“Comincia il pianto della chitarra!”, Prefazione al libro “Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca” di Maurizio Noris

PREAMBOLO

Alcuni mesi fa il poeta e scrittore lombardo Maurizio Noris mi ha gioiosamente coinvolto nel lavoro della pubblicazione del suo libro contenente una scelta di opere poetiche di Federico García Lorca tradotte da Noris nel suo dialetto bergamasco della media Valle Seriana, per la stesura di un commento critico sull’opera (intitolato “Comincia il pianto della chitarra!”).

Il libro, dal titolo Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca – edito da Tera Mata Edizioni (Bergamo) – si apre con il testo della mia presentazione (che viene proposto, a continuazione, sulle pagine di questo sito) e contiene opere di Sara Oberhauser. Traduzione e voce a cura di Maurizio Noris.

Le letture sono state trasposte in registrazioni audio-video in cui è Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti. Il libro si chiude con una postfazione di Vincenzo Guercio.


BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Maurizio Noris (Comenduno di Albino, BG, 1957). Scrive poesie in lingua prima del dialetto bergamasco della media Valle Seriana. Ha pubblicato Santì (2001, libro artigiano di poesie con l’artista grafico Ivano Castelli e presentazione di Ivo Lizzola), Dialèt De Nòcc D’amùr (2008, vincitore del prestigioso Premio “Città di Ischitella”), Us de ruch (2009, plaquette con introduzione di Alberto Belotti), Us de ruch (2010, con introduzione di Franco), Àngei? e Zögadùr (2012, con la presentazione di Piero Marelli e Silvio Bordoni), In del nòm del pàder (2014, con postfazione di Giulio Fèro), Resistènse (2016, introduzione di Franca Grisoni), A cüre socane (2022, installazione organico-poetica con un catalogo di 20 poesie inedite presentato da Gabrio Vitali), Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico García Lorca (2023, presentazione di Lorenzo Spurio, con opere di Sara Oberhauser, traduzione e voce a cura di Maurizio Noris, registrazioni audio-video di Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti, postfazione di Vincenzo Guercio). Ha curato Guardando per terra, voci della poesia contemporanea in dialetto (2011, co-curatore Piero Marelli). È presente con suoi testi in L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto (2014), in Dialetto lingua della poesia (2016) a cura di Ombretta Ciurnelli e in diverse antologie e riviste. Per tutto il 2019 ha curato la rubrica settimanale SÖ L’ÖS del -santalessandro.org- settimanale della Diocesi di Bergamo, con la presentazione anche sonora e commento delle sue poesie.


PRESENTAZIONE AL LIBRO

“Comincia il pianto della chitarra!”

Di LORENZO SPURIO

Molti dei letterati della nostra età, oltre a perseguire con necessità primaria la propria vocazione di autori che li vede poeti o scrittori che sia, non hanno mancato d’interfacciarsi con il non complicato mondo della traduzione. Il fenomeno di comprensione di una lingua d’altri, d’interpretazione e di lettura profonda (e d’immedesimazione, spesso) per poter generare la medesima opera con un vestito leggermente diverso (mai diremmo se migliore o peggiore del suo originale) coinvolge in maniera correlata e intensa una serie di meccanismi mnemonici-sensoriali, evocativi e reminiscenziali ma anche psicologici, più profondamente intimi e innati nel singolo.

La grandezza di un autore non è data né dal numero di copie dei suoi libri che vende nel corso del tempo né dal numero di lingue (diremmo meglio gli idiomi, a voler intendere anche parlate più ridotte o che non hanno, a differenza di quanto avviene con la lingua, un più diretto richiamo o correlazione a un determinato stato nazionale) in cui la sua opera viene versata. Sta, al contrario, nella capacità delle genti, di età, luoghi e da identikit sociali differenti, a riuscire a farsi ascoltare. A trasmettere una percezione unica e indescrivibile. Un gigante della letteratura internazionale come Federico García Lorca nel corso delle decadi che si sono succedute dalla sua prematura morte ha avuto (e contribuito ad alimentare) un lascito umano di lettori, critici, studiosi e affezionati, di anime in sintonia col suo dire, di persone più o meno altolocate, cattedratici e popolani, ingente, in logaritmica e irrefrenabile ascesa.

I componimenti che Maurizio Noris ha scelto dell’ampia produzione lirica del celebre “poeta con il fuoco nelle mani”, rimontano a quell’esigenza di calarsi in una natura primigenia e inalterata dall’introduzione del dato antropico. In appena una ventina di testi scorre davanti agli occhi del lettore una sorta di sintesi perfetta dei temi, delle immagini care, dei colori, dei rimandi e degli echi che hanno contraddistinto la poesia del Granadino rendendolo universalmente celebre e ineguagliabile. Una leggenda, per alcuni, un martire per altri. Sicuramente una presenza inesauribile e imprescindibile per tutti.

Le vicende che nel tempo hanno visto il prediligere di alcune traduzioni di Lorca nel nostro italiano piuttosto che altre (ricordiamo qui, per mero inciso, che non solo i tanto “celebrati” Bo, Bodini, Rendina e Macrì tradussero Lorca in italiano come spesso, facilisticamente, vien dato da intendere) sono tortuose e rimangono per lo più difficili da tracciare (ammesso che in esse si possa riscontrare un vero interesse di fondo) dettate spesso anche da logiche di mera diffusione editoriale o, al contrario, di veti espressi (o malcelati) all’interno di congreghe accademiche. Sta di fatto che, nel nostro Paese, Lorca ha visto non solo tante traduzioni (più o meno ricordate, più o meno affidabili) nella nostra lingua, ma anche in alcuni dialetti. Penso al torinese nel quale lo versò Luigi Armando Olivero, al friulano di Pier Paolo Pasolini, al siciliano di Salvatore Camilleri, al romagnolo di Tolmino Baldassari, solo per citare alcuni nomi ma la lista potrebbe essere infinita e sempre – purtroppo – clamorosamente incompleta a causa della difficoltà di una ricerca che, pur mirata, spesso non riesce a fornire apprezzabili risultati (ricordiamo che molti tentativi di traduzione non vennero alla luce, altri solo in ciclostile, la gran parte di essi non pubblicati con un editore, né registrati in biblioteche nazionali).

L’operazione di Noris – poeta sopraffino e amante del suo dialetto nativo, il bergamasco della Val Seriana – s’inserisce, dunque, in una tradizione (non sempre scritta) che sappiamo essere fluentissima (per nulla studiata, purtroppo) che nasce da quella volontà intima di far parlare l’opera di un Grande come l’autore di Nozze di sangue con l’autenticità della propria lingua personale, del proprio dettato ancestrale e familiare.

Riconducendo il discorso alla scelta delle liriche effettuata da Noris, ritroviamo nel volume poesie selezionate dalle Canciones, opera della fase giovanile, dall’arcinoto Poema del cante jondo, sino ad arrivare all’ampio campionario dei Poemas Sueltos e alle raffinatissime composizioni delle casidas che, insieme alle gacelas, fanno parte del Diván del Tamarit, opera la cui prima pubblicazione avvenne nel 1940 ovvero quattro anni dopo l’assassinio dell’Autore come pure Poeta en Nueva York, l’opera surrealista del Nostro che Noris ha deciso di non compendiare (crediamo per la forte lontananza alla poesia della Spagna arcadica e neo-popolare del primo Lorca). La scelta di testi ci fa immergere completamente nella Spagna autentica e rurale di Lorca, quella della campagna arsa dal sole e sollevata spesso da qualche vento inaspettato, quella delle case di calce bianca dei pueblos, gli antichi (e conservatissimi) agglomerati cittadini che si snodano in vicoli e vicoletti, piazzette e stradine ancor più piccole.

La tradizione andalusa è percorsa in lungo e in largo da Noris per mezzo di liriche che ben risaltano le peculiarità del tessuto abitativo e sociale di quella regione con particolare attenzione a quel mondo ritmico-sonoro così importante (il flamenco, il lamento della pena negra, le danze dei tablaos, il clarino nelle corride, etc.) richiamato anche nelle saetas della Semana Santa con la processione del Cristo, il zorongo, che assieme al jaleo è uno dei più celebri canti e balli della tradizione andalusa riconducibili alla grande famiglia della flamenqueria, finanche la nenia giocosa e fiabesca delle ninnenanne (famosa la sua conferenza sulle ninnenanne, Las nanas infantiles, tradotta anche dal veronese Arnaldo Ederle).

L’universo simbolico-oggettuale di Lorca (non solo poeta ma anche drammaturgo) diluito nei versi qui raccolti ben si condensa nel corso della lettura: il predominio della luna a volte imperscrutata altre volte che ammicca in senso fatalistico (sempre, comunque, collegata a un’idea di morte o di un nefasto presentimento) si lega alle immagini dello specchio (ricerca d’espressione e al contempo caducità dell’immagine) e a quelle degli arnesi del mondo contadino (il pugnale, la falce) che se hanno un uso pratico nel proprio lavoro a volte vengono impiegati, in un clima d’odio e vendetta, anche come minaccia o per dar la morte (ricordiamo la struggente e drammatica “Reyerta” tradotta da Rendina e Clementelli con “Zuffa”). Ci sono bambini, si odono lamenti, invocazioni alla luna, cavalli e farfalle, l’osservazione attenta e panica dello scorrere delle acque, lo sfolgorio dei colori e la densità dell’argento. Su ogni poesia, data la ricchezza contenutistica e gli squarci di alta intensità lirica (nei testi selezionati l’Autore ha preferito non inserire poesie che, più direttamente, potessero essere analizzate in relazione alla loro tensione etico-civile, pure presente in buona produzione del Nostro), l’inspiegabile suggestione trasmessa, la capacità pareidolitica e la potenza empatica sul lettore, si potrebbero dire molte cose, riflettere, ampliare, senza riuscire mai a compendiare in forma totale quella massa sconfinata d’energia e magma interiore.

Maurizio Noris in quest’opera avvolgente, frutto di un lavoro condiviso con altri autori e artisti (in quel sodalizio ampio che tanto amava Federico e lo portava a collaborare con molte persone, si ricordi la gloriosa esperienza corale de “La Barraca”), fonde due circostanze importanti della sua realtà presente – non tangenziali né improvvise – ovvero l’amore per l’universo lorchiano, che ne fa di lui interprete, seguitore e convinto confidente, e quello per il dialetto personale, radicato nella provincia lombarda. Distanze, quelle tra la Val Seriana e l’Andalusia, che ci appaiono di colpo annullate o mai esistite. Nel flusso inalterabile di un fuoco creativo ed energico che arde imperituro e s’espande, inondando mente e cuore al di là di categorie umane.

LORENZO SPURIO

Jesi, 13/01/2023


La pubblicazione del presente testo, in formato integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

“Federico García Lorca e la Natura Madre”, saggio di Cinzia Baldazzi

Nota introduttiva

Il 22 agosto, ad Assisi, la Sala della Conciliazione del Palazzo dei Priori ha ospitato la presentazione di Il canto vuole essere luce, volume miscellaneo curato da Lorenzo Spurio e dedicato a Federico Garcia Lorca (Bertoni editore, 2021). Coordinato dallo stesso Spurio, il quale ha tenuto una breve conferenza sul soggiorno del poeta a New York, l’incontro è stato introdotto dal saluto dell’editore Jean Luc Bertoni, accompagnato dalla chitarra del M° Massimo Agostinelli su partiture lorchiane, arricchito dal reading di Annalena Cimino, infine corredato dagli interventi critici di Lucia Bonanni e della sottoscritta. La mia relazione, trascritta qui di seguito, è stata dedicata a un aspetto particolare della poetica dell’autore andaluso. (ci.ba.)

Uno scatto durante la conferenza tenutasi ad Assisi il 22 agosto 2021. Da sx: Lorenzo Spurio, Cinzia Baldazzi e Claudio Camerini.
Uno scatto della conferenza tenutasi ad Assisi (PG) il 22/08/2021.
Da sinistra: Lorenzo Spurio, Cinzia Baldazzi e Claudio Camerini

* * *

Anche nel campo della critica vige la consuetudine di lasciare nel lavoro compiuto un’impronta veritiera dei dati sensibili o razionali coltivati sulle tracce autobiografiche del critico stesso, o di quanto sia accaduto o sperimentato dalle persone incontrate.

Perciò questi brevi appunti su Lorca prendono avvìo con il pensiero rivolto al lontano 1967, quando, appena dodicenne, nel secondo anno delle medie inferiori, la professoressa di lettere Anna Maria Perrone Pecchia scoprì per noi l’incanto e la magia dei versi del poeta con il celebre esordio di Los alamos de plata:

I gattici d’argento si piegano sull’acqua:

tutto essi sanno, giammai parleranno.

Il giglio della fonte non urla la sua tristezza.

Tutto è più degno che l’umanità!

All’epoca, il lettore italiano disponeva di poche versioni dal castigliano: a parte qualche tentativo sporadico prima della guerra, si dovrà aspettare il ’52 per le traduzioni del teatro a cura di Vittorio Bodini. Poi, a metà degli anni ’70, a breve distanza, ecco il volume di Carlo Bo con le poesie e quello di Claudio Rendina con gli inediti.

La mia insegnante traduceva in proprio: “los alamos”, ovvero i “pioppi”, diventavano i “gattici”, e il “nunca” venne reso con “giammai”. Più tardi ho creduto di aver compreso la ragione dell’uso di tale termine lessicale, segno denotativo del pioppo bianco, i cui fiori alle estremità dei rami hanno riflessi argentei. Nella raccolta Myricae, pubblicata agli inizi del Novecento, Giovanni Pascoli apre così un famoso componimento:

E vi rivedo, o gattici d’argento,

brulli in questa giornata sementina.

Ho voluto rendere omaggio alla mia insegnante, con la quale sono tuttora in contatto. A lei, all’epoca giovanissima, debbo la prima conoscenza del poeta spagnolo in un periodo della scuola italiana in cui, per le caratteristiche personali e politiche del “personaggio” Lorca, difficilmente se ne parlava ad alunni di dodici anni. Sempre con lei leggemmo alcuni brani della morte di Ignacio.

Perché condivido l’episodio? Poiché la natura antropomorfa risulta centrale nella poësis di Lorca. Gli alberi potrebbero parlare, ma non lo fanno, quasi fossero anziani saggi persuasi di quanto sia inutile comunicare realtà tanto essenziali da non implicare una banalizzazione comunicativa. Da parte sua il giglio – simbolo della forza dell’innocenza – sceglie di tacere, di non violare l’universo urlando ansia, paura, dolore.

Ecco, io credo che l’ars poetica del grande andaluso si possa interpretare, comprendere anche senza aver prima amato e conosciuto la poesia in generale. Però non si può fare a meno di prediligere, di conoscere l’onnipresente Natura, la Φύσις dei nostri fratelli greci: i versi non trasmetterebbero forza, struggimento, impeto, se non presupponessimo un legame saldo e inscindibile dell’autore con il mondo inteso come ordine strutturale, finalistico delle cose.

La Natura sovrana, sia pure sofferente, occupa il terreno utopico preminente del repertorio di Lorca: qui entrano, a pieno diritto, le figure maggiori della produzione teatrale, le protagoniste e i protagonisti di Yerma, La casa di Bernarda Alba, Nozze di sangue.

Il teatro di Lorca è un’immensa area di significati dominata dalla Natura Madre, dal corso degli eventi, dove si celebra – e qui utilizziamo le parole di Lorenzo Spurio – «la frustrazione, la solitudine, l’onore e il sentimento tragico della vita». Lo studioso canadese Northrop Frye scriveva: «Noi pensiamo alla natura come qualcosa di femminile e, in effetti, essa lo è. La natura, in termini più semplici, è Madre Natura».

Un nuovo salto nel passato. Nel 1982, nel pieno dell’attività di cronista teatrale su un quotidiano romano, seguivo soprattutto gli artisti impegnati nell’avanguardia e nell’area sperimentale. Ogni tanto, però, ero incaricata di recensire i teatri stabili. Al Quirino ebbi la fortuna, nonché l’onore, di assistere alla messa in scena de La casa di Bernarda Alba con la grandissima Lilla Brignone, diretta da Giancarlo Sepe.

Quella sera, dinanzi alla tragedia delle donne vestite di nero, riuscìi a capire come a Lorca io fossi legata dal complesso totale dell’amore. Ma non quello vicino allo stupore di un sogno a occhi aperti. L’arte lorchiana mi rendeva felice, consentendo di intervenire nell’angoscia tipica di solitudini, nel tormento di passioni disgregate, tradite, ripudiate.

Era nata così, nell’indole di ragazza, la figura di un “poeta come eroe”, paladino di itinerari di lotta nemica acerrima del male, non in chiave astratta, generica, cioè impersonale: piuttosto, coglievo affascinata l’esito di una personalità pragmatica, fattuale, convincente. García Lorca si rivolge sempre agli interlocutori credendo in tutti noi, uomini, donne, bambini, giovani, anziani, nella scelta di accompagnarli con commovente riserbo e non “trascinarli” in una cerchia intimissima di reazione alle vicende dell’esistenza.

Se molti di noi, dunque, accusano un’umiliante sensazione di impotenza nell’operare su questa terra, altrettanti reputano la ποίησις un’occasione di intervento di ripiego, da gestirsi poiché è l’unica disponibile: essa, del resto si rivelò terribilmente impotente a salvare il poeta dalla morte.

Eppure, ascoltate Yerma, nella tragedia omonima, ammonire il marito Juan:

No, non venirmi a ripetere ciò che dice la gente. Io vedo con i miei occhi che non può essere… Tanto cade la pioggia sulle pietre che le fa ammorbidire e vi fa nascere la ruchetta, che la gente dice che non serve a niente. “La ruchetta non serve a niente”, ma intanto io la vedo agitare nell’aria i suoi fiori gialli.

Nell’immaginario di Federico, la ruchetta costituisce una metafora della poesia: non serve a niente, predilige le circostanze difficili, le idee più improbabili, però rimane lì ad agitare nell’aria i suoi versi.

Uno scatto fatto a Madrid nel giugno 1934 che ritrae Federico Garcia Lorca (primo a sinistra) insieme all’attrice Lola Membrives, che portò sulla scena in Sud America i maggiori successi teatrali dell’autore, e il drammaturgo Eduardo Marquina del quale Lorca si auto-dichiarò il “figlio putativo”

Yerma coincide con l’esempio di testo teatrale lorchiano da me preferito. Ricordate? Lei non riesce a concepire, il marito Juan, da parte sua, non vuole avere figli.

