N.E. 02/2024 – “In te mi riconforto”. Appunti sulla spiritualità tassiana. Saggio di Francesco Martillotto

In te mi riconforto».[1]  Appunti sulla spiritualità tassiana

Nel corso dei secoli, attorno alla concezione religiosa tassiana e, più nello specifico, al rapporto del poeta con la dimensione del sacro, sono sorti e poi sedimentati dei pregiudizi che ne hanno inficiato una corretta e obiettiva valutazione. Ciò in virtù del fatto che le analisi sulla persona hanno prevalso su quelle inerenti allo studio dell’opera ad iniziare dal suo primo biografo, quel Giovan Battista Manso che scriverà di un poeta che «ebbe, per ispezial dono di Dio, dal vero splendore della santa fede per sì maraviglioso modo illuminata la mente, che né per debolezza di giudizio nell’età puerile, né per l’acutezza d’ingegno nel calor della gioventù, gli cadde giammai nel pensiero dubitazion veruna intorno a’ misteri della nostra cristiana religione».[2] La fase “agiografica” non cambiò molto neppure coi successivi studi, ovvero con la biografia di Pier Antonio Serassi e gli studi di Cesare Guasti, curatore dell’imponente epistolario.[3] Con il De Sanctis si passa direttamente all’altro versante,  ossia ritenere la religiosità tassiana solo come aspetto formale, un giudizio negativo che è persistito nel tempo: «che cos’è dunque la religione nella Gerusalemme? È una religione alla italiana, dommatica, storica e formale: ci è la lettera, non ci è lo spirito. I suoi cristiani credono, si confessano, pregano, fanno processioni; questa è la vernice; quale è il fondo? È un modello cavalleresco, fantastico, romanzesco e voluttuoso, che sente la messa e si fa la croce. La religione è l’accessorio di questa vita: non ne è lo spirito».[4] Per avere  delle valutazioni più “scientifiche” bisognerà attendere Eugenio Donandoni, che elabora sicuramente il giudizio più severo intorno alla portata della sfera spirituale tassiana allorquando scrive che il poeta «anche negli anni più fecondi della poesia religiosa,  […] non arrivò mai ad un senso profondo e vivo della religiosità», concludendo che “la sua volontà rimane attaccata alla terra sempre. […] Dio non gli parla nella solitudine: […] nella solitudine egli pensa al mondo, che è rimasto alle sue spalle. [..] La religiosità delle rime sacre è quella esteriore o pomposa» e conclude, in modo lapidario, che  «adorò, ma non sentì Cristo».[5] Seguirono le analisi di Francesco Flora che definisce il Tasso «poeta religioso in un senso tutto umano»,  di Giovanni Getto secondo cui la religiosità del poeta è «una consapevolezza dolente, di natura etica più che propriamente religiosa, ripiegata sulle sue stanche inquietudini, sui suoi timori di peccato e di morte, sulle forme vane che passano e dileguano»[6] e infine di Bortolo Tommaso Sozzi che, partendo dalla Gerusalemme Liberata, individua un  elemento religioso «in senso diverso da quello tradizionale; religioso cioè non entro l’àmbito del cattolicesimo (benché l’ispirazione cattolica occupi quantitativamente molta parte del poema), bensì in una dimensione più larga e indefinita, come sentimento tragico della forza ostile, oscura e fatale che governa la vita, la storia e le cose».[7] Si aprono, allora, due percorsi, ovvero se il poeta sorrentino sia stato un fervido e sincero credente oppure in lui, al contrario,  abbia albergato una fede superficiale: entrambi chiaramente non sono percorribili perché fortemente condizionati da ideologie contrapposte. Ulteriormente non percorribile è un altro itinerario (in realtà ve ne sono anche altri), ovvero quello di uno scrittore che ha un suo sentimento religioso della vita che non coincide, però,  con quello celebrato dal culto ufficiale.[8] Occorre, per tracciare delle direzioni da seguire e tentare una lettura dell’esperienza spirituale tassiana, affidarsi agli ultimi decenni di studi sull’argomento nonché analizzarne lo sviluppo – perché c’è stato – nello stesso autore partendo dal vastissimo corpus delle lettere. La lettera del 15 aprile 1579, lunghissima,  è indirizzata a Scipione Gonzaga e ha la parte più interessante nel punto in cui si apre una digressione costituita da un’apostrofe a Dio: la struttura è quella di una vera e propria emendatio rispetto alla condotta morale giovanile e  alle precedenti posizioni filosofiche, ma soprattutto è uno spartiacque nelle vita dell’autore,  preoccupato di dimostrare la sua conversione alla fede cristiana. Dai dubbi e dalle incertezze, nati dall’esercizio dell’intelletto, e dall’aver assimilato Dio alle idee di Platone, agli atomi di Democrito, alla mente di Anassagora, all’amicizia di Empedocle e alla materia prima di Aristotele, tramite la teologia negativa (ricavata dallo Pseudo-Dionigi) e un ragionamento sillogizzante aristotelico ricompone il conflitto e concilia le asserzioni contrastanti («io ti conosceva solo come una certa cagione de l’universo […]. Ma dubitava poi oltra modo, se tu avessi creato il mondo»),  come si può seguire nei due passi riportati della lettera:[9]

«Dunque non mi scuso io, Signore, ma mi accuso, che tutto dentro e di fuori lordo e infetto dei vizi de la carne e de la caligine del mondo, andava pensando di te non altramente di quel che solessi talvolta pensare a l’idee di Platone e a gli atomi di Democrito, a la mente di Anassagora, a la lite e a l’amicizia di Empedocle, a la materia prima d’Aristotele, a la forma de la corporalità o a l’unità de l’intelletto sognata da Averroe, o ad altre sì fatte cose de’ filosofi; le quali, il più de le volte, sono più tosto fattura de la loro imaginazione, che opera de le tue mani, o di quelle de la natura tua ministra. Non è maraviglia, dunque, s’io ti conosceva solo come una certa cagione de l’universo, la quale, amata e desiderata, tira a sé tutte le cose; e ti conosceva come un principio eterno e immobile di tutti i movimenti, e come signore che in universale provvede a la salute del mondo e di tutte le specie che da lui sono contenute. Ma dubitava poi oltra modo, se tu avessi creato il mondo, o se pur ab eterno egli da te dipendesse: dubitava, se tu avessi dotato l’uomo d’anima immortale, e se tu fossi disceso a vestirti d’umanità; e dubitava di molte cose che da questi fonti, quasi fiumi, derivano. Percioché come poteva io fermamente credere ne i sacramenti, o ne l’autorità del tuo pontefice, o ne l’inferno, o nel purgatorio, se de l’incarnazion del tuo Figliuolo e de la immortalità de l’anima era dubbio?

Divenuto io, dunque, omai giusto misuratore de le deboli forze del mio intelletto, così fra me stesso ragionava: Chi mi dimandasse, che fosse la materia prima; che altro saprei rispondere, se non ch’ella non è, né il che, né il quanto, né il quale, né altra cosa è, che si possa o co ‘l dito mostrare o con le parole diffinire? E se pur questa risposta non mi piacesse, ricorrerei forse a qualche somiglianza; e direi, che tale ella è in rispetto de le forme naturali, quale è l’oro e l’argento in rispetto de le artificiali: percioché sì come di questi metalli si posson fare e monile e medaglia e coppa da bere e vasi da oprar ne la tavola o da por ne la credenza per ornamento; così ella è atta a ricevere la forma de la vite, de la palma, del leone, del destriero e de l’uomo o di che altro si sia. Dunque, se de la materia prima, vilissima e ignobilissima cosa, io non ho altra cognizione, né posso darla altrui, se non quella che o negando o paragonando s’appresenta a l’intelletto; ardirò io d’aspirare a l’altissima cognizione d’Iddio nobilissimo e perfettissimo? o presumerò di significare altrui quello che io non intendo? o mi parrà strano o maraviglioso, se io non sono atto a conoscerlo o a parlarne in modo o con paragone, che a la sua maestà sia convenevole? perciochè la luce del sole è oscura, e la grandezza de l’oceano è una brevissima stilla d’acqua, s’a Dio s’assomiglia. Negherò dunque di sapere quel che sia Dio, ma non già di saper ch’egli sia.

E continua ancora: «Negherò dunque di sapere quel che sia Dio, ma non già di saper ch’egli sia; essendo questo sì chiaro, che può esser certissimo principio a provar l’altre cose de le quali si dubita». La presenza di Dio, infatti, è nella stessa armonia mundi. Così procedendo si arriva alla conclusione del dissidio (pur se l’utilizzo del futuro ha qualche venatura dubitativa):

Crederò dunque che sia Dio; e crederò di lui quel di più che per rivelazione se ne sa: ch’egli sia trino e uno; e che il suo Verbo nel ventre verginale di Maria si vestisse d’umanità; e che egli ascendesse in cielo, e che lasciasse Piero vicario in terra: e crederò che la vera e certa determinazione così di questi, come di tutti gli altri articoli de la fede, si debba prender da’ pontefici romani, che sono di Piero legittimi successori.

Queste pagine sono state lette da Claudio Gigante come «il pianto drammatico di chi teme di essere escluso dalla Grazia»,[10]  ossia come documento del percorso di ricerca della fede che il poeta compie e dichiarerà successivamente di avere portato a compimento. Ne sono testimonianza altre due lettere: la prima del 1580 e la seconda del 1585. Quella  indirizzata al marchese Giacomo Boncompagni è una sorta di confessione, con finalità autoapologetiche, sui dubbi di fede che il Tasso nutriva sia come “filosofo” (circa l’immortalità dell’anima, la creazione del mondo, l’autorità papale) che come cristiano:

Il disfavore […] ch’io aveva ricevuto da la Chiesa, la quale a me s’era môstra non madre ma madrigna […] era cagione non solo ch’io fondassi ogni buona speranza di favore ne la parte imperiale, ne la quale potea fondarlo senza separarmi  da la Chiesa in quel c’a la fede appartiene».[11]

È una ricerca,  quella tassiana, intesa a superare l’insoddisfazione, il tormento, le incertezze e non certo la rappresentazione di una persona scettica o aliena dalla fede cristiana. E nella lettera al Cataneo del 1585, quando la prigionia stava per concludersi, c’è l’ammissione di una condizione totalmente nuova:

Ma Iddio sa ch’io non fui né mago né luterano giammai; né lessi libri eretici o di negromanzia, né d’altra arte proibita […] né ebbi opinione contra la santa Chiesa cattolica; quantunque io non neghi d’aver alcuna volta prestata troppa credenza a la ragione de’ filosofi; ma in guisa ch’io non umiliassi l’intelletto sempre a’ teologi, e ch’io non fussi più vago d’imparare che di contradire. Ma ora che la mia infelicità ha stabilita la mia fede, e fra tante sciagure ho questa sola consolazione, ch’io non ho dubbio alcuno.[12]

Tasso si avvicinerà a Dio attraverso  la sofferenza, le sventure e le vicissitudini; la fede è l’approdo di quello «sforzo teso a superare gli ostacoli che la ragione stessa gli poneva innanzi» e «va considerato come una mèta cercata e desiderata, non come un triste epilogo indotto da pressioni esterne o, peggio, da “follia”»[13]. La testimonianza di queste tre lettere, tutte del periodo di Sant’Anna, ci indicano chiaramente l’avvio di un percorso che il poeta sorrentino, negli anni successivi, perseguirà sempre più: sia le letture (San Tommaso e la patristica occidentale)[14] che le opere (le Rime sacre, Il Mondo creato e il rifacimento della Liberata) andranno ormai di pari passo alle questioni religiose.


[1]  Il verso riportato nel titolo è tratto da Torquato Tasso,  Rime, Roma, Salerno editrice, 2 tomi,  2, n. 1696 (A Dio), v. 6, p. 1949.

[2] Giovan Battista Manso, Vita di Torquato Tasso, a cura di Bruno Basile, Roma, Salerno editrice, 1995, p. 218. Nella stessa pagina aggiunge che il poeta fu continuamente riverente e devoto «a Santa Chiesa e a’ suoi  ministri, che giammai ne favellò motteggiando, o scherzando, come alcuni fanno». Intorno alla religiosità tassiana si veda il fondamentale studio di Giuseppe Santarelli, Studi sulle rime sacre del Tasso, Bergamo, Centro di Studi tassiani, 1974  (soprattutto le pagine 11-49, La religiosità del Tasso).

[3] Nella Vita di Torquato Tasso scritta dall’abate Pierantonio Serassi, Bergamo, Locatelli, 17902, 2 tomi,  2, pp. 276-277,  si legge:  «Egli sin dalla prima fanciullezza fu molto divoto, ed osservantissimo della cattolica Religione; e sebbene nel bollore della giovanezza si fosse lasciato alquanto trasportare da’ piaceri amorosi; si ravvide tuttavia presto, e diedesi di nuovo ad una vita molto religiosa ed esemplare; il qual tenore osservò poi costantemente insino alla morte». Per ciò che scrive il Guasti si rimanda a Della vita intima di Torquato Tasso, in Torquato Tasso, Le Lettere,  disposte per ordine di tempo ed illustrate da Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1852-1855, 5 voll.,  V, pp. XXI-XXII.

[4] Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di Benedetto Croce, Firenze, Sansoni, 1965, 2 voll.,  2, p. 562.

[5] Eugenio Donadoni, Torquato Tasso. Saggio critico, Firenze, Luigi Battistelli, 1920, 2 voll., 2, pp. 203, 204, 205 e 209. Nel vol. 1, a proposito della Liberata, aveva scritto «Tutta forma è nel poema anche la religiosità» (p. 356).

[6] Per le citazioni cfr. Francesco Flora, Storia della letteratura italiana,  Milano, Mondadori, 1941, vol. II,  p. 548 e Giovanni Getto, Malinconia di Torquato Tasso, Napoli, Liguori, 19864, p. 303.

[7] Bortolo Tommaso Sozzi, Introduzione, in Opere di Torquato Tasso, Torino, Utet, vol. I, 1974, p. 20.

[8] Sulla spiritualità tassiana si vedano anche: Luigi Russo, La Gerusalemme liberata del Tasso, in «La Rassegna della Letteratura Italiana», 6, 1 (gennaio-marzo 1955), pp. 1-11; Antonio Corsaro, Percorsi dell’incredulità. Religione, amore, natura nel primo Tasso, Roma, Salerno editrice, 2003; Rosa Giulio, Tempo dell’inquisizione, tempo dell’ascesi. Spiritualità religiosa e forme letterarie dal Tasso al Settecento, Salerno, Edisud, 2004;  Ottavio A. Ghidini, Poesia e liturgia nella Gerusalemme liberata, in «Studi Tassiani», 56-58  (2008-2010), pp. 153-180; Decio Pierantozzi, La Gerusalemme liberata come poema religioso, in «Studi Tassiani», 32  (1984), pp. 29-42;   Angelo Alberto Piatti, “Su nel sereno de’ lucenti giri”. Le «Rime sacre» di Torquato Tasso, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010;  Marco Corradini, Ottavio A. Ghidini (a cura di), Senza te son nulla. Studi sulla poesia sacra di Torquato Tasso, Roma – Milano, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016; Corrado Confalonieri, Provare per credere. Tasso, Dante e l’incarnazione nella Gerusalemme liberata, in «Lettere Italiane»,  vol. 70, n. 2 (2018), pp. 254-284.

[9]  La lettera si legge in Torquato Tasso, Le Lettere, ed. cit.,   II, pp. 7-45,  n. 123 e si cita rispettivamente dalle pagine 15 e 19-21. 

[10] Cfr. Claudio Gigante, Tasso, Roma, Salerno editrice, 2007, p. 36.

[11] Torquato Tasso, Le Lettere, ed. cit., II, n. 133, p. 84-85.

[12] Torquato tasso, Le Lettere, ed. cit., II, n. 456, pp. 478-479.

[13] Claudio Gigante, Tasso, cit., pp. 36-37.

[14] Nelle lettere (almeno dall’estate del 1586)  si registrano richieste dei libri di San Tommaso e Gregorio Magno, di Gregorio di Nazianzo e Filone Ebreo, e soprattutto di un’edizione delle opere di Sant’Agostino (una stampa edita a Ginevra nel 1555). «In quest’ultimo periodo della vita umana e poetica di Tasso, il rapporto con il sacro, la dimensione religiosa acquistano un ruolo predominante, l’incubo dell’Inquisizione non tormenta più i sonni di Torquato, che ha ormai trovato un perfetto equilibrio con le gerarchie ecclesiastiche e con i canoni della poetica aristotelica. Non più una necessità di simulare, un artificioso compromesso con la fede, ma una sua scelta coerente, motivata dall’aspirazione al trascendente, dall’ascesi all’Assoluto, che il poeta esprime nelle forme liturgiche delle sue liriche spirituali, nelle angosciate preghiere delle rime sacre»  (Rosa Giulio, Tempo dell’inquisizione, tempo dell’ascesi, cit., p. 88).


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Dialoghi con la notte. Appunti su “Lezione di meraviglia” di Daniele Ricci. A cura di Francesco Fioretti

   I cinque versi iniziali di Lezione di meraviglia di Daniele Ricci ne preannunciano subito tutta la vastità d’orizzonti: «Finalmente questa notte esco dal romitorio. / Faccio ricorso al tuo φάρμακον /    per varcare le porte. // Vado al mare / del mio dolore amaranto».

   Ci torna subito in mente l’ultima scena dei Malavoglia, in cui il giovane ’Ntoni misura la sua esclusione dall’ambiente d’origine gettando un’occhiata sul mare «che s’era fatto amaranto». Mare amaranto verghiano che era ancora quello omerico color del vino, il mare ancestrale e sacro di una tradizione millenaria, che il poeta simbolicamente riattraversa nelle prime due sezioni di questa raccolta (Lezione di meraviglia e La strada del ritorno) raccontandoci un viaggio in Grecia – ma del viaggio ciò che qui si vede è in realtà solo la bianca nave, il viaggio in sé, mentre i «bianchi palazzi di Atene / le strade trafficate del Pireo» restano piuttosto sullo sfondo, come tracce marginali e fugaci di un incontro che si direbbe fisicamente mancato, nella Grecia odierna, con la classicità. Il phàrmakon menzionato al secondo verso è invece la poesia, veleno e rimedio al tempo stesso (nell’ambiguità del termine greco), mentre la meraviglia del titolo è il thaumàzein da cui secondo Aristotele nasce ogni interrogazione sul mondo.

   Sono in tutto sette, le sezioni di questa raccolta, e ciascuna ha un suo cuore di sperimentazione discreta, i cui estremi opposti sono l’autobiografismo diretto della IV sezione, Semi non custoditi («Poi / cos’è successo in quinta elementare? / Che cosa m’ha fatto cambiare? // Sono diventato triste e taciturno… // Qualcosa m’ha fermato»), e la poesia senza io di Poemetto (V sezione, Approdi e amore), le cui terzine hanno invece quasi voce d’aforismi(«Il non senso contamina il senso. / L’amore appartiene all’enigma, / l’enigma alla follia»).

