“E la chiamarono Vigata. La Sicilia nel cuore” di Pasquale Hamel. Recensione di Gabriella Maggio

La nostra epoca, ha messo in discussione la rilevanza e il concetto stesso di passato e di conseguenza anche della memoria. Tutti gli eventi, i sentimenti, le emozioni della vita sono oggi riferite a un incessante presente, disancorato dal passato, che pure è l’unico dato di fatto che ci appartiene. Non sorprende quindi che uno scrittore che va oltre le apparenze, e soprattutto uno storico come Pasquale Hamel, abbia interesse a valorizzare la memoria e ricostruire un mondo che gli è caro per motivi biografici, legati all’infanzia ed alla giovinezza.

Hamel in E la chiamarono Vigata vuole ricreare sulla pagina il senso e il sapore di un luogo vero, vissuto, dove si interconnettono vicende umane e luoghi. Porto Empedocle è nella sua narrazione un luogo antropologico, quello che, secondo M. Augé, è «simultaneamente principio di senso per chi lo abita e principio di intellegibilità per chi lo osserva», perché detiene tre caratteristiche fondamentali: identità, relazione e storia I luoghi parlano e hanno molto da raccontare. Per gli antichi, non a caso, ogni luogo era abitato da uno spirito guardiano, il Genius Loci, che bisognava conoscere, rispettare e a cui ci si doveva rivolgere per avere il permesso di attraversare il luogo che custodiva. Oggi pochi usano il nome originario del luogo “Porto Empedocle” perché nell’immaginario comune prevale il nome di Vigata, datogli da Andrea Camilleri nei romanzi del commissario Montalbano. Nome condiviso anche dal pubblico dei non lettori per l’omonima fortunata serie televisiva. Questo spiega il titolo scelto da Pasquale Hamel E la chiamarono Vigata, dove il passato remoto chiamarono indica un’azione avvenuta un volta per tutte, irreversibile. Sono i libri che creano il mondo, diceva J.L. Borges. E la chiamarono Vigata raccoglie quaranta bozzetti, brevi racconti realistici, che con vivacità impressionistica descrivono una situazione, un carattere, un personaggio che ha colpito l’immaginazione di Hamel e che hanno caratterizzato Porto Empedocle nel ‘9oo.

Nel paese lo scrittore ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza: “un luogo che non mi ha visto neppure nascere ma dove ho vissuto, fra grandi tensioni emotive e forti affetti familiari, gli anni dell’infanzia e della mia adolescenza… snodo da cui guardare la complessità delle vicende del mondo”.

Se i Siciliani sono gli unici eccentrici italiani gli empedoclini incarnano in molti casi la iperbole dell’eccentricità. Questa particolare eccentricità siciliana va cercata nella storia locale come dice Sciascia e ribadisce Hamel che scrive che: “Gli empedoclini sono sempre stati uomini del fare”, hanno dato vita a “una piccola città, carica di positiva originalità”, tuttavia non sono sfuggiti alla sicilianitudine.

Questa è la condizione dei Siciliani anche secondo D.H. Lawrence, che però la chiama la “difficoltà” perché ne fiacca l’energia eccezionale”. Nei bozzetti si coglie proprio l’impossibilità dei personaggi a realizzare il proprio obiettivo per deficienze proprie o per impedimenti sorti nel contesto in cui operano. Quanto accade a Fofò, animatore culturale, è emblematico delle difficoltà che si frappongono all’energia eccezionale di tutti gli empedoclini.

Il lettore si ritrova in un microcosmo che, col senso e col senno di oggi, diviene rappresentativo dell’umana complessa fragilità di tutti i tempi, osservata e studiata dall’occhio acuto dell’autore che vuole comporre non soltanto un mosaico locale, soddisfacendo così la sua volontà di ricordare, ma fare riferimento a un mosaico più ampio di “storia civile” dell’Isola.

Le pagine scorrono veloci e ariose per l’affettuosa ironia che le connota e per lo stile asciutto, dove le espressioni dialettali hanno il sapore del linguaggio dell’anima.

GABRIELLA MAGGIO


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N.E. 02/2024 – “Poesia e spiritualità: la ricerca interiore tra fede e laicità”, saggio di Maria Grazia Ferraris

….Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura….

(Giacomo Leopardi)

Cercando  le definizioni di “spiritualità” nei dizionari  ci si trova immersi in affermazioni nebulose, ripetitive, generiche che concordano solo nell’eliminazione degli aggettivi  qualificativi, quali – interiore, religiosa, cattolica, laica, naturale, orientale… – e insistono sul tema della ricerca  interiore, introspettiva, presente e costante  in ogni essere umano, a prescindere dalla sua cultura, dalla sua confessione religiosa, dal suo “status” di persona e di valori, tensioni e aspirazioni, che fanno a meno  dal credere nel “Trascendente”. Si ipotizza una ricerca individuale, attingendo all’esperienza, ma anche al patrimonio di conoscenze e sapienza della società nella quale viviamo.

La spiritualità si caratterizza allora attraverso la valorizzazione del quotidiano perché nulla di quanto si vive è ‘profano’: cambia invece la condizione vitale che differenziandosi determina modalità diverse nel vivere la vita. Questa dimensione interpretativa è strettamente unita alla poesia e alle sue manifestazioni.

La spiritualità della poesia si innesta nella spiritualità del singolo e della sua vita, è ricerca che ha come fine la realizzazione di se stesso, o l’autocompimento esistenziale, la maturazione dell’esistenza, nel dialogo con gli altri e all’incontro con la dimensione religiosa, metafisica.

La filosofia del Novecento, ha rivalutato la funzione della letteratura e quindi della poesia anche ai fini del pensiero, di una riflessione radicata sulla verità e le sue ragioni.

L’affinità tra linguaggio religioso-spirituale e linguaggio poetico si rivela nel loro dimorare nelle profondità dell’esperienza umana, rasentando i confini del dicibile. La poesia restituisce, con assoluta evidenza, la complessità della vicenda umana alla ricerca dell’anima, del divino, in virtù di uno sguardo orientato oltre la successione del tempo e del visibile; uno sguardo che attraversa il silenzio, per attingere alla fonte della vita della parola.

Moltissimi i poeti che si sono espressi e confrontati sul tema. La spiritualità è il contatto con la propria umanità. La parola poetica riesce a toccare il nocciolo della verità ed è proprio questa sua capacità unica, senza eguali, che trasforma l’arte in una forma di umanesimo spirituale e, attraverso le parole, ci mostra il vero volto spoglio, duraturo e nitido delle cose. La poesia è la vera “lampada d’oro” che illumina il cammino di molti lettori che si accostano al canto di sirene delle parole. Per alcuni Autori che hanno fatto la scelta di coincidenza di spiritualità con fede religiosa, la poesia trova la sua strada maestra. È il caso di David Maria Turoldo.

