I Premio di Poesia “Gandhi d’Italia” – Sulle orme di Danilo Dolci (1924-1997), scrittore e attivista dei diritti civili

Sulle orme di Danilo Dolci Con l’autorizzazione della famiglia Dolci, nella figura del figlio dott. Amico Dolci, viene bandito il Primo Premio di Poesia “Gandhi d’Italia” dedicato alla poliedrica figura intellettuale di DANILO DOLCI (1924-1997) poeta, scrittore, educatore e sociologo, attivista non violento noto, appunto, come il “Gandhi italiano”. Dolci, oltre alla sua attività educativa, operò nella lotta alla mafia; nel 1957 in Russia il suo impegno per la lotta non violenta venne riconosciuto con il celebre “Premio Lenin per la pace” (che accettò, pur dichiarando di non essere comunista). Nello stesso anno, con il saggio Inchiesta a Palermo, ottenne il prestigioso Premio Viareggio. Numerosi altri furono, negli anni, i riconoscimenti a lui tributati. Immensa la sua produzione letteraria, tra le maggiori opere vanno ricordate Banditi a Partinico (1956), Spreco. Documenti e inchieste su alcuni aspetti dello spreco nella Sicilia occidentale (1960), Verso un mondo nuovo (1964), Non esiste il silenzio (1974), La comunicazione di massa non esiste (1987), Se gli occhi fioriscono. 1968-1996 (1997) e Una rivoluzione nonviolenta (2007).Il premio viene organizzato in collaborazione dalle Associazioni Culturali “Le Ragunanze” di Roma, “Euterpe” di Jesi (AN), “CentroInsieme Onlus” di Napoli, “Africa Solidarietà Onlus” di Arcore (MB) e dal Progetto “Capire per capirsi” di Monte San Giovanni Campano (FR).

La partecipazione al concorso è regolamentata dalle norme contenute nel presente bando.

Articolo 1 – La partecipazione al premio è gratuita.

Articolo 2 – È possibile partecipare con una sola opera poetica (in italiano o in dialetto) inedita a tema libero che non superi la lunghezza di 40 versi. Pur essendo il tema libero, saranno particolarmente gradite opere dal carattere civile e dell’impegno, aventi quali temi o rimandi aspetti dell’impegno culturale di Danilo Dolci.

Articolo 3 – L’opera inviata non dovrà aver ottenuto un precedente premio da podio all’atto di chiusura del bando, ovvero alla data di scadenza di partecipazione.

Articolo 4 – È richiesto di inviare in un’unica mail avente per oggetto “Primo Premio di Poesia Gandhi d’Italia” la propria opera poetica in formato Word e un file a parte, sempre in formato Word, contenente i seguenti dati:- nome, cognome, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza completo (Via, città, cap.), telefono fisso e cellulare, indirizzo mail e queste attestazioni:- Dichiaro di essere l’unico autore della poesia e di detenere i diritti a ogni titolo.- Acconsento il trattamento dei miei dati personali secondo la normativa vigente nel nostro Paese (D. Lgs 196/2003 e GDPR) alla Segreteria del Primo Premio di Poesia “Gandhi d’Italia” e a tutte le Associazioni Culturali che organizzano e patrocinano l’iniziativa.

Articolo 5 – Le proprie opere, corredate dei materiali richieste, vanno inviate entro e non oltre il 28 febbraio 2021 alla mail premiodipoesia.danilodolci@gmail.com

Art. 6 – Tutti i materiali pervenuti verranno letti da una Commissione di giuria composta da poeti, scrittori, critici letterari, giornalisti e recensionisti, membri del panorama letterario e culturale italiano, i cui nominativi verranno rivelati in sede di premiazione.

Art. 7 – Verranno proclamati un primo, un secondo e terzo vincitore che otterranno una targa personalizzata e la motivazione della Giuria. Ulteriori premi, quali menzioni d’onore, segnalazioni o premi d’incoraggiamento, potranno essere attribuiti ad altre opere, qualora la Giuria ne manifesti la volontà. La stessa Giuria, ottenuto il parere favorevole dei referenti del progetto, ha la facoltà di attribuire premi speciali. Trattandosi di un premio a partecipazione gratuita, ciascun Associazione ed ente che collabora all’organizzazione s’impegna alla messa in palio di almeno un premio nel corso della manifestazione.

Articolo 8 – La cerimonia di premiazione si terrà in un luogo e in data da destinarsi, tenendo presente l’evolversi della situazione di emergenza sanitaria dettata dal Coronavirus in atto e, laddove non sarà possibile tenerla fisicamente, i premi verranno spediti a domicilio.