   Le altre sezioni dosano in vario modo questi estremi, anche in una serie di preziosi richiami a distanza che danno compattezza all’opera. Si veda il caso seguente: «Ieri in cielo ho visto l’Aquilone… // Te ne sei andata nel buio nulla / senza lasciare traccia, / senza briscola né punti» (dalla III sezione, Il tuffatore di Paestum); «Hai spento la luce della tua stanza / e le stelle dell’Aquilone» (dalla VI sezione, Ho imparato a piangere).

   In una delle versioni del mito, che si fa risalire a Eratostene, l’Aquilone è Arcas, che accompagna in cielo la madre Callisto trasformata in orsa – ma qui è anche l’oggetto evocato dalla costellazione (lo è senz’altro in Come un aquilone, da Semi non custoditi: «Non potrò mai unirmi / al cielo / alle traiettorie del tuo volo»). In ogni caso il tema della perdita, della scomparsa della madre, dell’elaborazione del lutto proiettato in una dimensione celeste pagano-cristiana, è uno dei motivi-chiave della raccolta, l’urgenza che si avverte più immediata per un ritorno alla scrittura poetica e all’uscita dal romitorio. Pressanti domande di senso, sull’«ἀρχή della vita» (Nella camera del mattino, II sezione), in un costante «dialogo con la notte» (Bagno fuori stagione, VII sezione, Fuori stagione), attraversano l’intera raccolta, allargando progressivamente il campo dal dolore privato a quello collettivo, dal gesto disperato delle donne afghane che lanciano i loro bambini ai soldati inglesi all’aeroporto di Kabul già occupato dai talebani (La fuga tentata, II sezione, e I giorni, VII) alla guerra in Ucraina (Boristene, VII, dal nome greco del Dnepr).

   Daniele Ricci è poeta colto, come d’altra parte lo sono tutti i grandi della nostra tradizione, perché il sentire verrà pure dall’enigmatico io latore d’ogni verità e d’ogni inganno, ma le parole per esprimerlo vanno munte a quella tradizione millenaria con cui è sempre doveroso fare i conti. C’è un fondo costante, nelle sue poesie, un sapore di lirica eterna che viene dagli antichi Greci, in particolare da Omero e dai poeti arcaici (l’incontro con la classicità che riesce su un altro piano rispetto a quello del viaggio fisico), su cui si innesta il presente drammatico (la madre e il lutto, le donne di Kabul, la guerra in Ucraina) che rimescola invece voci più moderne, il Montale da Satura in poi, i poeti italiani contemporanei («la voltura delle utenze di mia madre / per la mia crescita interiore»; i «cedolini del silenzio»). Mentre l’analogismo della lirica pura novecentesca viene praticato con grande parsimonia, restando per lo più confinato a campi inediti. Il principale è il gioco del calcio, che suggerisce immagini inesauribili e mai banali («Aspetto di battere / l’ultimo calcio di rigore, / sarà concesso all’alba / di questa notte senza camomilla»; «un ultimo verso / per cercare / la rete della salvezza»), nonché liriche memorabili come La partita eterna (IV).

  Daniele Ricci, insomma, coniuga al presente una voce che sembra d’ogni tempo, costruendo una miscela linguistica originale e avvolgente. La poesia resiste al «canto del nulla» che «scappa via / tra le repliche e gli ingorghi / di una lingua agonizzante» (Il dolore sul cuscino, IV). Lui ci dice: «Voglio tessere un abito nuovo / sulla pelle del mondo» (Mi sono perduto, V).

   E questo è anche quello che effettivamente fa.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Ut pictura poësis. La forma dello Spirito nell’opera di quattro celebri artisti-poeti”, saggio di Wanda Pattacini

Immagino lo Spirito come un soffio vitale che da lontano sfiora le chiome degli alberi spogli, senza foglie, sullo sfondo di un cielo indaco, quando la Natura è immobile e non c’è ragione fisica che giustifichi il vento. L’artista, ad occhi chiusi, attende l’ispirazione. Non indaga più le ragioni del suo sentire così profondo e oscuro, né del suo vedere al di là dell’apparenza effimera e fugace. Ormai sa: è solo uno strumento attraverso cui l’Essere sussurra o urla, rivelandosi. Ha risposto a quella chiamata da veggente, votandosi ad una esistenza spesso fuor di regola. Talvolta ha invidiato l’inconsapevolezza dell’uomo comune, ma non ha mai rinunciato al proprio dono, rimanendo fedele a se stesso e affinando le proprie doti espressive per tradurre in parole, colori, forme o note i quesiti insondabili dell’Esistenza.

Talora la chiamata dello Spirito è talmente forte che un’Arte non basta per dargli espressione. Un rapporto privilegiato è il binomio poesia-arti figurative. Già nella letteratura antica la relazione parola-immagine è frequente nell’uso della figura retorica dell’ekphrasis in grado di eternare in prosa o in poesia la magnificenza di manufatti artistici ideati dall’uomo. Si pensi allo scudo bronzeo di Achille descritto in un celebre passaggio dell’Iliade omerica o alla preziosa veste ricamata offerta come premio di una gara di corsa nella Tebaide di Stazio.

In questa sede, però, non indagheremo il potere del metodo ecfrastico in grado di trasformare le parole in pennello. Al contrario, passeremo in rassegna l’attività di quattro grandi personalità di artisti-poeti che hanno lasciato un segno indelebile e ineguagliabile usando diversi e molteplici mezzi espressivi, sempre allo scopo di dara forma visibile all’Invisibile.

Michelangelo Buonarroti

Secondo lo storico dell’arte cinquecentesco Giorgio Vasari l’artista che fra i morti e i vivi porta la palma e trascende e ricuopre tutti è il divino Michelangelo Buonarroti (1475-1564), ovvero colui che raggiunse l’eccellenza nelle tre arti maggiori – pittura, scultura e architettura – superando persino gli antichi. Sono capolavori universalmente noti il David marmoreo, la Pietà del Vaticano, gli Ignudi in torsione e le Sibille visionarie della volta della Cappella Sistina, la Cupola di San Pietro, metafora della volta celeste. Meno conosciuta al grande pubblico, invece, è l’attività di Michelangelo come poeta. Per comprendere l’importanza che la pratica letteraria rivestiva per lo scultore toscano basta citare le sue parole al momento dell’invio all’amico Vasari di due liriche di intonazione spirituale: “Messer Giorgio, io vi mando due sonecti; e benchè sien cosa scioca, il fo perchè veggiate dov’io tengo i miei pensieri”. Una cosa scioca dunque, eppure depositaria dell’inquietudine e della passione che ha animato i capolavori del Buonarroti, che ricomponeva, correggeva e riformulava i propri scritti poetici sempre in cerca dell’immagine più adeguata e della parola più adatta per esprimere verbalmente un concetto o uno stato d’animo. Le sue Rime, quindi, non sono un puro esercizio accessorio, ma il frutto di una vocazione autentica che completa e arricchisce la sua attività di artista.

Si pensi, a tal proposito, alla dibattuta questione del non finito michelangiolesco. Si tratta di un procedimento tecnico-artistico adottato sistematicamente dallo scultore che contrappone parti scolpite, finite e levigate a parti lasciate allo stato di abbozzo. Variamente interpretata come il “non portato a termine” o il “non pagato”, la spiegazione più suggestiva di questa pratica si rintraccia nella filosofia neoplatonica di cui l’artista era imbevuto sin dai tempi della frequentazione della cerchia di Lorenzo il Magnifico. Secondo quest’ottica, allora, gli incompleti Prigioni ideati per la Tomba di papa Giulio II sarebbero perfetti così, eternando il conflitto tra lo Spirito, levigato e netto riflesso della perfezione divina, e il Corpo, che intrappola l’Anima nelle spire della materia solo sbozzata e inerte, impedendole di raggiungere il suo Creatore. A supporto di questa teoria interviene il celebre sonetto “Non ha l’ottimo artista alcun concetto”, che esplicita l’idea michelangiolesca secondo cui la statua è già presente nel blocco di marmo e il compito dell’ottimo artista è semplicemente liberarla dal suo superchio, ovvero l’eccesso di materia, lasciando che la propria mano sia guidata dall’intelletto. Per Michelangelo, quindi, la scultura per via di levare è l’unica forma di scultura concepibile, come attestato dal madrigale “Sì come per levar, donna, si pone”. In questo componimento l’effetto della donna sull’amante è liberatorio e nobilitante perché in grado di liberare dalla sua carne (cruda e dura scorza) l’anima (l’alma che pur trema) dell’artista privo di volontà e di forza. Alla stessa maniera la viva figura della statua è liberata dalla pietra alpestra e dura grazie alla mano dello scultore.

Una interessante analogia si riscontra tra lo stile poetico e lo stile artistico del divino Michelangelo: in poesia è insofferente ai vincoli delle forme metriche obbligate, prendendo ispirazione dal modello dantesco e dalla regola petrarchesca, rinnovandoli, però, con uno stile più personale e riflessivo; nelle arti figurative e in architettura egli fissa in principio i canoni ideali della perfezione rinascimentale, per poi scardinarli dall’interno, configurandosi, quindi, come il primo manierista nella Storia dell’arte.

Artista visionario e poliedrico l’inglese William Blake (1757-1827) si distingue come incisore, poeta e pittore protoromantico. I limiti della realtà sensibile sono stretti per lui che indaga i temi della Bibbia con grandi stampe a colori e il mondo spirituale della Commedia dantesca con miniature. Come letterato – o dovremmo meglio dire veggente – ha ideato mondi immaginari divisi tra le opposte forze del Bene e del Male. I due stati contrari dell’anima umana trovano espressione nei Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza.

William Blake

Il confronto tra The Lamb e The Tyger è da manuale: le due poesie, che ad una prima lettura superficiale evocano due veri animali con le loro caratteristiche, condividono in realtà un significato più profondo, ovvero il problema della Creazione e dell’identità del Creatore (Little Lamb, who made thee?Tyger! […]What immortal hand or eye/could frame thy fearful symmetry?). L’agnello, allora, rappresenta la perfetta innocenza dell’infanzia e la tigre il male che proviene dall’esperienza. Ma l’innocenza è anche uno stato dell’anima che può essere presente in un adulto (si pensi al pronome I riferito al poeta stesso) e gli occhi ardenti (burning) della tigre bruciano di rabbia e violenza, ma sono anche luminosi (bright), trasformando l’animale in qualcosa di splendente, forse la luce dello Spirito che sottomette l’errore e l’ignoranza delle tenebre della notte (forests of the night). Lo stile poetico di Blake è essenziale, nudo e musicale: con un ritmo incalzante denso di simboli ed allegorie è in grado di tradurre in parole visioni mistiche e immaginifiche.

Una battaglia cosmica tra il Bene e il Male frutto di una spiritualità anticonformista si concretizza anche in campo pittorico, in particolare nelle opere del ciclo di acquerelli de Il Grande Drago ispirato ad alcuni passaggi dell’Apocalisse biblica. La speranza luminosa di una Donna incinta vestita di Sole – metafora della Chiesa o della Vergine Maria – si oppone alle cupe tenebre del Male incarnato in un enorme drago a sette teste e dieci corna, che cede i suoi poteri infernali ad una Bestia venuta dal mare. La forza mistica delle immagini apocalittiche è resa da Blake attraverso un segno grafico semplificato ed essenziale: una linea quasi fumettistica definisce figure surreali che dominano fondali evanescenti, privi di indicazioni di profondità, ad alludere ad una dimensione altra, parallela ed alternativa a quella umana.

Edvard Munch

L’indagine dello Spirito e di intensi stati emotivi è il principale oggetto di interesse dell’artista norvegese Edvard Munch (1863-1944). E la Natura è il suo mezzo di espressione. Così scriveva il pittore sul suo taccuino nel 1908: “la Natura non è soltanto ciò che è visibile all’occhio – sono anche le immagini interiori dell’anima – sul lato posteriore dell’occhio”. I dipinti dell’artista postimpressionista, infatti, esplorano i sentimenti più profondi e inquietanti della psiche umana e le forme naturali ancora riconoscibili in essi sono solo un pretesto simbolico per alludere agli abissi segreti dell’anima tormentata di Munch che, per primo, è riuscito a dare una voce universale alla propria angoscia personale, tracciando la strada della rivoluzione artistica del Novecento.

Questo importante e sofferto percorso pittorico è affiancato da una copiosa e variegata produzione scritta carica di lirismo, con cui il pittore indaga il significato dell’arte, racconta gli ambienti e i personaggi della propria vita, completa e chiarisce il significato dei propri dipinti, spesso considerati oscuri. Egli sperimenta molteplici generi – prose liriche, schizzi letterari, lettere di viaggio, articoli di giornale, pagine di diario – per i quali pensava alla pubblicazione, come si deduce dal testamento con cui lasciava le bozze dei propri lavori al Comune di Oslo. Il doppio trattamento di alcuni motivi in maniera sia artistica sia letteraria è indicativa del suo modus operandi. Le molteplici e celebri versioni de L’Urlo si accompagnano, infatti, ad altrettanti testi che chiariscono il significato e potenziano la forza espressiva di un quadro divenuto icona del mal di vivere. Queste le parole scritte da Munch nel 1892:

Camminavo lungo

la strada con due

amici – poi calò

il sole

Il Cielo

si fece

all’improvviso rosso sangue

Mi arrestai, appoggiandomi

contro la balaustra mortalmente

stanco – il fiordo nero-blu

e la città

erano lambiti da lingue di sangue

I miei amici proseguirono

e io rimasi immobile

tremante

d’angoscia –

e udii riecheggiare

attraverso

la natura

un immenso infinito

grido.

La recente traduzione in lingua italiana di una selezione di scritti di Munch consente di apprezzare a pieno il parallelismo artistico e letterario dell’artista norvegese, rendendo note composizioni ancora sconosciute al grande pubblico. Ne emerge anche un interessante confronto tra uno stile di scrittura rapido e spontaneo che, trascurando ortografia e punteggiatura, esprime i moti dell’animo nella loro cruda immediatezza, e uno stile pittorico nudo ed essenziale, basato su semplificazioni deformanti e colori arbitrari, riflesso dei colori dell’Anima.

Paul Klee

Posto sulla soglia chiaroscurata tra il Visibile e l’Invisibile, l’artista svizzero Paul Klee (1879-1940) osserva l’incontro tra il mondo esterno e il mondo interiore, intuendo il Mistero che si nasconde dietro l’esperienza più sensibile e quotidiana, senza mai riuscire ad afferrarlo, ma suggerendone le tracce attraverso molteplici arti. Musicista, poeta e pittore egli ricerca costantemente la forma d’arte a lui più congeniale per tradurre in un codice decifrabile la chiamata mistica dello Spirito. Se è con la pittura che ha cambiato il corso della Storia dell’arte, ispirando generazioni di artisti, si cimenta con successo anche nell’arte della parola. I suoi Diari, ricchi di aforismi, poesie e annotazioni, sono costruiti, infatti, come un sapiente oggetto letterario. Sia nella pagina dipinta sia nella pagina scritta la sua cifra stilistica risiede nella inafferrabilità e nella mutevolezza che apre infinite possibilità alla sua forza creatrice, impedendogli di assumere una forma fissa ed una regola troppo rigorosa che insterilisca il suo daimon. Nel 1901 Klee scrive:

Non chiederti cosa sono.

Non sono nulla

non so nulla.

Conosco solo la mia felicità.

Ma non chiedermi se me la merito.

Lasciatemi solo dire

che è ricca e fonda.

In una celebre poesia del 1920 – riportata anche sulla sua lapide – afferma:

Qui sono inafferrabile

abito bene con i morti

come con i non nati. Sono

vicino alla creazione. Eppure

non abbastanza.

Così come le sue parole sono magiche ed evocative, aperte a molteplici e suggestive interpretazioni, il suo stile pittorico è ricco e variegato e, pur rifuggendo da classificazioni ed etichette, la sua è una pittura di luce, fatta di segni impalpabili e leggeri e toni liquidi che trascolorano. Egli è in grado di decifrare la lingua dello Spirito, che incanta chi è pronto ad ascoltarla. Nel dipinto Strada principale e strade secondarie, ad esempio, tasselli acquerellati di colori azzurri e aranciati si compongono in una trama definita da linee sottili e pur dense di lirismo, quasi fossero venature del marmo o del legno: la via principale è tracciata, ma la Vita percorre vie traverse e inaspettate.

Se dopo questa breve disamina dell’opera di queste quattro geniali personalità vi starete chiedendo quale sia la forma espressiva più adatta ad eternare lo Spirito, la mia risposta è il motto oraziano ut pictura poësis: Poesia ed Arte sono sorelle, figlie del Vento dell’Ispirazione che muove la mano di artisti e poeti, o, forse, gemelle se si segue il pensiero del poeta lirico greco Simonide secondo cui la pittura è poesia silenziosa, la poesia è pittura che parla.


Bibliografia

Blake William, Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza che mostrano i due contrari stati dell’anima umana, a cura di Roberto Rossi Testa, Milano, Feltrinelli Editore, 2009

Botta Gregorio, Paul Klee. Genio e regolatezza, Bari-Roma, Laterza, 2022

Buonarroti Michelangelo, Rime, a cura di Paolo Zaja, Milano, Rizzoli Bur, 2010

Klee Paul, Poesie, a cura di Giorgio Manacorda, Milano, Ugo Guanda Editore, 1978

Munch Edvard, La danza della vita. La mia arte raccontata da me, Roma, Donzelli Editore, 2022

Plutarco, La gloria di Atene, a cura di Italo Gallo e Maria Mocci, Napoli, D’Auria, 2003

Vasari Giorgio, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino ai tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1986


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La poesia di Alfredo Pérez Alencart: il panorama dell’anima nella carne dell’umano”. Prefazione a “La carne y el espíritu” a cura di Vito Davoli

Il poeta Alfredo Pérez Alencart

Quando ho conosciuto per la prima volta la poesia di Alfredo Pérez Alencart, ne sono rimasto letteralmente affascinato al punto da viverla come una autentica boccata d’aria: quel viaggio impossibile durante il periodo del lockdown pandemico che i suoi versi invece consentivano di fare con altri strumenti e altri sguardi. Non saprei dire se quel fascino da cui fui catturato dipendesse dal fatto che, avendo trascorso circa un decennio in America Latina, fossi rimasto immediatamente folgorato da quegli elementi che inevitabilmente e fascinosamente affiorano nei suoi versi da quella parte del mondo e tornano in modo costante a declinarsi nelle mille sfumature che a quella cultura rimandano: penso di getto a Presagios e a Luciérnagas così come a Trocha o alla straordinaria Perù o, ancora, più in generale alla raccolta Selva que cabes en el tamaño de mi corazón e alle tante altre liriche e sillogi che ho avuto modo di sfogliare.