Il dramma ha origine nel vigoroso ambito interiore di un autore omosessuale, dunque lontano dal poter vivere uno stato di gestazione e filiazione naturale del microcosmo della sfera paterna: ebbene, pur non condividendone l’esperienza reale, Federico riesce a colmare le pagine con l’altissimo appello alla ποιητική τέχνη del fenomeno opposto: la sterilità. Il poeta di Fuente Vaqueros personifica con il suo contrario una fecondità partecipata in un delicato spazio da “spettatore”: coinvolto, addolorato nell’animo, non avendo però mai potuto abbracciare un bambino concepito come sangue del suo sangue.  

Sono sempre stata accompagnata da un interrogativo: quale tecnica semantica, quale ispirazione artistica può essere all’altezza di rendere uno scrittore capace di incarnare eventi sconosciuti al suo divenire quotidiano? Come può Lorca parlare così crudamente, con precisione, dell’essere padre, dell’essere madre?

La domanda diventa però un’altra. Perché mai i poeti dovrebbero mentire? Cioè affermare di percepire ciò che non sentono, di amare contesti a loro indifferenti?

Mentre a dodici anni leggevo Lorca, più o meno a quell’età, insieme all’amica Dina Tron, scoprivo i primi dischi di Bob Dylan distribuiti in Italia. Da allora, Dylan non l’ho abbandonato e, modestamente, nel tempo sono divenuta una dylanologa doc. Ora, Dylan – soprattutto da giovane – ha scritto e interpretato numerose canzoni tristi, lamentose, di amori impossibili, di solitudini, di vite sprecate. Nel passato ho tentato di identificare l’aura che gli permetteva di rappresentare così efficacemente le vette dello sconforto e gli abissi del dolore, avendo lui condotto, invece – e per sua fortuna – una vita di tutt’altro genere.

È questo lo scatto semantico-semiotico tipico delle menti eccelse: Lorca, come Dylan, è riuscito a superare, nell’utopica concretezza, il valore del messaggio rispetto al manifestarsi nel reale, perché lo ha avvertito reale, anzi realissimo, nonostante non rispondesse alla legge ferrea, quotidiana, della verosimiglianza.

Così, per il poeta andaluso, la donna appare figura dalla struttura sociale-ideologica composita e variegata, coincidente con un modello di rivolta a soprusi, male, bassi impeti malvagi, ipocrisia, limitatezza nella ragione, tendenze immorali.

Ho iniziato con un breve accenno all’elemento dell’acqua su cui si piegano i gattici dello splendido componimento. Allo stesso modo vorrei concluderlo.

Il mio viaggio lorchiano, l’ho accennato, ha preso il via, da giovanissima, nella sfera volitiva di un Io Conscio sollecitato dalla tensione alla maternità: nell’adolescenza, l’Inconscio registra in atto una sorta di preparazione ad essa, con ansie, desideri, timore di esserne o meno all’altezza, chissà, non volerla affatto.

In una scena di Yerma, la protagonista chiede a una vecchia come si possa combattere la sterilità. L’anziana contadina risponde:

Io? Io non so niente!

Io mi son messa a pancia all’aria e ho cominciato a cantare.

I figli arrivano come l’acqua.

A scuola, in classe, leggemmo uno stralcio del Pianto per Ignacio Sánchez Mejías, in particolare le righe conclusive del Corpo presente:

Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti

perché s’abitui alla morte che porta.

Va’, Ignacio. Non sentire il caldo bramito.

Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!

Due immagini che non dimenticherò mai: l’acqua trasporta i figli, il mare smette di esistere.

Da ragazza ingenua, non sapevo spiegare come mai, di fronte all’illimitato dolore di Federico per la fine dell’amato amico Ignacio, ne sortisse, affascinante e impagabile, l’input di connetterlo a concreti, coinvolgenti flash di maternità realizzata e non: dall’immagine funerea delle “madri terribili” associate allo scontro con il toro, alla figura pallida e lunare della bimba dolente, al bambino che porta il lenzuolo bianco, fino ai versi finali allusivi della improbabile nuova nascita di un uomo come Ignacio.

Adesso, invece, lo comprendo, con l’aiuto dell’anziana amica di Yerma: per esprimere l’immensità della sofferenza provata per la scomparsa dell’innamorato, il poeta ha giudicato fosse indispensabile avvicinarlo alla visceralità, al quid esclusivo del liquido primordiale, del vincolo, del contatto definitivo mamma-figlio, vissuto in absentia, misurandone la mancanza.

Il nostro poeta non accetta di vedere il torero senza vita, addirittura non vuole gli coprano il volto con delle bende perché si abitui al buio assoluto. Infatti, è come se Ignacio volasse oltre la prevaricazione della τύχη, della cattiva sorte, mentre l’autore auspica, anzi stabilisce, che muoia, all’istante, persino il mare. A noi madri, se perdessimo un figlio, la croce, lo sgomento apparirebbero tanto smisurati da essere in grado di stravolgere non la morte – sarebbe poco – ma il θάνατος e insieme il principio medesimo di esistere-sopravvivere nell’elemento simbolico delle distese d’acqua fluviali, oceaniche, la cui presenza rigeneratrice si annullerebbe.

Magari è accaduto a ognuno di voi di conoscere persone colpite da enormi tragedie: può succedere diventino meno sensibili alle pene, ai lutti altrui, poiché inconsciamente, avendo subito il male estremo, per loro è comprensibile che esso abbia annientato ovunque ogni bene. Dunque, anche per gli altri.

Ma, in conclusione, cosa dire? Lontana da noi l’idea di smentire, ma anche solo di correggere, il pensiero di Federico. Nonostante tutto, speriamo che i fiumi continuino a scorrere impetuosi, in eterno si susseguano le onde di mari e oceani, per poter continuare a vivere e a leggerlo.

Cinzia Baldazzi

Roma, 22 agosto 2021


Il presente testo viene pubblicato su questo sito dietro autorizzazione espressa da parte dell’Autrice la quale nulla avrà a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. La riproduzione del presente testo, in forma di stralci o integrale e su qualsiasi supporto, non è consentita senza l’autorizzazione dell’autrice.

Esito di selezione della Rivista “Nuova Euterpe” n°02/2024

RIVISTA “NUOVA EUTERPE” N°02/2024

Esito di selezione delle opere

Si pubblica a continuazione la lista delle opere selezionate dalla Redazione per la pubblicazione del nr. 02/2024 della rivista “Nuova Euterpe” il cui tema previsto era “Poesia e spiritualità”.

La Redazione che ha letto, valutato e selezionato le opere giunte, è composta da (in ordine alfabetico): Luigi Pio Carmina, Antonio Corona, Valtero Curzi, Lucia Cristina Lania, Francesca Luzzio, Emanuele Marcuccio, Francesco Martillotto, Lorenzo Spurio, Laura Vargiu e Michela Zanarella.

Si rappresenta che le pubblicazioni delle varie opere, che avverranno in base alle norme redazionali ivi contenute (https://blogletteratura.com/rivistanuovaeuterpe-collaboraconlarivista/),  non avverranno più sul sito www.nuovaeuterpe.com (già dismesso) ma all’interno del sito www.blogletteratura.com nell’apposita sezione dedicata alla rivista “Nuova Euterpe” (https://blogletteratura.com/rivista-nuova-euterpe/).


AFORISMI

Nr. 1 aforisma di GABRIELLA PACI

Nr. 2 aforismi di CLAUDIO TONINI

Nr. 2 aforismi di EMANUELE MARCUCCIO

Nr. 2 aforismi di LAURA VARGIU

Nr. 2 aforismi di LORETTA FUSCO

Nr. 2 aforismi di MARIA PELLINO

Nr. 2 aforismi di PAOLA ERCOLE


POESIA

(esercizi di mindufulness)” – Di ALESSANDRA CARNOVALE

“[Smontare le emozioni]” – Di CLARA DANUBIO

“01.08.2023” – Di ROSA MARIA CHIARELLO

Abbraccio d’infinito” – Di GABRIELLA PACI

Adagio BWV 974” – Di ALESSANDRO MONTICELLI

“Alba struggente” – Di ANNELLA PRISCO

“Algamemoria” e “Il mosaico del nulla” – Di MARCO COLLETTI

“Attesa” – Di MADDALENA CORIGLIANO

“Attimo” – Di ANTONINO BLUNDA

“Canzone triste” – Di ANTONIO MANGIAMELI

“Cedere” – Di ANTONIO SPAGNUOLO

“Com’è difficile” – Di GIUSEPPE GAMBINI

“Con affetto, tua madre” – Di SIMONA GIORGI

“Cuore bianco” – Di SILVIA ROSA

Dai capitoli del tempo” – Di PASQUALINO CINNIRELLA

Di luce immensa” – Di ORNELLA SPAGNULO

“Distanze” – Di CAMILLA ZIGLIA

“Distici dell’inespresso” – Di ROSSANA JEMMA

“El viènto” – Di TESEO TESEI

“Esistono incontri” – Di IZABELLA TERESA KOSTKA

“Figli di Dedalo” – Di DORIS BELLOMUSTO

fissavi quella scia” – Di CINZIA DEMI

“Fugace” – Di FEDERICO PREZIOSI

“Guardo” – Di EMANUELE MARCUCCIO

“Il cielo e lo spirituale dell’incarnato (ovvero l’azzurro e il rosa di Ettore Spalletti)” – Di RENZO FAVARON

“Il Fato” – Di DAVIDE MARCHESE

“Il fiume della vita” – Di FIORELLA FIORENZONI

“Il lungo viaggio” – Di ELEONORA BELLINI

 “Il silenzio muove le foglie” – Di ROBERTO CASATI

“Io resto in ascolto di te” – Di TINA FERRERI TIBERIO

“Io sono essenza” – Di MARIA BENEDETTA CERRO

L’arbìtrio” – Di FLAVIA TOMASSINI

“La danza” – Di IRENE SABETTA

“La fatica di nascere” – Di GIOVANNA FILECCIA

La lettera mancante” – Di RITA GRECO

“La luna e il suo mistero” – Di LUCIA LO BIANCO

“La resistenza dell’amore” – Di RITA PACILIO

Lacrime di pace” – Di AMEDEO DI SORA

“Le calde posture del sole” – Di DONATELLA NARDIN

“Liturgia del silenzio” – Di GABRIELE GRECO

“Mantra di Speranze” – Di NICOLE FIAMENI

Misericordia” – Di EMANUELA MANNINO

“Nel vuoto [lì per sempre]” – Di RITA STANZIONE

“Nella nebbia” – Di MARIO DE ROSA

“Oggi il sole” – Di GABRIELLA MAGGIO

Parole di resurrezione” – Di GIANNI ANTONIO PALUMBO

“per legge naturale lussureggiano gli ibridi” e “solstizio d’inverno 2023” – Di ANNAMARIA FERRAMOSCA

“Poesia e anima” – Di MARIA PELLINO

“Poesia” – Di LUCIO ZANIBONI

“preghiera a san michele” – Di ROSARIA DI DONATO

“Preghiera” – Di ANTONIETTA SIVIERO

“Preghiera” – Di MARINA MINET

Quando sarai nel vuoto” – Di MARGHERITA PARRELLI

“Quasi apparenze” – Di RICCARDO CARLI BALLOLA

“Quiete di pane e famiglia” – Di CARLA MARIA CASULA

“Riflessioni” – Di GIAN LUCA GUILLAUME

“Ritornare in mente” – Di LUIGI PIO CARMINA

Sacro vuoto” – Di TIZIANA COLUSSO

“Se fossimo vetro” – Di SIMONE PRINCIPE

“Sei il verme della tristezza” – Di EMILIO PAOLO TAORMINA

“Sensazioni celesti” – Di CLAUDIO MERINI

“Siamo anime” – Di ANGELA PATRONO

Sole!” – Di GIOVANNI TERESI

“Solidarietà (Venezuela)” – Di GRAZIA FINOCCHIARO

 “Sono andata al mio funerale” – Di SANDRA MANCA

“Spazio puro” – Di PAOLA PITTAVINO

“Tutto il resto è tempo (Seneca)” – Di GABRIELLA PISON

“Una coperta di cenere” – Di LUISA DI FRANCESCO

“Una preghiera al vento” – Di MICHELA ZANARELLA

Vanishing Faces” – Di SILVIO RAFFO

“Versi” – Di LUCIA CRISTINA LANIA

Vengono, inoltre, pubblicate le poesie “I premiati”; “Il Giudizio finale”; “Le beatitudini” e “Gli esclusi” di GUIDO OLDANI a compendio dell’intervista rivolta al fondatore del Realismo Terminale da ANNACHIARA MARANGONI.


ARTICOLI

“Dall’oblio dell’essere al naufragio nell’essere” – A cura di GUGLIELMO PERALTA

“L’antica tradizione e l’origine del Presepe” – A cura di GIOVANNI TERESI

“Poesia e pace?” – A cura di ENRICA SANTONI

“Poesia e spiritualità, tra confronto e identità” – A cura di VALTERO CURZI

“Poesia e spiritualità” – A cura di TINA FERRERI TIBERIO

“Ritorno al vuoto” – A cura di GIOVANNA FILECCIA


SAGGI

“«In te mi riconforto». Appunti sulla spiritualità tassiana” – A cura di FRANCESCO MARTILLOTTO

“Al di là di un dispersivo incanto nella pluralità dei versi di Oronzo Liuzzi” – A cura di CARMEN DE STASIO

“Christine Lavant, stella abbandonata da Dio” – A cura di LORETTA FUSCO

“Dalla spiritualità della poesia alla sua inevitabile umanità. Dante, Beatrice e Francesca” – A cura di DILETTA FOLLACCHIO

“Eminescu” – A cura di DANTE MAFFIA

“L’itinerario spirituale di Vittoria Colonna” – A cura di GRAZIELLA ENNA

“La poesia amorosa di Borges” – A cura di DANTE MAFFIA

“La poesia realistico-simbolica di José Russotti” – A cura di GIUSEPPE RANDO

“La religiosità e spiritualità nelle opere delle poete lucane: da Isabella Morra ad Anna Santoliquido” – A cura di FRANCESCA AMENDOLA

“Novalis: tra filosofia, magia e spiritualità” – A cura di RICCARDO RENZI

“Poesia e spiritualità al femminile” – A cura di FRANCESCA LUZZIO

“Poesia e spiritualità: la ricerca interiore tra fede e laicità” – A cura di MARIA GRAZIA FERRARIS

“POEVITÀSIA. Manifesto della Filosofia dell’Umafeminità” – A cura di NADIA CAVALERA

“Tempo di realtà” – A cura di GIULIANO LADOLFI

“UT PICTURA POËSIS. La forma dello Spirito nell’opera di quattro celebri artisti-poeti” – A cura di WANDA PATTACINI


RECENSIONI

Dialoghi con la notte. Appunti su Lezione di meraviglia di Daniele Ricci – A cura di FRANCESCO FIORETTI

Figlie di Pocahontas, a cura di Cinzia Biagiotti e Laura Coltelli – A cura di MICHELE VESCHI

Geografie della sete: Getsemani di Luca Pizzolitto – A cura di ANNALISA CIAMPALINI

Le Poesie mistiche di Rumi – A cura di LAURA VARGIU

Meraviglie di Simone Magli – A cura di LORENZO SPURIO

Poesie novissime di Francisco Soriano – A cura di MARIA PINA CIANCIO

Prefazione a La carne y el espíritu di Alfredo Pérez Alencart – A cura di VITO DAVOLI

Recensione a Erotanasie, poema a due voci scritto da Giannino Balbis ed Emanuela Mannino – A cura di ORNELLA MALLO

Sacro minore di Franco Arminio – A cura di CRISTINA BIOLCATI


INTERVISTE

“Dare respiro al sacro”. Intervista al poeta Luigi Carotenuto – A cura di FRANCESCA DEL MORO

“La poesia tiene in vita il mondo”. Intervista a Mario Narducci – A cura di ANNA MANNA CLEMENTI

“La sacralità nella natura”. Intervista a Mirella Crapanzano – A cura di LUCIA CUPERTINO

Intervista a Silvio Aman – A cura di ADRIANA GLORIA MARIGO

Intervista al Maestro Guido Oldani, fondatore del Realismo Terminale – A cura di ANNACHIARA MARANGONI

Intervista alla scrittrice e antropologa Loretta Emiri – A cura di LORENZO SPURIO


In merito alla pubblicazione delle sopradette opere selezionate si ricorda (come da nostre norme editoriali) quanto segue:

La Redazione provvederà alla pubblicazione dei testi scelti – come da comunicato – in maniera non simultanea ma a scaglioni senza anticipare agli autori la data nella quale la propria opera verrà pubblicata. Ciò avverrà nel corso dei due mesi successivi. Le pubblicazioni avverranno con una modalità e tempistica atta a evitare affollamenti di pubblicazioni nella medesima giornata per meglio diluire i materiali, anche con la finalità di dare maggiore diffusione mediatica e risalto agli stessi;

L’avvenuta pubblicazione del proprio testo verrà notificata a mezzo mail. Nella comunicazione verrà inviato il link al quale accedere alla propria opera pubblicata.

Contestualmente il link che rimanda al contenuto della propria opera verrà pubblicato e rilanciato su tutti i canali social della Rivista (Facebook, Twitter, Instagram, Telegram). Consigliamo, pertanto, d’iscriversi alle varie piattaforme. I collegamenti si trovano in calce.

La Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”

Jesi, 01/03/2024


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“Sulla personalità caratteriale di Federico García Lorca: un avvicinamento astrologico”, saggio di Isabella Michela Affinito

A cura di ISABELLA MICHELA AFFINITO

Se si sfoglia a caso una crestomazia poetica di Federico García Lorca è inevitabile la visione di termini che vertono al concetto della “morte” e ciò risulta alquanto singolare, antitetico per una persona che come lui ebbe un’infanzia cosiddetta ‘dorata’ attorniato dal calore dei tre fratelli, Francisco, Conchita e Isabel, e dei due genitori nel contesto del solido benessere economico basato sulle proprietà terriere paterne.

Allora il motivo è da ricercarsi altrove e precisamente inseguendo le tracce della posizione del suo pianeta Plutone – il regnante dell’Oltretomba e degli inesplicabili enigmi sommersi, vieppiù dell’altra dimensione priva della materia corporea – al momento della sua nascita. Ebbene, si trovava nel Segno dei Gemelli in Casa Terza (corrispondente al settore della comunicazione, dei viaggi, dei fratelli e degli studi) in congiunzione col Sole, quindi, col risultato di un Io particolarmente rafforzato di magnetismo e altamente espansivo, inciso d’impenetrabilità.

Federico García Lorca nacque sotto il Segno d’Aria maschile dei Gemelli, con l’Ascendente nel Segno d’Acqua femminile dei Pesci: Aria+Acqua quale accostamento piacevole e d’inafferrabile comprensione, ancora tuttora per chi tentasse di voler includere il poeta spagnolo nel quadrante caratteriale specifico, dato che la personalità ‘diafana’ come la sua ha fruito e godrà ad oltranza dell’amabile sfuggevolezza riconducibile alle leggendarie nove Muse greche guidate dal dio Apollo.