Articolo 9 – Ai sensi del D.Lgs 196/2003 e del Regolamento Generale sulla protezione dei dati personali n°2016/679 (GDPR) il partecipante acconsente al trattamento, diffusione e utilizzazione dei dati personali da parte della Segreteria del Primo Premio di Poesia “Gandhi d’Italia” e di tutte le Associazioni Culturali/enti che organizzano e patrocinano l’iniziativa.

Articolo 10 – Il bando di concorso è costituito da nr. 10 (dieci) articoli compreso il presente disposti su nr. 2 (due) pagine. La partecipazione al concorso implica l’accettazione tacita e incondizionata di tutti gli articoli che lo compongono.

Gli Organizzatori

MCHELA ZANARELLA

VINCENZO MONFREGOLA

LORENZO SPURIO

ALESSIO SILO

CHEIKH TIDIANE GAYE

INFO:

Mail: premiodipoesia.danilodolci@gmail.com

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Annella Prisco esce con il romanzo “Specchio a tre ante”

Segnalazione di Lorenzo Spurio

Il prossimo 29 ottobre per i tipi di Guida Editori di Napoli uscirà il nuovo libro della scrittrice partenopea Annella Prisco dal titolo “Specchio a tre ante”. Un volume che – come segnala il comunicato stampa ufficiale – risulta “avvincente, con un intreccio narrativo solido e personaggi ben caratterizzati”.

La trama ci racconta della storia personale di Ada, personaggio principale di questo racconto ben riuscito caratterizzato da tratti d’intimità e delicatezza. Si tratta del suo intricato percorso che ce la svela nel frastagliato viaggio emozionale e di crescita durante il quale riaffiorano episodi cruciali della sua esistenza. L’impiego di forme verbali differenti permette di realizzare la concatenazione di eventi e di situarla adeguatamente nei vari strati della coscienza della protagonista in un colloquio continuo nel quale, lentamente, vengono alla luce sensazioni nonché fatti che hanno contraddistinto il suo universo privato. Ed è così che con sapienza i piani temporali interagiscono tra loro, si penetrano e si riflettono nel creare una descrizione oculata anche della dimensione topografica e paesaggistica dove la protagonista si muove: dalla Capitale a Firenze sino alla regione del Cilento. Pare che al lettore – viene detto ancora nel comunicato – sia confacente e istintiva la capacità – non così abituale – di sentirsi amico della donna e di accompagnarla nel flusso dei suoi ricordi.

La postfazione, a cura di Isabella Bossi Fedrigotti, sottolinea come la Prisco «mette al centro della sua narrazione, non solo come sfondo ma anche come attiva partecipe dell’azione, una vecchia casa di famiglia. […] Ada approda qui come chi è in fuga da una quotidiana infelicità: per mettere ordine nei suoi pensieri, per trovare riparo e quiete dell’anima». L’immersione che si produce all’interno delle trame di questa vicenda è tale che il lettore è pervaso da un desiderio di conoscere il seguito della vicenda in maniera insaziabile.

Annella Prisco, scrittrice, donna immersa nella cultura e nell’arte a trecentosessanta gradi, è anche critico letterario e vice presidente del noto Centro Studi “Michele Prisco” intitolato alla memoria dell’augusto padre, autore di vari romanzi di successo, nonché vincitore del Premio Strega nel 1966 con Una spirale di nebbia. Quest’anno si celebra il centenario del suo illustre genitore che verrà ricordato in una serie di eventi condotti, alla regia, da uno specifico Comitato Nazionale.

Un commento a caldo della stessa autrice sul nuovo libro ci sembra molto opportuna e importante: «Certamente questo nuovo romanzo è per me una grande scommessa… – ravvisa Annella Prisco – forse in qualche momento oscurata dal dubbio di pubblicarlo in una stagione così complicata per tutti, ma la lettura può essere anche catartica soprattutto nei momenti più bui, per immergersi nelle pagine di un intreccio che fa respirare atmosfere intense e coinvolgenti… ma, ovviamente, affido ai lettori l’ultima parola!», sostiene.

Il volume – che si caratterizza anche per un pregevole dipinto ad acquarello opera di Vincenzo Stinga in copertina – verrà presentato prossimamente in varie città italiane, emergenza sanitaria permettendo.

