitate, esorcizzati durante il giorno con la scrittura. In particolare descrive l’ultimo, ancora più tremendo (anche perché chiaramente collegato al suo vissuto), che gli fa maturare la decisione di smettere di scrivere di sangue e violenza: i mostri suscitano solo altri mostri.

Ecco dunque come La Cina in dieci parole sia allo stesso tempo un album di ricordi personali e una sorta di ordinato archivio in cui, sotto ogni parola/etichetta, sono raccolti fatti pubblici e privati, pezzi di storia e di cronaca antica e recente, tracce di percorsi emotivi e di personaggi veri o inventati. Dieci parole soltanto che però bastano a farci da punti cardinali e da guida per non perdere di vista la traiettoria e per trovarci infine a essere, come  l’autore, dei “pescatori di ricordi seduti sulla riva del tempo, in attesa che il passato abboccasse”.

a cura di Rita Barbieri

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“Ombre di macchia” di Roberta Borgianni, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Ombre di macchia

di Roberta Borgianni

con prefazione a cura di Anna Intartaglia

e postfazione a cura di Carmine Valendino

Onirica Edizioni, Milano, 2011

ISBN: 978-88-96797-28-0

Prezzo: 9,50 Euro

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

La poesia che apre la raccolta, “Ombre di macchia”, è anche quella che dà il titolo all’intera raccolta. Da subito ci si rende conto, che la poetica della Borgianni è ricca di colori e sfumature, come pure di riferimenti al mondo della natura. La poetessa arricchisce le sue liriche di elementi che appartengono alla grande Dea Madre per evidenziare, forse, la grandezza e la complessità di essa. E’ una poetica dolce e intimistica, a tratti sensuale, dalla quale traspare un forte legame tra la donna intesa come essere umano e la madre terra intesa, invece, come la Natura incontaminata e primigenia. Le descrizioni naturalistiche della Borgianni, i dettagli dell’ambiente, le tinte di fiori e piante, sono tutti elementi che convergono con l’unica intenzione di dare un’immagine vivida e pulsante di quello che c’è attorno a noi tutti i giorni, anche se raramente ce ne rendiamo conto. La sua scrittura “fauvista” – per citare un termine utilizzato dalla Intartaglia nella prefazione – , lo è a mio avviso nell’utilizzo della tecnica (quello delle pennellate veloci con tinte sgargianti e spesso dai colori caldi e brunastri) ma non nell’effetto finale. Le sue poesie, infatti, al termine della lettura si configurano come quadretti naturalistici quasi arcadici, in parte utopici, i cui colori per nulla stridono, e non generano ansia o smarrimento. Tutt’altro. Danno, invece, un’immagine fotografica, spesso realistica di quello che c’è attorno a noi e che solo occhi e menti sensibili ed attente riescono a percepire. Conservando la metafora della Intartaglia, mi azzarderei a definire la poetica della Borgianni come quella di un fauvista addolcito, dai componimenti strutturati e materici e da un animo puro, suscettibile allo spettro dei colori.

In “La sposa del mare” la poetessa offre un parallelismo molto ben costruito tra il mare spumoso e la sposa basandolo sulla comunanza del colore immacolato dei due e conclude magistralmente: “Sulle nere bordure di scoglio/ l’onda rincalza la schiuma/ e poi d’improvviso ricade…/ come pizzo strappato/ all’abito della sua sposa”. Lodevole anche “La Venere e il geco” in cui la Borgianni fonde in un testo unico una sorta di preghiera laica a un divertente avvistamento sul muro di un giardino di notte. E nell’attenta descrizione botanica che la Borgianni fa delle numerose varietà di piante ed erbe è la vegetazione mediterranea ad essere sovrana (timo, croco, menta, capperi, salvia, basilico, mirto, quercia).

Nella parte finale della silloge sono riportati vari esperimenti poetici della Borgianni a quattro mani con altrettanti poeti tra cui Carmine Valendino, Daniela Cattani-Rusich, Leonarda De Cristoforo, Luciano Tarasco, Michele Biglia e Gianmaria Ghillani Sforza.

I versi della Borgianni si susseguono tra scenari campestri, agresti, silvani e il tutto rimanda a una completa e continua identificazione panteistica della poetessa con la natura che la circonda. Una sorta di panismo per nulla forzato ma che, anzi, si rinnova inconsapevolmente senza ridondanze pagina dopo pagina. Ma è anche un chiaro invito a lasciarsi andare, a sapersi prendere poco sul serio e a scoprirsi giorno per giorno, lasciando fare al caso quello che vuole, per sorprenderci e farci cambiare percorsi. Non da ultimo, è un modo per proiettarsi in spazi altri, per farci spaziare e sognare ad occhi aperti, renderci pianta o animale, acqua o acero. “Se passeggi tra le nuvole/ troverai anche la luna” conclude in “Mele cotogne”.

 A CURA DI Lorenzo Spurio


Chi è l’autrice?