La ricerca inquieta di Dio, Tenebra luminosa, l’invito alla preghiera, la natura, sono riflesso di Lui. Questi temi si intersecano nella sua poesia in un suo costume espressivo costituzionalmente severo, essenziale, garante dei valori di fondo di matrice evangelica e garantiti in qualche modo in un Friuli dalla civiltà contadina in condizioni di necessità più che di libertà. Una preghiera la sua che è un soliloquio, ma anche un dialogo col cielo. I luoghi, le persone (casa, paese, fiume, la terra, la vigna…) acquistano “il di più” di significato e valore da superare, la funzionalità contingente: “che io possa ancora vedere / il sole che sorge / una nuvola d’oro, / Espero che riluce la sera / in un limpido cielo.” È sempre sottinteso il fondo storico-sociale nella sua arpa, ma come larga cornice, di sapore biblico, come possiamo constatare in Preghiera: “…salutare il giorno/ e dare speranza agli umili / e dire insieme la preghiera….”, pur consapevole che la poesia, oltre che preghiera, vuol essere  invito gioioso al canto:

Svegliati, mia arpa,

che voglio destare l’aurora:

cantare i silenzi dell’alba

chiamare le genti sulle porte,

e salutare il giorno:

e dare speranza agli umili

e dire insieme la preghiera

del pane che basti per oggi:

allora anche i poveri ne avranno d’avanzo.

Amen.

(Poesia “Preghiera”)

Oppure il caso di Clemente Rebora, in Frammenti lirici, che Silvio Ramat definiva poesia “metafisica”, come se l’io fosse in attesa di una rivelazione vaga e indefinita, eppure aperta nel mondo religioso, nell’ora “divina” che prima o poi giungerà confortante: -spazio e tempo sospeso-, come se l’universo si fosse fermato improvvisamente e in tale condizione rivelasse il suo profondo essere permettendo di comprendere appieno il suo esistere. Allora, con l’inno alla vita, che si esprime sotto forma di inquieto fremente monologo, si scoprirà la malia del vivere, la profusione del sentimento che annulla il fastidio ripetitivo del giorno qualunque, sconfinando attraverso i palpiti fecondi nella vita profonda dell’universo:

Divina l’ora quando per le membra

Lene va il sangue, e vivere è malìa:

Nel vero effusa la persona sembra

Luce nell’aria; e ignora come sia.

Da fonti aperte nasce il sentimento

Che d’ogni cosa fa ruscello, e intorno

D’amorosa bontà freme anche il lento

Fastidio ch’erra nell’usato giorno.

Onde sconfina l’attimo irraggiato

Nel vasto palpitar che lo feconda,

E scopre il senso intenso in ciascun lato

dell’universo una vita profonda.

(Dalla poesia “Divina l’ora quando per le membra”)

La spiritualità laica o naturale che dir si voglia, attraversa il quotidiano, i nostri dubbi e limiti, come per Franco Loi in questa poesia carica di disincanto:

Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,

forse memoria siamo, un soffio d’aria,

ombra degli uomini che passano, i nostri parenti,

forse il ricordo d’una qualche vita perduta,

un tuono che da lontano ci richiama,

la forma che sarà di altra progenie…

Ma come facciamo pietà, quanto dolore,

e quanta vita se la porta il vento!

Andiamo senza sapere, cantando gli inni,

e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.

(Da Liber, 1988)

Loi medita sull’essere poeta oggi, sulle sue ambiguità e contraddizioni, sull’estraneità della poesia allo svagato mondo contemporaneo, sull’incertezza ed inquietudine che ne genera, coinvolgendoci nella malinconia del vivere.

Interessante ed originale l’itinerario compiuto dalle poetesse. Prima in assoluto mi sembra la poesia di Emily Dickinson, che ha un’anima grande, immensa, mai definibile una volta per tutte, perché rompe la quotidianità, le cornici, i quadri storici di riferimento che ogni critico si impegna a trovarle, inutilmente.  Sa immaginare la vita e la sua gioia, ma anche rasentare, frequentare l’assoluto, la “finita infinità”: il sovrumano, il divino, sa volare umilmente attenta nel suo giardino quotidiano, ma anche volare alto, più di un metafisico, sa vedere con occhi liberi: l’amore è assoluto, come la morte, come la poesia, “estatica nazione”.  Il quotidiano la sfiora, ma non la cattura, non l’impiglia, non la isola, non l’avvilisce. Lei sa uscire dalle sue strette, sa volare.

Non accostarti troppo alla dimora di una rosa:

se una brezza le preda

o rugiada le inonda

cadono con timore le sue mura.

E non voler legare la farfalla,

o scalare le sbarre dell’estasi:

garanzia della gioia

è il suo rischio perenne.

(c.1878)

E ancora: in se stessi bisogna cercare, camminare, scavare, unendo cuore e mente in un unico continente, inseguendo la bellezza, che “non ha causa”:

La bellezza non ha causa:/esiste.

Inseguila e sparisce.

Non inseguirla e appare.

Sai afferrare le crespe

Del prato quando il vento

Vi avvolge le sue dita?

Iddio provvederà

perché non ti riesca.

(c.186)

E conclude – le parole al minimo, lasciare parlare gli spazi bianchi – una lotta impari e improba ingaggiata con la forza della disperazione nei confronti della ultrapotente “parola”:

‘Ha una sua solitudine lo spazio

 solitudine il mare

e solitudine la morte- eppure

tutte queste son folla

in confronto a quel punto più profondo,

segretezza polare

che è un’anima al cospetto di se stessa –infinità finita 

Finita infinità.’

(c. 1695).

La più vicina al suo sentire mi sembra essere in Italia la poetessa milanese Antonia Pozzi, di cui ora è nota sia la storia umana che spirituale, rimanendo valido quello che di lei scriveva  la grande filologa Maria Corti: “Il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi”. Una vita brevissima, suicida a soli ventisei anni, ricca di interessi culturali, di incontri e di passioni contrastate, insopportabili nelle loro contraddizioni. Nel suo canzoniere, pubblicato postumo, vi è una continua ricerca dell’autenticità dell’esistenza nelle parole, e le parole della Pozzi, come ha scritto Montale, «sono asciutte e dure come i sassi», ridotte al «minimo di peso».

Tristezza di queste mie mani

troppo pesanti

per non aprire piaghe,

troppo leggere

per lasciare un’impronta.-

tristezza di questa mia bocca

che dice le stesse

parole tue

altre cose intendendo-

e questo è il modo

della più disperata

lontananza.