Ufficio stampa / contatti

Dott.ssa Mary Attento

Mob. e WhatsApp +39 333 6685492

E-mail: mary.attento@gmail.com

“Deserti emozionali” di Cèline Dupont, recensione di Vittorio Sartarelli

Recensione di Vittorio Sartarelli

Certo scrivere una recensione per un libro di poesie non è come scriverla per un libro di narrativa ed è per questo che ci sentiamo un po’ in difficoltà, non solo a esprimere un giudizio obiettivo ma anche a capire profondamente cosa l’autore, in questo caso la poetessa, voglia dire o comunicare al lettore. La “Poesia” nel suo più alto e sostanziale senso del termine è la capacità di esprimere un contenuto di idee e sentimenti in modo atto a commuovere, a suscitare emozioni, a eccitare la fantasia. Una volta, nella sua forma più aulica e classica, la poesia era rigidamente legata a principi secondo i quali il modo di esprimersi liricamente, era un’arte e una tecnica di espressioni in versi, cioè in parole disposte secondo un ritmo ottenuto seguendo determinate regole metriche e rispettando le rime. Oggi la poesia si è affrancata da tutte le regole preesistenti rimanendo essenzialmente un’opera di pura espressione artistica, libera da canoni e da vincoli di tecnica metrica e ritmica.

Le Liriche di Céline Dupont sono molto complesse ed articolate alcune sibilline e non facili da comprendere, in ogni caso, poiché la poesia è anche uno specchio dell’anima, da queste liriche si può intuire che l’autrice ha vissuto un periodo della sua vita sicuramente felice ma che, poi, questo periodo si è interrotto quasi bruscamente, lasciandola in una prostrazione profonda. Le sue composizione poetiche sono tutte permeate da un ermetismo a volte anche enigmatico, con accorati sensi di frustrazione, per quello che poteva essere e non è stato, con intime nostalgie e profondi rimpianti, per lo stato attuale dei suoi pensieri che tendono ad una liberazione catartica da questa afflizione dell’anima per la constatazione di una realtà purtroppo immutabile. Questo bisogno di purificazione interiore la porta ad astrarsi, per raggiungere uno stato metafisico e quindi irreale che le permetta di dimenticare e comunque di non pensare al tempo andato il cui ricordo la tormenta, facendola somigliare ad una pazza che, in un delirio di follia, pronuncia frasi sconnesse e senza senso, dire e non dire pensare e non pensare, essere in sensi o farsi trasportare da una insana pazzia che la trasporti in un’altra dimensione. Ecco, perché nessuno, ascoltandola può comprendere appieno la sua sofferenza psichica e il suo stato d’animo di profondo sconforto che, talvolta, la fa rifugiare in un nichilismo estremo. Le composizioni poetiche di questa autrice sono indubbiamente originali, contro corrente e fuori dagli schemi lirici usuali, però sono vibranti con  essenze ed assonanze forti che rimangono impresse e suscitano emozioni, in ogni modo, riteniamo che la lirica di Céline si trovi attualmente in un periodo di transizione e che in futuro evolverà  verso orizzonti più rosei, liberandosi dalla oppressione di questo stato di pessimismo depressivo che non può essere eterno, alla fine, una maturità acquisita e il tempo, che con il suo trascorrere aggiusta sempre tutto, riporterà quest’anima in pena verso una dimensione migliore facendole raggiungere serenità e pace interiore.

VITTORIO SARTARELLI

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

La ecuadoriana Dina Bellrham (1984-2011) tradotta in italiano. Esce “Le iguane non mi turbano più” a cura di Lorenzo Spurio

Per Le Mezzelane Editore di Santa Maria Nuova (AN) è uscito in questi giorni il libro Le iguane non mi turbano più, una ricca e commentata selezione di poesie di Dina Bellrham, tradotte dal poeta e critico letterario Lorenzo Spurio in italiano.

L’opera è il frutto di un lavoro di studio, analisi e traduzione dell’opera poetica della poetessa ecuadoriana Edelina Adriana Beltrán Ramos (1984-2011), meglio nota con lo pseudonimo di Dina Bellrham. Tale edizione è stata possibile grazie alla disponibilità e al consenso della famiglia, nella figura della madre, la signora Cecibel Ramos. A impreziosire il volume si trova un ampio studio critico preliminare a cura della poetessa e critico letterario Siomara España tradotto in italiano dal curatore dal titolo “Dina Bellrham: contemplazione e comparsa”, nel quale si indagano con attenzione le caratteristiche preminenti della poetica della giovane poetessa.

Come si legge dalla quarta di copertina: «La poesia della Bellrham è sospesa tra un fosco presentimento della morte – quasi un dialogo continuo con l’oltretomba – e una tensione amorosa per la vita, la famiglia e la quotidianità dei giorni della quale, pure, non manca di mettere in luce idiosincrasie, violenze e ingiustizie diffuse. La critica ha parlato di una sorta di nuovo Barocco per la sua poesia dove coesistono terminologie specialistiche della Medicina e squarci visionari che fanno pensare al più puro surrealismo. Entrare in una poetica così magmatica e a tratti scivolosa per cercarne di dare una versione nella nostra lingua non è compito semplice, dal momento che la poetessa coniò – come il critico Siomara España annota nello studio preliminare – un suo codice linguistico particolarissimo, inedito, personale e multi-stratificato. Eppure è un tentativo sentito (e in qualche modo doveroso) frutto di quella “chiamata” insondabile che non si è potuto eludere».

