N.E. 01/2023 – “La ragione della polvere” di Luca Pizzolitto: l’estrema fragilità del vivere. Recensione di Laura Vargiu

“E il naufragio ci colse nel sonno,/ nella quiete di un mattino d’aprile/ l’illusione di dividere l’azzurro in tanti,/ piccolissimi pezzi da conservare/ nello spazio sacro del sogno.”

È una raccolta poetica di pregio e raro fascino quella intitolata La ragione della polvere, uscita nel novembre del 2020 con la casa editrice peQuod di Ancona.

L’autore, il torinese Luca Pizzolitto, classe 1980, si dedica alla poesia da una ventina d’anni e ha all’attivo importanti premi letterari (tra i vari, il Premio Internazionale Città di Latina, 2019) e pubblicazioni nel settore. La sua è una scrittura fortemente incisiva che, già a una prima lettura, non può non lasciare traccia nella sensibilità del lettore.

“La cenere cadrà/ sui nostri giorni stanchi,/ il mio corpo troverà/ finalmente riposo./ Nel giaciglio disfatto/ di una parola mai nata,/ irrimediabile.”

Quelle della silloge in questione si rivelano pagine particolarmente intense, suddivise in cinque sezioni, nelle quali si riflette un io poetico consapevole che la vita “è questa cosa atroce e fragile” e “tutto ciò che vive soffre”; in essa, il tempo, che “scivola nel tempo”, fluisce facendosi spesso silenzio inquieto e disperato, nonché intima sofferenza. Nemmeno la luce dell’alba finisce per recare con sé autentica quiete all’anima.

Il mondo ritratto dal poeta, dunque, si rivela pregno di dolore, sebbene alcuni passi trasmettano un senso di pace ineguagliabile (“[…] Due monaci cantano/ il Magnificat:/ nel mio corpo, con dolcezza,/ scende la sera.”; “[…] La quiete di un istante,/ nell’accadere del nulla.”), mentre l’esistenza assume il sapore dell’esilio in quello che viene definito lo “sterminato silenzio di Dio”. Di quest’ultimo si respira di continuo l’assenza, il vuoto lacerante che pare ricordare all’uomo la propria condizione di estrema fragilità dove anche l’amore è intriso d’addii e parole amare.

“[…] Ti scrivo queste poche righe,/ ti scrivo mentre ancora abito/ la parte oscura del cuore,/ il desiderio incontenibile/ di essere amato.”

La dimensione del ricordo s’adorna di una nostalgia a tratti rabbiosa; nel suo spazio, tuttavia, si cerca e trova comunque rifugio. In fin dei conti, la vita stessa resta “un voltarsi, inconsapevoli,/ verso i volti amati, le cose perse,/ gli istanti di luce,/ i piccoli, brevi istanti felici.”

Attraverso immagini immediate e un linguaggio potente e suggestivo pur nella sua semplicità, la penna dell’autore si muove con assoluta maestria tra luce e ombra, stagioni e abissi dell’anima, all’incessante ricerca del senso del nostro umano vivere, sempre così difficile da trovare (e accettare), prima che la polvere, nella quale si tramutano a poco a poco i giorni, ricopra oggetti, corpi, sentimenti.

“[…] Ho osservato inerme il morire,/ l’inesorabile farsi polvere/ e svanire di tutte le cose.”

La ragione della polvere è un emozionante e coinvolgente viaggio in versi nelle profondità del sé talvolta sconosciute, mentre passato e presente si intrecciano e, forse, confondono. Senza dubbio, un’opera di notevole maturità poetica tanto per la forma quanto per il contenuto.

Curatore della collana di poesia portosepolto per conto della peQuod dalla fine del 2021, Luca Pizzolitto ha pubblicato con la medesima casa editrice anconetana, sempre all’interno della collana Rive, anche la successiva raccolta Crocevia dei cammini (2022). Il suo blog personale è www.lucapizzolitto.blogspot.com

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Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

N.E. 01/2023 – Recensione a “Solchi nel bianco” di Franco Manescalchi. A cura di Anna Vincitorio

Le origini, per lui, sacralità e ricerca. Il caro nonno, “le nozze d’oro” che il tempo non ha scalfito. Quattro amici vicino e i calici di vino levati. Un semplice messaggio partito dal cuore che non invecchia e irradia gioia. Il legame forte di Franco con la madre che cuciva “le camicie a quadri…: a piede svelto su la pedivella”.

La madre che cantava cucendo. La madre che ha trasmesso in Franco, poesia. Il suo amore per ogni forma di bellezza: “la cupola grande del Brunelleschi/ ed ascolta/ un richiamo nel cuore/ Una volta per sempre figlio, figlio…”. Culto per la bellezza. Una bellezza umana di memorie di artisti, “volti amari, frustati dalla sferza/ della vita, quasi cancellati…”. Gioia, dolore, primavere all’inizio della vita e poi inverni, compagni del tramonto. Importante vivificare i ricordi e ritornare “alla siepe dell’orto/ come al mare/ più grande. Sotto la pioggia/ più non sorbisco il vino/ nel fervere del tino/ ora che conto gli anni alla rovescia…”. I ricordi sono vivi e caldi perché permeati d’amore. Un amore che abbraccia l’infinito. La casa antica che non c’è più, ma vive; il padre sotto il portico a riposare; la mamma a cucire accanto al fuoco; il vitellino – trampolante – nella stalla, il suo cane, il pane che la sua mamma faceva e le “castagne” che scoppiano sulle braci. In anni ormai lontani, per strada si vendevan “le bruciate” in sacchettini e il semellaio davanti alle scuole che gridava: semeli, semeli…

Semplici realtà che scaldavano il cuore in un tempo semplice dove ci sentivamo signori “con tre bricie e un dito di vinsanto”.

Una poesia che, parlando di cose semplici, sconfina in un infinito dove il parlare diviene sacro. “…Verso sera…tu ti fermasti lungo il viottolo/ affaticato/ avevi sete/ ti diedi l’acqua della mia mezzina/ che sapeva di pozzo/ Mi mettesti una mano sulla spalla/ come per dire grazie… Ed io/ divenni cristiano/ guardandoti negli occhi”. Intorno al mondo di Franco odore di cielo e di terra. A Franco piace ritornare al caminetto antico dove mette due legni a “fialoccare”. Non c’è nessuno intorno e lo assale, nostalgia. Sente i suoi anni di uomo solitario; solo, ma con il sentirsi sempre accanto i suoi perduti e mani tese verso quel fuoco.

Ha gli occhi volti alla natura: tra nebbie pallide e lontane “dietro una foglia il panorama appare”; l’Arno che scorre e all’orizzonte “le case mute di pietra cemento” e un vento triste sulla sera riporta il poeta alla realtà del suo scontento. Cosa può consolarlo? “la punta fiorita di un pennello/ apre un mondo che vivo s’indovina/ In una iridescenza di acquarello,….” e rivive il ricordo della donna amata, “quasi una bambina,/ mentre cogli i papaveri a mannello”.

Il mondo giovane di Franco è ammantato di fiori “come specchi”, di anemoni, fiori del vento e poi, le foglie d’autunno con la loro bellezza crepuscolare: “Voi siete la memoria dei fiori dell’estate”.

Ancora, vasi di fiori di campo e “distese di rosolaci (che)/ Insanguinavano i campi di grano/ giallo, non ancora brunito/ sgorgavano dalla terra profonda/ come sangue, a onda/ su campi di grano infinito”.

Franco Maescalchi

Le serene solitudini di Franco sono popolate di piccioni che “nella campagna si erano involati,/ ora sono con me, sulla poltrona,/ che qui in anni lontani sono nati./ Nacquero dal dolore: fu un gran volo/ perché mio padre se ne era andato/ lasciandomi nel giorno un po’ più solo…: ora che son tornati ai davanzali/ insieme a loro devo fare i conti/ E vorrei dirgli: spiegherete le ali/ quando la neve scenderà dai monti/ e nel candore blu dell’universo/ avrete scritto voi l’ultimo verso”.

Quando vado a trovare Franco, lo trovo col volto sorridente; il sole illumina il balcone e i suoi amici piccioni. La loro tenera giocosità, il loro volo lieve e il loro tubare, consolano Franco della tristezza del mondo. Tenera questa simbiosi tra Franco e gli uccelli: “Ne sottotetti dove hanno dimora/ oltre la mia terrazza e nella notte/ Mi sembra tutto un lieve pigolare/ come quello remoto, delle stelle/ E forse, mentre dormo un batter d’ali”.