(PoesiaSfiducia”)

Eppure rimane il senso e il valore della ricerca, dell’approdo, la speranza di una risposta leggera e alla fine liberante:

[…] Ma giungerà una sera

a queste rive

l’anima liberata:

senza piegare i giunchi

senza muovere l’acqua o l’aria

salperà – con le case

dell’isola lontana,

per un’alta scogliera

di stelle – 

In Italia Alda Merini scrive poesie, specie religiose, che nascono dall’insistenza dolorosa e sincera sul tema dell’impossibilità per tutti di salvarsi dalle angosce…: “Quando l’angoscia spande il suo colore / dentro l’anima buia / come una pennellata di vendetta…”. L’angoscia è il senso refrattario di ciò che a noi è dovuto per diritto di vita. L’angoscia non nasce solo dalle frustrazioni che stimolano l’Es a procedere sul versante opposto a quello della follia. Il dualismo follia-ratio è un salto di qualità che viene molto spesso annullato dall’ambiente in cui si vive.… nel mio caso la poesia mi ha salvato la vita. Fatta a tentoni, fra mille burrasche e dimenticata da tutti… L’anima ha mille sentieri e soprattutto mille tentazioni nascoste. Se l’anima è franca, se ha conosciuto il valore e il peso della morte, conosce le radici della vita e sa che sono amare ma salutari. Non esiste una medicina né per l’anima né per il dolore, perché se il dolore è una vetta che sorge improvvisamente nel cuore, la morte cerca di renderlo eterno e di farne un languore umano. Ma la morte non è una nemica, è soltanto un grande filantropo che ama gli uomini e un grande filologo che conosce la natura delle parole. Ciò che vale nell’anima è la nudità…. L’anima ha la semplicità dell’acqua ed è la prima natura dell’uomo…”.

La raccolta Tu sei Pietro è del 1961. Nella chiusa della lirica Rinnovate ho per te, di questa raccolta, appare una straordinaria affermazione autobiografica: “Ché cristiana son io ma non ricordo/ dove e quando finì dentro il mio cuore/ tutto quel paganesimo ch’io vivo”. Nel 2002 ha pubblicato Magnificat da Frassinelli. Toccante e sincero il suo miserere:

Miserere di me,/ che sono caduta a terra/come una pietra di sogno.

Miserere di me, Signore,/ che sono un grumo di lacrime.

Miserere di me,/ che sono la tua pietà.

Mio figlio/ Grande quanto il cielo.

Mio figlio,/ che non è più vivo.

Miserere di me,/ o universo,

egli era la punta di uno spillo/l’ago supremo della mia paura.

Miserere di me/ Che sono morta con lui.

Miserere della mia grandezza,/miserere della mia stanchezza,

miserere della misericordia di Dio.

Ma il tema religioso non è mai frutto si sublimazione definitiva. Si sente infatti come “una piccola ape furibonda”, “una donna non addomesticabile”, costretta a dire la verità, pur essendo “piena di bugie”.

L’angoscia è di una puntualità incredibile: ha fatto un corso accelerato di storia e ti ripete sempre le stesse cose, non ha la minima fantasia. E se tu chiedi all’angoscia: Dov’è tuo fratello? L’angoscia ti risponde puntualmente: sono io il custode di mio fratello. E finalmente, dopo queste parole auliche, tu entri profondamente nella Bibbia e scrivi il Magnificat.”

Tra le poetesse contemporanee riserverei un posto privilegiato a Louise Glück, premio Nobel per la letteratura 2020. È straordinaria per la sua originalità poetica la raccolta che l’ha resa famosa anche in Italia: L’Iris selvatico, un libro complesso e denso che è un dialogo tra i fiori del giardino, il giardiniere e Dio. La Glück non è particolarmente credente, ma sa trasformare il  vissuto soggettivo in una ‘metafisica del quotidiano’, come in questa straordinaria dolorante severa e spoglia preghiera-confessione:

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo

esiliati dal cielo, creasti

una replica, un luogo in un certo senso

diverso dal cielo, essendo

pensato per dare una lezione: altrimenti

uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza

senza alternativa… Solo che

non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,

ci esaurimmo a vicenda. Seguirono

anni di oscurità; facemmo a turno

a lavorare il giardino, le prime lacrime

ci riempivano gli occhi quando la terra

si appannò di petali, qui

rosso scuro, là color carne…

Non pensavamo mai a te

che stavamo imparando a venerare.

Sapevamo solo che non era natura umana amare

solo ciò che restituisce amore.

(Poesia “Mattutino”)


Bibliografia

Dickinson Emily, Poesie di E. Dickinson, traduzione e note di M.  Guidacci, BUR, 1996

Dickinson Emily, Tutte le poesie, “I Meridiani”, Mondadori, Milano, 1997

Glück Louise, L’iris selvatico, traduzione di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, 2020

Glück Louise, Ricette per l’inverno dal collettivo, traduzione di M. Bacigalupo, Il Saggiatore, 2022

Loi Franco, Liber, Garzanti, 1988

Loi Franco, Poesie scelte e breve nota bibliografica, a cura di Nelvia Di Monte, 2021

Merini Alda, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, a cura di Ambrogio Borsani, Mondadori, 2009

Merini Alda, Magnificat. Un incontro con Maria, Ed. Sperling & Kupfer

Merini Alda, Tu sei Pietro, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, Milano, 1962

Pozzi Antonia, Parole. Tutte le poesie, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Milano 2015

Pozzi Antonia, Poesia che mi guardi. La più ampia raccolta di poesie finora pubblicata e altri scritti, a cura di G. Bernabò e O. Dino, con approfondimenti critici, Luca Sossella Editore, Bologna 2010

Rebora Clemente, Frammenti lirici, 1913

Rebora Clemente, Frammenti lirici, a cura di G. Mussini, Interlinea, 2008

Turoldo David Maria, Dialogo tra cielo e terra, a cura di E. Gandolfi Negrini, Piemme, 2000

Turoldo David Maria, Diario dell’anima, San Paolo, 2003.

Turoldo David Maria, Il dramma è Dio: il divino la fede la poesia, Milano, BUR, 2002

Turoldo David Maria, Nel lucido buio. Ultimi versi e prose liriche, Milano, 2002



Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La poesia realistico-simbolica di Josè Russotti”, saggio del prof. Giuseppe Rando

La vasta produzione poetica – in dialetto messinese (di Malvagna) e in lingua italiana – di Josè Russotti (31 marzo 1952 – Ramos Mejìa – Argentina) appare fortemente omogenea sul piano tematico ma assai diversificata sul piano stilistico-linguistico (per peculiarità che sono tutte da verificare) e come attraversata da una perenne, progressiva ricerca espressiva: opera, senza meno, in fieri di un poeta che mira sagacemente alla conquista dello stile.