Sì, García Lorca era indefinito e indefinibile, inafferrabile come l’elemento gassoso l’elemento liquido summenzionati, dall’individualità che non accettava ‘barriere’ o limiti perché voleva spaziare ovunque; tuttavia si sentiva ‘inseguito’ dal fantasma con la falce in mano talché in quello che più gli piaceva fare, ovvero scrivere insieme al suo spiccato istrionismo, c’era lui, Plutone, a tingere di nero e di rosso (i colori prediletti da Plutone) i suoi propositi e i suoi lavori letterari.

Nella sua Casa Terza vigeva il raggruppamento di Sole, Mercurio e Plutone, per cui non c’è da meravigliarsi della favorita sua riuscita (nonostante la breve esistenza e i tempi storici di travaglio nazionale in cui visse) nel campo delle lettere, dell’oratoria (frequentò corsi universitari di Lettere e Giurisprudenza senza però laurearsi) e della creazione del proprio personaggio-attore in giro per la Spagna perlopiù misconosciuta e ai margini della cultura, per diffondere quel teatro spagnolo così fortemente imbevuto di tradizioni, di forte senso dell’onore e di passioni oltremisura dove il liquido scarlatto (il sangue) faceva inesorabilmente da sfondo alla trama.

«[…] Il Mercurio-Gemelli, soprattutto, ascolta, e certi suoi interventi verbali un po’ precipitosi non dipendono dalla smania di sopraffare l’interlocutore, ma dall’eccessiva prontezza con cui ha afferrato ciò che l’interlocutore intende dire. Infine, è il suo gusto per il teatro che lo induce a volte ad assumersi il ruolo di prim’attore.» (Dal volume Lezioni di astrologia – La natura dei Segni di L. Morpurgo, I Manuali Longanesi & C. di Milano, Anno 1989, p. 85).

Comunque Egli possedeva determinazione, oltre all’imprendibilità, in quanto ebbe la Casa Prima (specchio rimandante i tratti salienti di ciò che si è veramente) tra il Segno dei Pesci e il Segno di Fuoco dell’Ariete, quest’ultimo così impulsivo e a tratti spericolato.

Un indizio riguardo alla sua tragica conclusione esistenziale (morte per fucilazione) potrebbe celarsi nel suo pianeta Marte (della guerra e della violenza) collocato proprio nel Segno dell’Ariete, che nell’ordinario è già governato da Marte, per cui si sono amplificate le forze marziali che sono state per lui micidiali. Avvalendosi dell’arte teatrale, versificatoria e quant’altro, lui abbracciò la causa dei più deboli come le persone di colore, i gitani, gli ultimi della società messi all’angolo dal diffuso razzismo che riscontrò soprattutto nel Nuovo Continente americano quando ne varcò la soglia durante il viaggio, di cui rimase negativamente impressionato per le insormontabili differenze col suo paese d’origine, dalla primavera 1929, l’anno del crollo di Wall Street inducente molte persone al suicidio, alla primavera 1930, mentre imperversavano le grandi migrazioni di folla che dal Vecchio Continente partiva sui vecchi bastimenti solcanti per settimane l’Oceano Atlantico in cerca di qualsiasi lavoro. Per l’occasione in cui visitò gli Stati Uniti, García Lorca compose diverse toccanti liriche tra cui “L’aurora”: «L’aurora di New York ha/ quattro colonne di fango/ e un uragano di negre colombe/ che guazzano nelle acque putride.// L’aurora di New York geme/ sulle immense scale/ cercando fra le lische/ tuberose di angoscia disegnata.// L’aurora viene e nessuno la riceve in bocca/ perché non c’è domani né speranza possibile./ A volte le monete in sciami furiosi/ trapassano e divorano bambini abbandonati. […] La luce è sepolta con catene e rumori/ in impudica sfida di scienza senza radici./ Nei sobborghi c’è gente che vacilla insonne/ appena uscita da un naufragio di sangue.» (Dal volume monografico n°5 Federico García Lorca – Poesie, Collana “La Grande Poesia” del Corriere della Sera, Supplemento al quotidiano del “Corriere della Sera”, RCS Quotidiani S.p.A. di Milano, 2004, pp. 259-261).

Con Venere nel Segno del Cancro in Casa Quinta Federico si distinse per una bellezza esteriore fuori della norma, genuinamente risaltata dal colore di pece della sua mossa e abbondante capigliatura, dal continuo bisogno di sentirsi amato e protetto, collezionando storie affettive una dopo l’altra anche non volendolo e soprattutto con la volontà di non soffrire troppo alla loro conclusione. Provava passività e un grande romanticismo nell’esprimere i propri sentimenti quasi avesse posseduto un delicato animo femminile, da cui probabile l’attrazione per lo stesso sesso. Pianse come un bambino smarrito mentre lo portavano per essere giustiziato.

Il suo Saturno in Casa Nona (del lontano e delle esplorazioni anche in terre straniere) corrispose alla stessa posizione, purtroppo, che ebbero Giulio Cesare, Abraham Lincoln, Mahatma Gandhi, ovvero illustri personaggi storici che vennero assassinati e così fu pure per lui, a soli trentotto anni da parte di una ‘squadraccia’ del nuovo regime dittatoriale di Francisco Franco (1892-1975) da poco instauratosi anche in Andalusia, la quale, dopo l’arresto del poeta, procedette alla fucilazione senza neanche una forma di processo.

Con Urano altrettanto in Casa Nona Federico si sentiva un vero anticonformista, innovatore di qualcosa che doveva ancora affacciarsi alla ribalta sociale non solo del suo territorio spagnolo e gli venne naturale porgere interesse sin dal principio alla corrente francese del Surrealismo del XX secolo, teorizzata dal medico-scrittore André Breton, ch’era intrecciata ai sogni, alla scrittura automatica, alla psicoanalisi, alle azioni dissociate dalla logica, ai desideri inconsci e alle allucinazioni, quest’ultime tipiche dei quadri del suo connazionale, Salvador Dalí, di cui fu amico fraterno.

«[…] Ispira inoltre la capacità di tagliare i ponti con il passato non soltanto ideologico, ma anche legato all’esperienza di vita del soggetto, pronto a balzare verso nuove situazioni operative o mentali senza curarsi di “quel che dirà la gente”, ossia senza curarsi delle mode e degli snobismi espressi dalla casa terza. Altrettanto disinvolto e cangiante l’atteggiamento in campo sociale.» (Dal volume Lezioni di astrologia – La natura delle Case di L. Morpurgo, I manuali Longanesi & C. di Milano, 1983, p. 211).

Infine osserviamo la Luna nel Segno di Terra del Capricorno (nel tema natale di García Lorca scarseggiano di molto gli influssi provenienti dall’elemento Terra, quindi Egli provava un tenue senso della materialità) e in Casa Decima (quella dell’emancipazione, del desiderio di lasciare la famiglia d’origine per soddisfare una personale sete d’ambizione), cosicché Federico fu alquanto ambizioso, fin da subito avvertente in sé di dover e voler scalare le fatidiche “montagne” pur di raggiungere la fama anelata specialmente in campo recitativo.

Il suo fu un «[…] Teatro esemplare e quindi popolare nel senso più alto del termine; regionale nella sua cornice, universale nella sostanza; barbaro nei miti e nelle passioni in esso scenificate, ma civilissimo in quanto prodotto genuino di poesia e culmine cosciente e coerente di una delle migliori esistenze poetiche del Novecento europeo.» (Dal volume n°5 Collana editoriale Le Muse – GedeaGrande Dizionario Critico di Arti visive, Letteratura, Musica e Teatro, Istituto Geografico De Agostini di Novara, 2004, pp. 284-285). 

Indubbiamente – la Luna in tema maschile rappresenta la figura materna – la madre, seconda moglie del padre, la maestra Vicenta Lorca Romero (1870-1959), deve avergli trasmesso molto di più dell’amore per la musica e le arti in genere, infondendogli la voglia di diventare qualcuno insieme ai valori del rispetto umano universale. È stata la stessa posizione lunare, in Casa Decima, della pittrice messicana Frida Kahlo (1907-1954), una delle ‘artiste-pioniere’ entrata a far parte a tutti gli effetti della nutrita storia dell’arte mondiale, anch’ella inserita nella corrente surrealista coi suoi quadri riproducenti a tappe la sua ‘spinosa’ autobiografia, tra differenti autoritratti e situazioni incresciose di salute.

«[…] È una madre-padrona, a volte inequivocabilmente dura, a volte invece posseduta da un autentico interesse affettivo per il figlio che tuttavia, e sia pure in buona fede, tende a dominare. In linea generale essa si presenta agli occhi della prole come una donna forte, dalla quale non si può prescindere. […] Per un uomo, privato della scenografia necessaria alla fase edipica, i problemi sono più gravi e rischiano di compromettere i rapporti con la donna in generale, contribuendo alla omosessualità.» (Dal volume Lezioni di astrologia – La natura dei Segni di L. Morpurgo, I Manuali Longanesi & C. di Milano, 1989, p. 293).

ISABELLA MICHELA AFFINITO

Fiuggi (FR), 02/03/2023

Il presente testo viene pubblicato su questo blog su autorizzazione e con il consenso dell’autrice senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“La volontà amorosa” di F. G. Lorca – volume a cura di Alberto Pellegatta – recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

La casa editrice Taut di Milano, fondata e diretta dal poeta Alberto Pellegatta, ha recentemente dato alle stampa il volume La volontà amorosa, liberamente attribuito al celebre poeta e drammaturgo spagnolo Federico García Lorca (1898-1936). Il volume ricognitivo propone una scelta di testi – alcuni tra i meno letti e ricordati – dell’importante intellettuale andaluso riproposti in un’elegante veste grafica e tradotti nella nostra lingua dallo stesso Pellegatta. In copertina si stagliano due donne dipinte sì vicine da far pensare che siano avvolte dallo stesso manto nero; si tratta di un’opera – come ricorda la bandella descrittiva di destra – dell’artista Riccardo Garolla dal titolo “Vedove in attesa”. Come non pensare al severo lutto imposto dalla tirannica madre, Bernarda Alba, alle sue cinque figlie alla notizia della morte dell’uomo di casa, nell’omonima opera? Si tratta – come la critica ha ampiamente osservato – di un lutto imposto e, dunque, di un dolore per lo più posticcio, in una casa dove la figura paterna deceduta (padre di sangue solo della prima figlia) vien presto rimpiazzato da un matriarcato doloroso che non lascerà scampo ai giovani virgulti di quelle fanciulle. Non bisogna stupirsi di questo, la società che Lorca dipinge nel suo teatro drammatico è quella a lui coeva della Spagna contadina, arcaica, vetusta, fondata su un senso di onore inappellabile e inviolabile. Le due donne ritratte in copertina danno il senso di questa tragedia che s’è compiuta – quella del suicidio della giovane Adela che non si sottomette alla bigotta e incivile madre – ma anche ai tanti altri crimini della ragione che Lorca portò in scena (l’impiccagione di Mariana Pineda, l’invecchiamento da zitella di Rosita, la morte della farfalla di cui Curianito s’era innamorato, la disperazione uxuricida di Yerma e tanto antro ancora) che, a posteriori, possiamo anche leggere come intenti di rivendicazione e lotta per le libertà e i diritti civili cui lui, come uomo, fu senz’altro uno strenuo difensore.

Questo 2021 appare importante per gli approfondimenti e gli studi lorchiani, di settore certo, ma utilissimi e agevoli per poter comprendere a tutto tondo uno degli intellettuali più fertili e ricchi in termini di messaggi e tematiche: si segnala, infatti, l’uscita di un volume collettivo che raccoglierà i testi delle varie conferencias y alocuciones che il Granadino tenne nel corso della sua breve vita (di grande successo furono, tra le altre, quelle tenute a Buenos Aires e Montevideo nel periodo 1933-1934). Il Lorca conferenciante (conferenziere) ritorna così in auge – per i tipi di Debolsillo[1] – a una pletora allargata di lettori e di studiosi appassionati svelando, tra le tante adesioni al mondo culturale del Poeta (la poesia, appunto, il teatro, il disegno, il cinema), la centralità della verbalità e dell’arte oratoria nel Nostro. Paradossalmente, come ben messo in luce in un articolato saggio in lingua spagnola di Alejandro González Luna apparso sulla rivista «Global» nell’aprile del 2018, al quale ha fatto seguito un mio intervento dal titolo Voz ausente. Il perdurante mistero attorno alla voce di Federico García Lorca (che c’è, ma non si trova)” apparso su «Culturelite» il 18/06/2020, non esistono grabaciones, vale a dire registrazioni audio della voce del poeta. Elementi d’assenza – come questo – che contribuiscono ancor più a fortalecer l’idea di un vero mito contemporaneo.

Come accaduto nel 2020, nell’occasione dei novanta anni dal viaggio americano di Lorca, al quale sono stati dedicati articoli (come quello puntualissimo e arricchente del prof. Gabriele Morelli apparso sull’ultimo numero della rivista «Poesia» di Crocetti) e ripubblicazioni dell’opera Poeta en Nueva York – il testo che contiene le opere scritte in quel periodo e pubblicato solo dopo la sua morte nel 1940 – ci si augura che anche in questo 2021 si tengano iniziative volte a ricordare e ad approfondire la “seconda parte” di quell’importante viaggio Oltreoceano, ovvero Cuba dove il poeta visse per i primi mesi del 1921 percependo l’isola caraibica come una seconda casa.

Ritornando al volume di Pellegatta, credo debba essere ascritto in quel contesto virtuoso e mai domo che vede nel mondo intellettuale di ogni paese e di ciascuna lingua un particolare e sempre sentito interesse, attaccamento e riconoscimento verso il poeta spagnolo, poeta tellurico come lui stesso si definì, ma anche e soprattutto poeta de las masas come Neruda e, pertanto, poeta universale.

Esso si compone di una riproposizione selettiva di testi lorchiani, scelti dall’autore come indicativi della raccolta in esame (il Romancero gitano) e, in chiusura, la conferenza “Imaginación, inspiración y evasión” che il poeta tenne per la prima volta a Granada nel medesimo anno di pubblicazione del libro. Il Romancero gitano venne definito dallo stesso autore come un retablo de la Andalucía, tanti sono i temi, i motivi, le suggestioni che richiamano profondamente il clima costumbrista e realista al contempo del sud della Spagna, della sua amata Granada, ma anche il bianco di Cordoba, la compostezza e l’austerità di Jaén, finanche la grandezza e il colorismo di Siviglia, sede di una delle principali plaza de toros di tutto il mondo, la Real Maestranza. Non solo la natura ritratta nella sua serafica pace, spesso con attributi antropici e tesa a un’universalità panteistica, edenica e tragica al contempo, ma anche la cultura locale del flamenco, del cante jondo, della confluenza di culture, del mundo mozarabe, del toreo, dei festejos e delle romerías. Come è ricordato nel testo riportato da Pellegatta, “grande personaggio oscuro, come un cielo d’estate, un personaggio che è la Pena che filtra nel midollo e nella linfa degli alberi, e che non ha nulla a che vedere con la malinconia, né con la nostalgia, né con alcuna afflizione o dolore dell’animo, che è un sentimento più celeste che terrestre; pena andalusa che è una lotta dell’intelligenza amorosa con il mistero che la circonda e che non può comprendere” (10). Nel corso della sua vita Lorca non mancherà di essere tacciato di essere un poeta popolare perché radicato nella campagna, eccessivamente folklorico nella sua componente andalusa, pertanto localista, di nicchia, relegato a un mondo popolare circoscritto e determinato, campestre, in antitesi con il grande respiro della poesia del Novecento tesa al recepimento di influenze altre, connubi linguistici, travasi esperienziali. Critiche che, se già in molti e lui stesso con grande capacità dimostrarono essere avulse e non coerenti con la sua reale natura, priva di gabbie di ciascuna tipologia, oggi siamo convinti fortemente furono immotivate e inapplicabili a un personaggio così versatile come lui. Si ricordi la sua vicinanza (da leggere: il suo interesse e non la sua adesione) all’avanguardia spagnola dell’ultraismo, alla lettura surrealista della sua opera newyorchese e alla forte e tormentata amicizia con Salvador Dalí, il coinvolgimento per il Living Theatre, lo sperimentalismo linguistico nei Seis poemas galegos resi possibili grazie all’intervento e collaborazione di Blanco Amor, finanche l’esperimento della Barraca fondato con Eduardo Ugarte, un Carro di Tespi contemporaneo fortemente suasivo, con grande raccolta di pubblico, viva partecipazione e, cosa non meno importante, quale decisiva forma libera di culturalizzazione dei pueblos più reconditi (non solo andalusi, ma anche della Castiglia e della Mancia).

La selezione dei testi che Pellegatta propone dal Romancero gitano – che ricalca quella fatta dallo stesso Lorca per presentare l’opera nel corso della conferenza – vede senz’altro delle punte di diamante dell’intera produzione lorchiana, a cominciare dal (citerò i titoli nel loro originale anche se, come ricordato, questo volume è interamente in lingua italiana) “Romance de la luna luna”, “Preciosa y el aire”, la tragica “Reyerta” che ben ricalca il clima d’odi intestini che in Bodas de sangre vedranno epiloghi nefandi, il “Romance sonámbulo” dedicato a Gloria Giner e Fernando de los Ríos, la cui figlia, Laura, avrebbe poi sposato in America – dove la famiglia si recò in esilio a causa della guerra civile spagnola – il fratello di Federico, Francisco García Lorca, il “Romance de la pena negra”, “Prendimiento de Antoñito el Camborio en el camino de Sevilla” con la preziosa dedica a Margarita Xirgu, forse la maggiore interprete femminile del suo teatro; con il suo dolorosissimo seguito – arcano premonitore della fine del Granadino – “Muerte de Antoñito el Camborio”. In questa mirata crestomanzia di versi non poteva di certo difettare l’assenza del notorio “Romance de la guardia civil” e il meno noto – ma non per questo meno stupendo – componimento dai motivi biblici “Thamar y Amnon”.