Roberta Borgianni è una poetessa toscana. Ha pubblicato Labirinti (Onirica Edizioni, Milano, 2010) e Ombre di macchia (Onirica Edizioni, Milano, 2011). E’ socia fondatrice dell’Associazione Culturale LunaNera e partecipa a reading letterari e poetici.

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“Un biancore lontano” di Adriana Gloria Marigo, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Un biancore lontano

di Adriana Gloria Marigo

Lieto Colle Edizioni

ISBN: 978-88-7848-533-4

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

 

La poesia “Un biancore lontano” che apre la silloge a cui dà il nome, è un fine sonetto che si basa sull’antitesi di luce ed ombra e che, pur facendo riferimento al cielo che ci sovrasta, è una ricercata metafora delle polarità bene-male che contraddistinguono e che animano l’umanità. Quel biancore di cui parla è celestiale, spumoso e impalpabile, proprio perché, come ricorda la Marigo, è “lontano”, ma non per questo irraggiungibile. L’intera silloge va letta in questo modo: è un percorso aereo, sospeso tra il cielo e l’atmosfera, è un viaggio nell’aere con luci, bagliori, ombre e buio, un percorso quasi metafisico e di rinascita che ci accompagna, pagina dopo pagina, a lambire i territori dell’immaginifico.

Carica di interessanti e adeguati riferimenti alla cultura classica, la poetica della Marigo è sempre sostenuta da un linguaggio musicale e suadente e centrale è anche la tematica del tempo, investigata in modi e forme diverse: “Il tempo ha svolto un lavoro/ intenso: ha tracciato/ su me percorsi di colore, paesaggi/ sentimenti, in un movimento/ sinuoso senza inizio senza fine”, scrive. Nella successiva poesia dal titolo “Tralci” la Marigo sintetizza in maniera eccellente un concetto semplice ma al tempo stesso verissimo: “Scrivere è oltrepassare il tempo, memoria/ di vigne alla maniera antica”. Una serie di liriche fanno riferimento ai mesi con la volontà di marcare i momenti dell’anno e di descrivere quella stagionalità che si ripete incessantemente e in maniera ciclica. Il tempo ritorna spesso quasi che l’intera silloge sia sostenuta da dei fili comandati dal dio Chronos che, però, resta invisibile.

La sensazione che nutriamo leggendo le varie liriche qui contenute è che la poetessa abbia molto da dire, da raccontare, da stendere sulla carta per dare senso alle cose più semplici o semplicemente per riflettere e prendersi un momento di pausa e donare agli altri quello che, introspettivamente, ha elaborato. Affascinante l’omaggio che la Marigo regala alla Serenissima, città dalle nere gondole, immortalata da grandi scrittori quali Henry James e Thomas Mann che la poetessa dipinge colorata “le terre viola di Venezia”.

La luce, con le sue proiezioni, riflessi e raggi, avvolge l’intera raccolta poetica e la illumina donandole visibilità e brio. E’ doveroso, pertanto, concludere con dei versi che danno ragione a questo intero commento: “Troveremo l’inclinazione perfetta,/ il gradiente preciso, al fiammeggiare/ sacro della luce che si spericola/ capitombola dal colle entro le fronde/ sopra un metallo di luna, forgiato/ in fatica di fuoco.” (in “Specchi ustori”).

Chi è l’autrice?

Adriana Gloria Marigo è nata a Padova nel 1951,. Bambina, ha lasciato la pianura veneta per le Prealpi Varesine, il lago di Maggiore di Luino, città delle prime letture e della nostalgia. Gli studi umanistici l’hanno condotta prima all’insegnamento, poi ad occuparsi di eventi di danza moderna e contemporanea, seguendo un talento versatile, sensibile all’arte, alla bellezza che trova dimora pure “dove l’ombra si gioca della luce”. Questa è la sua opera prima.

 a cura di Lorenzo Spurio

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“Per una strada”, silloge poetica di Emanuele Marcuccio, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Per una strada