Il poeta di Malvagna esordisce nell’arengo poetico con una vibrante, commossa raccolta di poesie dialettali (con traduzione italiana a piè di pagina), Fogghi mavvagnoti,[1] che dell’«opera prima» possiede tutti crismi (sviste e refusi compresi). Vi si percepisce, immediatamente, l’amore viscerale di Russotti per il paese della sua infanzia – vero e proprio leitmotiv – tuttavia frustrato dalla delusione per quella che pare un’irreversibile sparizione: «Urìa stari ‘ssittatu subbra un furrizzu ‘i ferra / a menzu â campagna ciuruta di Pìttiri. / […] Ma non c’è vessu e modu di nuddha manera / ‘i truvari u sint’ri chi carusu avìa scapicciatu» (Urìa stari);[2] e ancora: «Lucia di centu dottrini, / non vidi chi stu paìsi pinìa / e mòri senza na raggiuni?» (Donna Lucia Pantano).[3]È forte, invero, il disappunto dell’io poetante per l’attuale vita-non vita del paese «china di lazzi e ruppa» e il suo desiderio inappagato di «nnèsciri ô chianu» (Mi veni iàddita).[4] Trapela anche nettamente, nella raccolta, la sensibilità sociale di Russotti per le sofferenze degli ultimi (Canzuni pi un drogatu, Turi Cacotta, L’emigranti), accentuata dal suo tormento di figlio desolato dopo la morte del padre (U scontru) e della madre (E jò chi n’ha vistu mòriri mai a nuddu, 7 febbraio ’99). Trascorre peraltro nei testi, per brevi cenni, tra immagini di crudo realismo, qualche lieve meditazione sui grandi temi del bene e del male, del tempo irrevocabile, della vita che fugge, della morte che incombe (Parori, Ora mi veni, Don Micu Scrofani, Acqua chi scenni e s’incanara, Comu attenti suddati). E ritorna sovente, per concreti, espliciti riferimenti, l’attaccamento carnale, sensuale del poeta all’amore (U nsonnu, Chi nostri cori, A surgiva, Quanti uòti, Niàutri dui).

Sul piano linguistico-stilistico, Fogghi mavvagnoti è, però, a tutti gli effetti, un’opera radicalmente intessuta di termini, locuzioni, stilemi popolari rimemorati agevolmente dal poeta di Malvagna e trasposti felicemente sulla pagina con i loro forti accenti realistici, senza particolari mediazioni autoriali che non siano quelle relative all’armonia, al ritmo, alla testura dei versi, che paiono, invero, «senza tempo tinti». Talché, parafrasando un titolo di Marcuse, questa prima raccolta di Russotti, parrebbe «a una dimensione»: quella realistico-referenziale della poesia dialettale tout court. Si rilegga, a conferma, la prima strofa di Spondi dill’Alcantara: «Uci di fìmmini si lèunu / ndê spondi dill’Alcantara. / Uci di matri patuti / che càntunu chini di prèjiu / vannu dritti e vagghiaddi / chî so’ cufini subbra a testa»,[5] dove la precisione dei dettagli non differisce punto da quella che si può ritrovare in un saggio di antropologia culturale o, meglio, nel quadro di un pittore realista, come Courbet.

La raccolta di poesie in lingua italiana, Spine di Euphorbia, pubblicata, quindici anni dopo[6], contiene liriche che si muovono nello stesso ambito tematico-contenutistico della precedente, ma appare del tutto nuova sotto il profilo stilistico. C’è, invero, un salto tra Fogghi mavvagnoti e Spine d’Euphorbia che non si spiega solo col cambiamento del codice linguistico (dal dialetto mavvagnotu alla lingua italiana) e con il lungo intervallo tra l’una e l’altra, ma presuppone una radicale svolta, se non una rivoluzione effettiva, nella maniera d’intendere e praticare la poesia, da parte di Josè Russotti, che sembra ora privilegiare la dimensione metaforico-simbolica dei testi, probabilmente mutuata dalla lettura dei poeti maggiori del Novecento (García Lorca in primis, già ricordato dallo stesso Russotti nella prima raccolta, i maudits francesi nonché gli italiani ermetici e post ermetici, conosciuti in occasioni non programmate),[7] ma fatta propria dal poeta nei modi entusiastici del neofita che idoleggia il tesoro di cui è venuto in possesso, cavandone impensate potenzialità espressive. Vale la pena di rileggere la prima lirica della raccolta, Madre sola, dove il flusso continuo di metafore, similitudini e simboli, senza annullare la realtà e conservando un altissimo grado di leggibilità, concorre a un canto-pianto che riesce a sfiorare le vette del sublime: «Madre di nulla vestita! // Vestita del tuo dolore che è pianto / del tuo lamento che è canto / Madre senza neppure aspettare / e quasi alla fine dei miei passi / ti riscopro brace per l’inverno inoltrato […] All’ombra dei tuoi capelli argentati / diventavo quieto come un agnello / e ambivo le carezze della notte […] Madre di nulla vestita. Madre da sempre sola / adesso ti rincorro nei rimpianti della sera».[8]

Non mancano, invero, nella raccolta, casi di iperfigurativismo (da neofita), in cui le metafore si susseguono di verso in verso, senza riuscire a essere illuminanti: «Dentro un fuoco di lava / appaio sconfitto e detestabile/ e tale perduro // Gli occhi in lutto / bagnano l’ossario aperto / di filo spinato // Si taglia a fette / questa piaga immensa / dentro un sogno di latta / che non trova nei ricordi / un qualsivoglia riscontro // I morti / giacciono in me» (I morti giacciono in me).[9] Ma bisogna riconoscere che il poeta, in Spine di Euphorbia, riesce, perlopiù, a combinare in un’armonica cifra stilistica, il piano realistico (degli affetti familiari, della vocazione sociale, dell’amore-disamore per il paese di origine), e il piano simbolico-metaforico della poesia novecentesca, conseguendo altissimi livelli poetici. Basti ricordare A Very, All’alba di un giorno qualsiasi, A-sintonie instabili, Con l’attesa ferma nel cuore, Disomogenie malvagnesi, Graffio l’angolo di vetro, I negri invisibili, L’ultimo passo (a Sebastiano, mio padre), Mai t’amai così teneramente, Noi chiedevamo solo amore, Non piangere per me Malvagna, Se vuoi infrangere, Sul filo amaro della vita, Vegeto in una crepa di luna, Vòlto a scavare. La scoperta della dimensione metaforica della poesia produce peraltro un altro notevole scatto, rispetto alle raccolte precedenti, in Spine d’Euphorbia, dove l’amore della donna amata, si traduce in immagini della natura circostante che, a loro volta, prefigurano modi pensosi, drammatici dell’Essere all’insegna della precarietà, della provvisorietà, se non della insignificanza del mondo. (Avvinto, Ci sorridemmo, Del tuo tenue sapido effluvio, Eri qui, Nudo amore, Spine d’Euphorbia, Steli di Tamaro fra le dita, Ti lascio una crepa di vita). In questo ambito si coglie, peraltro, qualche timido riflesso del cristianesimo sofferto di Russotti (Sotto il sole d’agosto).