Il punto, tuttavia, non è tanto identificare quegli elementi ed isolarli. Non è esercizio utile dal momento che i profumi, i sapori e le sfumature delle albe latine, i giochi di luce, i disegni delle ombre lunghe e lo sguardo ai cieli di quella parte del mondo è facile trovarli un po’ dovunque nella sua poesia. Perfino quando Alfredo prova a disegnare i contorni dell’anima ne vengono fuori suoni e immagini che rimandano a una antica danza rituale – celebrativa, propiziatoria o funebre che sia – delle lande amazzoniche dove anche chi non vi ha mai messo piede riesce ad addentrarsi, guidato da questa sua intima essenza «con un piede su entrambe le rive dell’Atlantico» (Carlos Aganzo); attraverso un ponte di corda: magnifica immagine che José Manuel Suarez utilizza nel suo saggio, presente in apertura del volume. In realtà l’immagine è quella di una «scala» dove, attraverso il verso breve, folgorante e intenso, «come fosse fatto d’aria», il poeta consente che «saliamo e scendiamo, torniamo indietro per recuperarne il senso o ci fermiamo un momento per osservare, per ascoltare. Poggiamo il piede sulla corda e continuiamo», perché «così è una scala di corda: solo filo». Che sia una scala o un ponte, ciò che conta, oltre al fatto che sia solo fatta di corda (e proprio per questo), è esattamente l’avventura di quel percorso da parte di chi lo compie e, soprattutto, il fatto che dall’altra parte del ponte c’è il territorio nel quale il poeta ci invita a sostare e dall’altro capo della scala il vero e proprio orizzonte del panorama dell’anima che Alfredo dipinge con tutte le sfumature dei colori che conosce e possiede, indicando la luce la cui percezione è nulla senza un’ombra che ne testimoni l’essenza: quell’immancabile «profilo adombrato che dà profondità» a tutto il resto.

Un panorama variegato e ricco, come testimoniano i diversi saggi inclusi in questa raccolta, ciascuno dei quali coglie sfumature e nuances come tasselli di un puzzle, come segmenti di un disegno da ricostituire secondo l’ottica e il pensiero del poeta o, com’è giusto che sia quando si ha a che fare con la poesia, secondo la percezione del lettore che finisce per ricostituire un’ottica nuova, talvolta inedita, pur sempre con assoluto diritto di cittadinanza. Perché, si sa, quando il poeta ha scritto, ha anche consegnato ogni parola, ogni significante e ogni significato, all’anima del lettore. Il quale entrerà nel giardino panoramico di Alfredo ma affronterà quel percorso con le sue “scarpe”, la sua bussola e secondo i suoi propri riferimenti cardinali. Ed è proprio questo che rende ecumenica la poesia; è questo che rende il nostro poeta «una voce universale di un uomo ispano-peruviano» (Sandra Beatriz Ludeña).

Così, tra le sfumature dell’arte del Nostro prendono parte tanto i pastelli delicati quanto i colori a tinte forti declinati anche attraverso quella scelta dialogica che trascina il lettore all’interno della realtà e del vissuto del poeta. A giusta ragione Jeanette L. Clariond sottolinea la presenza del “tu” nella poesia di Alfredo: un “tu” al quale imprescindibilmente va legata la figura della sua princesa, come sottolineo nel mio epilogo, ma che si arricchisce anche di slarghi di vedute che trasformano quel “tu” in un veicolo di superamento della realtà stessa fino a farsi perfino il «Tu che sta nell’alto» al quale viene consegnata la didascalia di un umanissimo afflato verso l’alto che supera i confini del credo fideistico e dogmatico e diviene tendenza all’Assoluto, tutta umana, al di là di ogni confine, fosse anche quello spirituale, al di là di ogni religione in quanto tale. È così che «il suo cristianesimo (…) non è neppure esente da un misticismo erotico», tutt’altro! Perché tutto è incluso nel disegno panoramico dell’esperienza di vita del poeta. È una fusione esperienziale che non tralascia alcuna dimensione e che, al contrario, le fonde mirabilmente: non è un caso che il titolo di questa raccolta sia proprio La carne y el espiritu e, una fra tante, si legga l’intera poesia Creación e in particolare la sua chiusa che così recita: «Ti insalivo, / donna, / ti impasto a me», mirabile sintesi in una declinazione erotica con un evidente richiamo all’atto stesso della Genesi biblica.

Così anche Leocádia Regalo che rafforza questa presenza “metareligiosa” (perché tanto al di là della corporeità terrena quanto al di là della solitudine spirituale) sottolineando la presenza di «un “io” e un “tu” che si compenetrano in una assunzione della poesia a conoscenza del mondo e di se stesso». Un «misticismo erotico – come sottolinea Fermin Herrero – la cui fonte potrebbe ben essere identificata nel Cantico dei Cantici, che innerva e tende l’espressione». Così, stagliandosi la parola come oggetto assoluto della poesia, attraverso essa il poeta «invita ad addentrarci nella profondità delle perplessità condivise» attraverso una lettura che necessita di un suo tempo per essere “sbrogliata”, goduta e fatta propria da ciascuno.

Guardare alla realtà dall’alto di un sistema di valori spirituali che non restano fermi nell’iperuranio inutile della contemplazione ma si calano profondamente nella traduzione esperienziale del vissuto, è la cifra ermeneutica di Alencart che, attraverso questa architettura, riesce a conferire ai suoi versi quel valore universale che fa guardare a Asunción Escribano alla «cecità física come símbolo della cecità morale». Allegoria e metafora, certo, che nell’ossimoro letterario che unisce l’immagine del sole e della cecità non si traduce in una contraddizione quanto piuttosto nella «incapacità razionale dell’uomo di captare l’unità e la realtà» che solo all’interno della poesia può trovare l’esatta coniugazione, irrazionale eppure inconfutabile, del vissuto esperienziale che la metafora stessa disvela. «Ebbene, ogni poesia di questo libro merita un riconoscimento che ci riempie di mistica speranza in mezzo alle tragedie quotidiane» (Juan Mares).

In questo continuo andirivieni dell’indagine umana che si consuma in questa poesia, i capisaldi restano evidentemente fermi né si può tacere l’apporto e la continua “religiosa” comunione con i classici («il maggior premio a cui può arrivare qualunque poeta degno di esserlo davvero») della tradizione iberica, ispano-americana, latina e perfino italiana (si veda in proposito lo studio di Yordan Arroyo qui incluso), metro e misura di una evoluzione poetica che porta il verso di Alencart a cercare e trovare la sua sintesi migliore in una contrazione strutturale tutta finalizzata all’esaltazione del contenuto evocato da quella struttura. Juan Suárez Proaño scrive di «una brevità nata della ripulitura della lingua, una lingua tutta sua che in questa silloge finisce per emulare il bagliore» e gli fa eco Victor Coral sottolineando «la sua voce riuscita e personalissima.

La dinamica dei sensi che mette in gioco con parole semplici e profonde è la vera comunicazione». E direi anche comunione. Una evoluzione anche stilistica, dalla descrizione all’evocazione che, attraverso la Parola (si ricordi che è il verbo il protagonista del fiat lux della Genesi), rende compiuto e rotondo l’atto della poiesis nella quale meglio collocare anche la funzione e il compito del lettore («l’intensità della sua parola, (…) si costituisce in un sole salvifico per tanta vita odierna preda dell’oscurità», José Luis Ochoa); lettore che ad essa si accosta e che di questo tempo, insieme al poeta, è l’uomo, il protagonista assoluto. Destinatario e quasi compartecipe dell’atto creativo. Un «confronto su due livelli con l’essere in se stesso e per se stesso» (José Carlos de Nóbrega). El sol de los ciegos, rende visibile il percorso strutturale che, attraverso un finissimo labor limæ, conquista “artigianalmente” un senso della misura interamente riprodotto e tradotto nelle architetture lessicali e liriche del verso («Un dettato misurato che rende cristallino in modo intenso, radioso, il legame della memoria, l’immaginazione e cerca di recuperare ciò che è stato cancellato dal tempo», Gerardo Rodriguez) e così sintetizza in sé «una poetica che incanala la trasmissione di ciò che avverrà lungo tutta la silloge, come un perfetto avvertimento della finalità e del senso profondo della poesia e dei suoi percorsi attraverso l’anima umana» (José Maria Muñoz).

Parola poetica e realtà esperienziale trovano così il punto di congiunzione definitivo nell’elaborazione della poetica di Alencart giacché – come sottolinea David Cortéz Cabán – «Se al principio la poesia era l’origine delle cose, ora influenzerà anche la percezione del mondo fisico e spirituale» e così «la parola poetica, in nome proprio, ribattezza col fuoco l’universo» (Amarú Vanegas).

Bene dunque ha fatto Alfredo Pérez Alencart a voler organizzare un percorso lirico selezionato all’interno de El sol de los ciegos, ponendo evidentemente gli accenti giusti, illuminando e lasciando in ombra le zone più appropriate perché dall’alto contrasto – non a caso – di luce e ombra, di chiari e scuri, meglio risultassero definiti e comprensibili (per quanto la poesia, quella vera, lo consenta) dettagli, livelli e chiavi di lettura che danno un senso compiuto alla sua poetica e al contenuto generale da essa veicolato. «La luce acceca, non scopre forme, le nasconde mentre l’ombra, l’oscurità diventa perseveranza nella ricerca dei significati» (Alberto Hernández). Così Alfredo unisce a filo doppio il senso dell’esperienza e l’impatto della percezione, il valore del passato, la consistenza del presente e la speranza del futuro, la forza della ragione e l’intensità della passione in un gioco di contrasti solo apparentemente ossimorico e che, soprattutto, non chiede affatto di essere risolto quanto forse di essere vissuto per quello che è giacché il mondo interiore di Alfredo è «un mondo senza frontiere, – come scrive Esmeralda Sánchez Martín – un universo aperto che oltrepassa i limiti del tempo e dello spazio. Carne e spirito, dolore e placidità, desideri e realtà, passato, presente e futuro, virtù e difetti, accettazione e sforzo… i versi di A.P.A. si muovono nel chiaroscuro e nel contrappunto dell’esistenza». È così che il panorama dell’anima di Alfredo non chiede affatto che si risolva una contraddizione, che sia sciolto un dilemma, che sia appianato un contrasto, che sia uniformata una diversità: tutto – e il verso poetico ne è lo strumento divino – è «come fiore, come spina, come speranza» (Anibal Fernando Bonilla) e quel panorama è fatto anche di carne; di percezione del dolore, di sensorialità della felicità; prevede e contempla una coesistenza esaltante dell’umana essenza generata e disegnata dal confine sul quale luce e ombra si sfiorano, vissuto e vivibile si incontrano, carne e spirito si abbracciano, ben al di là di una “semplice” guerra fra Bene e Male quanto piuttosto nella piena consapevolezza che «il poeta non può separarsi dalla propria condizione di essere umano, non può allontanarsi dal vero cammino, dallo splendore della parola come unico strumento di trasformazione del mondo» (José Antonio Santano).

Ed ecco compiuto l’atto creativo. E rivoluzionario. Ecco la poiesis! Un panorama che vada al di là dell’orizzonte fisico attraverso uno sguardo allegorico a palpebre strette: «Come fare – si domanda Sixto Sarmiento – per aprire gli occhi e alzare lo sguardo se in quel preciso istante l’orizzonte svanisce?». C’è bisogno di un altro sguardo, di occhi nuovi che non contemplino l’osservazione com’è comunemente concepita: «lo sguardo capace di vedere oltre i domani». E di un nuovo atto generatore che, attraverso la parola stutturi e ristrutturi «la poesia come costume di vita» (Harold Halva).

Ognuno di questi saggi è un nuovo passo, un’ulteriore conquista, una nuova acquisizione, un nuovo punto segnato dall’ago di una bussola ermeneutica, una nuova trocha che taglia il cammino secondo sentieri inediti ma, se si alza lo sguardo e si mira all’orizzonte, quel cielo è lo stesso per tutti; quel panorama e ciò a cui tutti finiscono per guardare. Ed è il panorama dell’anima, la meno terrena caratteristica dell’umanissima realtà, che Alfredo cesella finemente, parola per parola, lungo un percorso esteso di produzione lirica nel quale è ben visibile come l’artista concentri e concretizzi l’attenzione sempre più sulla Parola, sulla tessera singola di quel mosaico che va costituendo con pazienza certosina e forza comunicativa sempre più intensa e concentrata. Ma è nella distanza che al lettore è offerto il miglior godimento di percezione: che siano passi indietro o in avanti, è il lettore, attraverso questi saggi, a scegliere quanto avvicinarsi o distanziarsi nella contemplazione e nell’osservazione alencartiana. Un mosaico può essere goduto davvero e per intero quando «noi possiamo vederlo ma solo a una certa distanza» perché solo nella distanza può essere abbracciato tutto. «Ecco perché i termini chiave sono radicati nella problematica dello sguardo».

Così, per converso, la contemplazione del dettaglio, diventa esercizio di maestria da godere su un livello diverso e a più livelli e ciascuno di questi saggi offre la possibilità di fermarsi a riflettere, leggere, interpretare e godere di tessere che hanno la loro esatta posizione, colore, dimensione e intaglio dentro il disegno generale. E questo si propone – senza la pretesa di risolverlo tutto – questa raccolta di saggi: offrire insieme uno sguardo sul panorama dell’anima, sulla mappa emozionale che è parte fondante del disegno generale della poetica di Alfredo Pérez Alencart.

E allora: «Entrino, entrino con me in questo tratturo, / […] / Vi invito dentro un percorso arricchito / dal distillare delle reminiscenze».




[1] Grazie al consenso del curatore Vito Davoli e del poeta Alfredo Pérez Alencart, oggetto di questo studio, pubblichiamo in anteprima, la prefazione alla raccolta La carne y el espíritu (Trilce Ediciones, Salamanca 2023), una collettanea letteraria in lingua castigliana che raccoglie ben 24 saggi, intervallati dalle opere pittoriche dell’artista Miguel Elias (intervenuto anche in copertina), quali contributi di intellettuali, accademici, poeti e letterati provenienti da tutto il mondo ibero-americano a proposito dell’ultima silloge del poeta ispano-americano dal titolo El sol de los ciegos, (Vaso Roto 2021) interamente curata dal critico pugliese. Il volume in spagnolo include i contributi di José Manuel Suárez, Asunción Escribano, Fermín Herrero, José María Muñoz Quirós, Esmeralda Sánchez Martín, Carlos Aganzo, José Antonio Santano (Spagna), Jeannette L. Clariond, Gerardo Rodríguez (Messico), Leocádia Regalo (Portogallo), Yordan Arroyo (Costa Rica), Juan Mares (Colombia), José Luis Ochoa, José Carlos De Nóbrega, Amarú Vanegas, Alberto Hernández (Venezuela), David Cortés Cabán (Porto Rico), Juan Suárez Proaño, Sandra Beatriz Ludeña, Aníbal Fernando Bonilla (Ecuador), Víctor Coral, Sixto Sarmiento, Harold Alva (Perù) e Vito Davoli (Italia).  Anteprima giacché il testo, già edito in Spagna nello scorso giugno, vedrà la luce anche nella versione tradotta in italiano dallo stesso Vito Davoli, per il nuovo anno 2024. Di seguito la prefazione in italiano del critico pugliese che ha contribuito anche con un suo proprio saggio in postfazione. Edizione originale spagnola: AA.VV., LA CARNE Y EL ESPÍRITU: Aproximaciones a “El sol de los ciegos” de Alfredo Pérez Alencart, Trilce Ediciones, Salamanca, España 2023, ISBN: 979-8398610628


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – Su Mihai Eminescu. Saggio di Dante Maffia

Mihai Eminescu è una delle figure più interessanti della poesia europea dell’Ottocento. Intanto la sua vita: un crogiolo di avvenimenti, a cominciare dalla famiglia numerosa. Era il settimo di undici fratelli, uno dei quali si suicidò, una sorellina di pochi anni, Hanrieta, fu colpita dalla paralisi e gli altri morirono quasi tutti di tubercolosi. Un’infanzia così orribile, così piena di disgrazie e di dolore produsse in lui lo sfacelo psichico e non bastò la dolcezza della natura dove trascorse i primi anni (a Ipotesti, Botosani) a ripararlo dalla strazio che lo investì con ferocia inaudita. Rimase spesso gelido, lontano dagli accadimenti altrui, assente, fermentando nel suo animo furori contraddittori, fantasmi sconci e osceni che soltanto la Natura poteva curare con la sua innocenza. Aveva otto anni quando fu mandato a studiare a Cernauti, nella Bucovina dove si parlava tedesco. Non gli piaceva trascorrere le giornate a studiare, ma ebbe la fortuna di avere come professore Aron Pùmnul che, come scrive Gino Lupi, “amò fortemente e gli rivelò l’intima unione esistente fra la nazione e la lingua”. Ma non abbiamo notizie precise su questo periodo, solo ipotesi e intuizioni, con una certezza, fu sempre irregolare, inseguì un suo sogno di cui non dette ragioni e spiegazioni, neppure al padre che, a più riprese, cercò di riportarlo agli studi.

I primi versi li scrisse in morte del professor Pùmnul e furono pubblicati nel 1866 sulla rivista “Familia”. Aveva poco più di sedici anni e forse per questo motivo il direttore della rivista, Iosìf Vulcàn, l’accetto con entusiasmo, ma anche perché intravide nella filigrana dei versi qualcosa che lo spinse ad avallarlo. All’epoca Mihai firmava col cognome Eminovici e fu il redattore, non amava ciò che sapeva di slavo, che arbitrariamente lo cambiò in Eminescu. Al giovanotto piacque e da allora lo adottò per sempre.

A guardare la brevità della sua esistenza, muore a soli trentanove anni, si stenta a credere che egli abbia viaggiato tanto e scritto tanto, viaggiato anche da solo, come Dino Campana, per conoscere il mondo contadino della Romania, per sentirsi libero. Dino Campana addirittura per raggiungere Firenze da Marradi, si avviava a piedi, e non è escluso che anche Mihai non abbia fatto lunghe scarpinate; atteggiamento tipico di chi è portatore di malattie nervose. Si tratta di pure coincidenze, ma vedo negli studi disordinati di Eminescu anche un modo simile a quello di Ovidio, la stessa avidità di conoscenza del poeta latino, il variare degli interessi, un eclettismo molto selettivo e ricco di interessi che non trascuravano le scienze e la filosofia, il rapporto con la vita: disordinato, caotico, intenso; con l’amore: irto, fatale, ciclico; con la morte, con gli studi, con la politica, con l’ambiente, soprattutto con la lingua rumena che voleva sentire viva e palpitante nei suoi versi, voce del popolo, ma anche congiunzione di un ideale che doveva racchiudere la sintesi di una intensità che non trascurava la cultura in senso lato. Si noti che quando si iscrisse all’Universtà nell’anno 1871-1872, seguì contemporaneamente i corsi di economia, di lingua rumena, di anatomia, di diritto, di fisiologia, di medicina legale e i corsi di analisi dedicati a Spinoza, Leibniz e Descartes.