di Emanuele Marcuccio

SBC Edizioni, Ravenna, 2009

ISBN: 978-88-6347-031-4

Prezzo: 12,00 Euro

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio


Anche se in una recensione solitamente non si fa, e ci si limita a criticare un testo, chiedo scusa a Emanuele Marcuccio per la lentezza con la quale ho letto il suo lavoro e per questa tardiva recensione, frutto della lettura attenta della sua silloge di poesie. Marcuccio è un poeta palermitano particolarmente attivo nel panorama letterario e che attualmente sta pubblicando presso Photocity Edizioni una raccolta di aforismi dal titolo Pensieri minimi e massime. Questa ultima raccolta, alla quale ho avuto la grande occasione di scrivere una postfazione, dedica molti aforismi alla letteratura e soprattutto alla poesia. Marcuccio è un poeta attento e delicato la cui sensibilità si evince dai suoi componimenti che rifuggono dai rigorismi della metrica per offrirsi, invece, al lettore nella sua purezza espressiva scevra da vincoli di restrizioni di ciascuna natura.
L’animo poetico di Marcuccio è ben delineato già dalla nota di prefazione che ha voluto inserire all’apertura del testo dove dice al lettore che il legame con la poesia è qualcosa di intimo e profondo che deve necessariamente essere affidato al contatto umano con carta e penna. In questa nostra era super tecnologica è sicuramente un elemento anacronistico che, però, evidenzia con forza quale sia il vero valore della poesia: l’espressione diretta, istantanea, di un qualcosa che deve essere colto al momento e che, per dirla in soldoni, non può aspettare l’accensione di un computer, per quanto veloce esso sia. Carpire l’attimo poetico è l’essenza stessa della poetica del Marcuccio.
Contrariamente al titolo della raccolta, Per una strada, la poesia di Marcuccio non sfugge, non si vanifica nel momento in cui terminiamo un componimento e ci imbattiamo a leggerne un altro, ma è quanto mai concreta e la sua fisicità è donata per lo più dall’attenzione che il poeta affida nei confronti delle sfere uditive e visive. Una poetica d’altri tempi, diremmo. In una attualità dove i poeti e gli pseudo-poeti si riempiono la bocca di paroloni, di termini stranieri, di nonsense e costruiscono spesso le loro poesie partendo dal cupo drammatismo o immergendosi a pieno nel mondo dell’erotico, non mancando a volte di insultare l’arte letteraria.
La poesia di Marcuccio parte da un chiaro pessimismo che nella prefazione lui stesso definisce “moderato” e di stampo leopardiano. Sono, infatti, molti i componimenti che condividono una visione amara, come in “L’inquinamento” o che, comunque, danno una visione a tinte fosche della realtà in cui viviamo: una colomba che ormai morta è diventata una sorta di tappeto stradale poiché in molti la calpestano, la trapassano, la annullano: “Vedi come tutti,/ su quei motorini maledetti,/ tutte le straziano,/ orrendamente sfigurate, percosse”. Dell’uccello in “Al mio caro pappagallino” si tratteggia la morte dell’animale e si vagheggia il suo probabile e cristiano volteggiare in cielo, beato. E’ evidente il sentimento cristiano che sorregge e che anima l’intera raccolta poetica, quel baluardo di difesa che lo stesso Marcuccio cita nella prefazione come motivo di un’esistenza addolcita.
Il famoso poeta recanatese ritorna in maniera lampante nelle liriche di Marcuccio che, magistralmente, rende omaggio al poeta del pessimismo cosmico. Come non intravedere un riferimento alla “donzelletta in sul calar del sol” del “Sabato del villaggio” in “Le mietitrici” di Marcuccio ma anche il verso “e come odo stormir” della poesia di Marcuccio “Il viandante” che riecheggia “L’infinito” di Leopardi. L’omaggio più grande al poeta de “La ginestra” è contenuto nella lirica “A Giacomo Leopardi” dove il poeta è ricordato come “flebil spirito [che] ancor risuona”, con l’esortazione a donare ai poeti contemporanei la sua ricchezza lirica fatta della trasposizione su carta di illusioni, speranze e gioie.
L’immaginario dei personaggi che Marcuccio tratteggia, in effetti, (mietitrici, viandanti, cacciatori..) è espressione di un mondo provinciale, di campagna, d’altri tempi, oggi un po’ perduto e che si conserva solo in pochi luoghi. E’ una lode alla vita di campagna, alla spensieratezza e all’esistenza a contatto diretto con la natura. Curioso il bestiario che Marcuccio sfoggia in “Gli animali” dove va paragonando vari comportamenti di alcune specie animali ad alcune caratteristiche dell’uomo, quasi a voler sottolineare come l’ascendenza umana sia in effetti di derivazione animale secondo un’interpretazione etologica che rifugge, invece, le teorie evoluzionistiche.
L’acume poetico di Marcuccio prende percorsi diversi: ci sono poesie a tematica sociale, come quelle che si riferiscono alla guerra o al ricordo per la tremenda strage di Capaci o alla guerra di Bosnia, altre nostalgiche che rievocano un mondo campagnolo ormai in declino, altre che rendono esplicito il legame poesia-arte-musica e altre ancora che danno prova della conoscenza letteraria del Marcuccio, sia quella classica che quella europea (Leopardi, Pirandello, Dante, Alfieri, Parsifal, Shakespeare, Seneca, Federico Garcia Lorca, la saga dei Nibelunghi) con un favoloso omaggio al padre de Il giorno della civetta, la cui scrittura è ricordata da Marcuccio con questi versi: “sfoghi la tua ansia/ nell’inventar storie vere,/ coperte d’una patina d’irreale,/ in cui traspare un dolore sommerso.” Da sottolineare che, il termine “inventar”, ci avverte Marcuccio in una nota, è usato proprio nel senso inteso da Sciascia, di ricercare, investigare.
Le numerose poesie che compongono questa raccolta scorrono via, velocemente, lasciando però una traccia viva e un senso di freschezza, come pensieri raccolti assieme che vanno e ritornano inesorabili come l’onda del mare si abbatte sulla battigia per poi ritirarsi e compiere questo movimento all’infinito.