Caro Franco che vivi nel tuo mondo di ricordi e di colori allietato dal volo dei tuoi amici piccioni. La tua solitudine trova compagnia in questi volatili che ti sono grati “per due semi da beccare”. Il tuo amico, detto il bianco, che ti guarda “con gli occhini rosso smalto”. Vola via, ma il suo esserci stato, diviene presenza, simbiosi. Franco vola con lui per poi ritornare “ed in studio, chiuso, resto”.

Ancora amore per Franco: il mare. L’attesa prima delle vacanze. Il grande respiro del “mar da cui tutto viene e tutto torna”. Il mare va ascoltato in silenzio…

Il bellissimo silenzio di Franco che si traduce in versi che, con parole chiare, aprono infiniti spazi all’amore.

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N.E. 01/2023 – “Il poeta e la poesia (Ai ragazzi del Liceo Classico “Galileo Galilei” di Firenze). Articolo di Nazario Pardini

Vedete, ragazzi, i poeti sono una specie umana particolare. Sono continuamente in volo, verso dove neppure loro lo sanno. Simili agli albatri baudelairiani non si trovano a loro agio sulle terra ferma, brancolano, zoppicano, vanno a tentoni; non stanno in equilibrio. Sì, sono nati per volare verso un’isola lontana, che nemmeno la si vede col cannocchiale. E intraprendono viaggi su zattere fragili e precarie, avventurandosi su rotte di difficile navigazione. Si impigliano in secche, sbattono su scogli irti e aguzzi, trovano bonacce, venti che scompigliano le vele; e spesso, con quello che resta dell’imbarcazione, mirano all’isola dei loro   appagamenti. Il fatto sta che non vedono fari, non scorgono stelle, e, continuando nel buio degli abissi, cadono in depressione, nel malum vitae, nello spleen, rendendosi conto dell’impossibilità di ultimare il loro percorso; dell’improbabilità  dell’impresa. D’altronde il viaggio è un po’ nelle corde degli umani. Quanta letteratura è stata spesa sul tema. Non mi metto qui a parlare di Omero, Virgilio, Dante, Baudelaire (O mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre!) o dello stesso vostro conterraneo Mario Luzi. Forse perché l’uomo in generale ambisce a qualcosa di più; a superare i limiti della sua precarietà, della sua incompletezza, del suo essere mortale fra i mortali. Ed allunga lo sguardo verso orizzonti impossibili per la sua miopia; ne deriva un pascaliano conflitto tra rien e tout, cosicché la sua posizione fra la caducità del terreno e l’infinitezza a cui ambisce crea in lui una inquietudine perenne che è anche il focus del canto. Questa è un po’ la poesia, la sua anima: sentimento, memoriale, fuga dall’essere, immersione nella vita, rivisitazione del vissuto, cristallizzazione delle immagini, osservazione, descrizione, simbolismo, armonia; e parola. Quest’ultima è ciò che determina la potenza del poièin, cercando con tutti i mezzi a disposizione di rendersi effettiva, significante, concreta: si spezza, si arrotonda, si sfuma, si contrae, si metaforizza, per unirsi in iuncturae assemblanti; per rendere visivo e corposo il messaggio dell’anima. L’arte ha sempre avuto bisogno di qualcosa di più della semplice parola; di andare al di là della canonica morfosintassi con voli etimo-fonici o sinestetici-allusivi. Tante sono le vertigini emotive accumulatesi e altrettante quelle figurative determinate da paesaggi naturistici che hanno inciso sul vivere. Quante volte, voi stessi, avete vissuto una storia sentimentale, un incontro, una simpatia, che, lì per lì, non hanno avuto un grande prosieguo. Col passare del tempo ritornano a mente quei momenti; rinnovati e adornati da un sentire storicizzatosi riappaiono con tutto il loro potere emozionale: poco hanno a che vedere con la realtà; tutto si è ingentilito, spiritualizzato; tutto si è fatto materiale per la poesia dopo un riposo fertile in un animo caldo ed ospitale, in un animo polivalente, sensibile e plurale; persino un avvenimento scolastico, pur di poco conto e trascurabile,  o uno sguardo di un’amica vicina di banco, si traducono  in qualcosa di più del semplice fatto reale; assumono connotati idealizzati, trasferiti nel mondo del trascorso. E tutto apparirà dolce, amabile, nostalgico, perdendo ogni smussatura negativa, ogni insignificanza nel pianeta delle ricordanze. Il compito della lingua è quello di dare corpo agli input emotivi, a quei risvolti ontologici che sentono l’urgente bisogno di tornare a vivere o in musica o in poesia o in pittura… È ciò che succede ogni giorno a voi giovani provando a concretizzare i vostri stati d’animo in messaggi telematici, in commenti scritti, in fotografie, in disegni… Avvicinarsi alla poesia vuol dire amare, vedere, osservare, descrivere, sentire; vuol dire dare armonia e senso alla nostra vita, ai nostri incontri, ai nostri patemi; vuol dire conoscere, imparare, e saper tradurre le nostre conoscenze in qualcosa che superi il personale per rendersi patrimonio di tutti. Comunque l’educazione al verso comporta una grande apertura spirituale. E quando leggiamo delle composizioni vicine ai nostri stati d’animo, proviamo sensazioni indicibili. Noi stessi diventiamo poeti, apriamo le braccia al cielo, gridiamo il nostro amore o la nostra deficienza umana; e il mare o la campagna che abitualmente cadevano sotto i nostri occhi assumono colori e significati sublimi. Ed è in quelle configurazioni visive che noi ci ritroviamo: nei ritmi leggeri delle onde sulla battigia, nei fremiti canori dei rami verdeggianti, negli abbandoni decadenti dei tramonti stanchi o negli orizzonti vasti ed infiniti.

E qui non voglio parlarvi del rapporto fra poesia e società, fra poesia e comportamenti; né del richiamo alla spiritualità che può avere sui giovani nel sottrarli ai pericoli del materialismo invadente, ai vizi di un sistema in balia dei disvalori… Voglio dirvi, invece, più concretamente, del mondo della scuola; delle programmazioni, del rapporto pesia-obiettivi trasversali, dell’importanza della pluralità del “poema”  nel perseguire certe mete didattiche, dove la conoscenza della prosodia, della metrica e soprattutto del dizionario risulta veramente atta a soddisfare certe finalità contemplate in una organizzazione preventiva. Di solito gli insegnanti inseriscono come obiettivi trasversali il potenziamento della comprensione; del lessico, delle capacità di osservazione e di descrizione…

Il poeta toscano Nazario Pardini

La poesia è lo strumento più adatto per conseguire tali traguardi, dacché richiede, come prima cosa, l’approfondimento delle conoscenze verbali, dei legami metaforici e significanti degli etimi, delle congiunture lessicali, per dare armonia e corpo agli intimi travagli; alle potenzialità creative. Per non dire della ricerca che la poesia stessa presuppone per ottenere tali risultati, visto che la comprensione è direttamente proporzionale al bagaglio linguistico personale. Saranno, poi, la fantasia, l’osservazione della natura, l’amore per l’amore, il gioco dei sentimenti a pretendere una preparazione più consona. Ma sia chiaro che ogni contenuto è buono per essere tradotto in arte, ammesso che sia filtrato dall’anima in stato di grazia ispirativa. La realtà di per sé non è sufficiente; è arida, senza apporto intimo: diceva un mio vecchio professore (grande poeta e scrittore): “Immagazzina, fai rifornimento, accumula, prima o poi qualche immagine tornerà a galla per essere impiegata. Fare i poeti non è cosa facile pur essendolo dentro di noi in più occasioni”.

Un sentito grazie per la vostra ospitalità.