La rivoluzione stilistica evidenziatasi in Spine d’Euphorbia si riflette nelle liriche in dialetto della raccolta Arrèri ô scuru, pubblicata due anni dopo, presso Controluna (Roma 2019).[10] Vi si ritrova, profondamente ramificata, la forte, abituale materia sentimentale (l’amore della madre – Matri sura -, del padre – Unn’eri, E campu ‘i tia -, della moglie – Ciatu c’appoj diventa aria e si sciàmina, U to’ ciàuru di sempri, della figlia – Figghia chi resti ntô cori pi sempri), insieme con la vocazione etico – sociale (Di russu virgogna ora è u ma’ duluri, ‘Nfin’a quannu, Nino Bongiovanni, u putaturi, Ntâ sta terra di Sicilia) e con un’accentuata tensione introspettiva (Si tesci di dumanni a tira, Intra un vacanti ‘i nenti) dell’io poetante. Ma – quel che più conta -pullulano sulla pagina le figure retoriche (similitudini, metafore, simboli) tipiche della poesia in lingua del Novecento, già ampiamente sperimentate in Spine d’Euphorbia, qui utilizzate, però, con maggiore discernimento, senza alcuna perdita di senso. Si rilegga la prima poesia (che dà il nome alla raccolta), Arrèri ô scuru, dove, in pochi versi, mirabilmente fioriscono luminose metafore, atte a rendere nuovo il motivo eterno dell’amore: «[…] Ma ‘a notti è fatta suru di sirènzi, / unni mi peddu e mi cunfunnu / sutta na cutra di ‘nganni e llammìchi. / Femma u passu e vèstiti d’amuri, / picchì si’ timpesta subbra i puntara, / simenza d’addauru ‘i chiantari».[11] La documentazione di tale miracolo di armonia espressiva, per via di limpide metafore, potrebbe essere, invero, sterminata: ricorderemo, per sommi capi, «A puisia è simenza chi scava ntâ terra, / ràrica chi nun canusci cunfini», in  A pusìa è …;[12] «Urìssi pi sempri a to’ bucca di meri», in Ciatu c’appoj diventa …;[13] «Si non si’ ccà a mmenzu a nuiàtri / a cantari a to’ gioia e a to’ alligria» in E campu ‘i tia;[14] «I campani sònunu a luttu subbra / i cappotti ‘ncurvati d’u friddu», in Figghia chi resti ntô cori …;[15] «Mu sentu d’incoddu / u to’ ciauru di fimmina e matri», in U to’ ciauru di sempri;[16] «Matri di nenti vistuta, / vistuta d’u to’ duluri chi è chiantu», in Matri sura;[17] «Ntâ sta  terra di Sicilia / […] lorda / di mafia e bucchi ‘ntuppati», in Ntà sta terra di Sicilia, p. 78; «sutta a ràrica d’u rimpiantu» («sotto la radice del pianto») in Ntô mari lavu tutti i ma’ peni.[18] Su questa via, vòlta a una sempre maggiore limpidezza espressiva, procede invero, come vedremo, il poeta di Malvagna nelle raccolte successive, in cui si va perfezionando la sua travagliata conquista dello stile.

Il processo avviato nelle poesie dialettali di Arrèri ô scuru s’intensifica nelle liriche della seconda raccolta poetica in lingua, Brezza ai margini[19], di Josè Russotti, il quale continua a privilegiare la curvatura metaforica, novecentesca dei testi, ma mira, nel contempo, con maggiore convincimento, alla comunicazione, alla leggibilità, alla poesia «corale», per dirla con Quasimodo.

Le prime cinque liriche della prima delle due sezioni di cui l’opera si compone, Amare è vita, sono stabilmente imperniate sulle volizioni, i pensieri, le angosce di un io poetante tuttavia speranzoso, che avverte nel «silenzio dell’erba» il grido di dolore di chi nei «vicoli stretti del […] presente» non trova più «la porta di casa»,[20] o soffre per «il vuoto degli assenti»,[21] o rievoca, nella «bolgia infinita della sera», le «intrepide illusioni mancate»,[22] o si conforta sapendo che, «come per incanto / sorgerà il sole del mattino»,[23] o cerca un conforto frugando «nei vicoli / carichi di remoti silenzi».[24] Seguono tre liriche (VI, VII, VIII) imperniate sulla tecnica allocutiva dell’io/tu, che costituiscono autentiche invocazioni d’amore alla moglie: accolga lei, «nelle pieghe del suo dolore»,[25] le lacrime del suo uomo; la sua mano non si stanchi di dare al poeta «un senso di raro sollievo» (degno di attenzione l’intenso distico: «Me lo sento addosso / il tuo odore di femmina e madre»,[26] versione italiana del verso sopra citato  di Arrèriô scuru); se l’amore dovesse affievolirsi («Se dovessi frugare nel vano / del tuo ventre acceso»), lei sicuramente saprà «aprirgli il cuore».[27] La tensione erotico-espressionistica si prolunga nella lirica successiva, in cui il poeta si prefigura che «Brandelli di lusinghe» e «bocche sconosciute e intrepide /accenderanno il suo cuore / nella bolgia della sera».[28] La decima lirica della raccolta è una dolorosa, ma stilisticamente compiuta, rievocazione della madre morta: il poeta cerca in casa ma «non trova più niente di lei»; il suo cuore «cade a pezzi», ma egli aggiunge «una goccia all’origano nel vaso di suo madre» (il verso è davvero sublime) sperando che ritorni.[29]