A dominare la vita del poeta è l’inquietudine che lo spinge a cercare il senso segreto delle cose, con la convinzione che comunque la letteratura abbia anche una funzione pedagogica che educa gli animi a un’etica sempre corroborata dall’estetica e senza che l’una limiti l’altra o la renda ancella. Un equilibrio così potente è sempre difficile che regga, eppure in Eminescu non solo trova spazio e ragioni, ma dura e diventa la forza di un modo di intendere la vita nel suo farsi quotidiano. Giustamente alcuni critici sostengono che Eminescu poeta non lo si possa intendere e godere nella sua portata se non si conoscono i suoi scritti giornalistici (nei sette anni in cui lavorerà come redattore alla rivista ”Timpul”  pubblica oltre trecento articoli in cui affronta i problemi più scottanti e più urgenti del suo tempo)  ma altrettanto giustamente io dico che la poesia di Eminescu offre, anche al lettore che per caso ci si imbatte, molte emozioni, molte frenesie e molte possibilità di entrare in armonia con l’universo al di là dei fattori contingenti che qua e là affiorano.

Quando dico entrare in armonia con l’universo non intendo il luogo comune che pretende di unificare soggettivismo e universalismo, ma naturale realizzazione di qualcosa che non appartiene più alla realtà, perché è entrata nella dimensione della musica, del sogno, di un universalismo ideale che comprende in un unico fiato il senso della vita e dell’amore. Eminescu aveva una capacità fenomenale di “sentire” la forza dei poeti, basti pensare all’incontro avuto con la poesia di Aleksandr Sergeevič Puškin che lo travolse e che gli fece quasi imparare il russo in pochi giorni.  La sua psiche però “ragionava” secondo le accensioni di interessi che scantonavano alla ricerca di un qualcosa di definitivo che egli aveva intravisto e non riusciva ad acciuffare facendo accrescere in lui la curiosità della conoscenza, proprio con atteggiamento dantesco. L’aveva colto molto bene Mario Luzi che scrisse: “Per necessità naturale e per situazione geopolitica vissuta, Eminescu ha fatto ciò che nel secolo successivo al suo e anche oggi si tenta di fare per convinzione o per calcolo: una letteratura senza frontiere tra germanesimo e retaggio latino, tra Oriente e Occidente. Con questo respiro vivo, grande, spontaneo e conscio Eminescu ha dato freschezza e vigore al profondo desiderio romantico; e ha dato anche drammatica perspicuità all’accento della sua sconfitta, senza per questo compromettere o diminuire la sua energia creativa”. E tutto questo senza mai entrare nella scia di quel maledettismo che in Francia, e non solo, ruppe gli argini e immerse la poesia spesso in un fuoco di significati esoterici ed eterogenei che crearono molta confusione e affermarono il concetto del disordine come espressione poetica di somma libertà.

Le avanguardie molto spesso aprono strade nuove e svecchiano, ma qualche volta fanno anche parecchi danni quando pretendono di sradicare gli alberi d’una foresta e senza ripiantarne uno solo. Eminescu aveva dalla sua le ragioni linguistiche che lo aiutarono a restare fermo nelle forme classicheggianti, anche quando il canto delle sue liriche prense l’aire o quando la musica dei versi si snodò in vibrazioni stridenti. In lui poeta c’era la necessità di saldare le scissioni interiori che lo dilaniavano e lo sbattevano in venti contrari, tanto è vero che il suo peregrinare ne è testimonianza pura, a cominciare dal fare il suggeritore di teatro, lo scrivano, lo studente distratto e svogliato. Ho l’impressione che la sua vita fu guidata da intermittenze allucinatorie che lo sbattevano tra inferno e paradiso, tra momenti in cui sembrava di avere trovato l’equilibrio e la sintesi delle sue ansie e lo sfaldamento di tutto, lo scendere verso le cateratte oscure di un inferno che apriva orizzonti sconcertanti, chimere che svaporavano nell’assurdo, soluzioni che non erano mai pause vere e proprie, ma appena singhiozzi di mortificazione per non essere riuscito a saldare la sua necessità di saldare il cerchio.

Il poeta romantico rumeno Mihai Eminescu (1850-1889)

Leggendo le sue poesie si ha la sensazione di attraversare una strada infinita senza strisce che guidino e senza muretti laterali; di trovarsi allo scoperto mentre in cielo l’azzurro si appallottola per nascondersi al viandante. E il viandante è sempre lui, Mihail, che a volte perde il senso della direzione e si nasconde nel guscio vuoto di sensazioni clamorosamente effimere, frantumate da singhiozzi di un vento infernale che non smette mai di spirare. Ogni situazione poetica che Eminescu affronta nasce da un suo dubbio, da una riflessione più che da uno scatto lirico; poi avviene il mutamento e la scommessa di fermare in immagini il riverbero, sempre però tenendo a freno l’anima, quasi che temesse di essere frainteso, offeso, colto nel momento in cui le considerazioni potrebbero cadere nell’aura del senso di colpa, addebitando alla sua persona i mali del mondo, le cadute a picco nell’impotenza e nell’adesione perfetta alle cose e al sentimento.

Anche nelle poesie d’amore più accese si avverte una sorta di timore ad abbandonarsi totalmente (è casuale che una delle parole più ricorrenti nella produzione di Eminescu sia marmo?) e così il suo romanticismo si veste di classicità, diventa misura che contempera accenti precisi cadenzati dalle forme metriche tradizionali come il sonetto, la ballata, le quartine utilizzando spesso anche la rima baciata.

Alla fine degli anni ottanta, epoca in cui ho frequentato spesso Firenze, ho avuto l’occasione di parlare spesso con Sauro Albisani di Mihai Eminescu. Volevo capire in che cosa consiste il suo fascino e la sua forza, la bellezza della sua poesia che non si lascia mai andare a uno straripamento, neanche ne L’astro Lucifero, neanche quando il suo cuore bolle e non riesce ad estenuare la possanza del sentire i rintocchi e le accensioni del suo animo. In lui persiste e resiste la misura, che non è tutta edulcorata dal riverbero classico greco e latino. Egli ha trovato un suo modo pudico di entrare nelle valenze umane e spirituali e ne ha fatto un rivolo di luce che irrora la parola e la porta a compiere quasi un dovere espressivo che deve racchiudere, saper racchiudere il senso apparente e ciò che vive anche dietro l’apparenza, perfino ciò che sfuma verso l’alto e diventa essenza del sogno.

– Oh, sei bello come solo in sogno

       Un angelo si affaccia,

Però mai ti seguirò

       Sulla via che mi mostri:

Straniero nelle parole e nel costume,

       Risplendi senza vita,

Ché io son viva, tu sei morto,

      E l’occhio tuo m’agghiaccia”.

Quanto al riferimento che alcuni critici hanno fatto a Giacomo Leopardi personalmente non vi ho trovato riscontri. Sì, sono morti tutti e due a Trentanove anni, hanno vissuto una breve esistenza studiando in modo “matto e disperato”, ma Leopardi chiuso nel suo borgo e Eminescu vagando, cercando se stesso:

“Chiedere un segno, amore, per non dimenticarti?

Ti chiederei soltanto te, ma non sei più tua;”

                                                       (Separazione)

Una delle cifre più umane e poetiche di Eminescu è proprio dentro la sua inquietudine. Ho citato prima Dino Campana, ma non escluderei Nazim Hikmet e soprattutto… ma si tratta di affinità che vagano e che comunque arrivano dopo la sua presenza. Sarà stato anche il suo seme che si è sparso con il passare del tempo forgiando il nettare di altri poeti, favorendo il loro lievito? Non è escluso, ma a noi oggi preme accertare in che cosa consiste la grandezza di Mihail Eminescu, al di là delle connessioni che può avere avuto prima e dopo. La sua poesia ha il sapore pieno della vita, una intensità espressiva rara che rasenta, per fare una citazione tutta italiana, quella di Giosuè Carducci, una verticalità spirituale e linguistica che riesce a raggiungere esiti efficaci e spesso decisi in sono tessuti i fermenti di una “visione” che non si ferma soltanto alla poesia, ma va oltre, per affermare una identità attraverso il linguaggio mai approssimativo, mai giocato sulle ambiguità o sulla marginalità. Egli è davvero il testimone di un Paese che finalmente si ritrova dentro una coralità e dentro una emotività che da una parte vuole svincolarsi dal peso quasi irremovibile della latinità e dell’altra vuole affermare con decisione

“Sì, nascerò dal peccato,

      Ricevendo un’altra legge;

All’eternità sono legato,

      Ma voglio essere liberato”,

                        (L’astro Lucifero).

Insomma, il suo progetto romantico si svela e si adegua ai canoni per rifiutarli e addirittura romperli, in modo che la sua caduta nel baratro dell’angoscia e della follia diventi seme necessario, cito ancora Mario Luzi, “la sua energia creativa”. Una energia che ha qualcosa di infernale e di caduco e che tuttavia è stata “capace di annullare e di trascendere il dato autobiografico per elevarsi a ricerca di valori universali”, come sostiene Marina Tudorache.

Sentiamo che cosa dice Eminescu rivolgendosi agli amici critici: “I fiori sono tanti, ma pochi / frutti daranno al mondo; / tutti bussano alla porta della vita, / molti cadono morti. // Scrivere poesie è facile / se non si ha niente da dire, / si mettono in fila parole vuote, / facendo in modo che ultime facciano rima. // Ma se il tuo cuore è infastidito / da forti sofferenze e da grandi passioni, / e la tua mente / ascolta tutte le voci, // e queste voci, come fanno i fiori alla soglia della vita, / bussano alla porta dei tuoi pensieri, / e domandano di entrare nel mondo, / di adornarsi di parole. // Verso i tuoi sentimenti, / verso la tua vita, / dove potrai trovare giudici / dagli occhi gelidi e spiatati? // Ah, in quel caso ti sembrerà / che il cielo si abbatterà sul tuo capo: / e così troverai le parole / per esprimere compiuta la verità? // Oh critici, fiori appassiti / che mai darete frutti- / E’ facile scrivere poesie, / se non si ha niente da dire”.

Scetticismo? O piuttosto fede cieca nella poesia che però non deve cincischiare e occuparsi del fuggitivo, di quel che corre in fretta e si dilegua? La fede di Eminescu è totale eppure non si confessa in pienezza, cerca la via indiretta e l’ironia per affermare il dogma della poesia, la sua totale necessità.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “L’itinerario spirituale di Vittoria Colonna”, saggio di Graziella Enna

Nella civiltà umanistico-rinascimentale iniziò un processo di emancipazione femminile in virtù del quale molte donne furono istruite al livello degli uomini. Alcune riuscirono ad acquisire una profonda cultura unita alla volontà di ribellarsi ai pregiudizi misogini che le avevano relegate in una posizione subalterna. L’educazione impartita alle donne era tradizionalmente basata su attività considerate utili da svolgersi nell’obbedienza, nell’abnegazione e nel silenzio. Nonostante questi presupposti poco edificanti, alcune donne provenienti dall’aristocrazia e alla nobiltà minore integrata nelle corti, si riscattarono e divennero poetesse stimate e apprezzate come Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara e molte altre.

Com’era prevedibile, la congerie maschile continuò a nutrire ostilità nei confronti di quelle donne che, tramite la scrittura, vagheggiavano di mostrare la loro anima e il loro mondo interiore abbandonando “l’ago e il fuso” strumenti fin dal medioevo simboli per eccellenza delle occupazioni femminili. Altre non ebbero la possibilità di farsi conoscere o furono giudicate devianti. Chi era disposto ad accettarne l’istruzione o la produzione letteraria nutriva il pregiudizio che si trattasse di creature fuori dal loro ruolo naturale che, nell’immaginario collettivo, era solo quello di vergine o moglie e madre, non certo di scrittrice o intellettuale. Anche la diffusione, soprattutto nelle corti, del petrarchismo e dei cosiddetti “petrarchini”[1], assunsero un ruolo importante, poiché fissarono l’uso di un codice espressivo proprio della convenzione amorosa tipico però di un mondo maschile.

Non tutte le poetesse furono mere imitatrici di Petrarca e si servirono della poesia solo come pratica sociale legata all’ambiente cortigiano, ma seppero rivisitare autonomamente stilemi e codici linguistici preesistenti con la loro spiritualità alimentata dalla cultura e da sentimenti autentici. Un luminoso esempio ci viene offerto da Vittoria Colonna, donna di alto lignaggio, dalla vita morigerata, ricca e fruttuosa, amata dai contemporanei sebbene le sue liriche fossero conosciute solo da un ristretto numero di amici.

Nata nel 1490 da nobili genitori di prestigiose casate, Fabrizio Colonna e Agnese di Montefeltro, ricevette fin dall’infanzia una raffinata educazione che la fece diventare una delle donne più apprezzate del suo secolo. Il suo fu un matrimonio combinato, a sette anni fu infatti promessa ad un coetaneo, Ferdinando D’Avalos, marchese di Pescara, come suggello di un’alleanza tra due potenti famiglie, ma nonostante i presupposti, il matrimonio si sarebbe rivelato felice. Grazie al mecenatismo dei marchesi, il castello di Ischia, loro residenza e sede di un prestigioso cenacolo letterario aperto alla discussione sui problemi della fede, fu un punto di riferimento importante per i più importanti letterati e poeti del periodo, come Jacopo Sannazaro, Cariteo, Galeazzo di Tarsia, Bernardo Tasso.

L’amato marito si allontanò da Ischia nel 1511 per combattere nella lega antifrancese promossa dal papa guerriero Giulio II e cadde prigioniero nel 1512. In quest’occasione Vittoria compose per lui un’epistola in terzine, per esprimere la sua afflizione, che testimonia la sua vocazione letteraria ed è l’unico che abbia scritto prima della morte del marito. Negli anni successivi conobbe altri famosi intellettuali tra i quali Baldassarre Castiglione e Pietro Bembo, ma la sua fama di nobildonna di specchiata virtù, vasta cultura e grande talento ebbe vasta risonanza ovunque.

A Pavia, nel 1525, in uno scontro con l’esercito francese, il marito morì, Vittoria cadde in uno stato di prostrazione. Iniziò a comporre sonetti dedicati a lui caratterizzati dalla cifra del ricordo, in cui lo descrive come un eroe, l’unico “lume”, il suo “sole” e verso di lui incanala tutta la sua sofferenza che diventa uno strumento di elevazione spirituale.

Nel 1525 Ariosto le dedicò un sonetto[2] per consolarla e allo stesso tempo esortarla a temperare il suo dolore con la sua virtù capace di innalzarla fino al cielo insieme con la gloria dello sposo. Anche Baldassarre Castiglione nel 1928 scrisse lusinghiere parole per lei nell’introduzione del Cortegiano.[3] Parimenti la sua fama di poetessa si diffuse rapidamente: nel 1532 Ariosto ne cantò le lodi nell’ultima edizione del Furioso citandola nel canto XXXVII in cui, dopo aver accennato a vari scrittori che encomiarono le donne, coglie l’occasione per tessere elogi per lei e per le rime gentili dedicate alla memoria dell’amato[4]. Vittoria riversò il suo dolore in liriche intrise di sofferenza in cui si avverte il desiderio di morire e di ricongiungersi presto al marito. Un esempio è offerto dal sonetto LXXXII di chiara ascendenza petrarchesca in cui la poetessa esprime il suo dolore al sorgere del mattino che non rappresenta un momento di gioia bensì di tristezza perché le richiama alla mente la sua condizione di solitudine. La sua sorte triste la induce dunque a cercare le tenebre che si identificano con la morte e la conducono al suo “sole”.

Quando ‘l gran lume appar nell’oriente,

Che ‘l negro manto della notte sgombra,

E dalla terra il gelo o la fredd’ombra

Dissolve e scaccia col suo raggio ardente:

De’ primi affanni, ch’avea dolcemente

Il sonno mitigati, allor m’ingombra:

Ond’ogni mio piacer dispiega in ombra,

Quando da ciascun lato ha l’altre spente.

Così mi sforza la nimica sorte

Le tenebre cercar, fuggir la luce,

Odiar la vita e desiar la morte.

Quel che gli altri occhi appanna a’ miei riluce,

Perchè chiudendo lor, s’apron le porte

Alla cagion ch’al mio sol mi conduce,

Il sonetto XXII si può considerare significativo nel passaggio dall’amore terreno a quello spirituale, Vittoria è da tempo rassegnata al fatto che la morte abbia rotto i vincoli materiali che la legavano all’amato, però se i corpi sono ormai sterili, le anime diventano ancora più feconde e più che mai sono avvinte in un connubio molto più produttivo grazie a cui ella diviene madre metaforica di una prole immortale fatta di spirito. La sua poesia che nasceva dal pianto ora si innalza al cielo.

Quando Morte fra noi disciolse il nodo
che primo avinse il Ciel, Natura e Amore,
tolse agli occhi l’obietto e ’1 cibo al core;
l’alme ristrinse in più congiunto modo.
Quest’è ’l legame bel ch’io prezzo e lodo,
dal qual sol nasce eterna gloria e onore;
non può il frutto marcir, né langue il fiore
del bel giardino ov’io piangendo godo.
Sterili i corpi fur, l’alme feconde;
il suo valor qui col mio nome unito
mi fan pur madre di sua chiara prole,
la qual vive immortal, ed io ne l’onde
del pianto son, perch’ei nel Ciel salito,
vinse il duol la vittoria ed egli il sole.

Benché la donna, dopo il 1525, avesse trascorso un lungo periodo di volontaria reclusione nel castello di Ischia e avesse desiderato anche di chiudersi in un monastero, nel 1530 il letterato Paolo Giovio[5], da sempre vicino alla marchesa a cui era legato da un intenso amore spirituale, tentò di riportarla sulla scena letteraria. Fu proprio lui il tramite con Pietro Bembo, che nel 1535 incluse un suo sonetto nella seconda edizione delle Rime e gliene dedicò un altro[6].

Iniziò un sodalizio poetico rafforzato da un intenso scambio epistolare. Nonostante la vita ritirata e il dolore, riuscì a conoscere molti intellettuali dell’epoca, ma non solo, si avvicinò infatti a religiosi come Juan de Valdés[7], il frate Bernardino Ochino[8], più volte ascoltato a Roma, a Napoli, poi a Ferrara, infine al cardinale Reginald Pole[9]. Iniziò per Vittoria una mutatio animi grazie ad un percorso religioso e alla conoscenza dei personaggi sopraccitati, esponenti del cosiddetto movimento degli “Spirituali” che avevano come principi cardine l’evangelismo e la rigenerazione interiore, temi a cui la marchesa si avvicinò con interesse. Il suo itinerario spirituale la unì anche al più grande artista dell’epoca, Michelangelo[10], che le dedicò un madrigale nel quale paragonava l’azione della scultura che libera la figura dalla materia all’influenza su di lui dell’amica: la donna riesce a introdursi nell’anima pura e fragile “che pur trema” del poeta nascosta dalla “dura scorza” della carne[11]. Le rivolse anche altre rime[12] in cui dice, per esaltare le doti della donna, che in lei sente parlare un uomo, salvo poi correggersi affermando che attraverso la sua bocca sente parlare un dio. L’artista comprese che sarebbe stato completamente soggiogato dal sentimento ma in realtà fu un amore totalmente incorporeo e mistico associato ad un altro elemento in comune con lei, ovvero l’adesione alla corrente degli “spirituali” e ai loro principi.

In virtù della mutatio animi, i componimenti della poetessa denominati Rime spirituali costituiscono uno spartiacque con gli altri, (come nel Canzoniere di Petrarca le rime in vita e in morte di Laura), ed esprimono l’esigenza della solitudine, di un ripiegamento in se stessa e di una profonda introspezione, ma soprattutto di un colloquio diretto con Dio, di un insopprimibile anelito ascetico frutto di una fede pura e sincera.