In chiusura, come già anticipato, vi è il testo della celebre conferenza “Imaginación, inspiración y evasión”, strutturata in due parti consecutive anticipate dalla numerazione romana. I contenuti sono noti: il poeta parte dal concetto d’immaginazione, fondamentale per chi ha la dote di recepire dal mondo i linguaggi arcani e darne forma, sostenendo, però, che essa necessita di una variabile importante che non è di dominio comune, ovvero l’intuizione. Nella sua traduzione di Lorca così scrive Pellegatta: “L’immaginazione è limitata dalla realtà: non si può immaginare ciò che non esiste” (83) assunto, questo, su cui tanta filosofia avrebbe da dire e da obiettare lungamente ma che, nel contesto nel quale Lorca adopera simili conversari, risulta illuminante dal momento che, come si legge poco dopo, “l’immaginazione poetica viaggia e trasforma le cose, offre loro un senso più puro e determina relazioni” (84). In vista della chiusura della prima parte del suo testo di conferenza Lorca ebbe a sostenere: “l’ispirazione poetica possiede una logica poetica. Non serve una tecnica acquisita, non c’è nessun postulato estetico sul quale operare; e così come l’immaginazione è una scoperta, l’ispirazione è un dono, un regalo ineffabile” (87). Avendo parlato tanto d’immaginazione e d’ispirazione, indagandone i reconditi legami, il poeta si accomiatava, nel corso della seconda parte della conferenza prendendo ad oggetto l’idea di evasione: un atto di libertà come l’immaginazione non poteva, infatti, essere considerato quale una reale fuga ma anche come un monito d’indipendenza e di rifiuto di ciascun tipo di giogo. Ecco perché – queste sono frasi che spessissimo, riferendosi alla sua persona, vengono citate – “La luce del poeta è la contraddizione”: la poesia necessita l’uomo libero ma al contempo la libertà è ingrediente speciale del poeta; “La poesia non vuole adepti”, sosteneva – vale a dire non risponde a un sentimento di casta, di classe, d’organizzazione comunemente intesa – “ma amanti”, spiriti liberi, sinceri appassionati, coloro che si lasciano emozionare. Questo perché essa “sparge rami di mora selvatica e ricci di vetro perché si feriscano per amore suo le mani che la cercano” (94).

Per esprimersi al meglio in merito all’operazione editoriale promossa da Alberto Pellegatta con La volontà amorosa che con questo volume propone – come si è detto – testi lorchiani da lui tradotti, si dovrebbe avere un’ottima conoscenza della lingua spagnola e avere la capacità di un’agile comparazione, oltre che con l’originale, con le traduzioni “dotte” (e ormai classiche) dell’opera lorchiana nella nostra lingua. Penso a Carlo Bo, Vittorio Bodini, Oreste Macrì ed Elena Clementelli per lo più, per indagare con un metro tecnico che è quello del filologo, le scelte compiute e il perché. Mi pare di osservare che il testo in calce, quello della conferenza, non si discosti in maniera considerevole dalle precedenti traduzioni della stessa mentre alcune piccole varianti possono senz’altro essere evidenziate nella traduzione delle liriche. Mi limiterò ad alcuni brevi cenni per mostrare alcune diverse occorrenze terminologiche impiegate riportando il caso della poesia “Thamar y Amnon” rimandando, per chi vorrà, a ulteriori raffronti mirati con l’originale e avvicinamenti con i maggiori ispanisti che hanno tradotto Lorca. Mi riferirò qui alla versione di Claudio Rendina ed Elena Clementelli, comparata con questa di Pellegatta (P.): “in cima ai tetti” diviene in P. “sopra ai tetti”; suonavano nervi di metallo” diviene in P. “risuonavano nervi di metallo”; “vento increspato veniva” diviene in P. “Arriva aria arricciata”; “o scossa da acuti” diviene in P. “o spaventata d’acuti”; “cetre allunate” diviene in P. “cetre lunatiche”; “richiede fiocchi di neve al suo ventre” diviene in P. “chiede banco al suo stomaco”; “cinque colombe gelate” diviene in P. “cinque piccioni congelati”; “la guardava dalla torre” diviene in P. “sulla torre la guardava”; “di freccia conficcata da poco” diviene in P. “di freccia da poco fermata”; “si coricò sul letto” diviene in P. “si stese sul letto”; “tutta l’alcova soffriva” diviene in P. “tutta la camera soffriva”; “zampilla silenzio nelle giare” diviene in P. “germoglia silenzio nelle brocche”; “Amnon geme nella tela” diviene in P. “Amnon piange nel lenzuolo”; “copre la sua carne arsa” diviene in P. “ricopre la sua carne bruciata”; “Tamar entrò silenziosa” diviene in P. “Tamar entra silenziosa”; “nella silente alcova” diviene in P. “nella camera silenziata”; “I miei fili di sangue tessono” diviene in P. “Mille fili di sangue cuciono”; “Lasciami in pace, fratello” diventa in P. “Lasciami tranquilla, fratello”; “I tuoi baci sulla mia spalla sono” diviene in P. “I tuoi baci sulla mia schiena sono”; “e nei polpastrelli delle tue dita” diviene in P. “e sulle gemme delle tue dita”; “nelle tinozze il sole contrastava” diviene in P. “il sole resisteva nel secchio”; “ora le strappa la camicia” diviene in P. “ormai le arpeggia la camicia”; “ruscelli su bionda mappa” diviene in P. “ruscelli in rosso sulla mappa”; “Quanti pugnali!” diviene in P. “che spessore di pugnali”; “stantuffi e cosce giocano” diventa in P. “emboli e muscoli giocano”; “bianchi panni s’arrossano” diventa in P. “panni bianchi arrossiscono”; “violatore infuriato” diventa in P. “violentatore furioso”; “Amnon fugge sulla sua cavalla” diventa in P. “Amnon scappa con la sua cavalla”. Tutto questo, ovviamente, non è sufficiente e dunque non è utile per dire che una traduzione è migliore dell’altra. Si tratta di varianti, come tante ve ne sono e ce ne saranno. Autori, tra poeti egli stessi e traduttori, che con le loro conoscenze linguistiche, culturali e la loro sensibilità hanno tentato di far “rivivere” il testo del Granadino, proponendone una conversione nella lingua d’appartenenza. Nel caso specifico della poesia presa in oggetto va rivelato che, oltre a differenze terminologiche dovute all’uso (non sempre) di sinonimi, si riscontra un diverso uso di preposizioni semplici ed articolate, come pure l’inversione di termini in un verso facendo, di volta in volta, a seconda dei casi, anteporre il soggetto piuttosto che il suo complemento o il contrario. Frequente è, nel caso di Pellegatta, l’inserzione di articoli aggiuntivi che nell’originale – non consentendo lo spagnolo la doppia e coeva presenza congiunta di articolo e pronome possessivo – sono intuiti e non appaiono graficamente. Notevole è il cambio della forma verbale (in Pellegatta si passa dall’originale passato remoto con l’idea di un’azione recondita, in sé chiusa e che ha prodotto degli effetti, a un parco presente che dà l’idea dell’occorrenza dell’azione in forma progressiva, al momento che il lettore s’appropria del testo). Non sempre la traduzione più intuitiva e “a calco” dall’altra lingua risulta applicabile, o comunque, efficace; si notano differenze vistose anche nella traduzione di parti anatomiche evocate da Lorca con un evidente abbaglio di Rendina (che traduce espalda con “spalla”), mentre poco convince quel “lunatiche” affiancato alla parola “cetre” nella traduzione di Pellegatta. In molti altri casi la sfumatura è minima e pare di trovarsi di fronte a versioni italiane completamente rispettose dell’originale.

LORENZO SPURIO

Jesi, 01/01/2021

(Il presente saggio è stato precedentemente pubblicato sulla rivista “Diwali – Rivista contaminata” a gennaio 2021 e riproposto sul giornale “La voce agli italiani” in data 23/04/2021. Nel caso di citazioni dal presente testo è strettamente richiesto di indicare le due fonti dove, in precedenza a questo blog dedicato, il testo è stato pubblicato e diffuso). 


[1] Federico García Lorca, De viva voz. Conferencias y alocuciones, Debolsillo, Barcelona, 2020.

Rivista “Nuova Euterpe” n°01/2023 – Lista delle opere

COMUNICATO DI SELEZIONE OPERE

RIVISTA «NUOVA EUTERPE» N°01/2023

La Redazione della Rivista «Nuova Euterpe» – composta da Lucia Bonanni, Luigi Pio Carmina, Antonio Corona, Lucia Cristina Lania, Francesca Luzzio, Emanuele Marcuccio, Francesco Martillotto, Lorenzo Spurio, Laura Vargiu e Michela Zanarella – ha letto attentamente le numerose opere giunte, per ciascuna sezione di riferimento, per la selezione di opere per il primo numero della rivista che proponeva quale tema a cui rifarsi, pur liberamente, “I libri: lo specchio dell’io” e, considerando i parametri tecnico-formali e contenutistici della Redazione, ha deciso di selezionare le opere di seguito indicate per la pubblicazione del primo numero della rivista.

Con la finalità di non pregiudicare la selezione di opere ritenute molto buone e in linea con la partecipazione della rivista, la Redazione ha deciso di riconoscere una deroga in merito ai limiti massimi di lunghezza previsti nelle sopracitate “Norme”, garantendo così ad alcune opere di essere ugualmente inserite in questa selezione.

Le opere, pubblicate in prima battuta sul sito internet della Rivista (www.nuovaeuterpe.com), a seguito di una revisione del progetto e della dismissione del predetto sito, sono state trasmigrate all’interno delle pagine del sito www.blogletteratura.com a Febbraio 2024, spazio dove, pure, verranno pubblicate le opere selezionate dei successivi numeri.

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AFORISMI

FUSCO LORETTA – Aforisma nr. 1 – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-astrazione-aforisma-di-loretta-fusco/

MAGLI SIMONE – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-un-aforisma-di-simone-magli/

PACI GABRIELLA – Aforisma nr. 1 – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-il-potere-della-lettura-aforisma-di-gabriella-paci/

PELLINO MARIA – Aforisma nr. 1 – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-un-aforisma-di-maria-pellino/

ROMANO TOMMASO – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-un-aforisma-di-tommaso-romano/

TONINI CLAUDIO – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-emozioni-un-aforisma-di-claudio-tonini/

VARGIU LAURA – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-libri-un-aforisma-di-laura-vargiu/

VESCHI MICHELE – Aforismi nr. 1,2, e 3 – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-tre-aforismi-di-michele-veschi/

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POESIA

ALEXANDRU ELENA DENISA – “Gli affetti” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-gli-affetti-poesia-di-elena-denisa-alexandru/

BALDI FABIA – “[Sempre più lento]” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-sempre-piu-lento-poesia-di-fabia-baldi/

BLUNDA ANTONIO – “Breve fiaba dell’Ade” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-breve-fiaba-dellade-poesia-di-antonio-blunda/

BONSANTE MATTEO – “Seid Visin” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-seid-visin-sento-gli-sguardi-schifati-per-la-mia-pelle-poesia-di-matteo-bonsante/

BORSCI CATERINA – “Trame” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-trame-poesia-di-caterina-borsci/

CANAPINI FRANCA – “Il bacio” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-il-bacio-poesia-di-franca-canapini/

CARLI BALLOLA RICCARDO – “Possibilità ipotetiche” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-possibilita-ipotetiche-poesia-di-riccardo-carli-ballola/

CARMINA LUIGI PIO – “Euterpe” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-euterpe-poesia-di-luigi-pio-carmina/

CARRABBA MARIA POMPEA – “Quei nudi ruderi di storia” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-quei-nudi-ruderi-di-storia-poesia-di-maria-pompea-carrabba/

CASATI ROBERTO – “Ai margini dell’oceano” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-ai-margini-delloceano-poesia-di-roberto-casati/

CORONA ANTONIO – “Un foro nella roccia” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-un-foro-nella-roccia-poesia-di-antonio-corona/

DE FELICE SANDRA – “Tracce di inchiostro” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-tracce-di-inchiostro-poesia-di-sandra-de-felice/

DE ROSA MARIO – “Il popolo del libro” – https://blogletteratura.com/2024/02/02/n-e-01-2023-il-popolo-del-libro-poesia-di-mario-de-rosa/

DEMI CINZIA – “Labirinto” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-labirinto-poesia-di-cinzia-demi/

FERRERI TIBERIO TINA – “All’ombra della luna” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-allombra-della-luna-poesia-di-tina-ferreri-tiberio/

FUSCO LORETTA – “Introspezione”; “Passaggio interiore” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-introspezione-e-paesaggio-interiore-due-poesie-di-loretta-fusco/

GAGLIARDI FILOMENA – “A chi” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-a-chi-poesia-di-filomena-gagliardi/

GRECO GABRIELE – “Quasi un addio” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-quasi-un-addio-poesia-di-gabriele-greco/

GUILLAUME GIAN LUCA – “Ricordi” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-ricordi-poesia-di-gian-luca-guillaume/

KOSTKA IZABELLA TERESA – “Catarsi” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-catarsi-poesia-di-izabella-teresa-kostka/

LANGIU ANTONIETTA – “La tua voce” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-la-tua-voce-poesia-di-antonietta-langiu/

LANIA CRISTINA – “Pagine” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-pagine-poesia-di-lucia-cristina-lania/

MANCA SANDRA – “Una voce come il vento” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-una-voce-come-il-vento-poesia-di-sandra-manca/

MAUTHE UGO – “C’è stata battaglia” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-ce-stata-battaglia-poesia-di-ugo-mauthe/

MONTICELLI ALESSANDRO – “Restare” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-restare-poesia-di-alessandro-monticelli/

NAPOLITANO GIUSEPPE – “Un fiammifero nel buio” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-un-fiammifero-nel-buio-di-giuseppe-napolitano/

PACI GABRIELLA – “Scrivo le mie parole” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-scrivo-le-mie-parole-poesia-di-gabriella-paci/

PASERO DARIO – “Le tragedie” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-le-tragedie-a-son-pi-paressante-ancheuj-che-n-sle-stagere-datene-poesia-di-dario-pasero/

PATTACINI WANDA – “Il dono della poesia” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-il-dono-della-poesia-poesia-di-wanda-pattacini/

PIERANDREI PATRIZIA – “Riflessione” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-riflessione-poesia-di-patrizia-pierandrei/

QUINTAVALLA MARIA PIA – “L’anima, questo dura” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-lanima-questo-dura-poesia-di-maria-pia-quintavalla/

RICCIALDELLI SIMONA – “Quel povero io” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-quel-povero-io-poesia-di-simona-riccialdelli/

RUFFILLI PAOLO – “Libro” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-libro-poesia-di-paolo-ruffilli/

RUSSOTTI JOSE’ – “Ardeva nella casa” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-ardeva-nella-casa-poesia-di-jose-russotti/

SANTARELLI ANNA – “Un libro” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-un-libro-poesia-di-anna-santarelli/

SEGHETTA ANDREOLI EVARISTO – “Libri” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-libri-poesia-di-evaristo-seghetta-andreoli/

SERPENTINI ELSO SIMONE – “Tappeto di foglie” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-tappeto-di-foglie-poesia-di-elso-simone-serpentini/

SICA GABRIELLA – “Diario Mille novecento novanta nove di Zeichen” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-diario-mille-novecento-novanta-nove-di-zeichen-poesia-di-gabriella-sica/

SIDOTI MARIA GIULIA – “Un alito di vento” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-un-alito-di-vento-poesia-di-giulia-maria-sidoti/

SPAGNUOLO ANTONIO – “Sere” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-sere-poesia-di-antonio-spagnuolo/

STANZIONE RITA – “Liberi” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-liberi-poesia-di-rita-stanzione/

TONINI CLAUDIO – “Sorte di un poeta”; “Riflessi di malinconia” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-sorte-di-un-poeta-e-riflessi-di-malinconia-due-poesie-di-claudio-tonini/

TRIVAK BOGDANA – “I libri. Lo specchio dell’io” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-i-libri-lo-specchio-dellio-poesia-di-bogdana-trivak/

VETTORELLO RODOLFO – “Illuminazione, sentire prima di capire”; “Le verità provvisorie” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-le-verita-provvisorie-e-illuminazione-sentire-prima-di-capire-due-poesie-di-rodolfo-vettorello/

ZANARELLA MICHELA – “Nel giardino di Sophia” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-02023-nel-giardino-di-sophia-poesia-di-michela-zanarella/

ZANIBONI LUCIO – “Alichino” – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-alichino-poesia-di-lucio-zaniboni/

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ARTICOLI

CAMELLINI SERGIO – “La visione in maschera e pessimistica di Luigi Pirandello” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-la-visione-in-maschera-e-pessimistica-di-luigi-pirandello-articolo-di-sergio-camellini/

DAVOLI VITO – “La “Lucania” di Davide Trufelli: il senso dell’appartenenza senza alcun possessivo” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-la-lucania-di-mario-trufelli-il-senso-dellappartenenza-senza-alcun-possessivo-articolo-di-vito-davoli/

FERRERI TIBERIO TINA – “Il libro, manifestazione dell’essere” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-il-libro-manifestazione-dellessere-articolo-di-tina-ferreri-tiberio/

INNOCENZI FRANCESCA – “Annamaria Ferramosca, poeta del primigenio presente” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-annamaria-ferramosca-poeta-del-primigenio-presente-articolo-di-francesca-innocenzi/

LINGUAGLOSSA GIORGIO – Nuove tendenze estetiche. La poetry kitchen. Che cos’è?” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-nuove-tendenze-estetiche-la-poetry-kitchen-che-cose-articolo-di-giorgio-linguaglossa/

MAGGIO GABRIELLA – “Simona Lo Iacono Versus Anna Maria Ortese” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-simona-lo-iacono-versus-anna-maria-ortese-articolo-di-gabriella-maggio/

PARDINI NAZARIO – “Il poeta e la poesia (Ai ragazzi del Liceo Classico “Galileo Galilei” di Firenze)” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/il-poeta-e-la-poesia-ai-ragazzi-del-liceo-classico-galileo-galilei-di-firenze-articolo-di-nazario-pardini/

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SAGGI

BALDAZZI CINZIA – “Lo sguardo nudo. Le novelle di Luigi Pirandello come specchio della vita” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-lo-sguardo-nudo-le-novelle-di-luigi-pirandello-come-specchio-della-vita-saggio-di-cinzia-baldazzi/

BONANNI LUCIA – “Risonanze emotive e cognitive nel romanzo. Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli – https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-risonanze-emotive-e-cognitive-nel-romanzo-tutto-chiede-salvezza-di-daniele-mencarelli-saggio-di-lucia-bonanni/

CATALANO ETTORE – “Divagazioni letterarie tra peste e guerra” – https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-divagazioni-letterarie-tra-peste-e-guerra-saggio-di-ettore-catalano/

DAVOLI VITO – “Un ramo, un affluente, un bagliore. Percorsi lirici: cinque passi nella poesia di Alfredo Pérez Alencart. Una lettura possibile” – https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-un-ramo-un-affluente-un-bagliore-percorsi-lirici-cinque-passi-nella-poesia-di-alfredo-perez-alencart-saggio-di-vito-davoli/