La seconda sezione, Angoli bui nel silenzio, della raccolta si apre con una lirica, la XI, in cui l’io poetante canta mestamente la morte del padre scomparso quando egli era in tenera età: «L’assenza / è un suono molteplice di arpe sulla riva / […]».[30] Al padre è anche ispirata la lirica XVII che forma con la XI un singolare dittico filiale. Il dodicesimo componimento è quello più gonfio di crudo, corposo realismo, prossimo – parrebbe – ai moduli espressionistici della poesia di Cattafi: «la grandine sui tetti», il «sangue dalla croce», la «fame che divora le budella», il «gesto inconsulto / di chi disperde il seme», il «vento tra la gramigna», «lo sputo sui vetri», il «vino rosso […] nello stipo»:[31] brandelli, invero, di una vita vissuta tra stenti, lontano dagli agi, e tradotti in una tormentata musicalità.  Segue quella che si definirebbe «una trilogia della gente»: tre ampie liriche «corali», in cui il poeta, messo da parte il suo io dolente e risentito, guarda attorno a sé, divenendo quasimodianamente partecipe del dolore degli emarginati che sono vessati dagli uomini e dalla sorte: gli emigranti, extracomunitari, in ispecie, vittime della brutalità della storia e i morti di Covid. In essi il poeta emigrante si identifica, a tal punto che, nella prima strofa, della XIII poesia, presta loro la sua voce e diventa di fatto uno di loro: «Ci ha lasciato la madre che ci nutrì / col latte del seno e sedano crudo» (un distico sublime, invero).[32] Nella lirica successiva, la «gente» (forse, i parenti dei morti per Covid) «piange e stringe le ossa / dentro un fazzoletto intriso di memoria»,[33] e nella quindicesima il poeta «corale» registra accorato il «greve allinearsi delle bare».[34] Della stessa temperie stilistica sono i componimenti XX e XXI, in cui lo stesso acceso espressionismo presiede alla visione dei corpi dei migranti che «emergono e poi affondano […], / gonfi di sterile salgemma»;[35] mentre «le barche approdano vuote»: il poeta porge «alla faccia stupita degli stolti / un piatto ben condito di sapienza».[36] Nella lirica XVI, domina, tra illusioni e delusioni dell’io poetante, «la noia di certe giornate disadorne», mentre lo sguardo cade «sulla lumiera di carni putrefatte e scheletro» (di cattafiana memoria).[37] Seguono tre liriche (XVII-XIX) in cui ritorna la voce disillusa del poeta, che rifiuta ogni ipotesi consolatoria dell’aldilà («la morte è solo un gelido varco interiore / nella vanità dissoluta del transito finale»)[38] e ridimensiona il ricordo, più o meno affettuoso, che di lui avranno i compaesani, agognando semmai l’infinità che solo l’arte può dare («vivere ancora e poi ancora / e ancora, nel fertile cuore / dei fragili»),[39] e guardando in faccia la morte «che scivola sul destino delle cose».[40] La paura del disamore o meglio della fine dell’amore ritorna nella mesta lirica XXIII, che sembra costituire il pendant pessimistico («un ristagno di silenzi / innanzi alla fisica estraneità di mia moglie»)[41] del trittico alla moglie (della prima parte). Vi si collegano, per l’intonazione elegiaca, i due ultimi componimenti soffusi dalla malinconia del tramonto: «ogni gemito diviene / un tormento di rondini in pena».[42]

L’autore di Brezza ai margini è, in effetti, un poeta che patisce (o ha patito) sulla sua pelle il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia del mondo, approdando a una visione amara (ma non sconfitta), leopardiana se vogliamo, della vita e dell’arte: un uomo dimidiato, ad ogni modo, come un poeta medioevale, tra il sogno o il rimpianto del paradiso e l’amara certezza dell’inferno.

Nello stesso anno, qualche mese prima – precisamente nel gennaio del 2022 –, Josè Russotti dà alle stampeuna sorprendente raccolta di trentanove liriche in dialetto malvagnese,[43] con traduzione a fronte in italiano, distribuite in sette sezioni: I) Pî mapatri; II) A Mariacatina, ma’ matri; III) A mia moglie; IV) A Elyza, mia figlia; V) Nei giorni chiusi; VI) A Malvagna, il paese della memoria ritrovata; VII) Sulla vita e sulla morte. Quanto dire che Chiantulongu racchiude, come le altre raccolte e forse più compiutamente – alla stregua di un organico canzoniere d’antan – la vita e la storia personale dell’autore, talché, a lettura ultimata, sapremmo tutto di lui anche se non lo conoscessimo affatto: il legame fortissimo con la sua famiglia di umili origini (padre, madre, moglie, figlia); l’amore per Malvagna, il paese nativo (da cui il Russotti padre, indomito contadino in cerca di lavoro e di fortuna era emigrato per trasferirsi in Argentina, insieme con la moglie, e a cui, come tanti, era ritornato nel 1959, con moglie e figli); la sensibilità sociale, esplicita nella quinta sezione, Nei giorni chiusi, dedicata ai tragici effetti del Covid 19; il suo profondo, insanabile dissidio esistenziale, nella sezione finale Sulla vita e sulla morte. Ma quel che più colpisce è non solo il perfetto recupero, che vi si registra, di termini e locuzioni dialettali forti, efficaci, del tutto inedite (epperò pregne di un ancestrale nitore primigenio), ma anche l’attitudine del poeta a coniugare, sullo stesso asse linguistico, i colori antichi della poesia dialettale e le più ardite forme della poesia contemporanea, senza sbilanciamenti di sorta verso nessuno dei due poli espressivi. Donde, in altri termini, la coesistenza (come in Arrèri ô scuru, ma con maggiore pregnanza), in uno stesso componimento, del registro realistico, tipico della poesia popolare, col registro meditativo, introspettivo, allusivo, tipico della poesia novecentesca. Si veda come nella lirica finale (Davanzi a sti petri) della sezione dedicata all’indimenticabile padre (morto giovanissimo, dopo il ritorno in Sicilia), alla sequenza dialettale «mutu, restu ora, / davanzi ô to’ ricoddu / ‘ngudduriatu e suru» («silente, rimango adesso, / dinanzi al tuo ricordo / avvolto e solo») segua, senza soluzione di continuità, un verso allusivo di chiara matrice ermetica: «ndâ frèvi d’u sirènziu» (nella febbre del silenzio).[44] Allo stesso modo, nella lirica finale (Cu ddu sapuri di …) della sessione dedicata alla madre, morta dopo lunga e penosa malattia, sono perfettamente associate locuzioni contadinesche («ô brisciri d’u matinu») e forme di levatura novecentesca: «E di ora â fini / nniàvi u to’ coppi / ndô ballàriari mutu / d’u tempu!» («E da ora alla fine / annegavi il tuo corpo / nella muta sospensione / del tempo!»).[45] Ma le citazioni di questo che pare essere lo stemma esemplare della poesia di Josè Russotti sono numerosissime, nella raccolta. Ci si limita a evidenziarne qualche altra particolarmente pregnante.