Dalla lettura dei sonetti si palesa il travaglio interiore, la ricerca inesausta della consolazione della fede, il superamento e la sublimazione delle passioni terrene che gradualmente vengono soppiantate dall’immersione totale nel divino. Tutto ciò non avviene senza contrasti, il suo è comunque un dissidio interiore come emerge chiaramente dal sonetto CXLIV in cui si rileva un atteggiamento di pentimento e vergogna (che sicuramente la accosta a Petrarca), ma anche la sofferenza e la tensione emotiva della donna che palesa la profondità della sua fede e si congiunge con tutta se stessa alla croce di Cristo trovando in lui l’amore prezioso capace di mutare ansia e timore in speranza e giubilo.

Quand’io riguardo il mio sì grave errore,

Confusa al Padre Eterno il volto indegno

Non ergo allor, ma a te, che sovra il legno

Per noi moristi, volgo il fedel core.

Scudo delle tue piaghe e del tuo amore

Mi fo contra l’antico e novo sdegno,

Tu sei mio vero prezïoso pegno,

Che volgi in speme e gioia, ansia e timore.

Per noi su l’ore estreme umil pregasti,

Dicendo: Io voglio, o Padre, unito in cielo

Chi crede in me, sì ch’or l’alma non teme.

Crede ella e scorge, tua mercè, quel zelo

Del quale ardesti sì, che consumasti

Te stesso in croce e le mie colpe insieme.

In un altro sonetto la poetessa immagina di elevarsi oltre le proprie facoltà sensibili per permettere all’anima di avvicinarsi a Dio, il “vero Sole”. In questo viaggio mistico, simile al trasumanar dantesco, impara l’ineffabile, lontano da tutte le cose terrene e può profondarsi nello splendore di Dio che conosce tutti i suoi dolori. Ė evidente anche la variazione del linguaggio utilizzato: agli echi petrarcheschi e danteschi si unisce, come del resto in tutte le rime spirituali, quello biblico. 

Sovra del mio mortal, leggera e sola,

aprendo intorno l’aere spesso e nero,

con l’ali del desio l’alma a quel vero

Sol, che più l’arde ognor, sovente vola,

e là su ne la sua divina scola

impara cose ond’io non temo o spero

che ‘l mondo toglia o doni, e lo stral fero

di morte sprezzo, e ciò che ‘l tempo invola,

chè ‘n me dal chiaro largo e vivo fonte

ov’ei si sazia tal dolcezza stilla

che ‘l mel m’è poi via più ch’assenzio amaro,

e le mie pene a lui noiose e conte

acqueta alor che con un lampo chiaro

di pietade e d’amor tutto sfavilla.      

Nonostante la rettitudine morale, la fede sincera e la ricerca continua di religiosità pura, intima e lontana dalla corruzione, Vittoria attirò a sé l’attenzione dell’Inquisizione romana che per anni cercò di raccogliere prove indagando sui suoi rapporti con i valdesi e con Pole. Fortunatamente, nonostante i sospetti e il fatto che il suo nome spesso ricorresse nelle carte dei processi, non venne pubblicamente accusata, in virtù delle amicizie influenti di cui godeva la sua famiglia, non ultima quella del pontefice Paolo III. Cosa più rilevante, che esula da ogni intervento esterno e che la salvò da ogni accusa di eresia, fu la sua reputazione di donna virtuosa, colta e dall’integrità morale ineccepibile. A maggior ragione stupisce che una poetessa di un tale spessore morale, culturale e religioso, a prescindere dal rango di appartenenza, potesse essere infamata dal fanatismo religioso che non aveva nessun diritto di sindacare sulla sua autentica e sofferta fede di cui i sonetti offrono un’eccelsa testimonianza. Una tale ingiustizia si può spiegare soltanto alla luce di atavici preconcetti su donne brillanti capaci di compiere scelte coraggiose e libere.


Bibliografia

Cosentino Paola, Poetesse del Cinquecento, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Letteratura, direzione scientifica di G. Ferroni. Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2018, pp. 187-192.

Per le biografie: Enciclopedia Treccani online.

Plastina Sandra, “Vittoria Colonna”, in Galleria dell’Accademia Cosentina, Roma Iliesi CNR 2016

Prandi Stefano, “La vita immaginata” vol. 1B, Mondadori, Milano 2019

Rime di tre gentildonne del secolo XVI, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara. Prefazione di Olindo Guerrini, Milano, Edoardo Sonzogno, 1882. Edizione elettronica del 29 aprile 2009.

Salinari Carlo; Ricci Carlo, Storia della letteratura italiana vol.2, Bari, Laterza, 1995


[1] Edizioni in miniatura del Canzoniere di Petrarca e piccoli glossari dei termini più usati dal poeta.

[2]   Illustrissima donna, di valore

ferma colonna, se ’l volubil cielo,

come vedete, or ne dá caldo or gielo,

or vita or morte, or gioia ed or dolore;

     s’egli ha furato ’l vostro primo amore,

ch’è anche l’estremo ed il fral suo velo

sciolt’ha dal spirto anzi il cangiar del pelo,

dando a voi noia, ed a sé eterno onore;[….]

[3]  “L’ingegno e la prudentia di quella Signora, la virtù della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina”., Cortegiano.

[4] XVIII  Vittoria è ’l nome; e ben conviensi a nata

fra le vittorie, et a chi, o vada o stanzi,

di trofei sempre e di trionfi ornata,

la vittoria abbia seco, o dietro o inanzi.

Questa è un’altra Artemisia, che lodata

fu di pietá verso il suo Mausolo; anzi

tanto maggior, quanto è piú assai bell’opra,

che por sotterra un uom, trarlo di sopra.

[5] Paolo Giovio, storico (1483-1552), fu ospite della poetessa Vittoria Colonna e di Costanza d’Avalos. Rimase affascinato dalla donna «a cui fu legato da un amore celeste, santo e platonicissimo, armonia delle cose più belle»,  scrive in una lettera nel 1530 al cardinal Bembo.

[6] CXXVI.Alta Colonna e ferma a le tempeste
del ciel turbato, a cui chiaro onor fanno
leggiadre membra, avolte in nero panno,
e pensier santi e ragionar celeste,
e rime sì soavi e sì conteste,[…].

[7] Juan Valdés (1500-1542), letterato e teologo spagnolo, esercitò un fascino grandissimo nell’alta società napoletana, nella quale diffuse il suo pensiero di una fede ricondotta alla purezza evangelica Della sua lezione si nutrì Vittoria Colonna e, tramite lei, Michelangelo.

[8] Ochino Bernardino (1487-1564) entrò nell’Ordine dei francescani. Cominciò a tessere una fitta rete di rapporti con il circolo di ‘spirituali’ riunitosi intorno all’esule iberico Juan Valdés.

[9] Reginald Pole (1500-1558), cardinale e arcivescovo cattolico inglese, tra i maggiori protagonisti dell’età della Controriforma. A Viterbo raccolse attorno a sé gli Spirituali reduci del circolo napoletano di cui facevano parte, tra gli altri, Vittoria Colonna, il grande artista Michelangelo, il mistico spagnolo Juan de Valdés.

[10] Michelangelo frequentò Vittoria dal 1538 fino alla morte (1547): con lei scambiava rime, vivendo intensamente la propria esperienza dell’amore platonico. La Colonna lo convinse ad aderire alla dottrina di Valdés. Per lei l’Artista realizzò alla fine del ‘500 diverse opere di cui rimangono i disegni preparatori tra i quali la Pietà per Vittoria Colonna e la Crocifissione.

[11] Sì come per levar, donna, si pone

in pietra alpestra e dura

una viva figura,

che là più cresce u’ più la pietra scema;

tal alcun’opre buone,

per l’alma che pur trema,

cela il superchio della propria carne

co’ l’inculta sua cruda e dura scorza [….]

 (Michelangelo, Rime, n. 152)

[12] Un uomo in una donna, anzi uno dio

per la sua bocca parla,

ond’io per ascoltarla

son fatto tal, che ma’ più sarò mio[..]

 (Michelangelo, Rime n.235)


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

Emanuele Marcuccio sul suo progetto culturale ed editoriale di dittici e trittici poetici “Dipthycha”

Era il ventisei marzo 2013 quando ho dato l’avvio al progetto di un volume antologico dal titolo Dipthycha, di particolari dittici poetici, da me definiti “a due voci”[1], per distinguerli dal dittico poetico propriamente detto e scritto da uno stesso autore. L’intento di questo non solito progetto antologico, da me ideato e curato, che vede anche la mia presenza come autore, insieme ad altri, non è quello di scendere in un agone poetico né in una gara; piuttosto è l’amore per la poesia nei suoi diversi stili e modi di esprimerla ovvero la voce della poesia che va oltre la voce del singolo poeta, l’empatia poetica, il tentare di dare una risposta, un ideale continuum alla poesia che precede, senza mai cercare di imitarsi l’un l’altro e rimanendo sempre fedeli al proprio modo di fare poesia per non avere come risultato qualcosa di simile a una poesia a quattro mani[2].

In pratica, non è la poesia che si adegua al dittico a due voci piuttosto il contrario, ragion per cui non sono poche le coppie di poesie dal tema comune non proponibili come dittici a due voci. “Dipthycha” è anche il titolo del progetto, che ho ricavato dal termine originale latino diptycha (–orum), con contaminazione in chiave moderna e riadattamento del dittico – la tavoletta cerata in uso presso gli antichi Romani per scrivervi con lo stilo – in chiave poetica. Infatti, nel libro, in ogni volume del progetto, la prima poesia di un dittico a due voci (o il suo inizio) va posta sempre nella pagina di sinistra, appunto per realizzare una rivisitazione poetica dell’antico dittico. Come sottotitolo per il primo volume ho scelto «Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…» parafrasando i versi finali di una poesia che scrissi nel 2010, “Telepresenza”, ispiratrice del primo dittico a due voci intercorso con la poetessa Silvia Calzolari, era il nove maggio 2010. L’idea di questi dittici è nata su internet e davanti a un PC, attraverso e partendo da quel “foglio di vetro impazzito”.

«Sì, è l’affinità elettiva poetica, la telepresenza attraverso un PC, la corrispondenza dʼamorosi sensi, riprendendo la celebre espressione foscoliana, la quale poi cito in “Telepresenza”, in dittico a due voci con “Vita parallela” di Silvia Calzolari e che costituisce il manifesto poetico di tutto il progetto; non a caso ogni volume è aperto da questo dittico, corrispondenza dʼumano sentire per il tramite di un computer, “quel foglio di vetro impazzito”, che sempre e comunque “cʼispira”. È questa corrispondenza il motore, il fulcro di questi particolari dittici, tra le diverse voci di due poeti, i quali non cercano di imitarsi a vicenda, ma rimangono fedeli, ognuno al proprio modo di poetare. Ciononostante, il tema comune alle due poesie (punto di partenza per l’individuazione di un possibile dittico), unito alla corrispondenza sonora o emozionale, di significanza, come se le due liriche volessero instaurare una sorta di dialogo o, empaticamente, continuare in qualche modo il poetare della poesia divenuta “compagna”, fanno sì che si instauri una “dittica” corrispondenza/comunicazione, anche se in toni diversi, anche se in tempi diversi, dando così vita a un dittico a due voci».[3]

Il primo volume[4] è stato pubblicato il dieci settembre 2013 con Photocity Edizioni e così si è espressa la poetessa e critico letterario Cinzia Tianetti nella prefazione: «Il realizzato progetto antologico si compone di ventuno dittici, quadri in cui si profilano sullo scenario di un tema comune due poesie che si riscontrano in uno sposalizio che, nella loro pur sempre autonoma originalità, li rende rispondenti. È un’intuizione quella dell’ideatore fortemente moderna ma alla luce di un percorso formativo che da sempre partorisce l’artista nella storia, che non può allontanarlo da quel che è un processo che ha il senso radicato della filiazione».[5]

Il ventidue luglio 2014 avviavo il progetto di un secondo volume, a cui si aggiungeva la collaborazione del critico letterario e poeta Luciano Domenighini il quale redigeva le note critiche a ventinove dei trentatré dittici a due voci presenti. Così scrivo in un aforisma del 2014, che riporterò in esergo al volume: «Qual è lo spirito di un dittico poetico? Perché creare un dittico poetico a due voci? Per trovare corrispondenze di significanti nei versi di due poesie di due poeti, accomunate dal tema simile, per trovare affinità elettive nella loro poesia, oltre le distanze e il tempo; quando ciò accade, si riesce ad ascoltare la voce della poesia che, va oltre la voce del singolo poeta, ed è stupore e meraviglia.»

«[P]regevoli ricami sono tutti gli accostamenti che Marcuccio riesce a costruire poesia dopo poesia, da Silvia Calzolari, con omaggio indelebile a Giacomo Leopardi, diversi per stile ma accomunati dall’eco di Recanati, a […] Ciro Imperato, nel vigoroso impeto civile, a Grazia Finocchiaro, nelle segrete emozioni della memoria, a Rosalba Di Vona, vivificante nel tratto intimistico, […] ad Aldo Occhipinti, dalla suggestiva strofa cosmica, a Maria Rita Massetti, dall’ampio respiro corale, a […] Grazia Tagliente, negli occasionali frammenti di rime e nella ricca sequenza di metafore, [ad] Anna Alessandrino, fra il tempo inteso come sequenza e il sogno come elemento verginale, a Lorenzo Spurio, con la sua imprevedibile incisione musicale. […] Febbrile e singolare modernità di accostamenti, offerta dalla capacità immaginativa del palermitano, poeta dal multiforme profilo e dalla instancabile volontà di sperimentazione».[6]

Questo secondo volume[7] usciva il sette gennaio 2015 con TraccePerLameta Edizioni e nel maggio dello stesso anno ne avviavo il progetto di un terzo. Quaranta i dittici a due voci (alcuni proposti anche da altri autori partecipanti in “Altre dittiche corrispondenze”), con tre che chiudevano il Dipthycha 3: il poeta e critico letterario Aldo Occhipinti ne proponeva uno con l’eclettico Gabriele d’Annunzio e un altro con il profondissimo Eugenio Montale mentre il sottoscritto ne proponeva uno alla poetessa e critico letterario Lucia Bonanni, con il funambolico Aldo Palazzeschi. Scrivo ancora in un aforisma del 2015, che riporterò in esergo al volume: «In un dittico a due voci il poeta si apre al prossimo, anch’egli poeta, scegliendo che ai suoi versi facciano eco quelli di un altro poeta che trova in qualche modo affine, in cui individua corrispondenze sonore o emozionali, affinità elettive, corrispondenze di significanti». Nel marzo del 2016 mentre ero di ritorno da Milano, il poeta e critico letterario Lorenzo Spurio mi inviava in lettura un suo saggio breve sull’intero progetto “Dipthycha”: “Risonanze empatiche: l’esperienza del ‘dittico poetico’ di Emanuele Marcuccio”, un saggio che sceglierò come postfazione a Dipthycha 3. Ivi così si è espresso il critico: «Nessun dittico contenuto nei tre volumi è il frutto di una decisione preventiva, vale a dire nessun dittico è nato in maniera forzosa e richiesta, per i poeti, di elaborare una poesia che presentasse un determinato tema. È stato Marcuccio, ed è questo uno dei punti di forza del lavoro, leggendo poesie degli autori in rete, in sillogi personali, in antologie, a scovare di volta in volta possibili analogie, comunanze, parallelismi, elementi di rimando, concetti affini, punti rimarchevoli di contatto da permettere un accostamento di liriche di autori diversi. Nessun poeta in dittico, infatti, ha mai scelto l’autore con il quale avrebbe costruito il dittico poetico né a partire da una sua poesia alla quale, magari, era molto legato, ha intimato un altro poeta a scrivere qualcosa di simile. Il tutto, infatti, la scelta sapientissima ed oculata, la costruzione del dittico dopo un’analisi attenta delle componenti delle liriche e il loro potere evocativo, è stato compito di Marcuccio. Curatore che, proprio come un incantato pigmalione, è andato a scavare le trame più dense dei vari componimenti lirici, sezionandoli, assaporandoli, vivificandoli con l’ampiezza della sua capacità, completamente originale ed invidiabile, di saperli rapportare ad un altro. L’operazione svolta da Marcuccio, democratica e ampia, si inserisce in un procedimento letterario assai onesto e del quale è doveroso parlare dove la poesia cessa di essere manifestazione dell’animo del singolo, rappresentazione – sdolcinata o meno – di un vissuto personale, per interagire in maniera vibrante con altre poesie, costituendo un dialogico ricco e foriero di nuove essenze. La poesia da personale diventa fatto collettivo: gli autori in dittico sembrano quasi tenersi leggiadramente per mano, scanzonati, ed avanzare su un prato in maniera spensierata per poi unirsi agli altri in un girotondo, che poi è il girotondo dellʼAnima».[8] Questo terzo volume[9] usciva alla fine di aprile dello stesso anno con PoetiKanten Edizioni.

A questo punto non posso non ricordare con gratitudine e commozione che il dittico poetico a due voci nella X e XI edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”[10] (2021-23) è stato inserito come sottosezione di partecipazione nella sezione “Sperimentazioni poetiche e nuovi linguaggi”, insieme alla ‘corto poesia’ teorizzata da A. Barracato e D. Matranga e alla poesia dinanimista teorizzata da Z. Ferrante, su proposta dello stesso fondatore e presidente del Premio Lorenzo Spurio.[11] Un Premio sempre più prestigioso per il quale mi pregio di essere nella Giuria fin dalla prima edizione lanciata nel 2012. Dopodiché nell’ottobre del 2021 ho stilato le indicazioni complete per la pubblica lettura ed eventuale trasmissione di un dittico poetico a due voci: si dia lettura dei nomi dei due autori del dittico con relativo titolo delle due poesie prima della lettura del dittico stesso, si leggano poi i testi delle due poesie facendo seguire alla lettura della prima poesia una pausa più o meno lunga; alla fine si dia di nuovo lettura dei nomi dei due autori con relativo titolo delle due poesie. Nella lettura si prega di rispettare l’ordine di disposizione del dittico. Penso sia questo il miglior modo per leggere un dittico poetico a due voci rispettando lo spirito del progetto.

Così scrivo in un aforisma del novembre 2016, come possibile suggerimento per l’individuazione di un dittico a due voci: «Il tema comune alle due poesie dei due autori è solo il punto di partenza per l’individuazione di un dittico ‘a due voci’; è necessario che ci sia anche una corrispondenza sonora o emozionale, di significanza, una sorta di corrispondenza empatica, una analogia, una poetica affinità elettiva (una “dittica” corrispondenza/comunicazione) e soprattutto i due autori del dittico devono attenersi ai propri modi di fare poesia, senza cercare di imitarsi, per non avere come risultato qualcosa di simile a una poesia a quattro mani. Il fine non è l’imitazione dell’altra poesia qualora si voglia individuare un tale dittico bensì l’affinità elettiva, l’analogia, l’empatia poetica.»