DE ROSA GIUSI MANUELA – “Tommaso Landolfi, l’odioso pronome e lo specchio opaco dell’autobiografismo” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-tommaso-landolfi-lodioso-pronome-e-lo-specchio-opaco-dellautobiografismo-saggio-di-giusi-manuela-de-rosa/

DE STASIO CARMEN – “Una scrittrice nata. Impressioni allo specchio. Lettura dei molteplici “io” nei libri di Virginia Woolf – https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-una-scrittrice-nata-impressioni-allo-specchio-la-lettura-dei-molteplici-io-nei-libri-di-virginia-woolf-saggio-di-carmen-de-stasio/

DI SORA AMEDEO – “Il “libro” teatrale della Grecia Antica” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-il-libro-teatrale-della-grecia-antica-saggio-di-amedeo-di-sora/

ENNA GRAZIELLA – “La lacrima e il sorriso: Ortis e Didimio Chierico” –

https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-la-lacrima-e-il-sorriso-ortis-e-didimo-chierico-saggio-di-graziella-enna/

FERRARIS MARIA GRAZIA – “I libri: lo specchio dell’Io. Guido Morselli e l’ultimo romanzo Dissipatio H.G.”https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-i-libri-lo-specchio-dellio-guido-morselli-e-lultimo-romanzo-dissipatio-h-g-saggio-di-maria-grazia-ferraris/

FOLLACCHIO DILETTA – “Per l’alto mare aperto. Una rilettura del canto XXVI dell’Inferno” – https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-per-lalto-mare-una-rilettura-del-canto-xxvi-dellinferno-saggio-di-diletta-follacchio/

LADOLFI GIULIANO – “La concezione di arte nell’Età Globalizzata” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-la-concezione-di-arte-nelleta-globalizzata-saggio-di-giuliano-ladolfi/

LE PIANE FAUSTA GENZIANA – “La memoria del cuore. Albert Camus, “il primo uomo”: come una luna solitaria e vibrante, destinata a spezzarsi all’improvviso e per sempre”. – https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-la-memoria-del-cuore-albert-camus-il-primo-uomo-come-una-lama-solitari-e-vibrante-destinata-a-spezzarsi-allimprovviso-e-per-sempre-saggio-di-fausta-genziana-le-piane/

MAFFIA DANTE – “Follia e poesia” – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-follia-e-poesia-saggio-di-dante-maffia/

MARTILLOTTO FRANCESCO – ““Maggiori testimoni del vero”. La dialettica tra “vita” ed “opere” in Torquato Tasso attraverso le Lettere” – https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-maggiori-testimoni-del-vero-la-dialettica-tra-vita-ed-opere-in-torquato-tasso-attraverso-le-lettere-saggio-di-francesco-martillotto/

PASERO DARIO – “Quando una lingua non basta: Beppe Fenoglio e La malora” – https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-quando-una-lingua-non-basta-beppe-fenoglio-e-la-malora-saggio-di-dario-pasero/

SCARTAGHIANDE GINO – “Il paradigma cristologico nella poesia di Amelia Rosselli” – https://blogletteratura.com/2024/02/01/n-e-01-2023-il-paradigma-cristologico-nella-poesia-di-amelia-rosselli-saggio-di-gino-scartaghiande/

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RECENSIONI

BIOLCATI CRISTINA – Recensione di Lo sguardo deluso degli specchi di Luca Gamberini – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-recensione-a-lo-sguardo-deluso-degli-specchi-di-luca-gamberini-a-cura-di-cristina-biolcati/

FERRAMOSCA ANNAMARIA – Recensione di En cada ventana de azul / Ad ogni finestra d’azzurro di Claudia Piccinno (traduzione di Elisabetta Bagli) – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-en-cada-ventana-de-azul-ad-ogni-finestra-dazzurro-di-claudia-piccinno-recensione-di-annamaria-ferramosca/

FERRAMOSCA ANNAMARIA – Recensione di Ogni respiro un mondo di Tiziana Colusso – https://blogletteratura.com/2024/02/04/n-e-01-2023-recensione-di-ogni-respiro-un-mondo-di-tiziana-colusso-a-cura-di-annamaria-ferramosca/

MAGAZZENI LOREDANA – Recensione di Amatissime di Giulia Caminito – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-la-nostra-casa-sono-i-libri-che-amiamo-libri-da-leggere-libri-che-ci-hanno-formato-libri-amatissimi-e-speciali-come-quello-di-giulia-caminito-amatissime-recensione-di-loredana/

MAUGERI ANGELO – Recensione di Brezza ai margini di José Russotti – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-alternanza-lirica-tra-vita-e-silenzio-brezza-ai-margini-di-jose-russotti-recensione-di-angelo-maugeri/

PELLINO MARIA – Recensione di Lockarmi e curarmi con te di Zairo Ferrante – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-lessenza-dellessere-pensiero-anima-e-ragione-recensione-a-lockarmi-e-curarmi-con-te-di-zairo-ferrante-a-cura-di-maria-pellino/

SIDOTI MARIA GIULIA – Recensione di È già mattina di Alberto Samonà – https://blogletteratura.com/2024/01/31/e-gia-mattina-storia-di-alessandria-la-bambina-che-visse-due-volte-di-alberto-samona-recensione-di-giulia-maria-sidoti/

SPURIO LORENZO – Recensione di La rosa segreta. Velate assenze d’armoniche rime di Paolo Ottaviani – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-la-rosa-segreta-velate-assenze-darmoniche-rime-di-paolo-ottaviani-recensione-di-lorenzo-spurio/

VARGIU LAURA – Recensione di La ragione della polvere di Luca Pizzolitto – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-la-ragione-della-polvere-di-luca-pizzolitto-lestrema-fragilita-del-vivere-recensione-di-laura-vargiu/

VINCITORIO ANNA – Recensione di Solchi nel bianco di Franco Manescalchi – https://blogletteratura.com/2024/01/31/n-e-01-2023-recensione-a-solchi-nel-bianco-di-franco-manescalchi-a-cura-di-anna-vincitorio/

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N.E. 01/2023 – “Un ramo, un affluente, un bagliore. Percorsi lirici: cinque passi nella poesia di Alfredo Pérez Alencart”. Saggio di Vito Davoli

Articolata e complessa è la poetica di Alfredo Pérez Alencart, nutrita nel contempo di profondità filosofica e di delicatezza descrittiva, di apparente semplicità strutturale (che in un’ideale evoluzione temporale sembra definirsi secondo uno schema di “contrazione” che non è certo quantitativo: non si tratta insomma del numero dei versi) e di profondità di pensiero (che tende al sacro nel senso più classico del termine e ne assume le “perimetralità” al di là della confessione in senso lirico ma ben radicata nella fede cristiana in senso umano e umanistico). Una affascinante dualità che fornisce o forse eredita la ricchezza dei germogli culturali radicati in due diversi emisferi del globo ai quali entrambi evidentemente il poeta appartiene, radici e rami, fiume e affluente, lucciola e lampo.

Fatto cento del supporto ideale e filosofico fondante la poetica di Alencart, non si vuole qui svelarne i percorsi generali in un tentativo di sintesi definitiva della stessa, per la quale invece si rimanda alle numerose letture che del poeta peruviano-salmantino sono state elaborate da più parti in tutto il mondo, certamente utili ad entrare nell’universo poetico del Nostro. Non ultime le pregevoli letture di José Luis Ochoa[1] e soprattutto la “grandangolare” rassegna di Yordan Arroyo sulla poetica Alencartiana[2], focalizzate sulla più recente pubblicazione dell’ultima fatica letteraria del poeta, dal titolo El sol de los ciegos, per i tipi del prestigioso editore Vaso Roto.
Senza intaccare i due valenti contributi appena citati, ai quali si rimanda comunque per una opportuna lettura d’insieme della poesia di Alencart, si vuole qui piuttosto evidenziare uno dei tanti possibili percorsi battibili, passeggiando attraverso i versi del Poeta, secondo come essi stessi ne suggeriscono la fruizione, l’elaborazione e l’assimilazione estetica e contenutistica, attraverso la selezione di alcune poesie seguendo le quali si è maturata la presente riflessione.

Ci sembra tratto distintivo di questo possibile percorso, un “sentiero” caratterizzato da alcuni dettagli, strutturali e non solo, nella composizione di una lirica, a cui l’Autore affida rimandi e richiami rendendo compartecipi del messaggio tutti gli elementi, anche appunto strutturali, che la compongono. Si veda per esempio, come utile punto di partenza, in una sorta di cammino al contrario, il tenero componimento Año nuevo recentemente composto per l’amata Jaqueline:

AÑO NUEVO   La orquídea que te ofrezco hoy, brotó el año pasado, princesa.   Es flor cuidada en el invernadero de mi corazón.   Acéptala. No importa que otros la estimen cosa de instantes.   También la aurora lo es, pero renace siempre,   como el amor que te entregué el siglo pasado, princesa.ANNO NUOVO   L’orchidea che oggi ti offro sbocciò l’anno passato principessa.   È fiore ben curato dentro la serra del cuore mio.   Accettala. Non importa che altri la considerino cosa passeggera.   Lo è pure l’aurora però rinasce sempre   come l’amore che ti ho dedicato nel secolo passato, principessa.

Qui il titolo definisce in maniera chiara un locus temporale che lascia poco spazio a fughe diverse: è il nuovo anno! Eppure Alencart, attraverso la semplice evocazione del dono di un fiore e in meno di venti “semplici” versi, stabilisce legami temporali (e non solo!) che disvelano una continuità che è insieme di tempo, appunto, e sentimentale a dispetto della percezione del tempo ordinariamente considerato tale. Pare quasi che stia disegnando, con tratti estremamente delicati, un percorso di eternità che non può che essere il contesto privilegiato del sentimento d’amore, sancendolo attraverso due semplici richiami: el año pasado e el siglo pasado. Entrambi sono legati e sottolineati – casomai al lettore distratto sfuggisse – dalle uniche due invocazioni/identificazioni del destinatario della poesia: princesa. E la chiave interpretativa della poesia sta tutta nella parola instantes, al centro del componimento (qui tradotta con passeggero): non importa che gli altri considerino un fiore cosa passeggera. Lo è anche l’alba eppure sempre rinasce, stabilendo così quel continuum filosofico e sentimentale che travalica e trascende tutto ciò che definisce ordinariamente la condizione umana, percepita tale – come si diceva sopra – da “tutti gli altri”. E in questo senso stabilisce anche l’unicità del rapporto con l’amata – Jaqueline, ovviamente, per chi segue e conosce il poeta – sancito anche solo dalla semplice scelta dell’orchidea come oggetto del dono.

Nella tradizione occidentale, infatti, questo fiore, oltre ad essere simbolo di bellezza, eleganza e armonia, è anche il dono privilegiato riservato all’unica persona che sappiamo corrispondere l’amore e la passione con cui viene donato (l’etimo del nome del fiore la dice lunga sul valore “polisemico” di un simile dono) così come l’atto del dono stesso si configura, nella simbologia del fiore, come un devoto ringraziamento per la concessione dell’amore ricevuto.

Questa reciprocità e questo rapporto unico e unitario si pone, nella prospettiva di questa lirica, al di là del tempo, al di là dello spazio (en el invernadero / de mi corazón) e al di là della condizione umana, come legame fra anime che non possono che abitare l’eternità. Pare quasi voglia sottintendere che un fiore sbocciato nell’anno precedente stia a significare come, dal passato (rafforzato dalla presenza perfino del siglo, appunto, pasado) rifiorisca puntualmente come un’aurora fa ogni giorno, quasi a pesar del año nuevo, quasi nonostante il nuovo anno. Ed è splendida la forma con la quale Alencart racchiude all’interno di così pochi versi e così apparentemente semplici, un impianto di pensiero e di sentimento che frantuma la retorica abusata dell’amore, affidando mirabilmente l’originalità dell’elaborazione alla struttura e alla composizione stessa del testo poetico.

Oltretutto, il richiamo all’eternità, all’unione eterna, alla “vita” eterna non è solo dimensione lirica di un contesto d’amore ma pare arricchita, anche solo allusivamente, da un supporto ben più consistente, secondo un ottica che scopriremo più avanti. È nell’eternità che si compie il senso umano del passaggio sulla terra, sembra voler dire il poeta. «No es casual que el lenguaje de Pérez Alencart contenga un matiz religioso, y se nutra asimismo de la Biblia y la mística española para establecer un sistema de correspondencias y/o afinidades» (David Cortés Cabán)[3].

Ma pensare che l’apporto da un lato filosofico e dall’altro spirituale sia l’unica matrice della poesia di Alencart sarebbe completamente fuorviante. La capacità di fondere registri mantenendo vividi quei dettagli che consentono all’uno di fornire la cornice all’altro e viceversa, sembra quasi essere prerogativa del labor alencartiano.

Nella poesia che segue dal titolo Perfume, inclusa nella più recente silloge del Nostro, El sol de los ciegos (Vaso Roto, 2021), è impossibile non avvertire un afflato di sensualità vivida eppure delicata, coinvolgente e mai straripante, contenuta e mai smodata che incornicia richiami di natura diversa e possibilità interpretative, ermeneuticamente e direi perfino culturalmente (non a caso Juan Marez apre il suo commento con un richiamo geografico netto al Perù, terra natale di Alencart) ben più ampie dei soli testo e intertesto – esiste anche un metatesto, del tutto spalancato – qui così strettamente intrecciati. Una sensualità che “pretende” di stimolare perfino l’olfatto attraverso la parola e il linguaggio e che nel contempo lascia orizzonti spaziali immaginifici completamente “aperti” anche strutturalmente.

Consideriamo per qualche istante il bel commento, particolarmente lirico, a questa poesia, del colombiano Juan Marez che così scrive: «Himeneos de cantos antiguos amando la belleza, la que brota del alma y no se atrapa en el cuerpo. Dos estados diferentes para la amada eterna. “De cuerpo y alma”, vegetación de efluvios»[4].

Ancora una volta, contratti in un’affascinante fusione, elementi di natura diversa interagiscono su piani interpretativi differenti mantenendo intatta la semplice fruizione del verso in quanto tale. Non è difficile immaginare i due amanti stesi l’uno accanto all’altro attraverso pochissime semplici parole che evocano la scena senza descriverla, perimetrandola in una concretezza che slarga solo nel momento in cui vengono chiamati in causa i sogni, quel “luogo” fin dove il poeta ardisce a spingersi pur di raggiungere l’amata e dal cui momento in poi le immagini perdono concretezza per ampliarsi, mantenendo l’allusività, in voli di farfalle da selve lontane fino a diluirsi nella delicata percezione olfattiva e a rendere quasi evanescente il tutto senza mettere un punto, senza definire alcunché. Perché è un componimento che resta aperto, grazie a quel mientras la noche… la cui sapiente iterazione sul finale sorprendentemente chiude il cerchio strutturale della lirica lasciando aperti gli orizzonti ermeneutici della stessa. Ancora una volta significati e significanti giocano e compartecipano, a un livello diverso e più alto, alla costruzione minuziosa (ecco il senso della contrazione alencartiana! Che più consapevolmente ora possiamo definire concentrazione) dei tasselli ideali che si intersecano a rappresentare l’universo di Alencart.

PERFUME   Reconozco ese aroma próximo a mi almohada, en tu cuello, mientras la noche…   Te alcanzo a cada respiración y me sumo a ti hasta en tus sueños,   allí donde estamos a pie de vida, juntos, como dos mariposas que volaron desde selvas lejanas.   El olfato también roza, meintras la noche…PROFUMO   Riconosco quest’aroma prossimo al mio cuscino, sul tuo collo, mentre la notte…   Ti raggiungo in ogni tuo respiro e mi unisco a te fin dentro i tuoi sogni,   lì dove stiamo percorrendo la vita, insieme, come due farfalle che hanno volato da selve lontane.   L’olfatto pure sfiora, mentre la notte…

La contrazione del significato dentro una struttura di significanti particolarmente ricca è ancora più evidente nella lirica del 2002 Presagios, appartenente alla silloge Madre Selva, dello stesso anno.

In questo caso Alencart non crea ex-novo una struttura di significanti come nel caso dell’orchidea del año nuevo ma parte da un’immagine la cui ricchezza simbolica deve essere data per assunta se si vuol godere a pieno della miglior comprensione della lirica. Il colibrì, infatti, ha un valore particolarmente pregno nelle culture latino-americane che hanno ereditato la “simbologia” di questo magnifico piccolo uccello dall’antica tradizione Maya poi arrivata fino a noi. In altri termini: se in año nuevo l’orchidea con tutto il suo apparato simbolico può rimanere anche un non-significante senza che sia compromesso (certo, impoverito) il senso ultimo della lirica che trova altri sbocchi e altre strade (quelle sopra citate) per giungere al medesimo risultato, senza il colibrì e il suo apparato allegorico, questa lirica Presagios che segue, resterebbe invece quasi completamente oscura. Sarà opportuno sintetizzare la leggenda antica e alla luce di quella rileggere i versi che seguono per riottenerne una intensità del tutto diversa.

Secondo i Maya, infatti, il colibrì aveva il potere di infondere gioia e amore negli umani al punto da essere ritenuto capace di poteri di guarigione e perciò stesso sacro.

«La leggenda Maya del colibrì inizia quando gli dei crearono ogni singolo animale con un compito specifico da svolgere sulla terra. Una volta finita la distribuzione, si resero conto che mancava un lavoro molto importante: serviva un messaggero per trasportare i loro pensieri e desideri da un luogo ad un altro. Ma non c’era più materiale per creare un nuovo animale.

Così gli dei, creatori del possibile e dell’impossibile, decisero di fare qualcosa di più speciale. Presero una pietra di giada e scolpirono una freccia, che simboleggia il viaggio.

Trascorsi un paio di giorni, soffiarono così forte che la freccia volò attraverso i cieli fino a diventare un bellissimo uccello multicolore. Così nacque x ts’unu’um , vale a dire il colibrì.

Il colibrì iniziò a trasportare pensieri e desideri, senza che gli uomini se ne rendessero conto. Ma a un certo punto questi iniziarono a catturare il bellissimo uccello, ammaliati dalla bellezze delle sue piume»[5].

Per quest’atto di hybris dell’uomo rispetto alla sacralità dell’uccello, gli dei si adirarono al punto di lanciare il proprio anatema: chiunque avesse catturato un colibrì sarebbe stato punito con la morte! Ma proprio perché sacro agli dei, il colibrì mantiene intatto il suo carico di positività giacché quando si vede un colibrì qualcuno – si dice, non a caso – da lontano manda auguri e amore. Foriero dunque di buona novella (buena nueva) e fausti presagi.