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Dina Bellrham, pseudonimo di Edelina Adriana Beltrán Ramos, nacque a Milagro, nella provincia di Guayas, nello stato dell’Ecuador il 6 luglio 1984 ed è morta suicida a Guayaquil il 27 ottobre del 2011. Studentessa al quinto anno di Medicina presso l’Università Statale di Guayaquil, con la passione per la poesia (grande appassionata di Alejandra Pizarnik), ha fatto parte del gruppo poetico giovanile “Buseta de Papel”. Due le raccolte poetiche pubblicate: Con Plexo de Culpa (2008) e La Mujer de Helio (2011); altri lavori sono stati pubblicati postumi. Grazie all’interessamento della famiglia, nella figura della madre Cecibel Ramos e del critico letterario Siomara España, postumi sono stati pubblicati i volumi Je suis malade (2012) e Inédita Bellrham (2013). Alcune sue poesie sono state tradotte in inglese e francese su riviste e blog di cultura.

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Lorenzo Spurio (Jesi, 1985), poeta, scrittore e critico letterario. Per la poesia ha pubblicato Neoplasie civili (2014), La testa tra le mani (2016), Le acque depresse (2016), Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca (I ediz. 2016; II ediz. 2020) e Pareidolia (2018). Ha curato antologie poetiche tra cui Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (2016, 2 voll.). Intensa la sua attività quale critico con la pubblicazione di saggi in rivista e volume, approfondimenti, prevalentemente sulla letteratura straniera, tra cui le monografie su Ian McEwan e il volume Cattivi dentro: dominazione, violenza e deviazione in alcune opere scelte della letteratura straniera (2018). Si è dedicato anche allo studio della poesia della sua regione pubblicando Scritti marchigiani (2017) e La nuova poesia marchigiana (2019). Tra i suoi principali interessi figura il poeta e drammaturgo spagnolo Federico García Lorca al quale ha dedicato un ampio saggio sulla sua opera teatrale, tutt’ora inedito e tiene incontri tematici. Ha tradotto dallo spagnolo racconti di César Vallejo e di Juan José Millás e una selezione di poesie di Dina Bellrham confluite in Le iguane non mi turbano più (2020). Su di lui si sono espressi, tra gli altri, Giorgio Bàrberi Squarotti, Dante Maffia, Corrado Calabrò, Ugo Piscopo, Nazario Pardini, Antonio Spagnuolo, Sandro Gros-Pietro, Guido Oldani, Mariella Bettarini, Emerico Giachery e numerosi altri.

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Info editoriali

Le Mezzelane Casa Editrice – Via W. Tobagi 4/H – 60030 – Santa Maria Nuova (AN)

Tel. 340405449 – Mail: informazioni@lemezzelane.eu – Sito: www.lemezzelane.eu

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“I Pupi Siciliani” di Santo Giuseppe Marchese, recensione di Vittorio Sartarelli

Recensione di Vittorio Sartarelli

Non è il caso di Marchese che anzi, ritengo abbia migliorato di tanto, sia il contesto dell’ordito narrativo, sia le situazioni ambientali e psicologiche dei personaggi che chiaramente sono legate ad un tessuto sociale molto diverso e di certo più caratteristico e inimitabile che contraddistingue la nostra gente.  Il personaggio principale del romanzo è il vice commissario Giovanni Buonanno, un poliziotto forse troppo umano, quasi un casalingo in pantofole, molto legato alla famiglia e, da buon studente del Liceo Classico e laureato in Giurisprudenza, è molto coerente con i buoni principi con i quali è stato istruito, anzitutto l’onestà, la legalità, la fiducia nell’amicizia, l’amore per la famiglia e la sua capacità di ragionamento tutto logico e razionale. Queste doti di fondo unite ad uno spirito d’iniziativa e ad un’abilità nell’indagare fuori del comune, gli permetteranno di risolvere l’enigma di un delitto che appariva inspiegabile tanto da sembrare un banale incidente stradale. Tutta la vicenda del libro va avanti molto linearmente dispiegandosi, in riflessioni e conclusioni logiche alternate ad impedimenti investigativi che complicano lo stato delle indagini ma che, alla fine, anche grazie ad alcune informazioni avute dal vice commissario da parte di alcuni suoi solerti agenti, impiegati nella soluzione del mistero, avranno la loro naturale conclusione con la scoperta dei colpevoli.