Come naturale evoluzione del dittico a due voci, nell’agosto 2016 nasceva il trittico “a tre voci”, anche su suggerimento degli scrittori Lorenzo Spurio e Luigi Pio Carmina. Tuttavia, in futuro non è mia intenzione individuare, proporre polittici “a più voci”, in quanto, con la triade (tesi-antitesi-sintesi) si realizza la perfetta “trittica” corrispondenza, non è necessario andare oltre, si creerebbe solo una inutile dispersione del flusso poetico. Come per il dittico a due voci, anche per il trittico a tre voci, la prima poesia (o il suo inizio) va posta nella pagina di sinistra, questa volta per realizzare una rivisitazione poetica del trittico artistico.

A maggio 2016 avviavo il progetto di un quarto volume di “Dipthycha”, non solita serie antologica che non poteva fermarsi al terzo volume. Centoquarantacinque sono le poesie che lo compongono, divise tra cinquantatré dittici a due voci[12], di cui dieci (ciascuno introdotto da un saggio breve del critico Lucia Bonanni)[13] con autore classico[14], anche di lingua straniera e con testo a fronte in lingua originale, e tredici sono i trittici a tre voci.

«Il progetto che Emanuele Marcuccio ha ideato e messo in opera ha una valenza di notevole interesse, vuoi per la corposità del volume che raccoglie ben ventidue autori con numerose poesie, vuoi per l’operazione culturale di alto livello che vede pagina dopo pagina gli accostamenti con lo stesso Emanuele Marcuccio, il quale spende il suo operato con attenzione, e ancora con scrittori storicizzati e amati, esponenti della poesia internazionale selezionata. Un’opera quindi di perspicace plurivocità che abbraccia con sorpresa l’arcobaleno luminoso degli amori, delle passioni, delle illusioni, dei ricordi, degli sperdimenti panici, delle frequentazioni amicali, per una incalzante e melodiosa inquietudine che la sola poesia riesce a suscitare nel lettore. […] “Dittiche corrispondenze d’Autore” infine è la sezione forse più suggestiva di tutto il volume, un sorprendente guizzo di pagine da centellinare con attenzione per assaporarne in pieno la caratura estetica, non solo, ma anche la mordace e generosa memoria che i poeti accostati riescono a riaccendere nel lettore. […] I vari temi proposti, autore dopo autore, sfociano in eleganti affinità di relazioni empatiche e di affinità creative, facendo mostra di risoluzioni che appartengono allo scenario dell’immaginario come alla plasticità del perturbante. Si avvicendano in queste pagine Giacomo Leopardi e Emanuele Marcuccio, Giovanni Pascoli e Giorgia Catalano, Dino Campana e Lucia Bonanni, Antonia Pozzi e Lorenzo Spurio, Nelo Risi e Grazia Tagliente, Rainer Maria Rilke e Daniela Ferraro, Pablo Neruda e Daniela Ferraro, Wisława Szymborska e Grazia Tagliente, in un clamoroso esercizio di convergenze e contrasti, indagando con cautela tra i meandri della psiche e la originalità degli scritti».[15]

Così scrivo in un aforisma dell’aprile 2018, scelto come esergo al Dipthycha 4: «Nell’individuare dittici e trittici poetici secondo il “Dipthycha” – operazione mai semplice – è essenziale che ogni autore non imiti l’altro ma che in una sorta di continuum, seguendo il relativo tema rimanga fedele al proprio modo di fare poesia. Se no, dove sarebbe l’innovazione? Solo qualcosa di simile a una poesia a quattro mani e nulla più».

Come immagine di copertina, ho scelto un particolare di quella che riproduce un’opera pittorica della francese Henriette Browne (1829 – 1901), «Ragazza che scrive» (1870 – 1874), conservata al Victoria and Albert Museum di Londra. In questa immagine, a mio avviso, è rilevabile una certa continuità con quelle dei tre volumi precedenti, soprattutto il secondo e il terzo; vi si può leggere una scriba romantica e tanta meraviglia: l’ambiente esterno è povero ma intorno si percepisce tanta cultura e tanta meraviglia nello sguardo della giovane ragazza. La stessa può essere interpretata anche come allegoria dell’intero progetto “Dipthycha”. Questo quarto volume[16] usciva il ventitré dicembre 2022 con TraccePerLaMeta Edizioni che dal gennaio dello stesso anno ha trasferito la propria sede a Busto Arsizio (VA).

D’accordo con gli autori, il ricavo vendite dei precedenti tre volumi è devoluto ad AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Mentre per il quarto volume è giusto invece che il pensiero vada ai nostri connazionali del centro Italia, colpiti dal terremoto nel 2016.

EMANUELE MARCUCCIO

(Aggiornato al 11 maggio 2024)


APPENDICE

Canoni distintivi

Canoni distintivi per la realizzazione di un dittico poetico a due voci del progetto di poesia “Dipthycha”, elaborati dal suo ideatore Emanuele Marcuccio, già pubblicati nel bando delle due suddette edizioni del Premio “L’arte in versi” e da seguire qualora si voglia inviare una propria proposta di dittico poetico a due voci alla attenzione del curatore, a info@proletteraturacultura.com.

I canoni distintivi (prevalentemente contenutistici) del dittico poetico a due voci sono:

  1. Presenza di un titolo per ciascuna delle due poesie
  2. Rispondenza di un tema comune alle due poesie
  3. Ciascuno dei due autori della rispettiva poesia formanti il dittico deve attenersi al proprio modo di fare poesia, senza in alcun modo cercare di imitarsi
  4. La seconda poesia del dittico sia in qualche modo una ideale risposta alla prima attraverso una sorta di continuum per analogie, corrispondenze sonore o emozionali, di significanza, di empatia, di poetica affinità elettiva

Ovviamente gli stessi, mutatis mutandis, possono essere seguiti per la realizzazione di un trittico poetico a tre voci.

Bibliografia e studi critici

A partire dal 2014, circa un anno dopo la pubblicazione del primo volume del progetto poetico “Dipthycha”, vari studi sono pubblicati in volume e online.

Bibliografia

AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Cinzia Tianetti, Postfazione di Alessio Patti, Photocity Edizioni, Pozzuoli, 2013, pp. XII, 90.

AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione e note critiche di Luciano Domenighini, Postfazione di Antonio Spagnuolo, Quarta di copertina di Francesco Martillotto, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015, pp. 184.

AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michele Miano, con il saggio di Postfazione di Lorenzo Spurio “Risonanze empatiche, l’esperienza del ‘dittico poetico’ di Emanuele Marcuccio”, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 180.

AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michela Zanarella, Postfazione di Antonio Spagnuolo, con saggi brevi e quarta di copertina di Lucia Bonanni, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 310.

Studi

Bonanni, Lucia, “Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira. Una lettura”, proletteraturacultura.com/2015/09/dipthycha-2-di-emanuele-marcuccio-e-aa-vv-letto-e-commentato-da-lucia-bonanni.html, “Pro Letteratura e Cultura”, 2015.

Id., “Un dittico funambolico”, in AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 130-131.

Id., “Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia. Una lettura”, proletteraturacultura.com/2016/05/dipthycha-3-una-lettura-critica-a-cura-di-lucia-bonanni.html, “Pro Letteratura e Cultura”, 2016.

Id., “Angoscia, declino, ripiegamento e soffi di speranza nel ‘dittico poetico’ Leopardi-Marcuccio”, in AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 189-193.

Id., “Stagione invernale, sentimento della natura e tenere emozioni nel ‘dittico poetico’ Pascoli-Catalano”, in Op. cit., pp. 197-201.

Id., “Mistero, metamorfosi, silenzio e malinconia nel ‘dittico poetico’ Pascoli-Ferraro”, in Op. cit., pp. 205-206.

Id., “Da un’idea visiva e trasognata a un’ispirazione repentina e avvolgente: il ‘dittico poetico’ Campana-Bonanni”, in Op. cit., pp. 211-214.

Id., “Memoria, ansia di vivere e poetiche affinità elettive nel ‘dittico’ Risi-Tagliente”, in Op. cit., pp. 225-227.

Id., “Natura, atemporalità, inquietudine e malinconia nel ‘dittico poetico’ Rilke-Ferraro”, in Op. cit., pp. 231-235.

Id., “Sentimento della natura, emozioni, memorie e speranze nel ‘dittico poetico’ Neruda-Ferraro”, in Op. cit., pp. 239-241.

Id., “Amore cosmico, malinconia, nostalgia e rimpianto nel ‘dittico poetico’ Neruda-Tagliente”, in Op. cit., pp. 247-248.

Id., “La gioia di scrivere che si perpetua in uno ‘esistere incessante’ di scrittura gioiosa nel ‘dittico poetico’ Szymborska-Tagliente”, in Op. cit., pp. 255-257.

Domenighini, Luciano, Prefazione a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015, pp. 13-14.

Luzzio, Francesca, “Intervento critico a Palermo, Villa Trabia, 12-6-2016: Presentazione di Dipthycha 3”, proletteraturacultura.com/2016/06/palermo-villa-trabia-12-6-2016-presentazione-di-dipthycha-3-intervento-di-f-luzzio.html, “Pro Letteratura e Cultura”, 2016.

Martillotto, Francesco, Quarta di copertina a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015.

Miano, Michele, Prefazione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 9-11.

Occhipinti, Aldo, “Un dittico a caldo”, in Op. cit., pp. 117-119.

Id., “Un dittico a freddo”, in Op. cit., pp. 126-127.

Pardini, Nazario, “Recensione a Emanuele Marcuccio: Dipthycha. Antologia poetica”, in Id., Lettura di testi di autori contemporanei 1990 – 2013, The Writer Edizioni, Morano Principato, 2014, pp. 459-460.

Id., “Recensione a Emanuele Marcuccio e AA.VV.: Dipthycha 2”, in Id., Lettura di testi di autori contemporanei. Volume III 2013 – 2015, The Writer Edizioni, Morano Principato, 2019, pp. 879-881.

Patti, Alessio, Postfazione a AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, Photocity Edizioni, Pozzuoli, 2013, p. 51.

Spagnuolo, Antonio, Postfazione a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015, pp. 145-146.

Id., Postfazione a AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 265-267.

Spurio, Lorenzo, “Risonanze empatiche, lʼesperienza del ‘dittico poetico’ di Emanuele Marcuccio. Postfazione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 137-146.

Id., “Lasciate che mi perda nell’ombra: il dramma esistenziale di Antonia Pozzi nel ‘dittico poetico’ Pozzi-Spurio”, in AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 219-221.

Tianetti, Cinzia, Prefazione a AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, Photocity Edizioni, Pozzuoli, 2013, pp. VII-XI.

Zanarella, Michela, Prefazione a AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 17-19.


Scheda tecnica del progetto editoriale

Progetto (ideazione e cura): Emanuele Marcuccio

Introduzione a ogni Vol.: Emanuele Marcuccio

Original Cover Book I Vol: Emanuele Marcuccio

Prefazione I Vol: Cinzia Tianetti

Prefazione II Vol. e note critiche: Luciano Domenighini

Prefazione III Vol: Michele Miano

Prefazione IV Vol: Michela Zanarella

Postfazione I Vol: Alessio Patti

Postfazione II Vol: Antonio Spagnuolo

Postfazione III Vol: Lorenzo Spurio (saggio)

Postfazione IV Vol: Antonio Spagnuolo


Co-curatori

I Vol: Gioia Lomasti e Francesco Arena

Editing Cover Images I Vol: Francesco Arena

Editing Cover Images II Vol: Laura e Stefano Dalzini

Editing Cover Images III Vol: Patrizio Federico

Editing Cover Images IV Vol: Danilo Torraco e Stefano Dalzini

Pagina Facebook dedicata: https://www.facebook.com/Dipthycha  


I quarantadue autori presenti nei rispettivi quattro Volumi finora editi sono: Emanuele Marcuccio (presente in ogni volume), Silvia Calzolari (c.s.), Giorgia Catalano (c.s.), Maria Rita Massetti (c.s.), Lorenzo Spurio (c.s.), Donatella Calzari, Raffaella Amoruso, Monica Fantaci, Rosa Cassese, Rosalba Di Vona, Giovanna Nives Sinigaglia, Michela Tarquini, Francesco Arena, Ilaria Celestini, Ciro Imperato, Grazia Finocchiaro, Aldo Occhipinti, Marzia Carocci, Giusy Tolomeo, Grazia Tagliente, Daniela Ferraro, Antonino Natale, Anna Alessandrino, Teocleziano Degli Ugonotti, Antonella Monti, Luigi Pio Carmina, Lucia Bonanni, Maria Chiarello, Francesco Paolo Catanzaro, Maria Palumbo, Francesca Luzzio, Giorgio Milanese, Valentina Meloni, Luciano Domenighini, Igino Angeletti, Emilia Otello, Rosa Maria Chiarello, Anna De Filpo, Giorgia Spurio, Carla Maria Casula, Giusi Contrafatto, Anna Scarpetta.


Ai link di seguito è possibile leggere qualcuno dei tanti dittici a due voci e anche uno dei trittici a tre voci:

Dittico Calzolari-Marcuccio (Manifesto poetico del progetto presente in ogni volume)

Dittico Luzzio-Marcuccio (con trad. in dialetto aquilano di Lucia Bonanni, edito in Dipthycha 4)

Dittico Degli Ugonotti-Tolomeo (Edito in Dipthycha 3)

Dittico Massetti-Tolomeo (Edito in Dipthycha 2)

Trittico Bonanni-Spurio-Marcuccio (Edito in Dipthycha 4)


D’accordo con tutti gli autori presenti, l’intero ricavato delle vendite dei primi tre volumi è devoluto a scopo benefico ad AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Mentre per il quarto volume, sempre d’accordo con gli autori, si è scelto il comitato pro-terremotati centro Italia di Ancescao APS.

Evidenza delle donazioni effettuate:

proletteraturacultura.com/2015/07/donato-ad-aism-il-ricavato-vendite-dell-opera-antologica-dipthycha-2.html

proletteraturacultura.com/2014/08/ricevuto-il-ricavato-delle-vendite-per-l-opera-antologica-dipthycha.html


[1] Il dittico poetico a due voci è una composizione da me teorizzata rivisitando il dittico poetico classico e definita dal sottoscritto come, “[u]na composizione di due poesie scritte da due diversi autori, indipendentemente, anche in tempi diversi, e accomunate dal medesimo tema in una sorta di corrispondenza empatica”. [N.d.A.]

[2] “Dipthycha” nasce anche come risposta alla pratica della poesia a quattro mani, che non reputo tale bensì solo un gioco poetico; nasce anche come risposta al cliché letterario riguardante la solitudine del poeta. [N.d.A.]

[3] Emanuele Marcuccio, in Introduzione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016, p. 7.

[4] AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Cinzia Tianetti, Postfazione di Alessio Patti, Photocity, Pozzuoli, 2013, pp. XII, 90.

[5] Cinzia Tianetti, in Prefazione a Op. cit., p. VII.

[6] Antonio Spagnuolo, in Postfazione a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta, Sesto Calende, 2015, pp. 145-46.

[7] AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione e note critiche di Luciano Domenighini, Postfazione di Antonio Spagnuolo, TraccePerLaMeta, Sesto Calende, 2015, pp. 184.

[8] Lorenzo Spurio, in Postfazione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten, 2016, pp. 138-39.

[9] AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michele Miano, con un saggio di Postfazione di Lorenzo Spurio, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 180.

[10] premiodipoesialarteinversi.blogspot.com

[11] Riporto di seguito i canoni distintivi (prevalentemente contenutistici) del dittico poetico a due voci stilati secondo la mia teorizzazione e pubblicati nel bando per la partecipazione alla relativa sottosezione del Premio. Presenza di un titolo per ciascuna delle due poesie, rispondenza di un tema comune alle due poesie; ciascuno dei due autori della rispettiva poesia formanti il dittico deve attenersi al proprio modo di fare poesia, senza in alcun modo cercare di imitarsi. La seconda poesia del dittico deve essere in qualche modo un’ideale risposta alla prima attraverso una sorta di continuum per analogie, corrispondenze sonore o emozionali, di significanza, di empatia, di poetica affinità elettiva. Conclusasi la partecipazione alla XI edizione del Premio il 31 dicembre 2022, come da verbale di Giuria, è stato assegnato anche un terzo premio per la relativa sottosezione “Dittico poetico” ai poeti Eugenio Griffoni e Giulia Bologna con motivazione del sottoscritto. [N.d.A.]

[12] Tra i tanti è presente anche un dittico seguito dalla traduzione in dialetto aquilano della poetessa Lucia Bonanni.

[13] Tranne uno, quello con Antonia Pozzi, proposto e introdotto da Lorenzo Spurio.

[14] Dittici a due voci con poeti che hanno fatto la storia della letteratura dall’Ottocento a oggi: Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli, Dino Campana, Antonia Pozzi, Nelo Risi e, con testo a fronte in lingua originale, Rainer Maria Rilke, Pablo Neruda, Wisława Szymborska.

[15] Antonio Spagnuolo, in Postfazione a AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta, Busto Arsizio, 2022, pp. 265-66.

[16] AA.VV., Op. cit., a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michela Zanarella, con saggi brevi e quarta di copertina di Lucia Bonanni e Postfazione di Antonio Spagnuolo, TraccePerLaMeta, Busto Arsizio, 2022, pp. 310.

N.E. 02/2024 – Recensione a “Erotanasie”, poema a due voci scritto da Giannino Balbis ed Emanuela Mannino. A cura di Ornella Mallo

Il poema a due voci di Giannino Balbis ed Emanuela Mannino, ha un titolo altamente suggestivo: Erotanasie. Deriva dalla fusione di due sostantivi di origine greca: Eros, che significa amore, e Thanatos, che significa morte. Nella prefazione i due autori fanno presente che l’allusione al termine “Eutanasia” è voluta, anche se vaga. Vedremo poi perché. Intanto è immediato il richiamo a Freud e alla teoria da lui esposta nel saggio Al di là del principio di piacere, incentrato sui temi dell’Eros e del Thanatos, ossia sulla “pulsione di vita” e sulla “pulsione di morte” che, pur opposte e contrastanti tra loro, presiedono alle dinamiche comportamentali di tutti gli individui. In questo testo il padre della psicoanalisi moderna si ispira a Empedocle e al conflitto psicologico in termini dualistici, preconizzato dal filosofo greco, tra la forza aggregante della Philia, ossia dell’Amore, e la forza disgregante del Neikos, ossia dell’Odio, che produce distruzione e morte.
Per cui, se da una parte Eros ci spinge verso l’Altro, e ci porta a creare con lui un’unità simbiotica, dall’altra Thanatos suscita in noi atteggiamenti respingenti e demolitivi, per cui tendiamo ad allontanarci  riducendo in macerie la relazione. Non solo. Per Freud Thanatos, nel suo significato primigenio di morte, esprime anche il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba.