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N.E. 01/2023 – “Simona Lo Iacono Versus Anna Maria Ortese”. Articolo di Gabriella Maggio

C’è un sottile  tessuto  che riunisce  libri e scrittori  nel sistema  della letteratura e struttura  rapporti particolari e insostituibil. Il fatto si è che ogni scrittore crea i suoi precursori e la sua opera finisce col modificare la concezione del passato, come modificherà il futuro, diceva Borges. A volte questa  relazione  tra gli scrittori  è tanto rarefatta che solo chi ha l’occhio abituato per  consuetudine alla lettura riesce a coglierla, a volte invece è esplicita, tal altra  è  una vera e propria drammatizzazione  come ne “Il mistero di Anna” di Simna Lo Iacono ed. Neri Pozza. Questo interessante romanzo della scrittrice siracusana racconta della bambina Cannavò Anna, poetica senza sapere cosa sia la poesia. Innamorata di tutte le parole, che la schiudono al mistero della felicità, che casualmente  incontra  la scrittrice Anna Maria Ortese . La storia è raccontata attraverso il diario di Anna e la corrispondenza tra R. e Anna Maria Ortese. L’occasione  dell’incontro è un concorso scolastico che offre  al vincitore  una settimana a Milano  in casa della scrittrice Anna Maria Ortese.  Cannavò Anna vince  contro le aspettative di tutti, ha 11 anni, frequenta la quinta elementare, ed è povera, si è procurata  i soldi del francobollo per spedire la lettera del concorso  facendo le pulizie in chiesa. L’incontro con la scrittrice sarà  per lei un itinerario di formazione e di riscatto.  Le scelte tematiche di Simona Lo Iacono, il suo insistere sulla responsabilità civile dello scrittore, sull’emarginazione,  sulla sua innata tensione poetica trovano eco  nell’ opera della Ortese, in particolare in, Il mare non bagna Napoli, soprattutto  nel racconto Il silenzio della ragione , e  nel romanzo L’iguana, esplicitamente  citate ed esaminate  ne “ Il mistero di Anna”, come  necessarie.

Il racconto Il silenzio della ragione individua  i limiti degli scrittori napoletani,  la loro  rinuncia ad allargare lo sguardo oltre se stessi e le proprie ambizioni, pur di raggiungere il successo, e nello stesso tempo prospetta una strada diversa più dura, ma più onesta, quella percorsa con sacrificio  dalla Ortese. L’iguana, che per la scelta di una protagonista inusuale  dà alla storia un andamento quasi di favola, attesta  l’ impegno della scrittrice per la giustizia, la sua volontà di riscattare le diseguaglianze del mondo, i poveri, i dimenticati. Il romanzo segna il superamento  del realismo, a cui pure A.M.  Ortese aveva aderito, incapace di  cogliere la complessità del reale…  lo stesso creato,dice la scrittrice in un’intervista , quand’anche fosse analizzabile in tutti i suoi strati, non risulterebbe realtà, ma pura immaginazione… L’iguana Estrellita  come Anna ha  l’impacciata incoscienza delle ambizioni del mondo. Non era forse una dimensione più grande, più profonda ?Si chiede la Ortese.  In questo pensiero si riconosce Simona  Lo Iacono nella Nota dell’autrice , alla fine del libro. La piccola Anna,  personaggio d’invenzione,  è il punto di contatto tra le due scrittrici. Potremmo dire  il mezzo, lo specchio. Entrambe  vedono  riflesso nella bambina  il momento aurorale ed incontaminato della creazione artistica e  in qualche modo come dovrebbe essere uno scrittore.   Dice esplicitamente  la  Ortese  a proposito di Anna: Rivedo in lei una parte lontana di me. La  più pura. La più povera, e per questo la più ricca. Al diario di Anna s’intreccia la corrispondenza tra la Ortese e R. , una donna colta che la scrittrice ha  conosciuto casualmente a Palermo durante il soggiorno  alla pensione Aurora Svizzera . Le  lettere ricostruiscono aspetti della biografia  e dell’opera  della Ortese che rendono ancora più esplicita la sintonia Lo Iacono – Anna/ Ortese –Estrellita. L’intertestualità  non costituisce  una diminuzione della qualità della scrittura e dell’invenzione narrativa di Simona Lo Iacono, ma  piuttosto manifesta  il loro chiarirsi ed accrescersi  attraverso il  rispecchiamento in  una  scrittrice  sentita affine. Fin qui  i romanzi  della Lo Iacono hanno mostrato  attenzione partecipe ed affettuosa alla condizione dei semplici, degli  emarginati, dei diversi. Adesso ne “ Il mistero di Anna” questa condizione diventa denuncia esplicita e programma di scrittura: Più sei periferico e più devi capire , dice la Ortese. Vuoi vedere che un po’ periferica lo sono anche io? Si chiede Anna. Se ami le parole devi andare a cercarle proprio dove nascono, e anche là dove mancano, conclude la  Ortese_/Lo Iacono.

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N.E. 01/2023 – “Il libro, manifestazione dell’essere”. Articolo di Tina Ferreri Tiberio

Il nostro secolo può essere definito il secolo della “multimedialità” e l’interrogativo di fondo che ci poniamo in questa cultura elettronica è il chiedersi se c’è ancora posto per il libro o esso è destinato ad uscire di scena. Alcuni hanno sostenuto in più occasioni la morte del libro o l’assassinio del libro da parte della televisione, per es o dell’ipertesto. Ma il libro è sempre un’esperienza a cui l’uomo non vorrà mai rinunciare: non basta leggere, occorre saper scegliere cosa vale la pena di leggere. 

Sant’ Agostino affermava: “Il Mondo è un libro e coloro che non viaggiano leggono solo una pagina.”

Orbene il libro rappresenta non l’orizzonte pressochè esaustivo del processo di apprendimento, come spesso è avvenuto, ma diventa uno dei tanti strumenti di cui l’uomo può disporre nei suoi processi di ricerca. Si tratta, cioè di assegnare una diversa identità al libro, non come matrice condizionante di sapere, bensì come strumento per la costruzione del sapere. Oggi, cioè, si guarda al libro non come al luogo di sistemazione del sapere, bensì come ad un insieme di pagine e contenuti che aspettano di essere interpretati, integrati, strutturati.  Leonardo Sciascia affermava che “Il libro è una cosa: lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, ma se lo apri e lo leggi diventa un mondo”.

Il libro cioè è uno strumento che aspetta di essere esplorato con intelligenza, che non si impone, ma si presta, non irrigidisce, ma alimenta, è lo specchio del nostro io.

Attraverso il libro l’individuo è portato a trovare risposte sempre più adeguate ai suoi problemi, alle sue esigenze, alle sue aspettative e il gusto del leggere, pertanto sollecita sempre più la capacità di autonomia cognitiva da parte dello stesso individuo, che si fa ricercatore e operatore del proprio sapere.                   

L’uomo non è un “io” separato dal mondo e messo in comunicazione con esso per mezzo delle sensazioni, egli è un organismo entro la natura che interagisce con l’ambiente, per cui da sempre l’uomo ha sentito il bisogno di raccontarsi, per es. i ragazzi tratteggiati dalla penna di scrittori, come Pasolini, ci vengono incontro con tutta la loro ricchezza esistenziale. Sono figure vive, concrete, non soggetti astratti di categorie sociologiche. E’ un modo per far parlare i ragazzi, per parlare con i ragazzi, usando la bellezza della letteratura, gli occhi partecipi dello scrittore e non la lente neutrale dello studioso.  

I libri non perdono mai il loro fascino, anzi con le nuove tecnologie informatiche, moltiplicano la forza di attrazione e la capacità di incuriosire. Quotidiani e televisione sono lo specchio del mondo e la scrittura è la risposta ad un reale bisogno comunicativo.

Leggere seriamente i testi degli autori antichi greci e latini, per es. significa consentire loro, di essere delle occasioni di sviluppo profondo per l’interiorità, l’espressività e l’eticità di noi lettori. Accostare le opere di oltre un millennio di cultura occidentale ha senso se il confronto con esse permette al singolo individuo di valutare la qualità e lo spessore umano dei propri sentimenti e delle proprie passioni; potenzia la raffinatezza, la fondatezza e la penetratività del proprio modo di esprimersi; ha senso se centra l’attenzione sul senso della propria vita e sui valori che la possono orientare.

Soffermiamoci sulla prima raccolta poetica di Montale “Ossi di seppia”. 