Nella sezione dedicata alla cara moglie, la lirica Dumannu a tia dipinge la moglie con un dittico «muta ti nni stai ‘i canzàta / intra un faddari chinu ‘i pinzèri» («muta te ne stai in disparte / dentro un grembiule colmo di pensieri»),[46] dove il primo verso («muta ti nn stai ‘i canzàta») è desunto tale quale, dalla parlata locale mentre il secondo («intra un faddari chinu ‘i pinzèri») è immagine di raffinata caratura stilistica. Eppure, l’accostamento non stride affatto. Allo stesso modo, in Rìnnina d’amuri, la dolce figlia Elyza, prematuramente scomparsa, giunge «lorda ‘i brizzi» («sporca di sorrisi») – il di specificativo dopo l’aggettivo è usuale nelle poesie degli Ermetici –, ma la similitudine del verso successivo («commu na rìnnina ô giuccu» – «come una rondine al nido») è normale nel linguaggio popolare.[47] La stessa armonica associazione di stilemi popolari e figure retoriche ultramoderne si coglie agevolmente nelle liriche della sesta sessione, dedicata a Malvagna, dove l’amore del paese natio fa tutt’uno col dolore per «la sua sventura» di «paese che muore»: «Chiossai d’u ‘nvernu iratu / disìu a nivi janca di latti, / quannu u cantu d’i cicari fa a junnata. / Nivi fina di farina cinnuta / a cummigghiari i tènniri chiantimmi. / Mentri, / tutt’attornu ô paisi / matura u tempu, / avanza a motti» («Più dell’inverno gelato / bramo la neve bianca di latte, / quando il canto delle cicale fa la giornata. / Neve fina di farina setacciata / a coprire i teneri boccioli. / Mentre, / tutt’attorno al paese, / matura il tempo, / avanza la morte»).[48] Ugualmente intessuti di forme lessicali tratte dall’immaginario popolare di Malvagna e di stilemi postermetici sono i componimenti dell’ultima sezione, in cui si squaderna l’amara condizione esistenziale del poeta che cerca e non trova un senso della vita: «Non viddu nudda differenza / tra chiddu chi fu aieri / e chiddu chi sarà dumani: / suru a motti mmisca e sracancia i catti / subbra a tuàgghia d’a vita» («Non vedo nessuna differenza / tra quel che accadde ieri / e quel che accadrà domani: / solo la morte sconvolge e muta le carte / sulla tovaglia della vita».[49] Unico conforto la poesia, che va custodita come un tesoro: «Si campa d’amuri e di nenti, / di llammìchi e sustintamenti / ma non livàtivi a puisia d’u cori!» («Si vive d’amore e di nulla, / di stenti e sostentamenti / ma non toglietevi la poesia dal cuore!»).[50]

Il bifrontismo tematico e stilistico (tra la dimensione lirica, introspettiva, memoriale e la vocazione sociale), in composizioni magistralmente metaforiche ma viepiù schiarite in direzione della leggibilità assoluta, appare, con nuovi intendimenti, nella terza raccolta poetica in lingua di Josè Russotti,[51] che chiude, all’insegna del sublime, il portentoso biennio 2022-2023.

Delle quattro sezioni di cui il libro si compone, la prima (Pieghe all’ombra della sera) è imperniata sull’io dolente e tuttavia indomito del poeta, consapevole del sua solitudine e del suo disagio esistenziale in un mondo incapace di amare e di capire: «Ramingo e solitario nell’anima, orfano di padre e di madre assente, / stretto nell’angolo buio, spegnevo le mie paure / cantando tristi canzone d’amore / […] Un batuffolo indifeso / attorno al lordume dei grandi, / teso a implorare carezze / che nessuno mai seppe donare»;[52] «Con le mani impazienti / sul pomo della notte, / erro per l’infinito / come un bimbo col suo veliero : / cosmonauta vagabondo / nelle costellazioni dell’Io /  per scoprire ciò che la vita / non ti permette di scoprire »;[53] «Smarrito nelle pieghe della vita, / vivo la duplice angoscia / sui ponti di rive opposte»;[54] «Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere. / […] lontanissimo / dalla vanità dei colti / come un rozzo guascone, / prenoto ancora un posto / per nuovi sogni / da raccontare».[55] Donde, l’avvertenza dei limiti personali («Sono / figlio della Poesia e mi nutro di parole, / vivo nella lusinga dei miei errori / e solo nei versi la mia morte desiste dal morire»;[56] «Parea una piccola screziatura / nei riflessi dell’alba policroma, / […] Parea la fine del suo tenero silenzio / […] È la mia fragile ombra, / che mi segue ancora […]»,[57] [il corsivo è mio]), ma anche l’orgoglio dei valori coltivati: «In un urlo feroce di bandonéon argentino / cantai al cielo / lo sdegno per le futili apparenze / e il falso moralismo, / fino a far tremare i polsi / degli astanti».[58] Anche se lo sdegno per la malevolenza dei potenti sconfina talora negli eccessi della paranoia: «Li avevo tutti addosso / l’aculeo piantato sulla lingua, / la stizza del prete dietro la schiena, / gli occhi degli altri fissi su di me»;[59] «Non mi turba il vostro stupore / né l’infamia delle parole».[60] Quanto dire che, in Ponti di rive opposte, Russotti fa un passo avanti: non indulge all’elegia del paradiso perduto dell’infanzia, come in Brezza ai margini, ma oppone più decisamente la sua alterità di «rozzo guascone» alla cultura dominante. E, su questa stessa lunghezza d’onda, la polemica esplicita contro critici e poeti mediocri ma acclamati dai più: «[…] mi ritrovai fra le mani / esempi di poesia macellata / da finti poeti, svigoriti di parole / e vuoti endecasillabi rimati»;[61] «Ma se la vivida poetica degli avi non traspare / nei monitor accesi della sera / l’indicibile oltraggio cova / nella stupidità degli accoliti. / Nei predicatori del nulla / e nella fragorosa autocelebrazione / di chi non conosce la decenza. / Non è il male che insinua le menti /ma l’estremo dilagare dell’insanabile / mediocrità».[62] Dove sono esplicite le isotopie disforiche di «finti poeti», «vuoti endecasillabi», «stupidità degli accoliti» ecc., sull’asse semico della «mediocrità» come vero «male». Né manca, in questa prima sezione, del libro la testimonianza della religiosità (quasi francescana) del poeta, tuttavia immune da ogni forma di clericalismo: «ho imparato a domare l’orgoglio / e ho camminato al fianco degli scartati»;[63] «Ogni Pasqua che arriva non lenisce il mio dolore / è solo un giorno come tanti: / il rito della resurrezione è una parte / che non mi si addice».[64]

Anche da questa sintetica documentazione, si possono cogliere alcuni aspetti precipui dello stile poetico di Josè Russotti, il quale a) predilige un lessico chiaro fino ai limiti dell’oltranza («lordume dei grandi», «futili apparenze», «il falso moralismo», «poesia macellata», «predicatori del nulla», «l’insanabile / mediocrità»), b) adotta talora un’inedita, raffinata associazione di  nome  e aggettivo («alba policroma»,  «tenero silenzio», «fragile ombra»[65] e costrutti metaforici («sul pomo della notte»,[66] «provo a scavare con le unghie strappate / tracce del mio passato»;[67] «Lo strazio / è sale che sa di abitudini»[68]) nonché similitudini («danzano i pensieri / come l’erba fra i sassi»),[69] e immagini («Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere»)[70] molto personali, desunti chiaramente dalla cultura contadina e magistralmente innestati in contesti verbali e stilistici di diversa caratura.