Eros e Thanatos sono la scaturigine degli “aporemi del cuore” di cui parlano Abbagli Insonni e Costanza, i due protagonisti dell’opera. La morte aleggia per tutto il poema: viene individuata come evento tranciante della relazione amorosa che i due personaggi hanno avuto in vita, e da cui è nato un figlio, dal nome emblematico di “Astrolabio”. Emblematico non solo per il suo significato di carpitore di stelle, [da astron, stella, e lab, radice del verbo greco lambano, che significa acchiappare, prendere], indicativo della funzione tutelare della relazione da lui assolta mentre i protagonisti erano in vita: “Astrolabio / piange lontano /[…] ed io / inerme madre / l’abbraccio forte”, scrive Costanza; ma anche per essere il nome proprio del figlio di Abelardo ed Eloisa, passati alla storia per la forza dirompente della loro passione dagli esiti infausti.

Balbis e Mannino, nel loro poema, non solo li citano espressamente, ma continuamente fanno riferimento ad altre figure storiche, che si sono distinte per i loro amori tanto intensi quanto infelici: Isabella di Morra e Diego Sandoval, Susette Gontard e Hoderlin, Giulietta e Romeo, Orfeo ed Euridice, la Baronessa di Carini ed Emily Dickinson, giusto per fare qualche esempio. Tutti amanti che, per ragioni molteplici e diverse, non hanno potuto realizzare sulla terra il loro ideale di amore. La domanda che sembrerebbero allora rivolgere gli autori del poema a sé stessi e al lettore è: se in vita è difficilissimo, se non addirittura impossibile, realizzare un progetto amoroso, dopo la morte sarà possibile?

Il quesito su cui si impernia tutta l’opera è preannunciato nella prefazione scritta dai due poeti. In essa spiegano che i protagonisti dopo la morte raggiungono l’Eterno, e da lì si scrivono in versi. Perché il legame tra i due, non è solo dato dall’Eros che intensamente persiste, seppure come ideale, e dal figlio Astrolabio, “monco di albero padre”; il legame risiede nella Poesia, valore indiscusso grazie al quale il loro amore sopravvive alla morte: “io sposo a te di versi / […] tu sposa mia di rime”, asserisce Abbagli Insonni. Se tutto viene meno, restano in piedi soltanto i versi, che non saranno erosi dal tempo. Sono l’emblema dell’Eterno, limbo del “tutto-nulla” in cui “cerca riposo / – fuggendo immaginando – /” l’infelicità dei due protagonisti.

Abbagli Insonni, nell’incipit del poema, parla di una “nebbia di tempo” che li “avvolge e non dirada.”  Scriveva Joe Bousquet: “La morte è la solitudine delle persone amate, / questa nebbia intorno a loro che nessuna / tenera parola può attraversare. / La morte è il dolore e la disperazione / nelle stesse parole che furono l’ebbrezza / della felicità. La morte sono i pianti che / sgorgano ascoltando una / parola che voleva dire amore.”

Leggendo più approfonditamente l’opera, emerge come la morte fisica non abbia che conclamato quella morte spirituale che era stata inferta al rapporto dai due amanti mentre erano in vita. I versi infatti sono pervasi dallo struggimento che i protagonisti provano per non essere stati capaci di difendere il loro amore, e in questo si sentono vicini a tutti gli amanti della storia, accomunati dalla stessa sorte. Scrive Costanza ad Abbagli Insonni: “quanto dolore salmastro / tra gli amanti ignoti / quanta malinconia sparsa / nell’Eterno dei perché recisi dal silenzio.” E in altri versi afferma: “Sì, amato mio, / forse avremmo dovuto lottare / contro i cinici cieli aggrottati / e le comari nuvole accigliate / contro ai venti negri di invidia, / e le lingue nemiche / persino le malelingue amiche.” Abbagli Insonni le fa eco: “È questa allora / la pena degli amanti maledetti, / colpevoli non già d’amarsi a scandalo / dei falsi moralisti, / ma di scoprirsi inetti alla difesa / del proprio santo amore.” È il rimprovero che più frequentemente muovono a sé stessi gli amanti quando elaborano il lutto per la fine del loro amore: “Il mio amore di te non si ama”, annotava Kafka nei suoi diari, citazione quanto mai espressiva di quel Thanatos latente che uccide l’Eros.

L’Eros pervade il poema nella stessa misura in cui lo pervade il Thanatos, e si esplica in due sentimenti fortemente presenti nelle epistole che si scambiano i due protagonisti: il sentimento dell’Assenza, da cui scaturisce il desiderio di rivedersi per insufflare vita in sé stessi e nel loro amore; e quello dell’Attesa, provato nella sua urgenza carnale da Abbagli Insonni, che inizialmente alimenta la speranza di possedere nuovamente la sua amata, mentre Costanza appare subito mistica nel suo dire, e si mostra rassegnata alla definitività del loro addio.

A proposito del tormento inflitto dall’Assenza, scrive Abbagli Insonni: “È questa / la nostra dannazione? / Questa nebbia / che della tua presenza… (sei qui, sento / di te ogni palpito, vedo il tuo corpo / fremere, e le tue labbra aprirsi, / vedo i tuoi occhi ridere, / respiro il tuo profumo) / che della tua presenza / fa disperata assenza?” Sull’Assenza, detta “Erwartung”, in “Frammenti di un discorso amoroso” Roland Barthes scriveva: “Il discorso dell’Assenza è un testo con due ideogrammi: vi sono le braccia levate del Desiderio, e vi sono le braccia tese del Bisogno”. Quello di Abbagli Insonni è l’Hímeros greco, ossia il desiderio pressante della carne; quello di Costanza è il Pothos, ossia il bisogno spirituale dell’amato lontano, misto al senso di dolorosa rassegnazione all’impossibilità di un ricongiungimento. Ragion per cui lei scrive: “Aspettami, senza aspettare – / come s’aspetta il / suggello dell’onda / sull’orme del dipinto desìo / radice di china di mare, dall’Eterno mondo / dei ritorni di Chi / s’è appartenuto / oltre i navigli delle ombre.” E aggiunge: “Va’, amatissimo mio, va’ / lasciami qui / a riprendermi le verità / taciute al mio seno: / donna senz’uomo donna senz’Eterno / donna / in attimi d’Inferno / donna senza – / donna diamante / amante di insondabili vuoti / che nel vuoto / riempie già.”

Si conferma nella morte il senso di solitudine già provato in vita per il mancato appagamento dei propri bisogni. Ed emerge la risposta al quesito circa la possibilità di una realizzazione dell’amore dopo la morte: venendo meno la fisicità, l’amore non potrà essere vissuto concretamente. I due amanti restano lontani. Scrive Abbagli Insonni: “noi, amata mia, / non fummo […] servi del dio Amore ma servitori al mondo / che volle giudicarci… / Per questo ora ci amiamo / separati dal mare / che non fu mai solcato. / E solamente in sogno / possiamo l’uno all’altra ritornare.”

Gli ultimi versi del poema spiegano il richiamo all’eutanasia, anticipato dai poeti nella prefazione. Scrive Costanza: “Leggero appare l’abbandono / e soave il canto di nuovo amore.” L’accettazione dell’impossibilità di riaversi rende dolce la morte del loro amore fisico. Resta eterno l’amore spirituale, che non è che un anelito mistico, intriso del ricordo idealizzato dell’altro. Ragion per cui vale la pena concludere le nostre riflessioni su Erotanasie con i versi di Emily Dickinson, la cui vita è “presa in prestito” dai due amanti come esempio di amore irrealizzato, e che esplicitano il senso essenziale di Erotanasie: “Chi è amato non conosce morte, / perché l’amore è immortalità, / o meglio è sostanza divina. / Chi ama non conosce morte, / perché l’amore fa rinascere la vita / nella divinità.”

Da un punto di vista squisitamente formale, il poema risponde a criteri classici, il lessico è molto elegante e ricercato. Le due parti, quella di Abbagli Insonni e quella di Costanza, sono perfettamente integrate. I versi sono di struggente bellezza e intensità nella resa del dolore per il distacco, e della malinconica accettazione dell’invivibilità dell’amore. Da leggere.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “El viènto”, poesia in dialetto fabrianese di Teseo Tesei

El viènto

Quante cose me cònfonne la mente.

Io cerco de sbrojàlle tutto el giorno

la mia dicènno ma l’altri non siente

e m’urla dall’orecchie tutt’attorno.


Allora sgappo via dal putiferio,

vo fori, do’ più forte tira el viènto,

fori, perché me sento el desiderio

de sentì la Tua voce. E so’ contento!


Contento perché non ci sta nigiùno

che ce se mette immezzo: io e Te.

Guardànno in alto pe’ mezz’ora bona

aspetto che, si voi, Tu parli a me


o pure che me fai ‘ncontrà qualcuno

che ‘n tròa la strada ed un aiudo ‘spetta

ché siènte freddo, ma ‘n ci sta nigiuno

che ‘l copra col mantello. È me ch’aspetta!


Traduzione: Il vento

Quante cose mi confondono la mente.

Io tutto il giorno tutto il giorno cerco di sbrogliarle

dicendo la mia ma gli altri non mi ascoltano

e mi urlano nelle orecchie tutt’intorno.


Allora fuggo via dal putiferio,

vado fuori, dove il vento soffia più forte,

fuori, perché sento in me il desiderio

di ascoltare la Tua voce. E sono contento!


Contento perché non c’è nessuno

che ci si pone in mezzo: io e Tu.

Guardando in alto per mezz’ora buona

attendo che, se vuoi, Tu mi parli

oppure che mi fai incontrare qualcuno

che non trova la strada ed aspetta un aiuto,

perché sente freddo, ma non c’è nessuno

che lo copra con il mantello. È me che attende!


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

La decima Ragunanza di Poesia, narrativa e pittura: il bando di partecipazione

L’Associazione di Promozione Sociale ‘Le Ragunanze’ con il patrocinio morale del Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, in collaborazione con FLIPNEWS, LATIUM, LEGGERE TUTTI, ACTAS, WIKIPOESIA, COORDINAMENTO DIFENDIAMO I PINI DI ROMA COMITATO VILLA GLORI, VIVERE D’ARTE LETTERATURA promuove la 10^ Ragunanza di “POESIA, NARRATIVA e PITTURA”.

La partecipazione è aperta a tutti coloro che, dai 16 anni in su – per i minorenni è necessaria l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci – senza distinzioni di sesso, provenienza, religione e cittadinanza, accettano i tredici (13) articoli qui di seguito specificati.

La frase sopra menzionata “per i minorenni è necessaria l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci”, vuol dire che chi non ha compiuto 16 anni può partecipare alla decima ragunanza, previa l’autorizzazione scritta e firmata da entrambi i genitori che dovranno allegare alla loro autorizzazione la fotocopia della loro carta d’identità.

I nostri GIURATI, i cui nomi saranno resi noti solo a conclusione della votazione, valuteranno gli scritti pervenuti e le opere pittoriche (in foto) spedite per e-mail, a loro insindacabile giudizio! Il REGOLAMENTO per la 10^ Ragunanza di POESIA, NARRATIVA & PITTURA, prevede quattro sezioni:

I sez.: POESIA INEDITA “NATURA-I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI”

II sez.: SILLOGE DI POESIA EDITA “A TEMA LIBERO”

III sez.: NARRATIVA LIBRO “A TEMA LIBERO”

IV sez.: PITTURA “A TEMA NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O A TEMA LIBERO”

La tematica di tutte e quattro le sezioni, trattandosi di “ragunanza”, termine in uso nell’Arcadia di Christina di Svezia, dovrà almeno contenere dei riferimenti alla natura che ci accoglie.

Per la I sezione, la POESIA “NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI”, che sarà da Voi scritta, nel rispetto della sintesi poetica, dovrà ricordare i dettami dell’Arcadia, il valore della natura, filtrati dagli eventi attuali che coinvolgono, modificano, distruggono i quattro elementi della nostra madre Terra e lo spirito di tutti coloro che si prodigano per la salvezza ed il recupero dell’ambiente e in particolare dei pini di Roma e nelle altre latitudini.

Per la II sezione, la SILLOGE DI POESIA EDITA “A TEMA LIBERO”, che sarà da Voi già stata pubblicata (o da Casa Editrice o in proprio) e che decidete di far partecipare a questa X Ragunanza, si presenterà quindi come un libretto, potrà trattare qualsiasi tematica, essendo “A TEMA LIBERO”, e potrà spaziare su temi alti dell’esistenza, su temi universali, che abbraccino il genere umano.

Per la III sezione, NARRATIVA LIBRO “A TEMA LIBERO”, che sarà da Voi già stato pubblicato (o da Casa Editrice o in proprio) e si presenta quindi in forma di libro, potrà trattare qualsiasi tematica, essendo “A TEMA LIBERO”, e potrà spaziare su temi alti dell’esistenza, su temi universali e filosofici, che abbraccino il genere umano.

Per la IV sezione, PITTURA “A TEMA NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O TEMA LIBERO” si tratta di un’opera pittorica, realizzata con qualsiasi tecnica e che verrà inviata per e-mail al giudizio, in formato jpg come fotografia; l’opera potrà trattare la tematica sui pini di Roma o libera, essendo “A TEMA NATURA – I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O LIBERO”, e potrà spaziare su temi alti dell’esistenza, su temi universali e filosofici, che abbraccino il genere umano. Quell’opera pittorica scelta, qualora risultasse tra i vincitori, dovrà essere portata, se possibile, dall’autore in originale (non deve superare le dimensioni di 50 x 60) per essere esposta nelle tre ore della cerimonia di premiazione.

Art.1 Si richiede per la 10^ Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA, che il testo della poesia sia di massimo 36 versi e scritto in Times New Roman, a carattere 12 o 18 e che si rispettino in tutte le loro parti i 13 Articoli, i quali specificano le norme, i diritti, i requisiti e le leggi di questo regolamento.

Art.2 La POESIA della sezione “NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI” dovrà essere inedita e, per concorrere, andrà spedita via e-mail a apsleragunanze@gmail.com indicando e specificando la sezione da voi scelta in questo modo:

Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA

Sezione I: POESIA INEDITA “NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI”

1.La POESIA sarà ammessa solo ed unicamente con il nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso. I dati del concorrente sopra indicati andranno scritti in un foglio “a parte” e spediti insieme al foglio dove sarà scritta la Vostra POESIA che concorrerà.

Ai nostri giurati sarà fatta pervenire la POESIA in forma anonima.

2.La “SILLOGE DI POESIA EDITA A TEMA LIBERO”, per concorrere, andrà spedita in pdf via e-mail a apsleragunanze@gmail.com indicando e specificando la sezione da voi scelta in questo modo:

Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA

Sezione II: POESIA “SILLOGE DI POESIA EDITA A TEMA LIBERO”

La SILLOGE già pubblicata – o da Casa Editrice o in proprio – sarà ammessa solo ed unicamente con il nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso; questi dati saranno scritti su foglio a parte, che conterrà i dati ulteriori dell’Autore, nonostante appaia sul libro solo il nome ed il cognome dell’Autore della Silloge.

La Silloge di poesia, il libro, potrà essere spedita a scelta del partecipante, o con Raccomandata R/R o con piego di libri in una (1) unica copia a: A.P.S. “Le Ragunanze” c/o Michela Zanarella – Via Fabiola, 1 – 00152 Roma.

Congiuntamente (se possibile) dovrà comunque e pertanto arrivare, in pdf la Vostra silloge alla e-mail: apsleragunanze@gmail.com indicando nell’oggetto la sezione ovvero: sezione POESIA “SILLOGE DI POESIA EDITA A TEMA LIBERO”

Nel foglio inserito nella busta, che conterrà la silloge (il libretto), dovranno essere specificati i dati dell’autore: nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso.

3.Il LIBRO DI NARRATIVA “A TEMA LIBERO”, per concorrere, andrà spedito in pdf via e-mail a apsleragunanze@gmail.com indicando e specificando la sezione da voi scelta in questo modo:

Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA

Sezione III: NARRATIVA LIBRO “A TEMA LIBERO”

ovvero, il Vostro romanzo, la Vs opera, potrà riguardare tematiche varie, essendo “A TEMA LIBERO” e potrà spaziare su temi alti dell’esistenza, su temi universali e filosofici che abbraccino il genere umano, i sentimenti, oltre alla fauna che regna nel nostro pianeta Terra. Il libro già pubblicato – o da Casa Editrice o in proprio – sarà ammesso solo ed unicamente con il nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso; questi dati saranno scritti su foglio a parte, che conterrà i dati ulteriori dell’Autore, nonostante appaia sul libro solo il nome ed il cognome dell’Autore del romanzo di narrativa a tema libero.

Il libro, potrà essere spedito, a scelta del partecipante, o con Raccomandata R/R o con piego di libri in una (1) unica copia a: A.P.S. “Le Ragunanze” c/o Michela Zanarella – Via Fabiola, 1 – 00152 Roma.

Il Vostro libro “a tema libero” sarà fatto pervenire ai Nostri giurati in pdf e sarà esposto nel giorno della Premiazione.

IV sezione: PITTURA “A TEMA NATURA – I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O TEMA LIBERO”. Si partecipa con un’opera pittorica in qualsiasi tecnica a tema libero, a colori o in bianco e nero, da inviare in foto per posta elettronica all’indirizzo apsleragunanze@gmail.com in formato JPG, i file devono essere nominati con il titolo della foto.

Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA

Sezione IV: PITTURA “A TEMA NATURA – I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O A TEMA LIBERO”

Art.3 Le modalità espressive della POESIA, della SILLOGE, del LIBRO DI NARRATIVA, della PITTURA ripartite nelle due modalità, non dovranno essere offensive né ledere la sensibilità e/o la dignità del lettore, dell’ascoltatore, del visore e della persona chiamata in causa a “giudicare” e a leggere. Le opere che non ottemperano quanto specificato nell’articolo 3 saranno automaticamente escluse.

Art.4 La partecipazione è soggetta ad una quota di € 15,00, che sottintende la presenza dell’autore concorrente ed include le spese di segreteria; si può partecipare a due o più sezioni con una quota pari a € 20,00.

Art.5 La scadenza per l’inoltro dei materiali è fissata a domenica 30 GIUGNO 2024;

Art.6 Il giudizio della giuria è insindacabile;

Art.7 La partecipazione al concorso comporta l’accettazione di tutte le norme del presente regolamento ed il partecipante dovrà essere presente il giorno della ragunanza per la lettura delle POESIE e di alcuni stralci di brani tratti dal LIBRO di Narrativa, secondo la graduatoria di premiazione di fronte agli astanti e per la descrizione breve “a commento” della propria opera, la PITTURA, qualora ci fosse tempo ulteriore a disposizione.

Sono ammesse deleghe solo in presenza del delegato a ritirare il premio assegnato, il quale si dovrà mettere in contatto con la segreteria del PREMIO, confermando il nome del delegato alla mail: apsleragunanze@gmail.com ;

Art.8 Qualora il premiato o il suo delegato non fosse presente, il suo riconoscimento sarà recapitato solo previo inoltro tassa di spedizione ed accordi con la segreteria del premio.

Art.9 I partecipanti, le cui loro opere di poesie, sillogi, racconti brevi, romanzi e pitture nelle modalità specificate, siano state selezionate per la premiazione, la lettura e la visione in pubblico, saranno informati sui risultati delle selezioni mediante e-mail personale e segnalazione nel sito dell’Associazione di Promozione Sociale “Le Ragunanze”: http://www.leragunanze.it.