PRESAGIOS    A lo lejos, a la altura de las ramas estremecidas por el vuelo silencioso del colibrí, ofrecen su buena nueva los presagios.    Crece algo así como un humo que el viento no voltea.    Leo en el gran cielo un mensaje hecho de miel y de ceniza.    Enardecidos amaneceres abren senderos para el retorno emprendido.   Por mis venas ahora vuela el colibrí.PRESAGI    Lontano dall’alto dei rami tremanti al tacito volo del colibrì, offrono buone novelle i presagi.   Così cresce qualcosa come fumo che il vento non mulina.   Leggo nel cielo immenso un messaggio di miele e di cenere.   Albe infuocate svelano sentieri per il ritorno intrapreso.   Per le mie vene vola adesso il colibrì.

Si recuperino pertanto tre dati importanti relativi a questo mito: il colibrì è messaggero del divino ed è così strumento di sacralità; è impossibile afferrarlo a meno che sua sponte non si approssimi ed anzi, catturarlo scatenerebbe le ire del divino; se avvistato il colibrì è portatore di auguri e buoni presagi. È evidente come la lirica abbia necessità di assunzione di questi dati per rivelare tutto il suo potenziale polisemico e tutta la sua carica spirituale. Rileggendola alla luce di questi sembra aprirsi ad orizzonti particolarmente carichi di quei significati che restano gli stessi fondamentali costituenti la poetica alencartiana.

Particolarmente affascinante il ritorno dell’immagine dell’alba. Se nella prima lirica era un semplice termine di paragone rispetto all’orchidea, ad indicare la possibilità della rinascita, qui è elemento attivo e didascalico, illuminante. È l’elemento della luce di questa lirica, che entra a svelare e chiarire percorsi già intrapresi quasi alla cieca, mostrandone in chiaro l’intera geografia. Così in qualche modo, la chiusa della poesia sembra confermare, col suo presagio positivo, che quella intrapresa è la strada giusta: il colibrì appartiene al poeta ormai come elemento intrinseco, fin nelle vene. E la maledizione divina è scongiurata dal fatto che non è l’uomo ad averlo catturato ma esso stesso a volargli – magnifica immagine – nelle vene.

Eppure proprio la chiusa mantiene un affascinante alone di ambivalenza che in qualche modo non esclude un umanissima riflessione rispetto alla morte, comprensibile ed ineludibile ma che, ancora una volta, lascia aperta la lirica e le possibilità di riflessione senza mettere un punto di chiusura oggettivo ma mantenendo integra la soggettività della posizione del poeta.

Un impianto elaborato in questo modo e orchestrato in una struttura particolarmente densa, esprime il meglio della propria carica emotiva ed intellettuale non tanto nella dilatazione polisemica del testo quanto piuttosto, al contrario – e parrebbe un paradosso ma cos’è la poesia se non anche un gioco che tende a stravolgere sistemi consolidati anche sul piano tecnico e strutturale? – nella concentrazione semantica del significante che meglio consente – e in questo senso la sinteticità dei testi diviene necessaria e al contempo ottimale – schemi immaginifici quasi a definire il percorso dell’acquisizione del significato da parte del lettore. Il poeta cioè si fa anche guida generosa nell’iter lirico delineato dai propri versi. Non è certo una pedante premura didattica: direi piuttosto una generosa preoccupazione contenutistica.

Il poeta Alfredo Pérez Alencart

Di tutt’altra temperatura la poesia Luciérnagas, sempre del 2002 nella medesima raccolta Madre Selva. La inseriamo in questo contesto proprio per evidenziare un controcanto allo sviluppo di una poetica che parte da lontano rimanendo capace di registri differenti al punto, come in questo caso, da essere quasi completamente scevra da strutture significanti necessarie alla comprensione della lirica. Qui il testo sembra non essere più solo evocativo o per lo meno il registro preponderante non pare più solo questo. Né semplicemente descrittivo. Ricorda piuttosto la fascinazione sorpresa e sorprendente delle atmosfere di Juan Ramon Jiménez e il sapore dello stupore lorchiano, il bagliore quasi improvviso, l’incanto che non richiede neppure di essere compreso se non probabilmente solo goduto. L’intento didascalico si sfuma  fino a divenire impercettibile quanto più il fermo-immagine definisce nel tempo e nella storia (anche la propria storia) una situazione connotata da dettagli che la identificano. Sebbene vada pure sottolineato che altrove la luciernaga si fa qualcosa di più nell’universo poetico alencartinao. Ma la luce… quella è tornata anche in questa lirica. E non a caso il tratto distintivo di questa poesia è proprio la luce che, nell’elaborazione stilistica del Nostro ridefinisce i contorni di una percezione attraverso una misura che restituisce il poeta, quasi “automaticamente”, di colpo, all’improvviso, al tiempo de la infancia. Non il contrario.

LUCIÉRNAGAS   Me acerqué al encantamiento. Vi farolas al crepúsculo, mecheros encendidos como fuegos aleteados. Dádivas volando, centellas delante de mis ojos. Fue en el tiempo de la infancia. Fue cuando se tejen asombros ante la luz de las luciérnagas.LUCCIOLE   Fui prossimo all’incanto. Al crepuscolo vidi lampioni, accendini infuocati come fiamme tremanti. Volavano doni, scintille davanti ai miei occhi. Fui nel tempo dell’infanzia. Era quando s’intrecciano stupori davanti alla luce delle lucciole.

E quando si perde anche l’incanto? In questo mio breve e modesto percorso critico “discendente” (non certo in senso qualitativo se si continua a tener presente il punto di partenza di questa riflessione in riferimento alla produzione del poeta peruviano-salmantino, né certamente quantitativo, come si spera di dimostrare in chiusura) si giunge all’essenzialità dell’espressione poetica che non richiede più didascalie e spiegazioni, suggerimenti o indicazioni di percorsi intrapresi che solo “l’alba infuocata” restituisce alla vista e all’appropriazione.

Nella poesia Campo de refugiados si ha quasi l’idea di una dirittura d’arrivo, come una deriva che per un momento cede allo sconforto di una domanda insieme tragica e retorica: «quale guerra perdono certi bambini senza averla neppure provocata o voluta?». Si susseguono, così, dettagli su dettagli, estremamente concreti quasi tangibili, madri che sotterrano i corpi dei figli, anziani immobili quasi confusi al fango e alle polveri nelle quali giacciono, infermi che hanno perso persino la voglia di raccontare, di tramandare le proprie esperienze. È un panorama di desolazione tragico e assoluto, quasi come scena di una tragedia antica dove un autentico dolore è racchiuso magnificamente nella descrizione di una faida al centro del cuore, come se il poeta ne avvertisse i pugni. Eppure l’ultima strofa, pur non intaccando affatto le tinte fosche di questo scenario apocalittico, apre una feritoia ermeneutica in quel mea culpa la cui sola citazione, nonostante il sin entonar addita e mostra chiaramente (non è un caso che siano proprio le ultime parole nella chiusa della lirica, quelle che alla fin fine più restano) la strada, la via d’uscita, sebbene in questo contesto del tutto inattesa. Mette in atto Alencart un espediente che attraverso la negazione, tira invece in ballo proprio ciò che si sta negando, ciò che apparentemente resta occluso, nascosto, negato. Ripeterà questo stesso espediente letterario anche – e  non solo – nella splendida poesia Incendios, a cui si rimanda a titolo esemplificativo. Intanto in un campo profughi…

CAMPO DE REFUGIADOS   Y estos niños ¿qué combate perdieron sin haberlos provocado?    Mujeres que sólo esperan para enterrar a sus criaturas.    Pues yo miraba ancianos entre el polvo o el barro de esos laberintos,    hombres enfermos que ya ni cuentan lo que han vivido.    Otra vez la gente agolpándose en el centro de mi corazón,    otra vez la humanidad sin entonar su mea culpa.CAMPO PROFUGHI   E questi bimbi che guerra hanno perduto senza provocarla?   Donne che aspettano soltanto di sotterrare le proprie creature.   Così osservavo anziani fra la polvere e il fango di questi labirinti,   uomini infermi neppure più raccontano quello che hanno vissuto.   Di nuovo la gente s’accalca nel centro del cuore mio,   l’umanità di nuovo senza intonare i suoi mea culpa.

Alencart batte su diversi registri, suona diverse corde e, come un direttore d’orchestra, sa suonarle tutte e soprattutto sa armonizzarle in una sinfonia che declina in diverse stagioni un medesimo sentire e nella stessa stagione sentimenti diversi. Mi piace pensare a un sotteso dualismo che diviene ricchezza essenziale della poetica alencartiana nella preminente traduzione dell’opposizione fra l’essenza della luce e l’assenza di luce, la ceguera, che, citando nuovamente il più recente lavoro del Nostro, El sol de los ciegos, così efficacemente esprime Amarù Vanegas sulla rivista Nueva York Poetry: Alfredo Pérez Alencart «nos lleva al centro esencial de la poesía y nos enseña que las transformaciones se gestan en la luminiscencia a la que preceden las sombras, una experiencia donde el aprendiz se alumbra solo después de pasar por la ceguera para salir de allí “con las pupilas alucinadas»[6].

È sintomatico e quasi naturale che questo percorso porti inevitabilmente all’ultima opera di Alencart, maturata negli anni e che forse non a caso trova compimento solo ora. Il punto d’arrivo, cioè, di un percorso che fonde insieme questi registri attraverso i quali il poeta si è mosso durante tutta la sua lunga carriera letteraria. Ed è inevitabile che la sintesi di questo iter traduca proprio nella luce tanto gli intenti evocativi quanto quelli descrittivi, tanto gli intenti allegorici quanto i dati di denuncia più concretamente sociale. Non è un caso che il titolo dell’opera sintetizzi questo percorso in modo straordinariamente efficace: “il sole dei ciechi” lascia un evanescente quanto affascinante alone di ambiguità – che è pure l’anima stessa di quella luce – tra l’ambizione alla luce e l’alternativa alla luce per un cieco. Ma è pure sconfinamento di ambivalenza, mai alternativa sul senso stesso della cecità in quanto incapacità, impossibilità o mancanza di volontà a vedere. Ecco come anche l’intento didascalico rientra prepotentemente in gioco in una silloge da godere profondamente su tutti i livelli di fruizione che la stessa propone e con la quale si propone.

Si veda ancora una volta la poesia Incendios, per la prima volta in italiano (come tutte le poesie qui citate[7]) dove già dai primi versi tutti questi elementi trovano ordine quasi dichiarativo nella prima strofa: «Este mundo / es un incendio al que / muchos avientan / sal / con las manos / ahuecadas». Sono chiamati in causa elementi assolutamente realistici e tangibili a sintetizzare la metafora del mondo come elemento sociale, attraverso immagini di azioni concrete particolarmente affascinanti a descrivere gli effetti dell’azione umana tanto sul pianeta (non è una poesia ecologista) quanto sul mondo inteso come umanità. Ed ecco esplodere (anzi, direi implodere) la metafora della luce subito dopo, piegata ‘sta volta a farsi negazione di se stessa laddove quella presenza non è che sentenza, condanna che lascia il mondo nell’oscurità: «Este mundo / es morada oscura, / aunque / tenga hogueras listas / para sentencia». È certo un panorama sconfortante, anche di dolore, eppure… la poesia di Alencart non è mai nutrita da un pessimismo irreversibile: quei falò, quei fuochi, alzano un fumo (ricordate quel algo como humo della poesia Presagios?) al di là del quale, quasi senza voce, soffocano necessità di suppliche e quella luce non può che farsi essa stessa voce che denuncia e sancisce in qualche modo proprio quella necessità racchiusa e denunciata nelle parole se acallan afónicas. Un gioco ermeneutico, quello della doppia negazione (anche semantica), a cui Alencart ci ha già abituati e istruiti.

INCENDIOS[8]   Este mundo 
es un incendio al que
muchos avientan
sal
con las manos
ahuecadas. Este mundo
es morada oscura,
aunque
tenga hogueras listas
para sentencia.  Tras el humo
se acallan
afónicas súplicas de
purificación.
INCENDI   Questo mondo
è un incendio sul quale
molti spargono
sale
con le mani
a coppa. 
Questo mondo
è dimora oscura
sebbene
abbia roghi pronti
alla condanna. 
Al di là del fumo
soffocano
afoniche suppliche di
purificazione.

Sintesi di luce, dunque, che pure sul piano letterario trova nobili radici che opportunamente ed acutamente Yordan Arroyo evidenzia nel suo bel saggio sopra citato: «punto importante de este mismo pasaje de la Divina Comedia que se conecta con el poemario de Alencart se encuentra entre los versos 67, 68 y 69: “La luz la tienen los ciegos apagada: / y así a estas sombras, en su noche oscura, / de los cielos la luz está negada” (Trad. Bartolomé Mitre)». Allora non risulta più così complesso comprendere il valore di quella luce lungo tutto il percorso Alencartiano se possiamo considerare la Commedia una chiave d’accesso all’elaborazione lirica del sentire del Nostro: basti pensare al valore che “quella Luce” ha nel Paradiso dantesco. E forse –partendo da lì – non solo in quello.


[1] J. L. OCHOA, La luz salvífica, presente en ‘El sol de los ciegos’ in «TIBERIADES, Red iberoamericana de Poetas y Criticos Literarios Cristianos»

https://tiberiades.org/?p=5973&fbclid=IwAR0Rs0kvbsBeU1LjReL-VqjlAyEcCElmicfmplG3wHTYBR3mBJd-17u56ME

[2] Y. ARROYO, Sobre la poesía de Alfredo Pérez Alencart. Texto de Yordan Arroyo in «CÍRCULO DE POESÍA, Revista electrónica de literatura»

https://circulodepoesia.com/2021/12/sobre-la-poesia-de-alfredo-perez-alencart-texto-de-yordan-arroyo/?fbclid=IwAR3gJaDK2YTkuNPAD63D_0Cnc1WL2Vg3AU6vftSrHic0L_ezdoTGNUupj-w

[3] «Non è un caso che il linguaggio di Pérez Alencart contenga una sfumatura religiosa e si nutra perciò stesso della Bibbia e della mistica spagnola per stabilire un sistema di corrispondenza e/o di affinità»: D. C. CABÁN, Un corazón, una historia: la poesía de Alfredo Pérez Alencart in «LETRALIA, Tierra de letras» del 29/11/2020.

https://letralia.com/lecturas/2020/11/29/encumbra-tu-corazon-alfredo-perez-alencart

[4] «Imene di antichi canti che amano la bellezza, quella che scaturisce dall’anima e non è intrappolata nel corpo. Due stati diversi per l’eterna amata. “Di corpo e anima”, vegetazione di effluvi».

[5] R. RAGNI, La leggenda Maya del colibrì in «Greenme» del 14/03/2017

https://www.greenme.it/vivere/mente-emozioni/leggenda-maya-colibri

[6] «A.P.A. ci riporta al centro essenziale della poesia e ci mostra che le trasformazioni si covano nella luminescenza alla quale si arriva dall’ombra, un’esperienza nella quale l’apprendista si illumina solo dopo essere passato per la cecità per risalire da lì “con le pupille allucinate”»: A. VANEGAS, El sol de los ciegos, Alfredo Peréz Alencart in «NUEVA YORK POETRY, Review» del 11/01/2022

http://www.nuevayorkpoetryreview.com/Nueva-york-Poetry-Review-3424-53-el-sol-de-los-ciegos-alfredo-perez-alencart?fbclid=IwAR0cV2p-c_bBYTd4g2STk3EXOCmzwyLY-45RPzfNVTI7ulA9Vfs3I9N5tYQ

[7] Tutte le poesie di Alfredo Pérez Alencart presenti in questo saggio, sono state qui tradotte per la prima volta in italiano ad eccezione della poesia Perfume che gode pure di una pregevole traduzione italiana precedente del poeta ed editore romano Beppe Costa edita in A. PÉREZ ALENCART, Encumbra tu corazon, Ed. Tiberiades – PellicanoLibri 2020, pp.46-47.

[8] L’ultima fatica letteraria del Nostro consta di ben 100 poesie, selezionate dall’autore all’interno di una produzione di oltre 200 componimenti di «temperatura affine» scritti nell’arco di oltre un decennio fino alla settimana precedente la pubblicazione. Riservandosi comunque per gli anni a venire la pubblicazione completa e definitiva de El sol de los ciegos.

Il suo nuovo poemario, è dedicato a Jaqueline, moglie e compagna di vita recentemente scomparsa, che da tempo insisteva affinché il poeta salmantino di origini peruviane accettasse di pubblicare con una casa editrice così prestigiosa. «E così feci – dichiara Alencart al periodico La Razón – solo poche ore prima della sua dipartita, dall’ospedale dove accompagnai i suoi ultimi istanti di vita. Però la porto sempre con me, allora e oggi, e anche per il futuro».

«Non é solo la fede cristiana ad unirci – aggiunge il poeta – quanto il fatto di percepirla davvero in una realtà altra dove nessuno può compromettere i desideri e le affinità. Oggi posso confermare la teoria di Platone per la quale dentro una caverna, attorno a un fuoco, gli astanti percepiscono solo le ombre di una realtà apparente».

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Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

N.E. 01/2023 – “En cada ventana de azul / Ad ogni finestra d’azzurro” di Claudia Piccinno. Recensione di Annamaria Ferramosca

É con grande gioia che attraverso questa ultima raccolta di Claudia Piccinno, innanzitutto guardando alla bellissima intesa dell’autrice con l’amica poeta e sua straordinaria traduttrice Elisabetta Bagli, intesa che continua il dialogo intessuto dalle due amiche nella precedente intensa raccolta a quattro mani, dal titolo Versos Cruzados (Editorial Dunken, 2021).

Questa corrente empatica che porta a realizzare un dialogo poetico oppure, come in questo libro, a offrire le proprie poesie in traduzione, mi conferma l’efficacia comunicativa di una modalità di incontro tra poeti che riflette un profondo scambio emozionale, ma che si spinge al di là della solita dilatazione della parola oltre un confine linguistico. Leggiamo infatti questo scambio come qualcosa che, attestando l’incontro  tra due sensibilità, si oppone alla possibile deriva egoica e spesso autoreferenziale di una scrittura individuale tout court.

Ma cerchiamo di entrare nelle stanze di questa raccolta che nel titolo dichiara l’apertura all’azzurro, elemento cromatico collegato da sempre, oltre che alla spiritualità, alla profondità e alla vastità. Chi legge avverte infatti subito l’aprirsi di un largo cielo visionario che attraversa realtà e memoria, natura e mito, ma che diventa anche un mare, il mare della vita personale e collettiva, le cui onde sono gli infiniti e pure inaspettati eventi da affrontare, le ferite ricevute, l’incessante ripetersi di naufragi collettivi per gli errori umani, ma anche il resistere ostinato della speranza.