Il merito di Marchese, oltre a saper scrivere, è quello di avere creato uno scenario innovativo nella classica ambientazione del giallo-noir stereotipato, introducendo elementi nuovi quale il sentimento, i ricordi, la tristezza e l’amicizia, nonché il rispetto per la bonomia e il buon senso delle persone oneste.

In ultima analisi, il libro di Marchese è una “chicca” della letteratura gialla che si distingue, per le capacità dell’autore, in quanto tutto il tessuto narrativo è nuovo e diverso, infatti, non ci sono gli strabilianti effetti speciali delle famose serie di gialli d’oltre oceano, ma un racconto molto più aderente alla realtà quotidiana della vita con tutte le sue miserie e le sue aberrazioni.

Finalmente, un bel giallo italiano anzi, per dare a Cesare quel che è di Cesare, siciliano, perché, non fosse altro per il titolo (I Pupi Siciliani – edito da Ilmiolibro.it nel 2016), molto identificativo è già manifesto e poi l’autore, da buon siciliano autentico, non è nuovo a questa esperienza letteraria, in quanto ha già scritto e pubblicato diversi libri appartenenti a questo filone, per cui non disdegna di cimentarsi ancora in questa categoria letteraria dei gialli-noir che di solito sono appannaggio di autori inglesi, francesi o americani, che hanno anche tracciato un percorso letterario imitato da molti spesso in malo modo.

VITTORIO SARTARELLI

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

Giorgia Deidda esordisce con l’opera intimista “Sillabario senza condono” (dedicata a Gabriele Galloni)

Segnalazione di Lorenzo Spurio

Giorgia Deidda (Orta Nova, FG, 1994) dichiara di amare la poesia e la letteratura, in particolare quella russa e tedesca. Sta frequentando la Facoltà di Lingue presso l’università di Bari. Tra le sue passioni di sempre figurano le lingue straniere perché – sostiene – “attraverso di esse riesco a cogliere l’essenza del significato e del modo di pensare di popolazioni che hanno avuto influenze diverse dalle nostre”. La sua prima pubblicazione poetica è Sillabario senza condono (PlaceBook Publishing, Rieti, 2020) volume che ha dichiarato essere dedicato al suo ex-compagno il poeta Gabriele Galloni (1995-2020), recentemente scomparso. Tra le sue letture preferite si ritrovano le opere di autrici intimiste e confessionali quali Sylvia Plath, Amelia Rosselli e Anne Sexton, poetesse accomunate dal nefasto epilogo suicidario.  

Nella nota critica di Alberto Barina, che accompagna le liriche del volume, è possibile leggere: «È un esordio poetico importante quello di Giorgia Deidda che con la sua poesia ci trascina dentro una scrittura già decisamente matura […] La consapevolezza del dolore, dell’inadeguatezza al quotidiano, la lucidità di saperne cogliere attimi, sfumature, momenti e l’abilità di ‘liberarsene’ attraverso la scrittura. […] I [suoi] testi si presentano […] quali frutto di una sorta di scrittura automatica, […] poesie molto più brevi, condensate, a tratti enigmatiche, ermetiche, cariche di immagini visionarie, dove il lettore deve abbandonare le proprie certezze e la propria visione delle cose ‘in orizzontale’».

A continuazione una scelta di testi estratti da Sillabario senza condono.

Conta fino a tre e senti il mondo spegnersi;

è la fine.

La distesa nera non sa che d’inchiostro, e le luminose fisse,

le mie stelle da comodino

non spiano più i tuoi passi. E gli anni

colano sul cuscino, una chirurgica

fama di folla che si scolla come carta.

Stringo le dita a pugno, ma la ferita

mi cancella come gesso su una lavagna.

Io non esisto, se non ora,

se non nel tempo della distruzione metafisica della memoria.

Gli orologi ticchettano ed intralciano

l’ingorgo dei nervi, strappano

l’immagine perenne, la tua faccia scorticata e ferruginosa

che ancora balbetta parole di ghiaccio.

Non ti comprendo. E io continuo a dormire,

con un brillio di scaglie che mi attanagliano

la morte dei sensi, il sonno profondo.

La paralisi più soffice, l’immobile nulla da addentare

che culla

la veste nuziale del ricordo, un pallore affaticato;

inciampo in stralci di tessuti e cuori bruciati,

mentre un verminoso sorriso stentato

mi pasticcia la faccia.