Chi è l’autore?
Emanuele Marcuccio è nato a Palermo nel 1974 e lì vive. Ha pubblicato nel 2009 la prima silloge di poesia dal titolo Per una strada e sta attualmente pubblicando la sua prima raccolta di aforismi dal titolo Pensieri minimi e massime. Da vari anni lavora alla stesura di un poema drammatico ambientato in Islanda, un lavoro lungo e faticoso. Collabora a varie riviste di letteratura, tra cui Euterpe ed è direttore onorario della Vetrina delle Emozioni. E’ poeta, scrittore e commentatore e curatore editoriale presso la casa editrice Rupe Mutevole.

 a cura di Lorenzo Spurio

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“Hai smesso i pantaloni corti. Poesie 1996-2010” di Mauro Biancaniello, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Hai smesso i pantaloni corti. Poesie 1996-2010

di Mauro Biancaniello

Lulu Edizioni, 2010

ISBN:  9781447806394

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

 

Hai smesso i pantaloni corti di Mauro Biancaniello, giovane residente nella Svizzera italiana, è una densa e appassionante raccolta di poesie prodotte in un arco temporale che va dal 1996 al 2010.  La silloge si apre con una poesia che evoca un ricordo amaro, il funerale della nonna, la persona a cui la lirica è ispirata e dedicata. Non è, però, contrariamente a quanto ci aspetteremmo, un componimento cupo e doloroso ma un punto di partenza dolce e nostalgico capace di trasformare la fine terrena in un lento salire verso il cielo tra le nuvole, quelle che Biancaniello definisce “le scale del paradiso”.

La poetica di Biancaniello è una poesia piana dal linguaggio semplice e diretto che affonda le sue radici nella ricerca o nella riscoperta del sentimento al suo stato puro, senza condizionamenti dalla frenetica vita della società odierna. Ci fa riflettere. Quello che oggi definiamo amore, ieri non era niente o addirittura non ne sapevamo della sua esistenza. E’ una poetica che ricerca i significati nelle semplice cose, è un dipingere sulla tela in maniera lenta e pacata per cercar di non creare discordanze nelle tinte.

L’amore nasce, a detta di Biancaniello, dalla conoscenza dell’altro e dalla propria consapevolezza, oltre che dall’abbattimento degli istinti egoistici dell’essere che, in effetti, se continuassero a manifestarsi in una coppia, porterebbero prima o poi di sicuro a dei problemi. E in tutto questo, la cosa più bella e da assaporare è il sapersi dare al caso, agli eventi non stabiliti, a sapersi prendere alla leggera con tutte le “bellissime incertezze” per citare il titolo di una poesia qui contenuta.

Nella poesia di Biancaniello è palpabile la consapevolezza del tempo che, lento o veloce, scorre e che sfugge. C’è sempre un prima e un dopo nelle sue liriche, quasi a voler marcare la differenza che si palesa negli oggetti, nei luoghi, nei visi, a distanza di tempo. E’ per questo una poesia che si interroga sul tempo, che cerca di studiarlo e descriverlo, forse per farselo amico o imparare a conoscerlo.

Altre poesie lasciano il posto a una sensibilità crepuscolare, dove è facile leggere i riferimenti a lutti, malattie e a un vissuto poco felice e poi in “Anime lorde”, Biancaniello affronta un tema sociale difficile: quello della guerra. Bellissima “Quel che (davvero) vorrei”, a mio modo di vedere la migliore dell’intera silloge, che è un misto di preghiera maledetta urlata e una sorta di minaccia dolorosa e utopica, riassunta magistralmente nei versi “Vorrei distruggerti/ ma bada bene/ non vorrei la tua morte”. Ci auguriamo che Biancaniello voglia donarci presto una nuova silloge di poesie.

Chi è l’autore?

Mauro Biancaniello nasce a St. Gallen (Svizzera) nel 1977. Inizia a scrivere articoli, poesie, racconti e romanzi nel 1996. Nel 2005 comincia ad impegnarsi anche in campo teatrale. Nel 2009 ha pubblicato Omissioni – Il ballo delle mezze verità e nel 2011 la silloge di poesie Hai smesso i pantaloni corti. Nello stesso anno ha fondato il Collettivo Artistico Libero e Indipendente “Fucina CHI”, poi sciolto e convertito il Collettivo DEA. Si occupa anche di sceneggiature teatrali.

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

 


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“Classifiche”, considerazioni sulle vendite dei libri, a cura di Paolo Merenda

Grazie al mio sito (www.paolomerenda.it) e al mio lavoro di giornalista e recensore di testi, da qualche tempo ho potuto leggere molti generi diversi. Leggere il lavoro di un esordiente mi ha portato ad alcune riflessioni: perché alcuni libri, nonostante la bellezza oggettiva, restano meno venduti, meno letti e meno famosi di quelli degli autori “passati” alla scrittura?

