“Carlo Fiore” di Camilla Cortese, recensione di Lorenzo Spurio

Carlo Fiore di Camilla Cortese

EdiKiT, Brescia, 2015

ISBN: 978-88-98423-29-3

Recensione di Lorenzo Spurio

downloadLa straordinaria lucentezza di questo romanzo breve della veronese Camilla Cortese sta nell’intuizione avuta nel procedimento di avvicinamento dell’io narrante alla materia trattata. Quasi una immedesimazione. C’è nella Nostra, per dirla in altri termini, una profonda empatia nel modo in cui narra tanto da poter azzardare l’idea che, in fondo, il romanzo sia una sorta di diario, un’agenda personale ed intima aggiornata qua e là con gli avvenimenti più cruciali per l’esistenza del personaggio principale. Sagacemente e con un desiderio quanto mai palpabile di impregnare la narrazione di un vissuto autentico, sperimentato e affrontato mese dopo mese, la Nostra impiega uno stratagemma di mimesi fingendo una spersonalizzazione. I fatti, pure puntuali e descritti con un coinvolgimento emotivo più che vivido, non sono narrati da un personaggio concretamente presente sulla scena ma da un personaggio in stato embrionale: un nascituro, appunto, che nella pancia della giovane madre sembra vedere meglio di ciascun altro ciò che accade attorno a lui.

Se da una parte si potrebbe temere che tale appropriazione della realtà e di ciò che in essa accade sia in qualche maniera viziata, se non forzata, Camilla Cortese vuole in questa maniera sottolineare le perplessità della madre e della società verso la condizione di donna-madre, dunque di una famiglia che crescerà senza il genitore maschile.

A contornare le vicende la Nostra ha provveduto a costruire una cornice storico-politica significativa e che ben si amalgama alla narrazione personale ivi contenuta. Lo scenario è quello della Torino a cavallo tra gli anni ’70 e gli inizi degli ’80 in un momento di crisi sociale ben tratteggiato dall’autrice: “movimenti studenteschi, […] tensioni politiche e […] occupazioni, […] collettivi e […] femminismo” (19).

Rilevanti sono anche i contenuti che fanno riferimento a un difficile rapporto familiare, dimensione dove la Nostra vive tra l’insubordinazione a un padre gretto e disattento e a una madre debole e remissiva che ne motivano il distacco da casa, anche per i motivi di studio, tanto che la protagonista vivrà con la zia rimasta vedova anni prima, una donna simpatica e dall’animo accogliente, disponibile e di vedute ben oltre il cliché chiuso e moralizzante del periodo.

La rottura già iniziata da vari anni (il ’68 e le sue battaglie sono già passati) tra i due modelli di vita sociale che da una parte vede la centralità della famiglia con obblighi e tabù e dall’altra un’emancipazionismo fondato su un senso di maggiore equità e di effettiva battaglia sessuale fa capolino più volte nel romanzo tra il padre austero che parla di onore e che non è in grado di accettare ciò che nella sua filosofia di uomo semplice è visto come un atto immorale e perverso e, appunto, la zia Clara che aiuta la maturazione della Nostra, ne accetta gli ideali con responsabilità, è fautrice di una società nuova che va formandosi.

Si ripropone così il duello tipico tra interesse personali, egoismo, bramosia di denaro e attaccamento alle proprie realtà materiali (tipica del padre) con la libertà di scegliere la propria vita e non di subirla come è stata per gli antecessori (la zia). Se il rimanere incinta di un ragazzo che non è disposto a dichiarare le sue responsabilità, a sposarsi con la donna e a diventare padre per un uomo all’antica è sinonimo di vigliaccheria e immoralità e dunque è disonorevole per la donna, la nuova società acconsente alla pratica dell’aborto. Mezzo quanto mai complicato e delicato di risoluzione di un problema che qui non si vuole discutere ma che la Nostra pone manifesto nel romanzo quale nuova via che la società ha per rispondere a una condizione d’urgenza. La Nostra non accetterà questa strada, sia perché ci tiene a stringere a sé il frutto del suo frugale amore con il ragazzo che si è unito a lei, sia perché in fondo, pur essendo molto diversa dal padre, sa bene che l’interruzione di gravidanza non è una soluzione efficace né giusta.

C’è da aggiungere, inoltre, che il romanzo stesso non esisterebbe se la donna effettivamente non avesse portato a termine la gravidanza, dato che è proprio l’infante che, dentro di lei, scruta e analizza, parla e capisce, ragiona e fa collegamenti, spiega e costruisce, sogna e spera.