***

Disinnescato l’attimo in cui

io ero preda del vuoto, ho ricreato specchi per buttare sassi al mio volto,

ed odiarlo fino a farlo diventare scarno.

Nessuno sa l’inferno,

di avere un manto prezioso e non poterlo far vedere,

di indossare collane con gli artigli mentre

il sangue sgorga viscoso e lento su tutto il corpo.

Dio, mi perdono per tutte le promesse, giuro che non ne farò altre, disegnerò il bianco del mare e la sua spuma

e poi mi rannicchierò nella paura,

l’ultima cosa che mi tiene in vita.

***

Io non voglio morire ma se possibile,

offritemi un piatto abbondante,

dove le stelle si riuniscono per farmi camminare,

e dove le bottiglie di vino sono ancora piene

e io non ho alcun bisogno di farle sparire.

Dio, ridammi il piacere del gusto, ché l’ho perso di nuovo,

ha lasciato spazio ad un’ignominia e scalfita sorte, e io la protagonista

che mi barcameno senza sosta.

In fondo ciò che chiedo è requie, senza morte,

perché io voglio vivere e sentire ed amare – ecco quello che mi manca –

e stringere con le mie dita qualcosa che non sia più etereo ma che abbia forma.

Fammi essere me stessa, o cambiami, trasmutami,

fà di me quel che vuoi.

Intanto, riposo.

***

Quest’anima mia la costruisco ogni giorno, mentre lavacri di sogno

permeano il blu delle fresche notti, passate tra le lacrime.

Questa mia anima è sovraccarica e spenta,

le ci vorrebbe

una cosa completa e ritagliata, infilata esattamente tra i bordi, nessuna sbavatura,

la si dovrebbe ricucire con cura con petali di rosa,

stirarla e re-indossarla come una vecchia giacca.

Ma io sono troppo cresciuta e mi sono fatta stretta, e per allargarmi

ci vorrebbe

una pinza grande di quelle che tagliano le bordature,

levigata per bene e fatta su misura.

Non crediate che le anime siano tutte gemelle di chi le porta addosso;

molto spesso strabordano e si fanno aria, lasciando pezzi di vuoto,

spesso scarseggiano e ci si vuole innamorare, innamorare, innamorare

per non sentirsi soli.

Beato chi, invece, ha l’anima perfetta;

eppure anche lui ha i suoi crucci.


La pubblicazione dei testi poetici su questo spazio è stata espressamente autorizzata dall’autrice senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. La riproduzione del testo ivi pubblicato, in formato integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto è espressamente vietato senza l’autorizzazione dei rispettivi autori e la citazione del riferimento dove è apparso (nome blog, data, link).

“Dialogo col cielo” di Michela Zanarella tradotta in albanese da Arjan Kallço

Dialog me qiellin

Michela Zanarella

Traduzione di Arjan Kallço

Agu ende i ruan konturet e natës

Dialogu i dritës së një ylli

Kurrë s’u ndërpre

Na drejtoheshin neve reflektimet e reve

Donin të na thonin që t’ua vinim veshin

Shenjave të qiellit

Ndonjëherë në dritën e ditës

Fshihet një ëndërr e parealizuar.

Bota dremiste por yjet nuk i dredhonin

Dashurisë që përparonte lart

Përmes lëvizjeve të hënës në lulëzim.

Dialogo con il cielo

di Michela Zanarella

L’alba ha ancora i lineamenti della notte

il dialogo di luce di una stella

non si è mai interrotto

erano rivolte a noi le riflessioni delle nuvole

volevano dirci di prestare ascolto

ai segni del cielo

a volte nel chiaro del giorno

é nascosto un sogno irrisolto.

Il mondo dormiva

ma gli astri non si sottraevano

all’amore che avanzava in alto

con le movenze della luna in fiore.

  • La poesia e la sua traduzione vengono pubblicate su questo spazio con il consenso degli autori che non hanno nulla a pretendere né all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ fatto divieto di copiare, riprodurre e appropriarsi di parti o degli interi contenuti dei testi, la cui autorizzazione sull’uso va richiesta agli unici autori, sollevando il blog da qualsiasi disputa possa insorgere.

Lorenzo Spurio su “Amazzonia verde d’acqua” della brasiliana Márcia Theóphilo

Sulla rivista online “Kmertro0” è stato pubblicato nella giornata di oggi l’intervento critico di Lorenzo Spurio sul nuovo libro della poetessa brasiliana Márcia Theóphilo, voce indiscussa dei diritti delle popolazioni indigene, Amazzonia verde d’acqua uscito per Mondadori nei mesi scorsa. L’approfondita analisi è stata pubblicata sotto il titolo di “Io canto il verde che va difeso. Márcia Theóphilo contro le barbarie dell’uomo che distrugge la sua unica dimora”.