In molti casi il motivo è semplice: un piccolo o medio editore non può competere con la Mondadori quanto a pubblicità, promozione e presenza dei titoli nelle librerie. Ma siamo sicuri che se un giovane pubblicasse un gioiello della letteratura il grande pubblico se ne accorgerebbe?

Giorni fa ho affrontato l’argomento durante la presentazione di un libro di cui sono coautore, a margine della serata con alcuni amici si è arrivati a parlare del boom di vendite di “Cotto e mangiato”, il libro di Benedetta Parodi. Il traino del programma televisivo ha influito, certo, ma a mio modo di vedere non è stato l’unico motivo del successo in classifica.

Non sono il primo a dirlo, ma in Italia non si legge. Di conseguenza, se Fabio Volo, Benedetta Parodi o un altro personaggio televisivo pubblica un libro, qualche vendita arriva per il nome dell’autore, non certo per il contenuto.

Fabio Volo non vende solo perché famoso, ma anche perché ormai il pubblico si è abituato e aspetta il suo libro non per leggere lui, ma per leggere. Lo stesso vale per chi segue solo Ken Follett o qualunque altro scrittore, italiano o no. La crisi influisce, ma comprare così poco porta a scegliere determinati autori.

Altro problema sul perché il pubblico scelga determinati autori, sempre gli stessi. Il motivo è identico a quello per cui molti italiani vanno una sola volta l’anno al cinema, a Natale per il cinepanettone. Non c’è la volontà di vedere un film, o leggere un romanzo, che porti a pensare, a profonde elucubrazioni mentali. Le persone vogliono poter dire di leggere, ma per farlo non si impegnano affatto. Il nodo è questo, e se sugli scaffali non ci fossero Fabio Volo, Dan Brown, Giorgio Faletti o Benedetta Parodi ci sarebbero altri nomi, altre facce, ma la situazione non cambierebbe di una virgola.

PAOLO MERENDA

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“Serena e di stelle…”, poesia di Emanuele Marcuccio con commento critico a cura di Luciano Domenighini e di Cinzia Tianetti

“Serena e di stelle…”

di Emanuele Marcuccio

Dolce e chiara è la notte e senza vento,

Giacomo Leopardi,

da «La sera del dì di festa»

Serena e di stelle

è la notte, di cielo

e di vento che sibila in me…

e pioggia e di vento nell’anima

che fischia

al tedio che l’avvolge

e volge indietro i giorni

di quei perduti dì

che mai

si volgeranno…

(16/3/2012)

 

 

“Serena e di stelle…”

Commento a cura di Luciano Domenighini

Questa lirica si potrebbe definire un “idillio interiorizzato”, dove gli elementi della natura entrano ad abitare l’animo del poeta. In questi pochi versi Marcuccio si abbandona totalmente al gioco di cogliere e riprodurre intatte le frasi poetiche, così come gli sgorgano dalla sorgente dell’ispirazione e di aggiogarle con libertà, facendo assurgere lo zeugma e l’anacoluto a raffinati strumenti espressivi. Tessuto connettivo, legante di questo poetare non sono più le concordanze sintattiche o logico concettuali, rese labili o addirittura trasgredite senza rimpianto, ma il fluire spontaneo della musica dei versi e il loro associarsi secondo forze misteriose. Interessante, da un punto di vista metrico, scoprire la reale natura dei primi tre versi (senario, settenario, novenario) che in realtà sono due separati dalla virgola, entrambi specificanti del bel sintagma leopardiano “Serena è la notte” : un novenario ellittico reso elegante dall’anastrofe, e un vigoroso endecasillabo tronco sapientemente alleggerito dai punti di sospensione. Anche qui Marcuccio si conferma maestro nell’escogitare, spontaneamente, inedite e complesse architetture metriche.

 

A CURA DI LUCIANO DOMENIGHINI                                                        

22 aprile 2012

“Serena e di stelle…”