Se in qualche modo il patriarcato e gli ideali austeri del mondo di provincia di decenni orsono sono posti sotto la lente d’ingrandimento e presi in parte come bersaglio per essere concausa di un incivilimento morale improntato alla mancata evoluzione sociale e dunque alla sperequazione di disuguaglianze, d’altro canto il romanzo non è uno scritto sull’eversione né consacra il femminismo come elemento trainante di tutta la narrazione. Nel fermento civile di quegli anni la Nostra non manca di osservare una certa ambiguità nell’adozione di comportamenti paradossali, sincronismi nelle rivendicazioni, confusioni che ancor meglio delineano l’impasse del paese alle prese con ideologie e manifestazioni: “I preti portano l’eskimo, gli uomini parrucche da donna, i dirigenti Fiat viaggiano con la scorta, i terroristi pretendono di educare!” (26). Se l’ampio capitolo del libertarismo delle lotte sociali legate alla rivoluzioni sociali è precedente a ciò di cui la Nostra narra è comunque possibile percepirne strascichi e continuazioni di varia forma nell’inedito approccio alla sfera sessuale: sesso meno disinibito, multiforme, ludico, sociale e soprattutto privo di insubordinazione o violenza tra i partner.

In tutto ciò, sempre presente e con una predisposizione amichevole e da pari, senza una comunicazione assertiva e inappuntabile come era quella del padre, è la zia ad accogliere la Nostra e a sostenere i suoi bisogni cullandone le speranze, mitigandone i timori facendo di lei la donna matura e lucida che al termine del romanzo inizierà ad essere madre.

Lorenzo Spurio

Jesi, 23-11-2015

“Ora so cosa rispondere” di Sara Bellagio, recensione di Lorenzo Spurio

Ora so cosa rispondere

di Sara Bellagio

Albatros Editore, Roma, 2011

ISBN: 978-88-567-4073-8

Numero di pagine: 107

Costo: 14,90 €

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

 

Il tempo si doveva fermare in questo istante, era tutto perfetto poi non sarebbe più stato lo stesso. Quell’istante ha cambiato tutta la mia vita, me stessa, il mio rapporto con il mio corpo e con gli altri. E’ bastato solo un istante per stravolgere tutto. Un unico lungo istante. (p. 85).

 

Ora so cosa rispondere è un libro passionale, che va al fondo delle emozioni di Anna, la protagonista, che potrebbe essere riflesso di ciascuna donna dei nostri tempi. La narrazione si apre con un fatto amaro e sconcertante: l’incidente stradale di Marc, l’uomo che tempo prima la donna aveva amato. In questa occasione subito si precipita in ospedale dove trova i parenti di Marc, tutti speranzosi che il ragazzo si riprenda dal coma e guarisca. Le condizioni di Marc miglioreranno e si salverà, ma di questo verremo a conoscenza solo al termine del romanzo.

La parte iniziale del romanzo è giocato su di una doppia scrittura che prevede due livelli temporali diversi: il presente della routine noiosa di Anna e il suo passato – la relazione d’amore vissuta con Marc. In questo percorso conosciamo anche altri personaggi come ad esempio i genitori di Anna, ma forse il personaggio più interessante è quello di Pam, l’amica fraterna-confidente di Anna. Seguiamo le due ragazze per la via della città durante le loro passeggiate per lo shopping e in questo mondo frivolo dove l’autrice non fa che sottolineare l’importanza che per Anna rivestono trucchi, vestiari, tacchi alti, regali e shopping. Ossia l’importanza adolescenziale, immatura, volta al lato narcisistico e materiale dell’essere.

Le cose cambiano, però, quando Anna conosce e si innamora di Marc, un ragazzo affascinante, fotografo, sempre impegnato in giro per il mondo per il suo lavoro. Tra di loro scocca la scintilla ma la ragazza –sulla scia di una tradizione melensa e sdolcinata della letteratura- vive la nuova relazione in maniera molto diversa dal ragazzo che, invece, pur essendo coinvolto dalla ragazza, continua a dare il giusto peso ai suoi interessi e al suo lavoro. Anna, invece, si lascia travolgere da questa passione e seguirà Marc accompagnandolo anche nei suoi spostamenti all’estero, come durante il viaggio a Dubai. E’ proprio lì, però, che nascono le prime frizioni: la ragazza comincia a parlare di matrimonio, famiglia, di futuro mentre per il ragazzo sembra esistere solo la sua amata fotografia. Ogni altra cosa, pur non rifiutandola a priori, la considera come precoce.