Márcia Theóphilo, già vincitrice – tra gli altri – del Premio alla Carriera del Premio “Città di Vercelli – Festival di Poesia Civile” e del Premio di Poesia “L’arte in versi” di Jesi.

A continuazione un estratto di questo testo: “L’ultimo libro della poetessa brasiliana Márcia Theóphilo, Amazzonia verde d’acqua (Mondadori, 2020), può essere considerata la summa della sua opera letteraria dal momento che prosegue in un percorso iniziato ormai decenni fa, se si pensa che i primi libri pubblicati dalla poetessa e antropologa nativa di Fortaleza e da molti anni in Italia, vennero pubblicati negli anni Settanta. Il nuovo volume – non una vera opera omnia – presenta al suo interno alcuni testi già letti altrove, in sillogi precedenti, in lavori che hanno avuto ampio apprezzamento e diffusione se si pensa che, a tutt’oggi, la Theóphilo è tradotta in numerose lingue, tra le quali anche lo svedese, oltre alle maggiori lingue del ceppo neolatino. Il volume si presenta corposo al tatto ma di agevole fruizione nelle tante liriche che lo compongono, adeguatamente provviste della loro versione in portoghese-brasiliano (non è dato sapere se sono nate direttamente in questa lingua e poi “versate” nel nostro idioma o il contrario, ma tant’è); i materiali sono divisi in alcune sotto-sezioni che in qualche modo “anticipano” e agglutinano le varie simbologie e campi concettuali che la Poetessa intende far prevalere”.

Per leggere l’intero saggio di approfondimento cliccare qui.

La Grazia, la carne e il diavolo: “Il cielo è dei violenti” di Flannery O’Connor. Recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini

Breve la vita (in)felice di Flannery O’Connor (1925-1964) – georgiana discendente da una famiglia cattolica irlandese stabilitasi in America – a contatto costante e doloroso con un male invalidante e progressivo combattuto tenacemente grazie ad una fede radicata e personalissima, all’illusione di amori sognati e mai giunti, soprattutto alla devozione strenua per una letteratura che le apparve subito espressione traumatizzante e integrale di “tutto ciò che è umano”: non “emozione disincarnata”, bensì adesione convinta alla concretezza della realtà, la quale pure cela in sé, naturalmente, una valenza altra, “epifanica, anagogica” che spetta al “dono/grazia” potente della scrittura “disvelare e liberare”[1].

Flannery O’Connor

Meritoriamente e nella nuova, convincente traduzione di Gaja Cenciarelli la Minimum fax ristampa ora Il cielo è dei violenti (1960), scabroso, visionario, per certi versi sconvolgente bildungsroman incentrato su una fra le più riuscite e indimenticabili figure di adolescenti del ‘900, Francis Tarwater – “zigomi piccoli e magri come le braccia di una croce, anima appesa a testa in giù, nato da una Gezabele svergognata” – “incredibilmente vicino” allo Skyler di Sorella, mio unico amore della Oates (comune alle due autrici una tendenza al gotico-noir) e così lontano dai tanti eroici, ironici Oskar, con la c o con la k, con o senza tamburi di latta. Nei territori familiari di un profondo Sud primitivo e rurale (anno 1952, unica marca temporale citata indirettamente a p. 54) il violento Mason, “voce ghiaiosa e collo taurino”, sedicente profeta vittima, come tutti i profeti,  dei mali del mondo e anche del Signore (ingrato servirlo, fatica e tanfo della Croce, incontri con girandole di luce e bestie sconosciute dalle ali di fiamme e ben quattro teste rivolte ai quattro punti cardinali dell’universo, quattro quanti gli anni trascorsi in manicomio contro i soli quaranta giorni di Ezechiele nel pozzo), chiamato sin dalla prima gioventù, “ad arrancare all’ombra pestilenziale di Gesù” e, “dilaniato dallo sguardo di Dio”, proclamare l’esplosione del sole nel sangue e nel fuoco, rapisce il pronipote Francis Marion su ispirazione divina educandolo in un bosco, come Elia con Eliseo, per testimoniare la Redenzione, liberarlo dal contagio demoniaco della scuola e avviarlo, in purezza, a perseguire la sapienza di compagni eletti quali Abele, Enoch, Noè e il Battista, probabilmente il primo della classe. Missione in bilico tra credenze ancestrali e follia, già tentata ma fallita con lo zio di Tarwater, Rayber, figlio della sorella e fratello della madre alla cui morte il ragazzo era stato affidato: vita metodica di abitudini sincronizzate sui parametri del razionale buon senso, calviniano osservatore del mondo (“la mia porzione di felicità è in ciò che posso vedere e fare per me stesso e per i miei simili in questa vita”), anche se la tara familiare di una mistica, barbarica ebbrezza scorre nel suo sangue e il retaggio del passato trascorso con Mason si ripropone nelle forme di una temuta, irrazionale, impetuosa ed esigente “ondata d’amore” cui, risoluto e silenzioso, il maestro (la sua professione) non accetta di cedere né vuole vi ceda il nipote. Conteso da queste (tanto diverse?) personalità si consuma – scomposta, esile e toccante – l’esperienza vitale di Francis che, novello Mosè…o Giosuè, o Daniele, affronta la nemesi di una crescita senza gioia vissuta nella disperazione di una alienata, dissociata solitudine. Se non fosse che un elegante Sconosciuto, saggio e sarcastico alter ego interiore assordante e asseverativo (forse l’intuizione più geniale del libro), voce di una coscienza inquieta – voce dell’Eterno o di Satana…dove finisce il territorio del diavolo e inizia la vigna del Signore? – insinua in lui il dubbio, ne tocca  “la corda civile” e lo pone, con i toni persuasivi e raffinati dell’intrigante Monsieur des Oiseaux di Santucci, di fronte alle delicate, nodali problematiche della scelta, del rimorso, del libero arbitrio, del male nel mondo e del suo senso ultimo, del dolore, spesso intollerabile, che questo provoca quando si presenta come un destino crudele e immeritato. Così è accaduto proprio al tollerante e (come Giobbe) paziente maestro Rayber con il figlio Bishop avuto da Bernice (una sola vocale in meno e, svanito ogni mitologico fascino, il nome precipita nel “ridicolo”), struggente immagine di bimbo privo di senno dallo sguardo vuoto e perduto: difficile sublimare il tutto nella palingenesi della finale Redenzione, umano cedere allo sconforto o al gesto inconsulto.