Commento a cura di Cinzia Tianetti

Auspicativo: qualcuno l’ha vista “Dolce e chiara”  la notte “e senza vento”. La risposta è lì, in quei pochi versi del grande poeta Giacomo Leopardi, con cui si apre «La sera del dì di festa», riposto lì è l’incipit, che apre la nostra lirica: “Serena e di stelle / è la notte, di cielo”. S’intravede un nuovo orizzonte per l’anima e il cuore, in cui sarà senza vento la notte, e dolce. E quei giorni, al tedio, che avvolge l’anima, volti indietro, a quei perduti dì, si schiariranno al pacificarsi dell’anima “di quei perduti dì / che mai / si volgeranno…”.Ma ecco le note che movimentano la poesia stessa nel loro far intravedere l’ondosità della nostra stessa esistenza, del riposto segreto che avvolge l’anima dell’uomo: quei dì perduti che troveremo nella melanconia, nel dolcissimo amaro ricordo, nel tedio, che inteso in senso senecano, ci fa filosofare sul perché “sono io e non un altro”, sul perché “proprio a me”, mentre i fantasmi vivono la dimora di un passato che torna come l’onda alla riva. Quei giorni non torneranno più, animando, così, il nostro stesso animo, strappato all’impassibilità dello “stare”, mosso al cielo di stelle o di vento o di pioggia, all’esistere e all’essere. Sicuri che la sera arriverà al giorno, il sereno alla pioggia e al vento, e che il cielo sarà di nuovo stellato, ma nella ciclicità del ritorno. Ed Emanuele, in questa lirica ci mostra che l’alternarsi è il reale vissuto, l’alternarsi dei nostri sentimenti al sentire dell’intimo nostro io.L’anima, ora cielo desiderante, obnubila, nei giorni perduti, il suo stesso io perché sa che il tempo trascorre portandosi via un cammino costruito in ciò che diventiamo, in ciò in cui volgeremo, aspettandoci la serena notte che avvolge gli occhi e il cuore, rincuorandoci alla fine dei giorni.Ecco il lascito di questi versi che leggo con gran lucidità, con il medesimo contraddistinto segno malinconico, così tipico di questo autore, legandoci col pensiero a quel filo che si annoda così bene sull’ultimo accento, sull’ultimo suono di parola. Con questi versi ci mostra che il segreto del vivere è riposto in una circolarità che non è mai banale o scontata ripetizione ma annodata, salomonica[1] circolarità psichica-emozionale: quindi, non una banale circolarità ma la circolarità che può avere un “nodo”, un “annodamento” in cui tutto si risolve sì nell’unione dei due capi ma non in maniera così “lineare” e facile. Un nodo che unisce e contemporaneamente, vincola, esprimendo una circolarità senza soluzione di continuità, intesa anche come l’unione e il vincolo dell’uomo con la sua dimensione interiore, con la sua parte irrazionale e emotiva, in una visione in cui nessuno stato d’animo è definitivo.

A CURA DI CINZIA TIANETTI                                                                       

22 aprile 2012

POESIA E COMMENTI PUBBLICATI PER GENTILE CONCESSIONE DEGLI AUTORI. E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO SENZA IL PERMESSO DEGLI AUTORI


[1] Il nodo di Salomone, simbolo frequente nei pavimenti musivi dell’arte paleocristiana, esprime sia conflitto che ricongiunzione, riappacificazione, tra il terreno e il celeste.

Premio Letterario Naz.le De Leo – Bronte – Risultati finali e verbale di giuria

Su gentile richiesta della professoressa Maddalena De Leo, promotrice del premio letterario, si diffonde di seguito la scheda dei risultati e il verbale di giuria. Per maggiori informazioni si consiglia di contattare direttamente la sig.ra De Leo al suo indirizzo internet.

PREMIO LETTERARIO DE LEO-BRONTË 2012 –  RISULTATI

 

 La Commissione giudicatrice del Premio suddetto, chiamata ad esprimere il proprio parere in merito alle 39 poesie e agli otto racconti pervenuti si è espressa nel modo seguente:

 Sono state considerate finaliste le poesie che nel testo contenevano un esplicito riferimento ai romanzi, ai personaggi e/o ai luoghi brontëani nonché alle stesse autrici Brontë.

  • Nessuno dei poeti partecipanti è stato escluso, di ogni poeta è stata scelta almeno una poesia. Sono state incluse per la pubblicazione nell’antologia massimo due poesie di uno stesso autore. Per l’esclusione della terza ci si è basati quasi sempre sulla minore aderenza alla tematica richiesta.
  • Sono stati inclusi per la pubblicazione nell’antologia sei degli otto racconti pervenuti (nell’ordine in cui si sono classificati). I rimanenti due risultavano non rispondenti ai canoni fissati dal Regolamento del Premio.

 

  • Le tre poesie vincitrici sono le seguenti:

 1^ classificata:    PROMESSA  di  Carla De Falco  (Napoli)

 Motivazione: 

            Dolce e delicata manifestazione di un desiderio d’amore intenso anche se timidamente   espresso, la poesia demanda all’amato con parole semplici l’impegno di una futura vita felice. Nell’ultima terzina l’autrice riesce in maniera brillante e con un solo aggettivo             a motivare in maniera incisiva la specificità della richiesta.

 Premio: Un numero del periodico Brontë Studies,  Novembre 2003,   Attestato di merito e segnalazione

 2^ classificata: VIA DA GRASSDALE MANOR di Anna Maria Dall’Olio                             (Pistoia)

 Motivazione:

           La poesia riproduce in soli tredici versi gli aspetti più evidenti e i momenti-chiave del secondo romanzo di Anne Brontë. In modo fotografico e con frasi d’effetto l’autrice riesce ad enucleare con maestria l’universo psicologico della protagonista di ‘The Tenant’           connotandolo anche epistemologicamente.

 Premio:  Drammatizzazione BBC 1978 Wuthering Heights,     Attestato di merito e segnalazione

 3^ classificata: HAWORTH  di Silvia Mazzanti (Chivasso, TO)

Motivazione:

   Tristemente evocatrice, la poesia ‘Haworth’ sembra indugiare su suoni e ambienti che  accompagnarono sin dall’inizio la vita solitaria delle Brontë. Anche il lento ritmo scandito dalle tre strofe contribuisce a rendere questi versi malinconicamente belli.