Lo stato di disagio e di inquietudine dell’uomo, chiuso nella propria crisi, si riflette in un linguaggio del tutto nuovo, pieno di suggestioni e spesso sconvolgente. Il punto di partenza della tematica montaliana è costituito dalla sua prima raccolta poetica: “Ossi di seppia”, pubblicata nel 1925. La realtà paesistica che nell’opera il poeta descrive ha una sua precisa fisionomia, è il paesaggio della sua natìa Liguria, colto in tutta la sua asprezza e squallore. I piccoli particolari della vita quotidiana sono presentati nella loro nudità e spigolosità: “rovente muro d’orto”, “sterpi” e assumono sotto la penna del poeta, un alto valore simbolico mettendo in luce la sua coscienza dell’aridità, dell’assurdità della vita, la quale non è altro che isolamento, esclusione, inutilità. Vivere, dice infatti Montale in “Meriggiare” non è altro che “seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Così in “spesso il male di vivere” la legge di sofferenza che domina costantemente la vita umana affiora negli aspetti più giornalieri della realtà delle cose: “è il rivo strozzato che gorgoglia”, “l’accartocciarsi della foglia riarsa!”, “il cavallo stramazzato” e l’unica salvezza dal male di vivere è “la divina Indifferenza”. “Non chiederci la parola, continua ancora Montale, che squadri da ogni lato l’animo nostro informe” “che mondi possa aprirti”. “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. La poesia, insomma, non può lanciare messaggi, non può dare certezze, ma solo qualche sillaba storta che esprime il crollo di qualsiasi mito, la consapevolezza del non essere.  D’altronde lo stesso Montale nella sua prima raccolta non esclude la possibilità di un mutamento verso cui il poeta tende nell’ansioso, ma consapevolmente vano tentativo di trovare una via di salvezza di fronte alla precarietà, al fallimento dell’esistenza. E’ questo il motivo cantato nel gruppo di liriche “Mediterraneo” poste al centro della raccolta, in cui il mare preso a simbolo di vita autentica, di positività, come quell’approdo, è purtroppo non raggiungibile per l’uomo, che sa di essere “della razza di chi rimane a terra”. 

Pertanto, nell’opera viene riaffermata la visione montaliana del vivere una vita senza fedi, senza certezze, senza “lume di chiesa o di officina” come egli dice in “Piccolo testamento”. Egli non ha seguito nella sua vita “chierico rosso o nero” orgogliosamente chiudendosi nella propria solitudine. L’uomo del nostro tempo, afferma il Montale, attraverso la metafora del prigioniero destinato alla morte, che può uscire dalla propria cella solo diventando accusatore e carnefice degli altri, è ben consapevole di essere oppresso da una società che lo condiziona, ma niente può fare per sfuggire a questo carcere. Egli avrà comunque un destino negativo, sia che si faccia complice, sia che rimanga vittima. Questa la lezione lasciataci da Montale: consapevolezza di vivere in una società priva di illusioni e rassegnazione ad un destino di solitudine e dolore cui opporre un rigore morale che non accetta compromessi.           

Per concludere l’uomo sente che il libro gli può dare risposte, ogni libro può diventare un mezzo per ampliare il proprio orizzonte di vita, per mettersi in relazione con i grandi spiriti del passato e così la lettura diventa un’attività fondamentale per far circolare sempre messaggi di bene e di bellezza.

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Bibliografia

Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, La Biblioteca di Repubblica, 2000

Eugenio Montale, Tutte le poesie a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, I Meridiani collezione, 1984

Walter J. Ong, Oralità e scrittura: le tecnologie della parola, Bologna, Il mulino, 1986, ed. orig. 1982

Guglielmo Cavallo, I luoghi della memoria scritta: manoscritti, incunaboli, libri a stampa di biblioteche statali italiane, direzione scientifica, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1994

Storia del libro. Storia di libri. A cura della prof.ssa Rosa Marisa Borraccini  PDF 2018

N.E. 01/2023 – “Nuove tendenze estetiche. La “poetry kitchen”. Che cos’è?”. Articolo di Giorgio Linguaglossa

Scrive il filosofo Slavoj Žižek:

«Non è che falliamo perché non riusciamo a incontrare l’oggetto, piuttosto l’oggetto stesso è la traccia di un certo fallimento.

Per questo Freud ha avanzato l’ipotesi della pulsione di morte – il nome giusto per questo eccesso di negatività. E il mio intero lavoro è ossessionato da questo: da una lettura reciproca della nozione freudiana di Todestrieb e di quella negatività auto negativa tematizzata dagli idealisti tedeschi. Insomma, questa nozione di auto-negatività relativa, così come è stata regolata da Kant fino a Hegel, filosoficamente ha lo stesso significato della nozione freudiana di Todestrieb, pulsione di morte – questa è la mia prospettiva fondamentale. Ovvero, la nozione freudiana di pulsione di morte non è una categoria biologica ma ha una dignità filosofica.

Cercando di spiegare il funzionamento della psiche umana in termini di principio di piacere, di principio di realtà e così via, Freud si rese conto via via sempre più della presenza di un elemento disfunzionale radicale, di una distruttività radicale e di un eccesso di negatività, che non possono essere spiegate.»1

La «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna (Stige. Tutte le poesie 1990-2002, Progetto Cultura pp. 150 € 12) ha bisogno dell’oggetto. È solo sull’oggetto che può costruire la struttura simbolica della sua poiesis. Per far questo Madonna è costretta a tenere in piedi, in qualche modo, la struttura trascendentale soggetto-oggetto, la struttura tragica. L’Imperatrice Teodora sa bene che sta parlando ai posteri e vuole auto assolversi dinanzi ai posteri visti come gli oggetti del futuro; analogamente i «barbari» che stanno arrivando sono un «oggetto» identificabile, bene identificato, sono un simbolo trascendentale ma ancora storico. E così il «peccato», la «lussuria», i «diavoli» etc. sono tutti oggetti ben determinati, precisi. È la civiltà dell’umanesimo che si nutre della dualità soggetto-oggetto, anzi, è fondata sulla dualità soggetto-oggetto. Con il crollo dell’umanesimo la poesia di Madonna si staglia con auto evidenza assoluta come l’ultimo monolite di quella civiltà. La pulsione di morte che attraversa la struttura simbolica della poesia di Madonna è una categoria dell’umanesimo.

Non sono completamente d’accordo con la tesi di Slavoj Žižek per il quale la nozione freudiana di pulsione di morte può essere utilizzata egualmente anche per una civiltà del post-umanesimo del capitalismo globale, anzi, sono propenso ad ipotizzare che la pulsione di morte svanisce nella «merce», cioè nel «valore di scambio». La nuova civiltà dell’epoca della tecnica o cibernetica sembra aver fagocitato la pulsione di morte, annullandola nella «merce». Il feticismo della merce conterrebbe al suo interno la pulsione di morte rimossa, se non addirittura cancellata. Questo è l’aspetto inquietante delle società post-democratiche, che il capitalismo è esso stesso il prodotto della tecnica e causa esso stesso della tecnica.

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N.E. 01/2023 – “La “Lucania” di Mario Trufelli: il senso dell’appartenenza senza alcun possessivo”. Articolo di Vito Davoli

La Lucania è terra che ha dato i natali a poeti di intenso spessore che inevitabilmente hanno cantato il fascino dell’essenzialità e della durezza di una regione che, come poche, intesse continuamente relazioni creditizie e debitorie con la Storia; quella generale ma soprattutto la propria. Una terra che ha dato vita a straordinari poeti, da Rocco Scotellaro a Leonardo Sinisgalli, da Albino Pierro ad Assunta Finiguerra.

Accanto a questi nomi merita sicuramente menzione Mario Trufelli, lucano di Tricarico, lo stesso paese natio di Scotellaro. Premio Saint-Vincent per l’intensa attività giornalistica, ricordiamo che fu responsabile della Testata Giornalistica Regionale lucana della RAI. Di Sinisgalli fu allievo e amico e nel 1992 vinse il Premio Flaiano per la silloge Prova d’Addio. Ho scelto di ricordarlo attraverso i versi di una splendida poesia dal titolo, appunto, Lucania, parte della silloge L’indulgenza del cielo, che «con le sue 153 poesie, ha il merito di condurre il lettore in un viaggio unico con l’autore, lungo il suo straordinario e pluriennale percorso poetico e culturale» (N. Vitola)[1].

Io lo conosco
questo fruscio di canneti
sui declivi aridi
contesi alla frana
e queste rocce magre
dove i venti e le nebbie
danno convegno ai silenzi
che gravano a sera sul passo stanco dei muli.
È poca l’acqua che scorre
e le vallate son secche
spaccate, d’argilla.
Di qui le mandrie migrano
con l’autunno avanzato
per la piana delle marine
tuffando i passi nelle paludi.
Di qui è passata la malaria
per le stazioncine sul Basento
squallide, segnate d’oleandri.
Da noi la malvarosa è un fiore
che trema col basilico
sulle finestre tarlate
in un vaso stinto di terracotta
e il rosmarino cresce nei prati
sulle scarpate delle vie
accanto ai buchi delle talpe.
Da noi riposa il falco e la civetta
segna la nostra morte.
Da noi il mondo è lontano,
ma c’è un odore di terra e di gaggia
e il pane ha sapore del grano.