Il romanzo utilizza un linguaggio semplice, diretto e asciutto che è facilmente fruibile a tutti. Si evidenzia qua e là qualche periodo claudicante a causa di una punteggiatura approssimativa e, nel complesso, la trama è abbastanza semplice, prevedibile, in alcuni tratti addirittura ai limiti del realistico.

Quando Anna scoprirà di essere incinta, i due ragazzi finiranno per separarsi e questo momento vissuto in maniera sofferta da parte di Anna, la condurrà a perdere il bambino.

L’incidente di Marc, la notizia con la quale si apre il romanzo, è proprio il luogo/momento dell’incontro dei due dopo un anno di distanza dopo i vari avvenimenti accaduti. Il tempo ha operato un cambiamento in entrambi, i personaggi sono chiaramente cresciuti e più maturi; Sara Bellagio ci consegna due explicit, entrambi plausibili, senza fornirci una conclusione unica. Al lettore sta scegliere come finire la storia. Ecco, appunto il significato del titolo. Anna si mostrerà remissiva e di aver lasciato completamente il passato alle spalle, pronta a inaugurare una nuova vita oppure, debole e ferita del trascorso precedente, sarà decisa nel non dare una possibilità a Marc? Leggete questo libro in modo che poi potrete dire: “Ora so cosa rispondere”.

 

Lorenzo Spurio

scrittore, critico-recensionista

Curatore Blog Letteratura e Cultura

 

12/08/2012

 

Chi è l’autore?

Sara Bellagio è uno pseudonimo. E’ una giovane scrittrice alla sua prima esperienza letteraria. Vive in una piccola cittadina del nord Italia dove lavora nell’ambito finanziario.

 

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

 

 

 

 

In nome dell’amore di Melissa Panarello

In nome dell’amore (2006) di Melissa Panarello è un testo breve, di appena quaranta pagine, scritto sotto forma di una lunga lettera di risposta e di critica che fa all’eminente cardinale Camillo Ruini. La Panarello, principalmente nota per il suo romanzo Melissa P. – 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire (2003), che ha dato origine a critiche molto dure ma che dall’altra parte ha avuto un grande successo[1], utilizza un linguaggio semplice, fresco, accessibile a tutti e spigliato nel confutare le tesi e le critiche mosse dal presidente della Cei.

I temi cari alla Chiesa che il cardinale Ruini rappresenta vengono qui discussi, analizzati e snocciolati in maniera molto rigorosa, secondo un punto di vista estremamente diverso da quello del porporato. La Panarello parla della necessità della liberalizzazione dei costumi sessuali, dell’aborto e di questioni che sono d’oggetto d’interesse della società, causando spesso divari ed alterchi tra coloro che si professano i difensori della vita (gli antiabortisti) e coloro che invece prediligono nuove norme nella società che diano più ampio spazio ai giovani, alla liberalizzazione dei costumi e che sottolineino la libertà di scelta.

La materia è difficile da trattare. Contrariamente a ciò la Panarello scrive in maniera lucida e di getto come se stesse descrivendo una qualsiasi scena da romanzo rosa. In ballo ci sono questioni d’attualità importanti e che la Panarello considera di promozione sociale e culturale.

La Panarello esordisce con il ricordo di due giovani adolescenti in cui una ragazza rimane incinta dopo un rapporto sessuale incauto, senza precauzioni. La ragazza capisce di aver sbagliato ma non vuole tenere il bambino, vorrebbe interrompere la gravidanza. La bigotta madre di lei, ligia alla morale, forza la ragazza a tenere il figlio, che poi si rivela essere due gemelli. Secondo la Panarello la decisione della madre della giovane (conforme all’idea della Chiesa) non è altro che egoista e presuntuosa poiché – dice la Panarello- è nella natura dei giovani, nella fase adolescenziale commettere degli errori. La Panarello vede dunque nell’aborto una via di scelta che bisogna considerare e che dovrebbe essere legalmente garantita.