    Premio:  CD Anois con poesie di Emily Brontë in musica,    Attestato di merito e segnalazione

 

I tre racconti vincitori sono i seguenti:

 1° classificato:  IL MIO MONDO  di Francesca Santucci  (Bergamo)

 Motivazione:

Lavoro pregevole in cui è evidente la perfetta empatia avvertita dall’autrice Francesca Santucci verso l’argomento trattato. Sostenuto da una prosa ricca, espressiva e quanto mai precisa, il testo è la confessione spirituale di Emily Brontë così come lei stessa l’avrebbe scritta nell’ultimo mese della sua vita. I ricordi della prima infanzia e di un’adolescenza povera danno spazio ben presto alla descrizione minuziosa e attenta di quella natura che fu davvero il mondo della Brontë. La pagina dedicata alla brughiera, sintetizzando perfettamente l’estro creativo che è alla base della sua poetica, costituisce di conseguenza il fulcro del racconto e lo rende verosimilmente pseudo-brontëano.   

 Premio: Un numero del periodico Brontë Studies, Marzo 2008, Attestato di merito e segnalazione

 2° classificato: IO, JANE  di Marzia Ciardi  (Rosignano Marittimo – LI)

 Motivazione:

Una originale scrittura su due piani contraddistingue questo racconto: da un lato vediamo l’autrice Charlotte che cerca di allontanarsi impersonalmente dal proprio dramma d’amore durante la stesura di Jane Eyre, dall’altro la discepola zelante e innamorata ma soprattutto rassegnata a sacrificare un amore che la segnerà per la vita. Scritta in forma epistolare e arricchita a inizio e fine da citazioni tanto classiche che contemporanee, questa sofferta confessione al professor Heger viene talvolta interrotta da interessanti squarci di vita domestica che riescono a ristabilire l’equilibrio narrativo del testo facendo ad esso da cornice.

 Premio:  DVD The Brontë Sisters, Classic Literature, Red Duke 2008, Attestato di merito e segnalazione

 

  • 3° classificato: NE’ TERRA, NE’ MARE, NE’ CIELI TERSI  di Eleonora Muriello (S.Nicola la Strada –CE)

 Motivazione:

Il racconto, dalla prosa semplice e lineare, è una originale esegesi familiare narrata dal punto di vista di Anne Brontë che, in prima persona e senza indugiare su sé stessa, descrive in maniera asciutta e realistica gli avvenimenti e i momenti di vita più salienti della vita dei propri cari. L’ammirazione e l’affetto provati da sempre per la sorella Emily hanno chiaramente la priorità e ciò viene ben sottolineato dall’autrice con le frequenti citazioni di versi tratti dalle poesie di Emily Brontë. Molto interessante dal punto di vista contenutistico, il testo riesce a dare l’esatta dimensione del particolare ‘afflato’ che caratterizzò sempre il rapporto d’affetto tra le due sorelle minori.

  Premio: CD ANOIS Poesie di Emily Brontë trasposte in musica, Attestato di merito e segnalazione

  

  • L’ordine di classificazione dei sei racconti pervenuti è il seguente:
  •  

1)      Il mio mondo di Francesca Santucci

2)      Io, Jane di Marzia Ciardi

3)      Né terre, né cieli, né mari di Emanuela Mauriello

4)      Back to the West Indies di Lorenzo Spurio

5)      Riflessioni di Angela D’Angelo

6)      Il sosia di Zamorna di Emanuela Fidanza

 

 L’antologia ‘BRONTËANA’ può essere prenotata all’indirizzo di posta elettronica deleom@tiscali.it

 

La Commissione giudicatrice:

 

1)      Prof.ssa Maddalena De Leo (organizzatrice del Premio – traduttrice, scrittrice Brontëana e consulente editoriale italiana Brontë Studies)

2)      Prof.ssa Elisa Fierro (Kansas University, Lawrence, U.S.A. – referente Brontë sezione americana)

3)      Prof.ssa Caterina Lerro (Liceo Statale Gandhi – Casoria (NA) – esperta shakespeareana e autrice di testi scolastici in  lingua inglese)

4)      Dott.ssa Raffaella Pazzaia (grafica editoriale e socio promotore sezione italiana Brontë Society)

“Matteo e Ronja nel Parco Nazionale dello Stelvio-Settore Trentino” di Lara Zavatteri

MATTEO E RONJA NEL PARCO NAZIONALE DELLO STELVIO-SETTORE TRENTINO. Di Lara Zavatteri

Si tratta di una fiaba per i bambini che vede come protagonisti, oltre al Parco, Matteo, un bambino di sei anni e il folletto Ronja. Insieme esploreranno il Parco e le sue bellezze in val di Rabbi e Peio, imparando i vari tipi di flora e fauna, le tradizioni di un tempo e i manufatti dell’uomo, ma anche l’importanza di rispettare l’ambiente. Per questo libro in particolare i disegni sono stati realizzati dal nipotino dell’autrice, Alessio, di 9 anni, che ha così illustrato la fiaba sia internamente sia sulla copertina.