Una lirica intensa che intreccia alle raffinate evocazioni descrittive delle immagini di contesto una profonda riflessione, taciuta, nascosta, appena evocata in segnali semantici sparsi lungo tutto il dettato del componimento.

«(…) Silenzi / che gravano a sera sul passo stanco dei muli» oppure «le mandrie migrano / con l’autunno avanzato (…) / tuffando i passi nelle paludi» o ancora «la malvarosa è un fiore / che trema col basilico»… Tutti lievissimi accenni (straordinario il tremolio della malvarosa che quasi lascia intuire il resto dei dettagli stagliati sullo sfondo) a un movimento lento, impercettibile in un panorama di quasi assoluta fissità.

Trovo splendida questa poesia non solo per le meraviglie catturate e dipinte in un’atmosfera di lentezza e malinconia che mi paiono indiscutibili: i colori sono quelli dell’autunno e della sera, quasi sorprendenti nell’affresco di un panorama legato a una regione del Sud che probabilmente ci si aspetterebbe barocca di sole e di luce. Ma anche a questo non rinuncia il poeta, anche in questo caso racchiude l’evocazione dentro i suoi effetti, misurandola ancora in modo da non sconvolgere il panorama generale dato alla lirica: «È poca l’acqua (…) / le vallate son secche / spaccate». 

Epperò è il non detto a sorprendere davvero: un “silenzio” (oltretutto esplicitato – come significante e non casualmente – in un verso dove viene affiancato alla parola “convegno” insieme a nubi e nebbie) che dà all’intera lirica una forza che sembra quasi mancare alle delicatissime dinamiche rappresentate e che mi pare si esprima in due atteggiamenti l’uno celato, l’altro quasi sottinteso. 

Il primo: lo sguardo, celato appunto. I «declivi aridi / contesi alla frana», il passo stanco dei muli e delle mandrie, l’acqua che scorre e le vallate secche e spaccate; le paludi, le scarpate e i buchi delle talpe sembrano quasi oggetti di un’osservazione concreta che non stacca mai lo sguardo da terra, quasi a testa bassa in un atteggiamento che potrebbe essere percepito come rassegnata malinconia in un figurato passeggio: si ha quasi la sensazione di vedere il poeta, mani in tasca e – appunto – testa bassa, affondare i passi nella sua terra e descriverne tutto ciò che gli sale alla vista. Eppure non è rassegnata malinconia quella che si avverte.

Il secondo elemento, il sottinteso, conferisce all’intera lirica un carattere diverso e un sentimento più forte, direi di appartenenza che si esprime in un accenno di rivendicazione, un appena indicato tentativo di reazione. L’incipit assoluto «Io lo conosco» con un accento evidente sulla prima parola, l'”io“, sembra quasi voler sottintendere una negazione taciuta, una specie di “non tu” o “non voi” che sfuma le delicatezze descrittive di ogni verso con un colore più vivace, quasi polemico, risentito… e che trova eco negli iterati «da noi», «da qui»,, non da altre parti, non altrove.

Non casualmente la poesia termina con due chiuse: la prima è l’unico momento in cui quello sguardo a testa bassa si stacca da terra per osservare più in alto e incontrare la civetta che «segna la nostra morte» nella finale consapevolezza dell’inutilità e dell’ineluttabilità dell’assoluto; mentre la seconda («Da noi il mondo è lontano») sembra quasi l’identificazione finale di quel “tu” taciuto: il mondo, quello fuori dai confini metastorici qui rappresentati.

È un abbraccio stretto alla propria terra, una dichiarazione d’amore e di appartenenza che non ha vergogna di alludere anche a sentimenti diversi e più decisi. E il contrasto rende la lirica una sublime esaltazione di ciò che resta, tanto sul piano reale quanto su quello immaginifico, tanto sul piano semantico quanto su quello filosofico: l’essenzialità dell’ «odore di terra e di gaggia/ e il pane ha sapore del grano».

Mario Trufelli

È poesia con la P maiuscola quella che intesse al suo interno un profondo legame fra il detto e il taciuto e attraverso la perfezione delle immagini lancia ponti di percezione affinché il lettore si addentri in quello stesso percorso quasi guidandone i passi fino al punto di spiegarne i “perché” che qui sono tutti e semplicemente appartenenza e amore per la propria terra dove l’accento va, in modo particolare, sulla parola “propria”. Eppure non c’è un solo aggettivo possessivo in tutta la lirica! Non un “mio” o un “nostro” né un “tuo”. La potenza di tale significato è tutta affidata ad altro significante che qui è proprio la reiterazione dei «da qui» e «da noi» appena indicati.

La poesia avrebbe potuto intitolarsi tranquillamente “Terra MIA” ma forse l’identificazione netta, così come per le immagini descritte all’interno della lirica, con il nome della propria terra, la Lucania, è anche il nome di un amore vissuto, partecipato, vero; quasi della “persona” amata in un rapporto di scambio che è evidentemente biunivoco e reciproco o, per lo meno percepito, come tale. 

*

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[1] N. VITOLO in Francavilla Informa: https://www.francavillainforma.it/2020/06/29/lindulgenza-del-cielo-raccolta-di-poesie-di-mario-trufelli/

N.E. 01/2023 – “Annamaria Ferramosca, poeta del primigenio presente”. Articolo di Francesca Innocenzi

Nata a Tricase, in Salento, residente a Roma da molti anni, Annamaria Ferramosca è un’autrice di grande rilievo nel panorama poetico contemporaneo; a ragione di ciò, la commissione di giuria del Premio letterario da me presieduto, Paesaggio Interiore, ha deciso di conferirle il premio alla carriera.

Ferramosca ha lavorato come biologa docente e ricercatrice, ricoprendo al contempo l’incarico di cultrice di Letteratura Italiana per alcuni anni presso l’Università Roma Tre. Ha all’attivo collaborazioni e contributi creativi e critici con varie riviste nazionali e internazionali e in rete con noti siti italiani di poesia. È stata ideatrice e per molti anni curatrice della rubrica Poesia Condivisa nel portale poesia2punto0. È ambasciatrice per Italia e Puglia di Poetry Sound Library, mappa sonora mondiale delle voci poetiche.

Ha pubblicato undici libri di poesia, tra cui il recente Per segni accesi, Giuliano Ladolfi Editore, Premio Voci Città di Roma, selezionato al Premio Camaiore, finalista al Premio Lorenzo Montano; Curve di livello, Marsilio, Premio Astrolabio, finalista al Premio Camaiore; Other Signs, OtherCircles—Selected Poems1990-2008, libro antologico di percorso edito per Chelsea Editions di New York nella collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti (traduzioni di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti), Premio Città di Cattolica; Andare per salti, Premio Speciale ”Una vita in Poesia”al Lorenzo Montano, rosa del Premio Elio Pagliarani, finalista al Premio Guido Gozzano; Ciclica, La Vita Felice;Paso Doble, Empiria, volume bilingue di poesie a quattro mani, coautrice la poetessa irlandese Anamaría Crowe Serrano, che ha tradotto anche la raccolta Porte/Doors, Edizioni del Leone, Premio Internazionale Forum-Den Haag.

Sua è la cura della versione poetica italiana del libro antologico del poeta rumeno Gheorghe Vidican 3D-Poesie 2003-2013, CFR, che ha ricevuto il Premio Accademia di Romania per la traduzione.

È presente con testi poetici, recensioni e saggi critici alla sua scrittura in numerosi volumi collettanei, antologie e riviste italiane e straniere. Sue poesie, presenti nei più noti siti di poesia italiani, sono state anche tradotte, oltre che in inglese (Anamaria Crowe Serrano, Riccardo Duranti), in greco (Evanghelia Polimou), rumeno (Eliza Macadan), spagnolo (Antonio Nazzaro), turco (Mesut Senol), arabo (Sayed Gouda).

La poesia di Annamaria Ferramosca, che ha ottenuto attenzione e riconoscimenti a livello internazionale, canta per sprazzi e visioni le radici ancestrali del divenire collettivo; segue a ritroso il cammino verso l’essenza, che annulla le differenze e le divisioni tra gli uomini, così spesso disorientati dalla solitudine, dall’indifferenza, dalla violenza del mondo; adotta un linguaggio archetipico e nel contempo attuale, legato ad un sapere onnicomprensivo, dal mito alla scienza e alla tecnica. Il verso si snoda in un tempo atemporale, il dopo-prima del suono primigenio, denso, onomatopeico, pre-parola. E la lingua dei primordi, fono originario che ha il potere di unire tutte le forme di vita in un armonico cerchio, è proprio la poesia.