In questo vasto azzurro i testi si stagliano nella loro concisione e limpidezza, come a indicare l’urgente necessità di una sincera comunicazione volta ad un rigenerarsi collettivo, nonostante le rare gioie e le più frequenti amarezze oscurino l’intensità dell’azzurro con l’ombra del disincanto.

Così accade che la percezione degli eventi nel mondo e la riflessione sull’esistenza si mescolino di continuo dando vita a scene ed epifanie in un mosaico visivo e simbolico costantemente caratterizzato da un’incisiva impronta etica.

E percorrendo dall’inizio i testi notiamo subito come la prima urgenza comunicativa  sia stata quella di salvare la sacralità degli affetti fondamentali, sottraendo per sempre dalla evanescenza la memoria dei genitori scomparsi (Ad ogni finestra d’azzurro; A mio padre).

Sono queste prime finestre ad aprirsi e lo fanno in modo invertito, non aprendosi all’esterno, ma nel proprio cielo interiore, a indicare il senso profondo di un sentimento assoluto, incrollabile, dispiegato attraverso percezioni uditive (la voce materna che chiama dal cortile dei giochi), olfattive (il profumo delle arance raccolte dal padre), simboliche (la piuma, il vento, le corone d’alloro). Qui subito si evidenzia la cifra poetica di Claudia Piccinno nella forma e nel ritmo, con l’andamento libero e armonioso di un racconto-fabula in versi, a volte scosso dal battere delle anafore, spesso chiuso da un finale epifanico.

Un’altra finestra di grande delicatezza psicologica, che si apre nell’azzurro della memoria è quella che dice di un’altra mancanza, così crudele perchè avvenuta durante l’infanzia (Compagno di scuola), quando si è disarmati, tanto da sentirsi “in castigo” , per chissà quali piccole colpe ingigantite dalla perdita (quanti tra i lettori si riconosceranno in questa dimensione!).

L’esercizio incessante dello sguardo porta poi inevitabilmente l’autrice a notare le colpevoli incongruenze della contemporaneità, il mancato progresso sociale ed etico, se ancora  non solo non si è raggiunta la vera parità di genere (giacché la donna è ancora oggi paragonabile alla sapiente Aspasia di Mileto, non riconosciuta nel suo valore perfino dallo stesso Pericle che l’aveva amata), ma anche perché ancora l’umanità persevera nell’errore, non annullandosi l’assurdità di guerre e violenze. Sono, queste, le domande centrali dell’oggi, cui ogni poeta non può sottrarsi. Sono domande che sottendono il senso universale profondo dell’esistere, mentre si continua a percepire il correre della vita come un insulso girare a vuoto, anzi come solo “ rumore “, privo com’è della luce dell’incontro vero (Nel codice alfanumerico).

E l’autrice reagisce ad ogni deriva dichiarando di non poter che “predisporsi al silenzio”, come in una rassegnazione muta, che trova sollievo solo nella contemplazione e nell’ascolto della natura. Sì, perchè in natura perfino le pietre, con le loro soluzioni di saggezza geologica millenaria, ci parlano di un equilibrio tra materia vivente e non vivente ancora possibile (La rupe; Le pietre di Sardegna). Se sappiamo ascoltarlo, vi è un intero continente fuori di noi che ci parla: voci di rocce acque piante a indicarci, semplicemente coabitando in vantaggio reciproco, una dimensione armonica di salvezza.

Per Claudia Piccinno vi è anche un’altra soluzione di resistenza, che sale dal profondo della sua interiorità: è il fermo proposito di conservare intatta la propria schiettezza, non tener conto del disconoscimento altrui del proprio valore, di ogni ingratitudine, anche se è doloroso veder montare la disillusione e cadere l’entusiasmo.

Ci rendiamo allora conto che queste riflessioni di Claudia Piccinno sono anche le nostre, anzi riconosciamo, come sempre accade in poesia, il senso universale che investe questa parola poetica nel nostro tempo di deriva, tempo del disincontro, che scorre tra virtuale e tecnologia, tra indifferenza e superficialità. Claudia Piccinno, come altri poeti contemporanei (posso citare Jorie Graham, Cristina Bove, Laura Liberale, Giuseppe Yussuf Conte), sta lanciando un alert in poesia, che è la nostra fiera ribellione contro la disumanità che avanza con il suo corredo di potere, alienazione, mancanza di solidarietà. E dunque accogliamo la sua indicazione nel voler restare “vetro”, che sopravvive in virtù della propria limpidezza (Plastica nelle vetrine); soluzione di semplicità cristallina, non affidata a formule, ma al proprio istinto che, decidendo di sottrarsi ad ogni pesantezza da pensieri dolorosi o da urti ricevuti, cerca solo la levità, l’onestà, la benevolenza, l’incontro e il continuo stupore (L’arte del sottrarre).

Questa scrittura di donna non poteva poi escludere l’esperienza di madre tormentata, come lo sono tante madri, che però lascia sempre aperta la porta alla fiducia nel futuro, purchè sia costruita con il legno del coraggio e mai della resa (Lente le ore), con la consapevolezza che ogni esperienza, anche la più dolorosa, è riserva di forza e sempre di sovrabbondante voglia di donare (Il dolore che mi porto dentro).

 La scrittura ritorna poi a trasmettere le voci autentiche dell’umanità abbattuta e violentata nel passato, il grido di sangue versato nei conflitti che giunge da luoghi e immagini significative (Cracovia, il Piave, l’olivo di Fossoli giunto da Israele), per ricordare ancora una volta l’insensatezza della morte per-uomo (Zio Tore; Ciao Gazzella).

Non sono poi da tralasciare le poesie raccolte a fine libro nella sezione Frammenti di vita, dove l’autrice mostra la sua ricchezza visionaria unita alla sapienza nel mescolare immagini, colori e sensazioni e alla sua straordinaria padronanza del ritmo (Ragnatele cremisi e segg.).

Poesia profondamente civile e dunque profondamente contemporanea, pure poesia coraggiosa, che prende le distanze da ogni eventuale giudizio smaccatamente letterario-estetico, preferendo dichiarare la propria fede aperta alla parola della speranza: quella di un’inversione di rotta dell’umanità verso l’etica dei comportamenti, la sola dimensione che fa umano l’essere umano (E tu nascesti, nasci e nascerai).

Per queste ragioni sento questi versi costeggiare la Parola assoluta, divenire segno umano degno di memoria.

E per queste ragioni invito caldamente i lettori in due lingue a leggere queste pagine.

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Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

“Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per F.G. Lorca” di Lorenzo Spurio. Recensione di Isabella Michela Affinito

Recensione di ISABELLA MICHELA AFFINITO

«[…] Lungo una strada va/ la morte incoronata/ di fiori d’arancio appassiti./ Canta e canta/ una canzone/ sulla chitarra bianca,/ e canta, canta, canta.// Sulle torri gialle/ tacciono le campane.// Il vento con la polvere/ compone prore d’argento.» (Dalla poesia Clamore di Federico García Lorca, tratta dal libro monografico n°5 Federico García Lorca – POESIE, Collana “La Grande Poesia – Corriere della Sera”, Edizione speciale per il Corriere della Sera, RCS Quotidiani S.p.A. di Milano, Anno 2004, pag.49).

L’omaggio poetico che il saggista scrittore critico letterario della provincia di Ancona, Lorenzo Spurio, ha voluto dedicare a uno dei più importanti personaggi della letteratura spagnola del primo Novecento, Federico García Lorca (1898-1936), assomiglia alla magistrale e temeraria entrata dell’abile surfista nella galleria d’acqua provvisoria dell’onda ‘perfetta’, fino a percorrerla tutta prima del suo rovescio sulla superficie marina.

Gli aranci sono in riferimento alle terre calde che li producono, terre assolate dove gli inverni sono miti come la nostra Italia del Sud, le regioni mediterranee, piuttosto che la Spagna dove sul finire dell’Ottocento nacque, nei pressi di Granada in Andalusia (zona della Spagna meridionale) colui che divenne il poeta e non solo, Federico García Lorca, della vita con tutte le sue inquietudini soprattutto imbevuta di pianto e di sangue, di paesaggi coi suoi fiori frutti e plurimi colori, di giustizia mancata e di surrealismo che s’andava affermando in quegli anni del secolo moderno – lo scrittore andaluso fu amico fraterno dell’artista catalano inquieto e stravagante surrealista, Salvador Dalì, a cui destinò la sua prosa poetica titolata Ode a Salvador Dalí.

La menta perché probabilmente in mezzo a tanta inclemente arsura di terre infuocate dai raggi solari, essa come erba aromatica rappresenta la freschezza dei luoghi umidi dove nasce e così la figura eroica-letteraria dello stesso Lorca si staglia dal gruppo dell’oltre la decina di liriche che il poeta Lorenzo Spurio ha composto per Egli, morto prematuramente all’età di trentotto anni e che fece parte della memorabile “Generazione del ‘27” all’indomani dell’instaurazione del regima franchista contro la Repubblica dando il via alla guerra civile durata fino all’aprile 1939; cosicché il 19 agosto 1936 venne crudelmente fucilato il poeta Lorca dai sostenitori del dittatore Generale Francisco Franco (solo dopo la morte di quest’ultimo nel 1975 finalmente la produzione letteraria di García Lorca ha potuto meritare la divulgazione e il mondiale riconoscimento) a qualche chilometro da Granada, allacciandosi idealmente al celebre dipinto del precedente artista spagnolo ritrattista della famiglia reale di Carlo V, Francisco Goya, del 1814 titolato Fucilazioni del 3 maggio.

Dicevamo della rassomiglianza con l’immagine del provetto surfista perché i versi di Lorenzo Spurio diffondono un equilibrio perfetto in sintonia con quelli di Federico García Lorca: nel versificare la territorialità, gli ambienti caldi andalusi di Lorca il poeta delle Marche s’è unito all’universale respiro letterario ardente lorchiano fatto di attimi stillanti musicalità, dramma, simbolismo, surrealismo, ermetismo, passione lacerante e lacerata da improvvisi colpi di scena tra cui, fra i tanti, la morte per ferimento alle cinque della sera durante l’esibizione tipica spagnola, la corrida, dell’altro suo carissimo amico torero Ignacio Sánchez Mejías, a cui dedicò una lunghissima struggente poesia (1935), divisa in quattro parti, carica di valori correlati alla vita stessa fatta di dolore e di lotte.

Così ha composto il poeta Spurio in relazione a quell’episodio: «[…] Nelle tribolazioni invereconde e nella polvere/ paraventi di luna che fugge alla notte/ incunaboli di dolore in tabernacoli di pianto/ il fluido rosso fondamento di sacrificio.// Nelle cuevas gitane l’umidore sembrò placarsi;/ quella sera la luna non si presentò/ talmente impaurita preferì nascondersi/ ma alle cinque, tu, dov’eri? » (Dalla poesia La luna si nasconde, pagg.18-19).

Per comprendere appieno i testi poetici della silloge in questione dell’autore iesino, bisogna prima conoscere la breve eppure complessa esistenza del poeta Federico García Lorca, che crebbe in una famiglia dove non c’erano problemi economici dato che il padre era un ricco possidente terriero e la madre, seconda moglie, era insegnante ma di salute cagionevole per cui il piccolo Federico venne allattato dalla moglie del responsabile di un’azienda agricola, che aveva il compito di controllare i subalterni, e forse soprattutto per questo il poeta da adulto divenne il propugnatore del concetto d’uguaglianza tra gli uomini: dai gitani ai negri, agli ebrei, alla gente più umile…

La madre lasciò l’insegnamento per dedicarsi con cura all’educazione del figlio, trasmettendogli l’amore per la musica (il pianoforte) e stimolandogli una grande sensibilità, anche perché Federico García Lorca nacque sotto il Segno zodiacale d’Aria dei Gemelli, il 5 giugno 1898 a Fuente Vaqueros, votato alla parola, ai viaggi, alla curiosità, al protagonismo con già una platea interiore pronta ad applaudirlo, all’amicizia, alla novità sotto tutti i punti di vista.

La corrente surrealista, in ambito artistico e letterario, si fece largo dopo il primo decennio del Novecento in Francia, a proposito del poeta scrittore critico d’arte, Guillaume Apollinaire (1880-1918), che usò per primo il termine sur-réalisme e man mano entrarono a farne parte le teorie inerenti l’inconscio grazie specialmente alla psicoanalisi di Sigmund Freud, l’immaginazione liberata dalla ragione, la casualità, il sogno e in Spagna uno dei più importanti pittori surrealisti fu, appunto, Salvador Dalí, ammiratore sin dall’epoca universitaria di Lorca, il quale prima si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza poi passò a quella di Lettere, insieme al regista Luis Buñuel e un’altra importante amicizia di García Lorca fu quella col poeta cileno Pablo Neruda, più giovane di lui di sei anni e che visse fino al 1973, conosciuto a Buenos Aires e rivisto a Madrid nell’ultimo paio d’anni della sua breve esistenza.

Federico García Lorca fece anche molto teatro – andò in giro per i villaggi sperduti della Spagna con la compagnia teatrale ambulante La Barraca – scrivendo opere ispirate agli usi e costumi della sua Spagna fortemente legata alle tradizioni punzonate dalla condizione di subalternità della donna, le tragedie familiari dovute anche alla difesa dell’onore, le promesse da mantenere, l’amore contrastato e la morte sempre in agguato, che poi negli ultimi tempi evolse in una drammaturgia difficile da rappresentare perché assorbito dal mulinello surrealista.

«[…] La mia dimora è l’ambiente, l’anziano ulivo,/ l’oliva e la screpolata corteccia, la radice/ magnifica e atroce e la foglia a forma di lancia:/ cercatemi là, non lontano dal limoneto nauseante/ dove sosto ad abbeverarmi del nettare acido/ per tornare a vagare nei dintorni confusi/ e abitare smanioso ogni luogo del campo. » (Dalla poesia Non lontano dal limoneto, pagg.49-51).

Isabella Michela Affinito

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L’Autrice del presente testo ha autorizzato alla pubblicazione delle recensione su questo spazio senza nulla a pretendere all’atto della pubblicazione né in seguito.

Una serata sul poeta Federico García Lorca, tra musica e poesia sabato 10 dicembre a Castelfidardo (AN)

Sabato 10 dicembre a partire dalle ore 17:30 presso la Sala Convegni a Castelfidardo (Via Mazzini n°7) si terrà l’evento “Tra gli aranci e la menta”, una serata interamente dedicata al poeta e drammaturgo spagnolo Federico García Lorca (1898-1936), il poeta “con il fuoco nelle mani” che trovò la morte, giovanissimo, nell’agosto del 1936 agli albori del conflitto civile che avrebbe imperversato in Spagna dal 1936 al 1939 e che avrebbe gettato il paese in una delle dittature più spietate e lunghe dell’intera storia contemporanea, il franchismo.

Organizzata dall’Associazione Cultura Euterpe APS di Jesi (AN) con la collaborazione e il patrocinio del Comune di Castelfidardo (AN) che ha inserito l’evento all’interno del ricco contenitore di iniziative per il Natale 2022, la serata vedrà alternarsi un connubio di poesia e musica grazie alla presenza di professionisti di pregiata caratura che si dedicheranno agli interventi musicali.

Il saluto introduttivo sarà dato da Ruben Cittadini, Assessore alla Cultura del Comune di Castelfidardo. Si proseguirà poi con l’intervento del poeta e critico letterario Lorenzo Spurio (autore di numerosi saggi, contributi critici, testi, anche poetici di lettura e approfondimento sul poeta spagnolo) che parlerà in particolare dei principali pregiudizi storici (in parte ancora vivi) sulla figura di Lorca e la sua stigmatizzazione sociale e della sua importante esperienza di viaggio Oltreoceano che per nove mesi, tra il 1929 e il 1930, lo vide “cittadino” americano (a New York prima e Cuba poi). Esperienza, quella della Grande Mela, che ebbe sul poeta una grande influenza e che lo portò a scrivere varie opere (tra cui le poesie di “Poeta a New York”, dal gusto surrealista) e gli valse l’occasione di importanti incontri artistici, collaborazioni e gli permise di avvicinarsi al Teatro sperimentale del periodo.

Nel corso della serata il chitarrista anconetano Massimo Agostinelli assieme alla mezzosoprano Chiara Guglielmi eseguirà brani del repertorio musicale di Lorca (“Los cuatro muleros”, “La tarara” e “Sevillanas”) assieme ad altre composizioni dalle dolci e cadenzate sonorità andaluse.

Oltre ad alcuni testi lorchiani tratti dalla sua produzione popolare, per la quale è maggiormente noto, la dicitrice Chiara Guglielmi darà lettura ad alcune poesie del periodo americano nelle quali Lorca denunciò con toni quasi apocalittici il delirio e la frenesia dell’uomo in una società troppo macchinizzata e spersonalizzante. La stessa lettrice darà lettura a qualche componimento di Lorenzo Spurio dedicato a Lorca pubblicato nel 2016 nella plaquette “Tra gli aranci e la menta”, nell’occasione dell’ottantesimo anniversario dalla sua morte.

La S.V. è invitata a partecipare. L’evento è liberamente aperto al pubblico.

Lorenzo Spurio (Jesi, 1985), poeta, scrittore e critico letterario. Per la poesia ha pubblicato Neoplasie civili (2014), Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca (2016; 2020), Pareidolia (2018) e Il restauro delle linee (2021). Intensa la sua attività quale critico letterario con la pubblicazione di vari saggi in volume: La metafora del giardino in letteratura (2011), Cattivi dentro: dominazione, violenza e deviazione in alcune opere scelte della letteratura straniera (2018), Il canto vuole essere luce. Leggendo Federico García Lorca (2020) e Inchiesta sulla Poesia (2021). È riconosciuto come uno dei maggiori studiosi e saggisti lorchiani nel nostro Paese. Ha tradotto dallo spagnolo, tra gli altri, racconti di César Vallejo e poesie di Federico García Lorca, Rafael Alberti, Luis Cernuda, Miguel Hernández, Antonio Machado,

Chiara Guglielmi, mezzosoprano, nata a Luino, residente a Milano, si è diplomata in canto presso il Conservatorio di Musica “Santa Cecilia” di Roma, perfezionandosi successivamente con il M° Giovanna Canetti. Laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università “La Sapienza” di Roma, ha vinto tre terzi premi in Duo nella sezione di musica da camera, e ha tenuto numerose conferenze-concerto. Ha ricoperto i ruoli nelle opere “Cavalleria rusticana”, “Madama Butterfly”, “Il trovatore”, “La traviata” e altri; attiva nella musica sacra, ha eseguito come solista “Israel in Egypt”, “Judas Maccabaeus”, “Messiah” e altri. Si è esibita in Brasile e in Francia in chiusura di convegni scientifici con repertori di musica rinascimentale e napoletana; recenti i concerti con l’ensemble Baschenis a Carpi, Milano, Pavia e Como. In duo con la chitarra si è esibita recentemente nelle principali città italiane ed in Spagna, Norvegia e Montenegro.