 

Blog del libro:

http://matteoeronjanelparcodellostelvio.blogspot.com/

“L’inclinazione. Storia di Artemisia e Nives” di Lara Zavatteri

L’INCLINAZIONE. STORIA DI ARTEMISIA E NIVES. Di Lara Zavatteri

 

È  un libro di narrativa fantasy “L’Inclinazione. Storia di Artemisia e Nives”, dove le protagoniste sono la pittrice del Seicento Artemisia Gentileschi e una giovane giornalista dei nostri giorni, Nives. Artemisia, realmente vittima nel Seicento di una violenza ad opera di un amico del padre e decisa a far ricordare il suo nome per la sua arte e non per quanto aveva subito, prepara una pozione in grado di regalare a lei e ai suoi quadri l’immortalità, ma sbaglia. Gli effetti sono disastrosi nell’immediato e secoli dopo, quando entra in scena Nives, giornalista che si trova a scrivere del furto di un quadro proprio della Gentileschi. Ambientato a Trento, Nives si troverà a Roma, nella casa della pittrice, in un’avventura incredibile che la vedrà l’unica in grado di salvare il mondo dal predominio del male. Insieme ad altri protagonisti, si dà vita ad una disputa su episodi e personaggi della Storia che hanno scelto appunto il bene e il male e starà a Nives capire come agire. L’Inclinazione è davvero un quadro della Gentileschi (ritratta in copertina) ma s’intende anche l’attitudine di ognuno verso il bene o il male. Parlando di Artemisia e Nives si è voluta evidenziare la forza delle donne che sempre sanno rialzarsi, anche dalle situazioni apparentemente più disperate.

 

Blog del libro:

http://artemisiaenives.blogspot.com/

“Ritorno ad Ancona e altre storie” di Lorenzo Spurio e Sandra Carresi, recensione a cura di Rita Barbieri

Ritorno ad Ancona e altre storie

di Lorenzo Spurio e Sandra Carresi

Lettere Animate Editore, 2012

 

Recensione a cura di Rita Barbieri

 “Ritorno a Ancona e altre storie” è una raccolta di tre racconti brevi, uniti in un unico filo dalla presenza rilevante  delle figure femminili. Sono infatti loro ad essere le protagoniste indiscusse, il centro nevralgico attorno al quale ogni racconto si orienta, si proietta e si muove.

       Tre donne solitarie e di fatto sole, ma non per questo meno capaci di destreggiarsi in situazioni complicate, di trovare nei propri resti, nelle proprie insondabili risorse, la forza di riemergere dai flutti ondosi di una vita che non scorre mai linda e ordinata.

       Definirle donne forti, sarebbe improprio. Perché come molte donne reali, si lasciano abbandonare da “uomini che non sono più compagni”, piegare dal fascino di vite che sembrano appaganti almeno esternamente, dubitano di sé stesse più di quanto non lo facciano di quelli che hanno intorno. Le vediamo chiaramente, anche grazie a uno stile scorrevole e immediato, attraversare separazioni, drammi e scelte. Assistiamo attenti alle loro riflessioni interne, al loro processo di maturazione che segue perfettamente il tempo della narrazione, le seguiamo mentre fanno inequivocabilmente  e responsabilmente la cosa giusta, anche se non sempre la migliore.

      E alla fine le troviamo più donne di prima: più consapevoli, più tenaci e, se non più forti, almeno più resistenti. Agli urti, ai traumi, agli incidenti ma anche alle seduzioni facili e alle piccole gioie illusorie. Donne che, una volta sole, trovano sorprendentemente e per la prima volta in sé stesse la capacità di bastarsi. Di essere abbastanza. Complete così, anche se derubate di o da qualcosa.

       Potremmo leggere facilmente questo romanzo, liscio e scivoloso come un abito che cade bene, e apprezzarne altrettanto facilmente la struttura narrativa estremamente chiara e consequenziale o i periodi brevi e accurati. Ma potremmo anche leggerlo più intensamente come un piccolo romanzo di formazione che racconta storie di tutti i giorni: non per questo meno importanti, attuali o interessanti. Perché le storie di tutti i giorni sono anche le nostre ed è impossibile non ritrovarcisi in mezzo: riconoscere un pensiero che tante volte ci è appartenuto, un’espressione che ci è sfuggita di frequente o ammettere che, in certe occasioni, avremmo voluto avere almeno un po’ del  buonsenso delle protagoniste.

       Un collage di storie quotidiane, di esperienze comuni e di personaggi non archetipici che conduce, attraverso una prosa essenziale e ordinata, alla scoperta di un sottotesto personale e individuale, valido per ogni lettore. Una lettura sobria, semplice e piacevole, per questo consigliata.

 

a cura di Rita Barbieri    

15/04/2012

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