In particolare, con la sua ultima raccolta, Per segni accesi (Giuliano Ladolfi editore 2021), Ferramosca si distingue per un’ulteriore prova poetica estremamente densa di significati, richiami, messaggi. Come evidenzia Maria Grazia Calandrone nella prefazione, l’autrice percepisce la sottile «comunione terrestre di vivi e morti e altre forme viventi».

La suddivisione dell’opera in tre sezioni (le origini l’andare, i lumi i cerchi, per segni accesi) propone un progressivo climax verso un vertice che è esso stesso ponte, con il punto mediano che delinea la figura del cerchio: simbolo di un’unità e un’armonia esistenti come memoria ed auspicio. La «misura del cerchio» è quella volontà di coesione e di condivisione che sola può impedire l’inabissamento dell’umanità. L’univerbazione «fogliepietreanimali» esprime questa profonda unione tra gli esseri, composti della stessa sostanza, in una lettura del reale che scende fino agli enti microscopici (atomi, molecole), fondando l’indivisibilità tra spirito e materia.

Per sprazzi e visioni, l’io lirico canta l’ancestralità del divenire collettivo; segue a ritroso il cammino verso l’essenza, che annulla le differenze, le divisioni, le discordie, la sopraffazione da parte del più forte: «ibridi siamo e solo per amore/ ibridi camminiamo accanto per millenni/ lasciando a terra ibridi uccisi/ ibridi schiavi ibridi annientati/ il senso è oscuro o uno scuro/ disegno governa/ tutte le cadute le polveri/ i lumi le ricostruzioni». La ricerca intorno all’arché è condotta anche attraverso la terminologia delle scienze, nell’ottica di un sapere onnicomprensivo, che spazia dal mito alla tecnica.

Ritrovare l’origine significa nutrire una memoria di condivisione tra umani; e la poesia è lingua dei primordi, artefice e testimone del connubio tra le forme di vita. Affiorano così ricordi di un’età dell’oro, di una edenica armonia che permeava il tutto, prima che si edificassero muri divisori; reminiscenze dell’infanzia del mondo, dove il gioco è pienezza di senso; echi di un paesaggio mediterraneo come spazio mitico, fonte di inesausta narrazione: come nei racconti di Sheerazade, la parola-logos è in rapporto con la vita e con la morte. Si aprono a squarci bagliori di vissuto personale e immaginifici voli nel dopo. A livello globale si prefigura un futuro/passato in cui la deriva tecnologica cederà il posto al suono primigenio, denso e onomatopeico, alla pre-parola: «e noi/ presi alla sprovvista/senza nemmeno un ultimo selfie/ tornati nel deserto  disorientati/ da babel imbarbariti/di nuovo a balbettare/ in smozzicate sillabe/    bar bar bar».

Non mancano amari scorci di un’umanità disorientata dalle nebbie della solitudine, dell’indifferenza, dalla perdita del verbo originario. La distruzione che colpisce inesorabile flora e fauna – si vedano i versi di vita da riscrivere – è emblema di un male pervasivo, di una deflagrante disarmonia. Del resto, la condizione umana è perennemente precaria e in subbuglio; la transumanza, la migrazione le sono intrinseche: «noi, veri migranti/verso l’abisso». Non possiamo esimerci dall’abitare l’incerto, di vivere l’incontro come enigma. Il cambiamento ci accompagna silenzioso nelle cellule. E il ciclo di morte/rinascita, in quanto destino della specie e del pianeta, coinvolge la materia tutta. L’immagine di copertina, realizzata da Cristina Bove, che raffigura un biancore di vela svettante in una marina notturna, rinvia efficacemente all’idea di moto nel tempo e nello spazio, all’incessante divenire che si fa promessa per il domani: «verrà l’oceano/verranno le sue vele/ saremo nuovi per nuovi continenti».

Cosa sono, dunque, quei segni accesi che baluginano dal titolo, avvio, veicolo ed acme del percorso? Essi provengono da epoche molto lontane, dagli albori dell’umanità; sono la via per la rinascita, per collegare la fine all’inizio; sono musica, nella riproduzione di tempi, ritmi e suoni, a modulare la parola che vivifica l’esistere, qui e ovunque, ora e sempre, affratellando l’uomo all’uomo e all’universo.

Selezione di testi

da Per segni accesi, Giuliano Ladolfi Editore, 2021

piega verso settentrione il cammino

un capriccio obliquo della luce

segue la pelle bruna    la scolora

azzurrisce occhi    fa chiari i capelli

larga piove bellezza sulla terra

e ci fa ibridi lungo i meridiani

ibridi siamo e solo per amore

ibridi camminiamo accanto per millenni

lasciando a terra ibridi uccisi

ibridi schiavi ibridi annientati

il senso è oscuro o uno scuro

disegno governa

tutte le cadute le polveri

i lumi le ricostruzioni

(finché il sole irradia si ripetono

incontro disincontro

i segni sulla sabbia    indecifrabili)

*

fare tabula rasa dei pensieri

affidarsi al buio

con la sicurezza dei ciechi

sostare ad ogni angolo della notte

afferrare i lumi al baluginare dell’alba

sulla bocca delle sorgenti

nel luccichio delle nascite

verrà l’oceano

verranno le sue vele

saremo nuovi per nuovi continenti

*

è l’alba    sulle onde arrivano

dal mare di mezzo

non barche ma    cesti di gelsomini d’africa

culle intrecciate con erbe di savana

lasciate andare alla deriva

– verrà salvezza dalle acque –

a navigare verso un luccichio di nevi

a nord l’approdo dove

una lupa bianca forse sarà pronta

ad allattare nati non suoi

nord che saprà ancora riconoscere

il respiro caldo delle origini

memoria del cerchio a piedi nudi

era prossimità    danza battente

all’unisono con il ritmo del cuore

*

salvataggio da babel

ascolta ora    questa voce

in mp3 recorded   devi ricordare

come alter voci   a milioni   per il dopo

potrai salvarle? – per il dopo – dico

il dopo del grande sisma   il grande

regolatore   quando

il dio economico sarà crollato

caduto in pezzi pure il dio robotico

torcendosi in sordi borborigmi

                           bor bor bor

e noi

presi alla sprovvista

senza nemmeno un ultimo selfie

tornati nel deserto   disorientati

da babel imbarbariti

di nuovo a balbettare

in smozzicate sillabe

               bar bar bar

*

un marzo silenzioso con

lance spuntate

non fa più la guardia alla mia veglia

sul balcone la tortora nel nido

insieme a me attende il buio    forse

anche lei inseguendo un ricordo

che si fa segno quando

cicale neonate spuntavano pallide da terra

veloci abbrunavano alla luce

e già con furia finivano sapendo

la brevità del canto

il mio allenarmi per il grande volo

è sostare su vecchie foto in bianconero

rivedermi in quel semisorriso

tra tutti quei cari scomparsi

che mi tendono le braccia    m’invitano

salgo    mi metto comoda sui cirri

sotto il capo un cuscino

di foglie di limone    all’uso greco

il volo è leggero    silenzioso

senza vuoti d’aria    senza direzione

l’orizzonte ha cancelli ossidati   cigolano

per poesie rugginose ancora da rivedere

password dimenticate

ho lasciato

tutte le chiavi appese dove sapete

i libri ordinati negli scaffali

fieri    ben stretti

ricordate    vorrebbero di tanto in tanto respirare

esigono    come tutti

di avere incontri    essere aperti

(non solo spolverati)

*

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N.E. 01/2023 – “La visione in maschera e pessimistica di Luigi Pirandello”. Articolo di Sergio Camellini

Il pessimismo che permea tutta la concezione che ebbe Luigi Pirandello della vita, si fonda su un’originale visuale della nostra esistenza. L’uomo è costretto a vivere condizionato dal suo ambiente, dalle sue abitudini, dalla sua educazione. Per cui l’uomo, secondo Pirandello, deve controllare i suoi interessi, dominare i suoi impulsi ed i propri desideri fino a vivere interpretando una parte che gli è stata assegnata.  Se cerca di uscire da questa finzione, l’uomo si trova in un’altra realtà diversa dalla prima, ma ugualmente fittizia e del tutto falsa; è costretto ad assumere una maschera dietro la quale deve nascondere, anche se stesso, la propria identità. Identità che in sostanza muta di momento in momento, per cui l’individuo non può essere compreso dagli altri per quello che è effettivamente e, paradossalmente,  non può essere compreso  nemmeno da se stesso. Infatti, ciascuno di noi mentre mostra una certa personalità, successivamente si trova ad agire in modo da assumere una personalità diversa da quella precedente. Da questa concezione deriva il problema dell’incomunicabilità e dell’incomprensibilità che angustia l’essere umano e tormenta l’esistenza. Tale insoddisfazione in “maschera” è un tema che Pirandello ha sviluppato nei suoi romanzi, nelle sue novelle e nel suo teatro.  L’uomo cerca di sfuggire una vita angusta e priva di soddisfazione, ma questo rifiuto della vita, di una certa vita, è esso stesso amore per la vita, per una vita che ognuno cerca affannosamente di costruirsi. Per esempio, Il tentativo di evasione di Mattia Pascal fallisce in pieno e lo ricaccia in una nuova situazione mutata in peggio, in cui egli si trova senza la sua famiglia, senza i suoi amici, senza i suoi affetti. Il dramma dell’uomo è quello di non poter avere una propria individualità, perché ognuno diventa uno sconosciuto per sé e per gli altri.