Massimo Agostinelli è considerato uno dei principali esperti del repertorio dell’Ottocento per chitarra. Ha al suo attivo oltre mille concerti solistici e cameristici nelle principali città italiane ed europee, quattordici realizzazioni discografiche in prima mondiale, per chitarra sola, di opere di Matiegka, Sola, Monzino, Paganini, Giuliani, Molitor e Mertz, per le etichette Agorà Musica, Urania e Veermer di Milano. Laureatosi in chitarra presso il Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli, ha dato inizio alla sua attività professionistica nel 1982, risultando vincitore di vari concorsi di chitarra. È direttore artistico dell’Associazione Musicale Ottocento. Ha predisposto la catalogazione analitica delle musiche per chitarra dell’Ottocento nelle biblioteche italiane ed europee. Impegnato nel campo della saggistica, scrive regolarmente nelle principali testate giornalistiche per chitarra. Nel dicembre del 2021 è stato premiato a Bergamo per l’evento “Segovia Day”, per le sue qualità artistiche, organizzative e di ricercatore storico della chitarra.

Esce la prima traduzione italiana della poetessa “fueguina” Anahí Lazzaroni e in Argentina la sua opera omnia

Dopo mesi di lavoro è uscita l’opera antologica della poetessa argentina Anahí Lazzaroni (1957-2019) definita dalla stampa di quel paese come “la precursora dell’estremo sud Argentino”. L’opera, pubblicata con la casa editrice Editorial Cultural Tierra de Fuego, porta il titolo evocativo “La palabra nieve es una buena contraseña (1988-2017)” che potremmo liberamente tradurre in italiano come “La parola neve è una buona credenziale” o “La parola neve è una password efficace”. Grazie al meticoloso lavoro di Florencia Lobo, Responsabile della Editorial Cultural Tierra de Fuego e alla collaborazione e all’apporto della sorella della poetessa, Alicia Lazzaroni, finalmente è possibile sfogliare in un tomo unico l’intera produzione poetica della poetessa Anahí Lazzaroni morta qualche anno fa a Ushuaia, capitale della Provincia di Terra del Fuoco, Antartide e Isole dell’Atlantico del Sud, all’estrema propaggine del continente americano.

Quasi parallelamente all’uscita complessiva del percorso letterario della Lazzaroni è appena uscita nel nostro Paese la prima versione in volume in lingua italiana di una porzione dell’opera della Lazzaroni. Il poeta e critico letterario Lorenzo Spurio, infatti, ha lavorato nell’ultimo anno all’opera di traduzione di una selezionata parte della sua produzione ovvero alle sillogi “El viento sopla” del 2011 e “Alguien lo dijo” del 2017, ovvero le due opere più recenti della poetessa fueguina (della Terra del Fuego). L’opera, dal titolo “Il vento soffia / Qualcuno lo disse è uscita per i tipi di Bertoni Editore di Corciano (PG), con l’autorizzazione della sorella Alicia e del Patrocinio morale della Tierra del Fuego, Antártida y Islas del Atlántico Sur.

Il ricco articolo-recensione di Pablo Nardi sull’opera omnia della Lazzaroni pubblicato lo scorso 9 giugno sulla testata «Infobae» ci parla con grande perizia della poetica dell’apprezzata poetessa di Ushuaia, la città dalla pioggia continua come era solita ricordare la stessa autrice, ma anche della neve osservata al di là della finestra, come richiama il titolo stesso del volume. La Ushuaia narrata dalla Lazzaroni era quella di allora, di una città per lo più tranquilla e assopita, silenziosa nel suo manto di bianco, ancora non divenuta oggetto di un turismo massivo e rumoroso degli occidentali del Vecchio Continente per conoscere “la fine del mondo”. Affascinata dal grande romanzo contemporaneo dei geni indiscutibili della narrativa tra cui i russi Tolstoj, Destovieskij e Gogol, la Lazzaroni era una grandissima lettrice e amante della letteratura di varie culture: quella italiana di Calvino, grande sperimentatore e narratore spesso vicino all’onirico e dell’esistenzialismo doloroso di Eugenio Montale, ma anche la tradizione orientale della cultura giapponese che la portò a cimentarsi anche con la forma dell’haiku. Alla sua morte, avvenuta nel 2019 all’età di sessantadue anni, sua sorella ha deciso di donare l’ingente patrimonio librario della poetessa alla locale biblioteca che è stata a lei dedicata.

La poesia di Anahí è fatta di silenzi e approfondimenti interiori, piccole passeggiate e scatti fotografici, riflessioni sulla vita e sull’uomo in generale, permeata di spazi e cesure, momenti di stasi, rallentamenti. L’andatura è dettata spesso dai sommovimenti metereologici: raffiche di vento, pioggia che non annuncia a diminuire e che spaventa, neve che s’adagia lieve e che trasforma il paesaggio a lei circostante. Sono gli elementi naturali i veri abitatori degli spazi, i protagonisti fondamentali del suo pacato interloquire, le presenze immancabili e caratterizzanti le sue giornate. Poesia dell’isolamento e della distanza, ma anche del limite e del confronto, poesia degli spazi e degli elementi naturali è quella della Lazzaroni nella quale non mancano slanci ironici, elementi di denuncia, piccoli sfoghi dettati dalla malattia e dalla stanchezza.

Il volume antologico si apre con un prologo scritto dalla sorella Alicia e da uno studio preliminare a firma di Luciana Mellado che già in precedenza si era occupata in termini critici della poetessa di Ushuaia. Città nella quale Anahí – nella cui ascendenza c’era sangue italiano, come pure il cognome evidenzia – visse instancabilmente dal 1966 e nella quale fu attiva in campo culturale ed editoriale ottenendo consensi e riscontri dall’ambiente degli scrittori patagonici al punto tale che, secondo le parole di Roberto Santana, “fondò la poesia moderna fueguina”. Anahí Lazzaroni rappresentò senza dubbio alcuno – assieme ai poeti Julio José Leite (1957-2019) e Niní Bernardello (1940-202), che purtroppo se ne sono anch’essi andati recentemente – una delle maggiori voci poetiche non solo della Terra del Fuoco e della Patagonia ma dell’Argentina contemporanea, ragione che ha motivato l’interesse di interpretazione e traduzione anche in contesti geografici – come il nostro – a lei distanti.

La poetessa argentina Anahi Lazzaroni

Nel corso della sua vita pubblicò otto libri di poesia: “Viernes de acrílico” (1977), “Liberen la libélula” (1980), “Dibujos” (1988), “El poema se va sin saludarnos” (1994), “Bonus Track” (1999), “A la luz del desierto” (2004), “El viento sopla” (2011) e “Alguien lo dijo” (2017) e il romanzo “En esta ciudad se escribirá una novela” (1989). Alcune sue poesie sono state tradotte in francese, inglese, catalano, italiano e coreano su siti e blog di cultura.

La prima edizione in volume della sua opera tradotta in italiano, a cura di Lorenzo Spurio – autore che in precedenza ha tradotto in italiano anche l’ecuadoriana Dina Bellrham – è appena uscita col titolo “Il vento soffia / Qualcuno lo disse” per i tipi di Bertoni Editore di Corciano. Il volume, che contempla le due ultime sillogi poetiche pubblicate dall’autrice, ha ottenuto il Patrocinio Morale della Provincia della Terra del Fuoco, Antartide e isole del sud.

“Chiantulongu / Piantolungo” di José Russotti. Recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

L’ultima opera in ordine di tempo del poeta siciliano José Russotti (Ramos Mejía, Buenos Aires, Argentina, 1952) è Chiantulongu (Edizioni Museo Mirabile, 2022) che, in doppia lingua (siciliano variante malvagnese – comune della provincia di Messina – e italiano), propone un suggestivo percorso poetico tra le vene più profonde dell’interiorità del Nostro.

Il suo è un “pianto lungo”, un’opera che, pur snodandosi in varie sottosezioni, è idealmente e potenzialmente un percorso lirico continuo e infinito, un canto di dolore e malinconia per l’età andata che tratteggia il passaggio del tempo, l’assenza delle persone amate, il ricordo nitido dei momenti del trapasso dei suoi cari.

Con quest’opera si propone quella polarità studiata dalla critica lorchiana, in ambito spagnolo, attorno a un componimento elegiaco quale il noto Pianto per Ignazio Sanchéz Mejías che il celebre Granadino dedicò nel 1934 all’amico torero deceduto per una cornata di un toro. Se il titolo originale dell’opera parlava di Llanto (ovvero Pianto) nel procedimento di traduzione nella nostra lingua vide prediligere la forma di Lamento. Non sempre il lamento, però, è assimilabile a un vero pianto. Sta di fatto che – per smarcarsi da Bo e Rendina – Caproni decise di mantenere fedeltà all’originale traducendo con Pianto. L’opera di Russotti mi fa pensare a tutto questo: il suo è un Pianto vero e proprio ovvero un componimento che, pur non avendo la forma del poemetto ma delle singole poesie, muove attorno all’idea del dolore e del compatimento, della sofferenza lacerante e della costernazione. Il lutto, pur individuato in specifici piani temporali, non si stempera col passare del tempo e i versi contengono, come raggrumate, le lacrime di disperazione e strazio dell’uomo. Siamo dinanzi a una sorta di romanzo di formazione in versi: l’esperienza del dolore è elemento di cerniera, si configura come un rito di passaggio ineliminabile. Passando per questa fase l’individuo non sarà più come prima della sperimentazione del cordoglio, dell’assenza. Della pena. Ecco che Russotti, poeta versatile grande amante della lingua orale della sua zona, ci consegna una delle opere più sentite e personali che abbia mai scritto, più accorate e dolenti, più strazianti e, proprio per questo, più vivida e potente.

Il volume si apre con una dotta prefazione a firma di Maria Nivea Zagarella e si chiude, come in un percorso circolare innervato su riflessi poetici e bagliori esegetici attorno al percorso dell’Autore, con un nutrito apparato critico nel quale sono riportati estratti di analisi, recensioni e valutazioni ermeneutiche di altrettanti poeti, scrittori e intellettuali sull’opera di Russotti. Tra queste “considerazioni amicali sulla poesia” vi sono, tra le altre, note del professor Tommaso Romano e dei poeti Santina Paradiso, Pietro Cosentino e Francesco Giacalone.

Possiamo dire che José Russotti è poeta – in italiano e in lingua siciliana – per nascita e vocazione, per spirito innato, per caparbietà, per la sua grande diluizione nel mondo socio-etno-antropologico della provincia di Messina che ha contribuito a narrare anche in altre forme: con la musica (ha pubblicato un cd su sonorità etniche dal titolo Novantika, Ballate sulle rive dell’Alcantara edito da Novantika nel 2004) e mediante un’apprezzatissima opera fotografica (Malvagna miain bianco e nero, tra suggestioni e fantastici ricordi edita dal marchio da lui stesso creato denominato Fogghi mavvagnoti, nel 2022.

Tuttavia è in campo letterario che Russotti ha raccolto i maggiori consensi[1] grazie a una intensa attività autoriale di libri ma anche di curatore editoriale: notevole la pubblicazione di tre tomi della Antologia di Poeti contemporanei siciliani edita per i tipi di Fogghi mavvagnoti (I volume, 2020; II volume, 2021; III volume, 2022)[2]. Come autore la sua produzione si è dispiegata in varie sillogi: Fogghi mavvagnoti (autoedizione, 2000), Spine d’Euphorbia (Il Convivo, 2017), Arrèri ô scuru / Dietro il buio (Controluna, 2019) ai quali ora si aggiunge quella che – senza infatuazioni o piaggerie – definirei opera magnum ovvero Chiantulongu (Edizioni Museo Mirabile, 2022).

Parlando della sua poesia il poeta, scrittore e saggista modicano professor Domenico Pisana ha sottolineato che «i suoi versi hanno il sapore di un sincero scavo interiore che si fa dono e che la sua anima traduce in canto poetico di autenticità e di vita». Ce ne rendiamo conto piuttosto bene inoltrandoci con adeguata attenzione e spirito di riflessione nelle pagine che compongono Chiantulongu.

Il libro si snoda tra poesie dedicate agli affetti: il padre, la madre, la moglie e la figlia Elyza. Una sezione è anticipata dall’iscrizione “Nei giorni chiusi” dove si ritrovano riflessioni che sembrano essere state partorite nel tempo infausto del Covid-19 (leggiamo, infatti, in una di esse «In questi istanti di morbo infame / il cuore si gonfia a mantice e scoppia», p. 59); segue “A Malvagna, il paese della memoria ritrovata” con liriche di pregevole caratura euritmica riferite al borgo – se non natale, dato che l’Autore è nato in Argentina – ancestrale, del suo ceppo familiare.

Cospicua è, infine, l’interrogazione dell’io lirico sulle questioni di ampia risonanza che coinvolgono l’approfondimento esistenziale, inserite nella sezione conclusiva, “Sulla vita e sulla morte”. Il pensiero attorno al trapasso si fa qui particolarmente pronunciato: intere poesie sono dedicate a sorella morte come “Ci sono giorni” il cui explicitQuando morirò! (Se morirò!) / vorrei restare per sempre / nel cuore e nella mente di chi mi ha voluto bene, / come un qualcosa che mai si marcisce / o un lampo splendente, / prima del buio!», p. 83) ricorda, ancora, il Lorca del Cantejondo (la struggente “Memento”) quando scrisse: «Quando morirò, / lasciate il mio balcone aperto. / Il bambino mangia aranci. /Dal mio balcone lo vedo». Quello di Russotti è un richiamo alla terra, all’estrema volontà di ricongiungersi anche in un al di là alle tracce del suo passato ma anche un desiderio di essere ricordato. Da notare la vena autoironica e giocosa dell’autore quando, tra parentesi d’incisi e non di specificazioni, annota vagamente e con un fare illusorio, «Se morirò».

La morte non è solo un’immagine, pur nella forma vacua di un’idea, ma diviene in Russotti uno dei motivi principi che muovono l’esigenza del dettato lirico da farne un topos, un elemento ricorrente, un vero e proprio assillo che, comunque, tratta di volta in volta con velature inedite, mai repliche delle stesse. In “Questa morte che ci teniamo addosso” è possibile fruire di questi versi: «Quando spunti nel buio della notte / come la morte quando vuole arrivare, / nera di scorza dura, con il mento / che trema e il sangue che ghiaccia. / Questa morte che ci portiamo addosso / come il vinavil appicciato fra le dita / o un vecchio motivo che frulla in testa» (p. 95).

Viene alla mente una celebre frase dell’attrice Anna Magnani che ebbe a dire: «Morire è finire: perché si deve finire? Un uomo dovrebbe finire quando decide di finire, quando è stanco, pago di tutto: non prima. Oddio, c’è una tale sproporzione tra la dolcezza con la quale si nasce e la fatica con la quale si muore». Eppure per Russotti la morte, pur cantata, fatto oggetto dei sui lamenti per i genitori venuti a mancare, non sembra concepita realmente come destinazione ultima, come atto definitivo e concluso in per se stesso. Vita e morte, come nella più alta letteratura di tutti i tempi – innervata su un sentimento cristiano – non sono facce di un Giano bifronte, antipodi invalicabili e recalcitranti ma, al contrario, l’una contiene l’altra, ne è una sua progressione e sfaccettatura. La morte s’iscrive nella vita e non è solo il completamento finale, inderogabile e ultimo. Ecco perché Russotti parla di vinavil, di qualcosa che è attaccato al nostro essere, inglobato alla nostra epidermide di esseri coscienti. Volenti o nolenti.

Toccante il ricordo della morte del padre (citiamo in italiano ma ricordiamo che l’intera opera è proposta anche – anzi in prima battuta – è in lingua siciliana nella variante malvagnese): «Quanto ti chiamai quel mattino. Quanto? // […] / ma tu non sentisti e mai ti voltasti» (p. 15). Il dolore di quell’addio persevera al presente, in ogni momento che l’Autore riflette sul percorso del padre e lo ricorda nei momenti di condivisione: «[P]iango aspettando ancora / il canto dell’ultima volta. / Vivo e mi consumo / dietro il ceppo di un sorriso amaro / inseguendo il tempo che sfugge. // […] [F]in quando insacco ricordi / e mi nutro di malinconia» (p. 21). Di grande intensità è anche la successiva poesia “Grappolo d’amore”, questa volta dedicata alla figura della madre: «La morte è una croce da sopportare, / un canto amaro che mai si spegne / in questi giorni di calca e pianto» (p. 29).

La poesia rimane comunque imprescindibile, una costante sicura, un faro nel quale appigliarsi in ogni circostanza della vita, in ogni ora della giornata. Russotti ne è convinto. Sa che il canto lirico vive della contemplazione e della solidarietà dell’uomo, dell’impegno all’ascolto e alla conoscenza dell’animo. Ne è certo. Come quando in “L’ora sospesa” annota «Si vive d’amore e di nulla, / di stenti e sostentamenti / ma non toglietevi la poesia dal cuore!» (p. 87). E persuade anche noi lettori.

LORENZO SPURIO

Jesi, 15/04/2022


[1]Consensi che sono giunti tanto dalla critica che dal giudizio di numerosi premi letterari nazionali, contesto nel quale ha ottenuto numerosi e importanti riconoscimenti tra cui: Premio “Vann’Antò-Saitta” di Messina, il Premio “Città di Chiaramonte Gulfi – La città dei Musei”, il Concorso letterario “Salva la tua lingua locale” di Roma; il Premio “Pietro Carrera” di Catania, il Premio “Luigi Einaudi” di Paternò (CT), il Premio “Poesia Circolare Epicentro” di Barcellona Pozzo di Gotto (ME), il Premio di Poesia “L’arte in versi” di Jesi (AN) e l’ambito Premio “Città di Marineo” a Marineo (PA); il Premio di Poesia “Colapesce” di Messina.

[2] Al primo volume ho dedicato un’articolata recensione pubblicata su varie riviste: «Lumie di Sicilia» n°150 (65 online), maggio 2021, pp. 19-20; «Culturelite», 03/05/2021; «Tony Poet – Dialogo con la rete», 03/05/2021, «Xenia», anno VI, n°1, marzo 2021, pp. 82-86; «Vesprino Magazine», n°129, aprile 2021, pp. 33-35. Nel secondo volume di quella che, per il momento, è una trilogia, figura un mio contributo critico quale Prefazione del volume.


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