Ci fermiamo qui. Se risulta ingeneroso riassumere il romanzo della O’Connor – percorso costantemente dal richiamo, non privo di ironia, ad una devozione oscura e potente che (come recita il titolo, versetto di Matteo tradotto dalla Bibbia) si impone con la forza atavica e spasmodica di Rebora e Jacopone contro le istanze di una ragionevolezza laica, lucida sino al più cinico egoismo – certamente leggerlo costituisce un’esperienza unica che trascina, mai innocentemente, il lettore, destinato a confrontarsi anche con uno stile sontuoso, solo apparentemente referenziale, spesso connotato da toni espressionistici e intensamente lirici. Così, ad esempio, “i boschi dietro la radura correvano in falde grigie e viola fino a toccare l’azzurra fortezza di alberi schierati contro il cielo del mattino” e “schizzi di sole, vescica bianca e furibonda vengono lanciati” sui viali di una città degli uomini e non civitas Dei, perverso inferno di “maligne teste basse e parole borbottanti”[2], mentre suggestivo risulta il ricorso alle similitudini in funzione descrittiva e la nebbia è “una striscia gibbosa che avanza come un segugio pronto ad accovacciarsi”, il sospiro “una stanca folata di sabbia sollevata e poi lasciata cadere di colpo dal vento”, gli occhi “due guizzanti pesci argentati che tentano di liberarsi da una rete di fili rossi”[3]. Proprio gli occhi – insieme agli elementi simbolicamente contrapposti dell’acqua (non consacra solo la rinascita battesimale) e del fuoco (non semplice fonte di francescano calore, come del resto conferma molta filmografia americana) – costituiscono nella scrittrice un topos ossessivamente ricorrente: “d’acciaio o d’argento, ciechi, socchiusi, dilatati, velati di conoscenza e iniettati di sangue, pieni di niente o privi di dignità, vacui, feroci o del colore di un lago al crepuscolo”[4] risultano assolutamente funzionali non solo alla definizione psicologica di tutti i personaggi, ma alla costruzione di intere situazioni narrative. Forse una coincidenza, solo lo Sconosciuto non ha sguardo…[5]

MARCO CAMERINI


[1] Le riflessioni teoriche, citate fra virgolette, sono tratte da FLANNERY O’CONNOR, Nel territorio del diavolo. Sul mistero dello scrivere, Roma, Minimum fax, 2003.

[2] Passim dal testo.

[3] Passim dal testo.

[4] 64, 66, 71, 83, 89, 99, 102, 108, 109, 114, 156, 165, 172 sono solo alcune – le più significative – delle pagine in cui, a diverso titolo, è presente il campo semantico dello sguardo.

[5] Cfr. p. 53

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