La visione della vita che Pirandello ebbe,  ispirò le vicende dei suoi personaggi: “Io penso che la vita è una molto triste buffonata; perché abbiamo in noi, senza sapere, né conoscere, né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi, con la spontanea creazione di una realtà, una per ciascuno e non mai la stessa per tutti, la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria”. Di fronte alle concezioni di Pirandello la critica è stata molto divisa. Alcune critiche hanno fatto scaturire un sistema filosofico che è espressione dell’angoscia dell’uomo moderno e del suo mondo. Altre hanno tolto ogni valore a quelle idee e, tra tutti, Benedetto Croce vede nell’ideologia di Pirandello: “Espressioni di uno stato d’animo scettico, pessimistico, desolato, esasperato, di un uomo che si sente avvolto in tenebre non diradabili e vede cedere e sfuggirgli ogni punto sul quale tenta, o potrebbe tentare di appoggiarsi”. Al di là del pensiero di Croce, Pirandello fu un grande innovatore sia come drammaturgo che come  poeta e, non a caso, fu insignito del Premio Nobel per la letteratura; tant’è…

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Nuova veste grafica per il sito personale della promotrice culturale Gioia Lomasti

Gioia Lomasti, con la sua maestria nella scrittura e la sua passione per l’arte in generale, ha presentato il suo nuovo sito web gioialomasti.eu, diventando una figura d’eleganza nel panorama artistico. Originaria di Ravenna, la Lomasti collabora costantemente con numerosi autori e artisti, creando connessioni creative che danno vita a progetti congiunti sia a livello nazionale che internazionale. Queste collaborazioni si rivelano una grande occasione per lo scambio di conoscenze e competenze, arricchendo la sua produzione artistica con nuove ispirazioni stimolanti. Fin da bambina ha riversato nella scrittura la sua più grande passione, componendo opere in poesia e prosa che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti da parte della critica. La sua partecipazione a concorsi di poesia ed eventi culturali l’ha portata ad occupare un posto d’onore nel panorama letterario. Nel 2008, ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie intitolata “Passaggio”, un vero e proprio diario dal sapore emozionale. Nel 2011, ha creato insieme a Marcello Lombardo il blog “Vetrina delle Emozioni.com”, che successivamente si è evoluto anche attraverso il sito web vetrinadelleemozioni.com.  Attraverso “Vetrina delle Emozioni”, ha offerto un importante sostegno ai talenti poetici e narrativi in special modo a tutti coloro che necessitano di una maggiore visibilità. La fanpage Facebook di Gioia Lomasti racconta una parte del suo percorso artistico, mostrando l’arte, la poesia e la vita che lei stessa offre attraverso interazioni con il pubblico. Il suo nuovo sito web rappresenta la vetrina ideale per conoscere e apprezzare il suo talento, oltre che per scoprire le sue opere e le collaborazioni che ha intrapreso nel mondo della scrittura e dell’arte. Buona lettura

FONTE ARTICOLO

“Disadatti all’esilio” a cura di Giorgio Anelli. Recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Poche settimane fa, nella collana “Poesia” di Ladolfi Editore di Borgomanero (NO), Giorgio Anelli e Abigail hanno raccolto in un volume di pratica e piacevole consultazione una serie di testi scelti di poeti tra loro distanti (per appartenenza geografica, per periodo storico, per influssi e stile letterario) dal titolo emblematico Disadatti all’esilio.

Giorgio Anelli, che ha dedicato a Simone Cattaneo anche il prezioso volume di prose poetiche Di culto et orfico (Ladolfi, 2019), fornisce alcune considerazioni in merito a questa scelta d’inserimento. Nella quarta di copertina del volume (estratto dalla Prefazione) è possibile leggere: “Cosa c’entra un’antologia di poeti stranieri con Simone Cattaneo? Perché si è tentato un accostamento in apparenza bizzarro e inconsueto? E soprattutto, può avere senso? Forse, unicamente Andrea Temporelli ne potrebbe intuire la valenza ed il significato. Proprio lui [mi] […] raccontava del suo amico Simone Cattaneo, apostrofandolo quale nuovo Rimbaud. […] [La mia intenzione] […] è proprio quell[a] di dare (o quanto meno tentare di dare) giustizia al merito, ovvero di evidenziare una valenza europea ‒ se non addirittura internazionale ‒ nei versi, e quindi nell’opera, del poeta Simone Cattaneo”.

Ma chi era Cattaneo? Qualche nota biografica può risultare utile a chi non ha mai incontrato il suo nome né conosciuto i suoi versi lucidi e potenti. Simone Cattaneo (Saronno, 1974-2009) visionario e critico della società contemporanea, fu poeta irriverente e sfrontato. Nella sua poetica si avverte nettamente la tensione verso la libertà, la ricerca incalzante – fino al periglio – dello spirito libero. Dall’animo ribelle e refrattario al canone convenzionale, con la sua opera ha proposto la trattazione di tematiche vicine e afferenti non solo al disagio psico-emotivo e sociale ma anche alle condizioni spolianti, difficili e incerte dell’uomo nel contesto liquido e insicuro della società odierna. Il ricorrente dilemma esistenziale si coniuga alla crisi di valori e alla difficoltà di accoglimento in una società perennemente miope e disattenta. Pubblicò Nome e soprannome (Atelier, 2001) e Made in Italy (Atelier, 2008) mentre postuma è la raccolta-omnia Peace & Love (Il ponte del sale, 2012). Sulla sua opera poetica hanno scritto vari critici tra cui Roberto Roversi, Roberto Carifi, Andrea Temporelli, Giuliano Ladolfi, Davide Brullo, il sottoscritto e lo stesso Giorgio Anelli[1].

Cantore della disperazione e della vita appesa al filo (disoccupazione, malessere, solitudine, droga, immigrazione, violenza, etc.) Cattaneo è stato, pur senza volerlo, il Prometeo delle periferie, l’essere vagabondo che osserva criticamente, che denuncia con caparbia, che dice la sua in maniera netta e mai scontata, interloquendo con gli esponenti di una società dei recessi, che la norma non vorrebbe conoscere e finge di non sapere che esista. Come pure la loro richiesta d’aiuto silente. Autoironico e beffardo, non mancò neppure nell’atteggiamento cinicamente maldestro nei confronti di una società frantumata e colpevolmente disinteressata al bene sociale. In alcuni componimenti l’amara riflessione sul reale dà sfogo a un ripiegamento sofferto: “preferisco cercare una spiegazione che mi accompagni / dalla sera alla mattina come una sentenza capitale / che si possa eseguire solo lontano da te”.

A fianco di Cattaneo troviamo autori senz’altro importanti della letteratura internazionale seppur non propriamente canonici o ritenuti “classici” nel senso proprio del termine. In loro, per lo meno in senso generale e allargato, per ragioni di ordine diverso, la “consacrazione” unanime come autori imprescindibili non è mai giunta in forma inequivocabile. Ecco perché, con viva probabilità, i curatori del volume li accomunano a Cattaneo – maledetto contemporaneo – alla categoria labile e discutibile degli “esiliati”, di coloro che – sia in vita che in morte – sono stati minimizzati, tralasciati, più o meno volutamente dimenticati, relegati a una memoria asfittica e deludente, al cospetto di grandi indiscussi, giganti di pietra inscalfibili, auctoritas della contemporaneità.