Art.10 La premiazione avverrà in data da definirsi secondo le disponibilità della struttura che ci ospita 

Art.11 A tutti i selezionati sarà inviato, con largo anticipo, l’invito per partecipare alla cerimonia di premiazione.

Art.12 I PREMI saranno così suddivisi:

Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA.

  1. I sez.: POESIA INEDITA “NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI”

POESIA INEDITA sez. “NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI”:

– primo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

– secondo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

– terzo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

  • II sez.: SILLOGE DI POESIA EDITA “A TEMA LIBERO”

SILLOGE DI POESIA EDITA a “Tema Libero”

– primo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

– secondo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

– terzo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

  • III sez.: NARRATIVA LIBRO “A TEMA LIBERO”

NARRATIVA LIBRO a “Tema Libero”

– primo classificato: (targa+ abbonamento per 1 anno al mensile LEGGERE TUTTI)

– secondo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

– terzo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

  • IV sez.: PITTURA “A TEMA NATURA – I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O A TEMA LIBERO”

PITTURA in modalità “a Tema Natura – i pini di Roma e nelle altre latitudini o a Tema Libero”

– primo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

– secondo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

– terzo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)

Saranno consegnate le Menzioni d’Onore (cartiglio pergamenato con medaglia)

L’assegnazione della TARGA del PRESIDENTE dell’A.P.S. “Le Ragunanze” è a discrezione del PRESIDENTE.

 L’associazione ACTAS di Tuscania e l’associazione LATIUM di Madrid assegneranno una targa per le opere che riterranno più meritevoli.

* Nella sinergia tra l’A.P.S. “Le Ragunanze” e FLIPNEWS è contemplata l’assegnazione di una targa, che verrà consegnata a discrezione del presidente dell’omonima associazione. 

Tutti i partecipanti presenti, e solo i presenti, riceveranno brevi manu l’attestazione di partecipazione alla decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA per aver concorso con l’opera, anche se questa non si è posizionata tra i vincitori.

Art.13 Nel file d’invio a apsleragunanze@gmail.com includere dati personali, indirizzo postale, indirizzo e-mail, telefono, breve nota biografica, (per i minorenni includere anche l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci con la fotocopia della loro carta d’identità) la dicitura “SARÒ PRESENTE”, fotocopia del versamento di € 15,00 per una sezione, si può partecipare a due o più sezioni con una quota pari a € 20,00, da effettuare tramite ricarica Postepay n° 5333 1711 2801 1620 intestato a Michela Zanarella, C.F.: ZNRMHL80L41C743L o con Paypal a miczanar@yahoo.it o in contanti nel plico di spedizione per i diritti di segreteria; in calce al testo, la seguente dichiarazione firmata:

 “Dichiaro che i testi delle poesie, i libri, le pitture da me presentati a codesto concorso internazionale sono opere di mia creazione personale.

 Sono consapevole che false attestazioni configurano un illecito perseguibile a norma di legge.

 Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi della disciplina generale di tutela della privacy (L. n. 675/1996; D. Lgs. n. 196/2003) e la lettura e la diffusione del testo per via telematica e nei siti di Cultura della Poesia, della Narrativa e dell’Arte, nel caso venga selezionato, dai giurati del concorso Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA & PITTURA”

Per il sesto anno consecutivo, l’associazione di promozione sociale ‘Le Ragunanze’, nel X anno dell’omonimo Premio internazionale per la poesia, la narrativa e la pittura, consegnerà la Targa dedicata ad Anastasia Sciuto, ad un giovane talento dell’Arte Drammatica, Cinematografica e Televisiva, nel plauso e nel ricordo dell’impegno artistico della giovane.

Referenti del concorso:

La Presidente dell’A.P.S. “Le Ragunanze”, Michela Zanarella

Coordinatore e Vicepresidente, Giuseppe Lorin

Mail: apsleragunanze@gmail.com

Tel: 340.1981250

Sito: www.leragunanze.it

“E la chiamarono Vigata. La Sicilia nel cuore” di Pasquale Hamel. Recensione di Gabriella Maggio

La nostra epoca, ha messo in discussione la rilevanza e il concetto stesso di passato e di conseguenza anche della memoria. Tutti gli eventi, i sentimenti, le emozioni della vita sono oggi riferite a un incessante presente, disancorato dal passato, che pure è l’unico dato di fatto che ci appartiene. Non sorprende quindi che uno scrittore che va oltre le apparenze, e soprattutto uno storico come Pasquale Hamel, abbia interesse a valorizzare la memoria e ricostruire un mondo che gli è caro per motivi biografici, legati all’infanzia ed alla giovinezza.

Hamel in E la chiamarono Vigata vuole ricreare sulla pagina il senso e il sapore di un luogo vero, vissuto, dove si interconnettono vicende umane e luoghi. Porto Empedocle è nella sua narrazione un luogo antropologico, quello che, secondo M. Augé, è «simultaneamente principio di senso per chi lo abita e principio di intellegibilità per chi lo osserva», perché detiene tre caratteristiche fondamentali: identità, relazione e storia I luoghi parlano e hanno molto da raccontare. Per gli antichi, non a caso, ogni luogo era abitato da uno spirito guardiano, il Genius Loci, che bisognava conoscere, rispettare e a cui ci si doveva rivolgere per avere il permesso di attraversare il luogo che custodiva. Oggi pochi usano il nome originario del luogo “Porto Empedocle” perché nell’immaginario comune prevale il nome di Vigata, datogli da Andrea Camilleri nei romanzi del commissario Montalbano. Nome condiviso anche dal pubblico dei non lettori per l’omonima fortunata serie televisiva. Questo spiega il titolo scelto da Pasquale Hamel E la chiamarono Vigata, dove il passato remoto chiamarono indica un’azione avvenuta un volta per tutte, irreversibile. Sono i libri che creano il mondo, diceva J.L. Borges. E la chiamarono Vigata raccoglie quaranta bozzetti, brevi racconti realistici, che con vivacità impressionistica descrivono una situazione, un carattere, un personaggio che ha colpito l’immaginazione di Hamel e che hanno caratterizzato Porto Empedocle nel ‘9oo.

Nel paese lo scrittore ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza: “un luogo che non mi ha visto neppure nascere ma dove ho vissuto, fra grandi tensioni emotive e forti affetti familiari, gli anni dell’infanzia e della mia adolescenza… snodo da cui guardare la complessità delle vicende del mondo”.

Se i Siciliani sono gli unici eccentrici italiani gli empedoclini incarnano in molti casi la iperbole dell’eccentricità. Questa particolare eccentricità siciliana va cercata nella storia locale come dice Sciascia e ribadisce Hamel che scrive che: “Gli empedoclini sono sempre stati uomini del fare”, hanno dato vita a “una piccola città, carica di positiva originalità”, tuttavia non sono sfuggiti alla sicilianitudine.

Questa è la condizione dei Siciliani anche secondo D.H. Lawrence, che però la chiama la “difficoltà” perché ne fiacca l’energia eccezionale”. Nei bozzetti si coglie proprio l’impossibilità dei personaggi a realizzare il proprio obiettivo per deficienze proprie o per impedimenti sorti nel contesto in cui operano. Quanto accade a Fofò, animatore culturale, è emblematico delle difficoltà che si frappongono all’energia eccezionale di tutti gli empedoclini.

Il lettore si ritrova in un microcosmo che, col senso e col senno di oggi, diviene rappresentativo dell’umana complessa fragilità di tutti i tempi, osservata e studiata dall’occhio acuto dell’autore che vuole comporre non soltanto un mosaico locale, soddisfacendo così la sua volontà di ricordare, ma fare riferimento a un mosaico più ampio di “storia civile” dell’Isola.

Le pagine scorrono veloci e ariose per l’affettuosa ironia che le connota e per lo stile asciutto, dove le espressioni dialettali hanno il sapore del linguaggio dell’anima.

GABRIELLA MAGGIO


La pubblicazione del presente testo è stata autorizzata dall’autrice. La riproduzione del testo, in forma integrale o di stralci e su qualsiasi tipo di supporto, non è consentita senza l’autorizzazione dell’autrice.

N.E. 02/2024 – “Christine Lavant, stella abbandonata da Dio”, saggio di Loretta Fusco

Basta guardarla nelle rare fotografie che la ritraggono, per capire chi fosse Christine Lavant, la grande poetessa austriaca, nata nel 1915, originaria di un paesino della valle della Lavant, in Carinzia, nome che adotterà come suo pseudonimo, perché in realtà lei si chiamava Christine Thonhauser.  Nona figlia di un povero minatore, bambina gracile, affetta da scrofola e problemi agli occhi, oltre che da regolari polmoniti che la prostrarono impedendole una vita regolare, frequentò comunque la scuola elementare, ma la sua fu un’esistenza segnata dalla povertà e dalla malattia. Crebbe in un ambiente rigido e cattolico col quale non riuscì mai a identificarsi. Anche se le sue poesie e opere in prosa sono caratterizzate da un linguaggio moderno e fortemente simbolico, il patrimonio culturale é quello cristiano, orientato verso una religiosità naturale contraddistinta dal desiderio di sicurezza e di riconoscimento.

Questi giorni non diventeranno vita.
Forse già nel ventre di mia madre il mio destino
s’è coraggiosamente separato da me
e se n’è andato – audace come io non sono mai stata –
sulla stella abbandonata da Dio
ed è rimasto là, s’è messo a dormire
e forse sogna ciò che mi deve accadere
con le tempie luccicanti.
Maliziosa mi lascio portare dal vento
vicino al focolare della realtà
mi lascio abbrustolire, mi lascio sbucciare
e da coloro che sono amaramente delusi
mi lascio risputare nel fuoco
o nell’acqua salata.
Là spesso rifletto e mi chiedo, se Dio sappia di me
se ci siano spiriti custodi anche per quelli come me
e se il sacro nucleo dell’anima
ce l’abbiano davvero solo i sani
che rompono le noci con i denti
e prendono il destino degli altri per il loro.
Nel fuoco e nell’acqua nessuno è lucido –
Perdonatemi Dio Padre, Figlio e Spirito Santo!
Voi siete una trinità e io sono così sola
e nessuno lassù risveglia il mio destino.

La poetessa e scrittrice austriaca Christine Lavant (1915-1973)

Thomas Bernhard, suo conterraneo, la porterà alla luce, e curerà personalmente un volumetto di sue poesie, 81 in tutto, scegliendole dalle sue quattro principali raccolte. Le consegnerà al suo editore nel 1987 avendo individuato in questa donna apparentemente fragile, un’interessantissima voce, isolata soltanto geograficamente entro i confini angusti di un’Austria nazionalsocialista, che lui stesso avversava. Nonostante il suo humus valligiano, la Lavant, sin dal suo primo volontario ricovero nel manicomio di Klagenfurt, dimostrò interessi culturali notevoli e una passione per Rilke, il poeta che ispirerà quasi tutta la sua opera. Bernhard, contrariamente all’immagine consolidata, la sottrae all’idea che fosse un Ligabue della poesia, esaltandone l’intelligente e raffinata espressività poetica, anche perché, nel tempo, la poetessa aveva intessuto una rete notevole di relazioni e contatti con i massimi esponenti dell’avanguardia viennese.

La sua poesia coniuga l’attaccamento alla terra, la tradizione, i riti liturgici, il folklore, a una sete inestinguibile di infinito. La sua è un’invocazione a un Dio sordo e cieco, verso cui inveisce con rabbia, nel dolore inascoltato che l’attanaglia. Rivendica con orgoglio il diritto a esistere come creatura di Dio, dimenticata e abbandonata a se stessa.

Dice Bernhard, nella prefazione al libro da lui curato: “Questo libro documenta la cronologia della vita di Christine Lavant che fino alla morte non ha trovato né pace né tranquillità e che nella sua esistenza si è flagellata attraverso la sua persona ed è stata distrutta e tradita dalla propria fede cristiano-cattolica; si tratta della testimonianza elementare di un essere umano strapazzato da tutti gli spiriti celesti, un essere umano, che altro non è se non grande letteratura, meno conosciuta nel mondo di quanto meriterebbe. La scelta qui proposta segue solo il mio intento e quello di nessun altro”.

Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!

O sarai creatore

di ciò che è cadavere e lo rimane

e si unisce alla terra

ben più volentieri che al cielo.

Vai, continua ad ammantare i gigli

corrompi pure i passeri con il miele vergine –

io vivo di ruggine e muffa.

Tu dici che questo non mi sazia

e blateri della città di Dio

che molti conquistano con il digiuno.

Non io! Mi piace vivere nell’argilla

per diventare pietra e tuttavia

mai esserti di peso.

Le sue insicurezze risiedono nella sua fragilità fisica e psichica. Sin da piccola dovette rimanere a casa occupandosi di lavori domestici e cucito, cosa che lei fece con scrupolo anche per riuscire a mantenersi. Non disdegnava la lettura e la scrittura tanto che si rivolse a un editore di Graz per pubblicare il suo primo romanzo, che distrusse dopo che fu definitivamente respinto nel 1932, questo a testimoniare una personalità immatura, ma già provata dalle delusioni della vita. Nel 1935 si ricoverò spontaneamente al manicomio di Klagenfurt dal quale uscì dopo qualche tempo. Morti i genitori, si trovò in condizioni economiche disastrose sostenuta solo dal suo lavoro di cucito e dal supporto finanziario dei fratelli. Decise allora di sposare il pittore Josef Habernig, molto più vecchio di lei.

Le poesie della Lavant sono state definite preghiere blasfeme non solo perché si rivolge in modo irriverente a Dio ma soprattutto perché lo sfida. Emerge la sua natura semplice, franca, simile alla terra natia, dove nulla è concesso con generosità ma è la risultante di un lavoro duro e faticoso. La scrittura diventa elemento salvifico e testimonianza di vita subita, non agìta. Anche Ingeborg Bachman appartiene a quella terra ma da quella terra se n’è andata per trovare ispirazione e pace altrove. La malinconia che permea l’opera di entrambe si spande per quelle vallate dove il silenzio è rotto soltanto dal rimbombo dell’eco.

La Lavant sentiva ardere dentro di sé il fuoco dell’arte ma dovette soffocarlo perché la sua realtà oggettiva non le permetteva di realizzarlo e nessuno intorno lei, a partire dai medici dell’Ospedale psichiatrico in cui era stata ricoverata, erano riusciti a capire il suo desiderio di poetare, stroncando ogni sua velleità poetica, come denuncia nei suoi “Appunti da un manicomio”.

Sono nel reparto “Due”. E’ il reparto del’’osservazione per “i meno gravi” in cui di regola si arriva solo dopo essere passati dal”Tre”. Io non sono passata dal “Tre” e per questa ragione quasi tutti me ne vogliono. Ieri ho sentito dire dalla Regina a Renate: “Quella ci è piombata addosso con gli occhiali e la roba per scrivere. Che se la porti il diavolo! Che cosa è venuta a fare da noi? Probabilmente a spiarci, cosa altro sennò?!”… Renate si è limitata a risponderle: “Ah, eccola che riattacca con queste storie”. Ma poi a sera è venuta dirmi che aveva di nuovo bisogno dei suoi fermacapelli e che doveva riprenderseli. Peccato, non per i fermacapelli, ma per Renate perché credevo che avremmo potuto stringere una qualche amicizia. Fin dal primo giorno ho provato simpatia per lei, per questi suoi occhi muti e malinconici e per quel sorriso evanescente e dimesso che certo mette un po’ di tristezza, ma che non fa paura come la risata delle altre. Dall’altra parte ci si abitua incredibilmente presto ai visi e a discorsi più strani…]

Morte diffamata, per me sei così bella!Già di mattino ti penso come la mia capanna,dove la sera mi trasferirò,e penso che sopra la capanna brillerà una stella.Nemmeno del trasloco ho paura!Certo, prima bisognerà bruciare molto,prima di tutto il corpo con tutte le sue bramee dell’anima ciò che qui si è accumulatoin fatto di coraggio e di allegria.Solo il mio amore, morte, lo porterò con me!Per lui, se davvero sei il mio rifugio,dovrai preparare l’angolo migliore della mia capanna,e se possibile mettici anche una finestra,perché la stella, la buona stella di cui parlo,la possa colmare di tutta la consolazione,che qui non gli ho mai potuto dare.

Le sue invocazioni a Dio ricordano quelle di Rilke, il poeta che la Lavant sentì più di tutti. Lei grida a Dio la sua impotenza, con veemenza e spirito combattivo ben sapendo che il suo urlo disperato è un atto di rassegnazione.

Voglio condividere il pane con i pazzi,ogni giorno un pezzo di questo grande orrore,anche la campana nel cuore,là, dove il colombo fa il nidoe trova un minuscolo asilonella selva sulle acque.A lungo ho vissuto come pietrasul fondo delle cose.Ma ho sentito la campanaSussurrare il tuo segretonei pesci volanti.Imparerò a volare e a nuotaree lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietralascerò la malinconia coricata nella madreperla,ma solleverò in alto la rabbia e la miseria.Le mie ali sono più antiche della tua pazienza,le mie ali sono volate oltre il coraggio,che s’era fatto carico dell’errare.Voglio condividere il pane con i pazzilà, nella spaventosa selva del colombodove la capanna divide in tre parti il grande terroretrasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.

***

Ti ho tuffato nella mia rabbia!

Ora sei d’acciaio sopra la terra

e sotto, mansuete, avanzano le tue radici

tra pietre scricchiolanti.

Non portarmi il grano! Non ti ho reso acciaio

per saziarmi o addormentarmi

a me spetta la metà di quella mela

che matura tra i rami dell’albero del serpente.

Spada o giglio – tu li sei entrambi a metà!

Voglio scagliare in alto la tua affilatezza

ed essere dolce sorella della terra

e indurre in tentazione Dio come lui ha fatto con me.

Ti ha tuffato tre volte nel mio cuore

e ti ha ordinato di rinunciare a lui

ma io ti ho immerso nell’acciaio della rabbia;

ora porta a suo figlio la mia metà della mela!

***

Mentre io, turbata, scrivo,

nel disco della luna piena brilla

la parola che osservo

da quando la colomba mi ha deriso

perché dallo specchio dell’acqua

senza nome, senza sigillo,

entravo nell’arido.

Non fosse cresciuta

la semina dell’osservazione

dovrei uccidere luna e colomba

che sempre m’ingannano

e fanno il nido sul mio albero del sonno

che per questo rinsecchisce.

Spesso una parola s’imprime a fuoco

da sé nella sua corteccia,

e allora mando quel cieco

messaggio, che inutilmente si rigira

aggredendo il tuo sonno

mentre nel disco della luna

è in salvo la risposta.

Christine Lavant morì a Wolfsberg nel 1973, all’età di 57 anni. Non lo sapeva allora che la sua voce sarebbe diventata alta e sarebbe uscita da quei confini che lei aveva sempre considerato un limite alla sua brama di libertà.


(Le poesie scelte appartengono al volumetto Christine Lavant, Poesie, scelte da Thomas Bernhard, nella traduzione di Anna Ruchat. Effigie Edizioni).


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

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