La mittente della lunga missiva rigetta al cardinal Ruini e alla Chiesa in generale le accuse dei pro-abortisti di fomentare la cultura della morte, termine che lei utilizza per riferirsi a chi commissiona le varie guerre che invece vengono combattute nel mondo, legittimate dagli stati e le cui vittime la Chiesa celebra solennemente e con riconoscenza:

Le guerre e le pene disumane sono un inno alla morte, non l’aborto.[2]

Non solo. La Panarello va oltre e contesta nuovamente la Chiesa che aborre i sistemi di contraccezione. Sostiene che se questi venissero riconosciuti e permessi, si limiterebbero gli aborti oltre che si limiterebbe la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili. Non cela la sua disapprovazione e indignazione di fronte al fatto che l’Italia sia un paese prevalentemente cattolico e nel quale la Chiesa abbia un potere molto forte, addirittura al di sopra della politica. A questo riguardo scrive:

La mia indignazione va verso il governo e lo Stato italiano che hanno permesso che la Chiesa fosse quasi la sola a occuparsi di una questione che avrebbe dovuto riguardare solo gli elettori e lo Stato stesso.[3]

La Panarello sembra avere il diavolo in corpo in questa lunga lettera accorata e animosa al cardinale Ruini nella quale gli pone una serie di domande consecutive, quasi a incitare una risposta che, secondo la natura della lettera, chiaramente non c’è. Parla anche del matrimonio e si chiede se in effetti le nozze possano rappresentare la celebrazione dell’amore e dopo vari ricordi che la riguardano conclude di no. L’atea Panarello piuttosto che di matrimonio preferisce parlare di contratto o di momento di festa con i parenti nel quale quest’ultimi sono solo interessati al banchetto, ossia all’elemento ludico.

La Panarello è un fiume in piena. Non ne risparmia nessuna al cardinal Ruini e alla Chiesa. Lo fa in maniera diretta, semplice, elegante e critica. Difende il divorzio, sostiene le coppie di fatto e le coppie che preferiscono convivere e donarsi il loro amore senza dover necessariamente ufficializzare l’unione, parla della difficile questione delle adozioni e delle varie leggi che spesso la rendono irraggiungibile. Appoggia l’omosessualità: gli omosessuali –dice la Panarello- pur non potendo trasmettere la specie umana- sono in grado di amarsi e Dio dovrebbe essere contento di loro perché conoscono che cosa sia l’amore.

La Panarello parla poi a lungo della sua iniziazione al sesso, parlando dei suoi primi rapporti mossi da un desiderio di conoscenza e di curiosità e non dall’amore. Individua delle fasi successive della sua scoperta del sesso che corona nell’equazione sesso uguale amore. Le domande per il cardinale Ruini continuano ad abbondare e nell’ultima parte della lettera la Panarello affronta temi caldi per la Chiesa: la masturbazione, la pornografia e si dice chiaramente incredula di fronte al giuramento di castità dei prelati.

È facile capire che a questa lunga lettera ricca di domande il cardinale Ruini non abbia risposto in maniera diretta. Dall’altra parte le risposte, le decisioni della Chiesa sono visibili a tutti seguendo l’atteggiamento e la condotta che la stessa prescrive al clero.  La Panarello sa che forse la sua missiva non verrà letta o che, se verrà letta, non contribuirà a cambiare le sorti del nostro paese per le questioni da lei descritte. Si fa semplicemente portavoce di una grande fetta del nostro paese (sia credente che atea) che pensa le sue stesse cose e che vorrebbe che la Chiesa si modernizzasse e si mostrasse al passo coi tempi, garantendo le libertà sessuali necessarie.

Il titolo del testo a questo punto credo che voglia significare proprio questo: “In nome dell’amore”  invece della formula cattolica “In nome di Dio”; la Panarello,atea e agnostica, pone l’amore (omosessuale, eterosessuale, lesbico, autoerotismo) al vertice di tutto, rimpiazzando la posizione piramidale di Dio.

Non ci sono conclusioni o considerazioni finali su questo testo, si tratta di un ampio working in progress, che potrebbe essere incrementato da nuove esperienze o racconti. Si tratta semplicemente di un’immagine del nostro paese nel quale viviamo e che è dominato da una serie di dubbi, incomprensioni e ingiustizie che la Panarello sembra voler riassumere attraverso una delle sue numerose domande:

Perché la Chiesa si ostina, in tanti campi, a vivere in un mondo parallelo ignorando ciò che accade nel nostro?[4]

 

LORENZO SPURIO

08-02-2011

 


[1] Il grande successo di questo romanzo fu dovuto anche alla realizzazione filmica dello stesso (Melissa P., regia di Luca Guadagnino, 2005).

[2] Melissa Panarello, In nome dell’amore, Roma, Fazi, 2006.

[3] Melissa Panarello, In nome dell’amore, Roma, Fazi, 2006.

[4] Melissa Panarello, In nome dell’amore, Roma, Fazi, 2006.

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