Seguono nel volume le poesie di Emanuel Carnevali (Firenze, 1897 – Bologna, 1942). Entrambi i suoi genitori, che se lo contesero durante la sua infanzia per averlo con sé decretando in lui una condizione d’in-appartenenza e di squilibrio, erano italiani: il padre romagnolo, la madre torinese. La storia di Carnevali è quella di un racconto picaresco. Lasciata l’Italia alla volta degli Stati Uniti, lì visse a contatto con le sacche di emarginazione della metropoli a stelle e strisce imparando da autodidatta la lingua inglese e iniziando a scrivere versi (scriverà per sempre in quella lingua). Era ancora giovane quando venne colto da malattia e decise di ritornare nel paese natale. Condusse una vita disagiata in povertà e solitudine, passando da una clinica all’altra. Suoi i versi: “Io vado, solo come una roccia che sta / nuda e sola in un campo dove l’erba gioca. / Io vado, solo come un’orchidea in un bosco”. Unica compagna, fino alla fine dei suoi giorni, la scrittura che oggi ci permette di narrare la sua vicenda di disperato della nostra età. Autore sia di poesie che di racconti, molti dei quali raccolti postumi e riversati in italiano. Nel 1928, riferendosi alla luna, sua compagna di tante notti trascorse al freddo delle vie americane in compagnia di emarginati, scrisse: “Ma io voglio essere il tuo enfant terrible, / raccontare i tuoi segreti ad un branco di sciocchi, / raggirarti, tradirti, / Rivelare che la tua oscurità e il tuo candore / sono storie per creduloni”.

Incontriamo poi qualche opera dell’autore Benjamin Fondane (Iaşi, Romania, 1898 – Auschwitz, Polonia, 1944) scrittore e filosofo rumeno, di fede ebraica, naturalizzato francese. Fu vittima delle violenze antisionistiche del XX secolo. Negli anni ’20 fu nella capitale francese impegnato nell’attività di scrittore e pensatore. Secondo il suo approfondimento l’impegno in campo filosofico deve caratterizzarsi con una dimensione attiva, in un’azione, in una vera lotta in difesa della libertà. Arrestato nel 1944 dalla polizia collaborazionista della Repubblica di Vichy, venne deportato a Drancy e infine ad Auschwitz dove, come tanti, venne annientato nelle fameliche camere a gas. La sua opera maggiore viene considerata il Falso Trattato di estetica. Saggio sulla crisi del reale (1938).

Anelli ha inserito nel suo lavoro anche Catherine Pozzi (Parigi, 1882-1934) che sin da giovanissima fu a contatto con il mondo della cultura (i suoi genitori frequentavano, tra gli altri, Proust e Colette). Dal 1913 siglò le prime pagine personali di quello che sarà il suo “diario d’adulta” che non abbandonerà per tutta la vita e che oggi, quali strumento para-letterario, ci aiuta a conoscere la sua persona e ad approfondire la sua caratura intellettuale. Unita da una relazione turbolenta con il poeta simbolista Paul Valéry[2] (undici anni più grande di lei e al quale dedicherà la famosa poesia “Vale”) fino al 1928. Per mezzo di quest’ultimo conobbe un altro grande delle Lettere, Rainer Maria Rilke col quale fu platonicamente unita da una fertile corrispondenza datata 1924-1925. Nel 1927 pubblicò il racconto autobiografico Agnès e due anni dopo “Ave”, la sua unica poesia pubblicata in vita. Già cagionevole di salute da ragazza, i suoi ultimi anni furono segnati da un’infermità pesante.

La sua poesia è viscerale e appassionata, alimentata dagli ambienti foschi della notte, improntata alla predilezione dell’analogia, vicina all’orfismo mistico. Alcuni potenti versi impregnati di scavo emotivo e perlustrazione filosofica destinati all’amato Valéry ben evidenziano la sua ottundente passione di donna e l’originalità di poetessa: “Io ho ritrovato il celeste e il selvaggio / Il paradiso dove l’angoscia è desiderio. / L’altisonante passato che cresce di età in età / È il mio corpo e sarà il mio senso / Dopo la morte”.

Spazio anche a Victor Segalen (Brest, 1878 ‒ Huelgoat, 1919), scrittore, poeta, archeologo e critico letterario. Come archeologo importante fu il suo soggiorno nella Polinesia francese nel periodo 1903-1904. I suoi numerosi viaggi lo portarono anche in Cina e Giappone. Scrisse opere sul pittore Gaugain e il poeta Rimbaud, entrambe uscite postume. A lui è dedicata la seconda università della città di Bordeaux.

Il volume propone anche la quasi (completamente) sconosciuta Marceline Desbordes-Valmore (Douai, 1786 – Parigi, 1859) di professione attrice e cantante, che si esibì in varie circostanze a Bruxelles. Autodidatta, la sua prima raccolta di poesie, Élégies, è datata 1819. A questa seguirono altre raccolte che le diedero di che vivere, oltra a qualche premio a livello accademico. Seppur abbastanza nota al periodo, anche grazie alla considerazione di Baudelaire di cui vi è traccia, oggi è quasi completamente misconosciuta (di certo nel nostro Paese), sebbene possa essere considerata una precorritrice della poesia francese moderna. Complimenti, dunque, anche in questo caso, ad Anelli per il curioso “recupero” e per la riproposta della sua vicenda esistenziale, seppur in pillole, e del suo trascorso poetico. Una delle potenzialità di questo libro è proprio quella di accogliere questi “spunti” per un’eventuale ricerca delle loro opere e un approfondimento. Lirismo intenso e asciutto, il suo, dedicò anche alcuni versi al primo figlio morto, richiamato con il nome di Oliver. In una lirica amorosa leggiamo: “Ma se viviamo solo nella speranza e nell’allarme, / Smettiamo di vederci, / Condividiamo al meglio: io trattengo le lacrime, / Tu continua a sperare”.

Prima fila (da sinistra): Simone Cattaneo, Emanuel Carnevali, Catherine Pozzi e Victor Segalen.
Seconda fila (sa sinistra): Marceline Desbordes-Valmore e Benjamin Fondane.

Per concludere possiamo dire che quelle incluse in quest’opera sono voci particolari, senz’altro non canoniche, fuori dagli schemi ordinari e, in qualche caso, di insoddisfatti della vita, o di rimasti relegati al loro tempo storico in cui sono vissuti. Parole che in certi casi si fanno ispide, irruente ed emblematiche, dolorosamente ambigue, atte ad esprimere, proprio come i “pugni di Cattaneo, unici, irripetibili, inimitabili” il senso di disagio, l’in-appartenenza, la vulnerabilità, l’in-ascolto, la lontananza, la complessità del proprio io interiore. Un Parnaso degli inferi, potremmo dire, senz’altro un diorama complicato e frastagliato, poco approfondito, di certo in questa chiave antologico-comparativa che si allontana da qualsiasi prerogativa già percorsa imboccando un sentiero di particolare originalità, di cui Anelli ci aiuta a far luce, tramite versi drammatici e appassionati, a tratti coinvolgenti e a tratti quasi disturbanti. Opere che scantonano l’astratto per afferrarsi con le unghie alle difficoltà e al trauma del quotidiano, in un concentrato di versi che amplifica quella contaminazione totale tra vita e letteratura.

Lorenzo Spurio

Matera, 18/01/2024


[1] Una nota bio-bigliografica più approfondita può essere letta nel volume antologico del IX Premio di Poesia “L’arte in versi” curata dal sottoscritto dove a Cattaneo è stato riconosciuto il Premio Speciale “Alla Memoria” nel 2020. Nel medesimo volume trova collocazione la motivazione critica di conferimento del Premio. Entrambi i testi sono ripubblicati e disponibili online nell’apposita sezione “Alla Memoria” del Premio a questo link: https://premiodipoesialarteinversi.blogspot.com/2023/09/simone-cattaneo.html

[2] La poetessa e saggista Flavia Novelli ha approfondito la tormentata relazione amorosa ed epistolare tra Catherine Pozzi e Paul Valéry nel quattordicesimo capitolo del suo libro Amori diVersi. Le grandi storie d’amore tra poeti raccontate attraverso scambi epistolari, diari e poesie, Porto Seguro, Firenze, 2022. Una mia recensione a questo libro è stata pubblicata in «Verbum Press», anno IV, n°17, Febbraio 2023, pp. 100-104.


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