La seconda sezione del libro, Naufragio, contiene poesie intessute intorno all’amore coniugale, non privo di forti accensioni erotiche, corporali. Si alternano, difatti, liriche tenerissime che cantano – o recuperano dai flussi della memoria – momenti di assoluta tenerezza («[…] la tua mano sul viso / mi dà un senso / di raro sollievo»),[71] a cui non difetta mai, però, l’inevitabile legame carnale del vero amore: «Nell’approssimarsi incerto del mattino, / quel poco o molto che rimane / del tuo splendido sorriso / ha il verso di certe nenie infantili. E […]  riparto / per nuove galassie inesplorate / annegandomi, da ora alla fine, nell’insenatura del tuo / florido petto».[72] Il poeta esprime, invero, sentimenti antichi, universali, forse imperituri, con un linguaggio forte, inusuale, pregno di fremente, non dissimulata carica erotica: «Linfa e sudore coprono / la tua pelle di sposa fedele, /mentre l’intrepida mano / affonda nella verticale ambìta / della tua calda ferita. Le dita la sfiorano appena / per non fermare / l’estasi sublime / del ritrovato desiderio».[73] Non casualmente, le isotopie erotiche – «sudore», «pelle», «intrepida mano», «calda ferita», «estasi», «desiderio» – convivono armonicamente, nei contesti citati, con quelle della castità coniugale: «raro sollievo», «splendido sorriso», «sposa fedele». E vale, a stento, la pena di sottolineare come tali isotopie siano, di norma, antitetiche, in gran parte della cultura e della poesia moderna, dove permane la scissione antica, forse di origine cattolica (più che cristiana), della donna nelle due ipostasi di angelo (madre, moglie, sorella) e demonio (amante, prostituta). Certo, poetesse come Alda Merini, Patrizia Valduga e la messinese Iolanda Insana hanno ampiamente ricomposto, nelle loro opere, quella orrenda scissione, consegnando al lettore un’immagine unitaria della donna, ricca di luci e ombre, di carnalità e di spiritualità (come in tutti gli esseri viventi). E tuttavia la poesia di Russotti assume, anche in questo ambito, un rilievo non marginale.

La terza sezione, Il Lavacro, ritesse, con accenti di assoluta purezza espressiva, l’amore del poeta per la madre scomparsa: «Solo nell’approssimarsi dei giorni / quel poco o molto / che mi è rimasto di te e di me, oh madre mia, / assumerà il verso / di certe nenie infantili»;[74] «La rivedo ancora, in un sogno di sempre, / quando prima della scuola / mi sistemava i bordi del bavero bianco».[75] Se non manca, invero, in alcuni componimenti di questa e nelle altre sezioni, così come nella precedente silloge, qualche oscurità superflua (di matrice ermetica), bisogna riconoscere che sfiora i vertici del sublime la suddetta lirica III di p. 77, in cui è ridotto al minimo l’armamentario poetico e il dettato, pur conservando il ritmo inconfondibile della poesia, si accosta molto alla prosa: «Le braccia incrociate sul petto / davano il senso compiuto dell’atto finale: / crudele da vedere. Duro da scordare. / Eppure, alla fine, a guardarla sul volto / pare che ci sorridesse ancora» (p.78).[76] Negli ultimi due componimenti del Lavacro, il poeta-figlio rimpiange, con la stessa composta premura la scomparsa del padre: «Piansero i tuoi figli indifesi / […] aspettando ancora e per sempre / il vano ritorno!».[77]

La vocazione sociale del poeta è presente, infine, insieme con qualche, allusiva lirica di congedo («avverto il lento declinare dell’ombra»),[78] nell’ultima sezione del libro, In Memoria. Josè Russotti, sensibile, in ispecie, al dramma dell’emigrazione, rievoca lo scempio del corpicino del piccolo Aylan, «curvo sul muto arenile di Bodrun», dove «al duro infrangersi dell’onda / si estinsero i tuoi sogni»,[79] o leva un inno solidale in ricordo di un eroe siciliano, militante di Democrazia proletaria, noto per le sue denunce contro Cosa Nostra, da cui fu assassinato il 9 maggio 1978: «la mia anima impura /non rinuncerà al tuo canto possente / dell’ultima volta: grido superbo / di agile armonie» (A Peppino Impastato),[80] o leva un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino, pressoché dimenticato, che ha rubato «parole alla terra / e le lasciò andare al vento» (Un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino).[81]

Una strana sezione, interna alla sezione In Memoria, è costituita da una sola lirica, Per Amalia, dedicata alla poetessa Amalia De Luca, amica e sodale di Russotti, peraltro presente nella raccolta con quattro sue liriche che aprono ciascuna delle quattro sezioni della raccolta stessa. Della poetessa palermitana, versata ai ritmi lievi, armoniosi, sincopati di una poesia luminosa, ricca di cieli, venti, mari, fiori, uccelli, con aperture improvvise all’assoluto, Russotti rimemora, con profonda simpatia, «il tocco lieve delle fragili ali», le «ciglia di teneri turioni», le parole «di rara bellezza», il corpo che resiste al «tempo delle stagioni», la «voce scavata dal profondo dell’anima», ma soprattutto la serena cordialità di chi lo chiama «nel cuore del silenzio per dirgli che l’ibiscus / non fiorisce più nel suo terrazzo».[82]

Quanto dire, in conclusione, che il poeta siciliano di Malvagna si autentica, senza meno, come una delle voci più originali e autentiche della poesia contemporanea. E vien fatto di pensare che quella saldatura tra passato e presente, perseguita invano dal poeta Russotti nella vita, si realizzi perfettamente sulla pagina, nei suoi componimenti poetici in dialetto e lingua.


[1] Josè RUSSOTTI, Fogghi mavvagnoti, Edizione libera, Malvagna (ME), 2002.

[2] Ivi, p. 28.

[3] Ivi, p. 33.

[4] Ivi, p. 10.

[5] Ivi, p. 24.

[6] J. RUSSOTTI, Spine d’Euphorbia, Il Convio Editore, Castiglione di Sicilia (CT), 2017.

[7] Ne ha detto, con dovizia di particolari, lo stesso Russotti, in una esaustiva pagina (Come sono diventato un poeta) redatta dopo la presentazione, presso la Biblioteca Regionale Universitaria di Messina, di Brezza ai margini (ved. infra) nel 2022.

[8]Ivi, p.15.

[9]Iv, p. 45.

[10] J. RUSSOTTI, Arrèri ô scuru. Dietro al buio. Poesie in vernacolo siciliano e lingua italiana, Controluna, Roma 2019.

[11] Ivi, p. 18.

[12] Ivi, p. 24.

[13] Ivi, p. 56.

[14] Ivi, p. 60.

[15] Ivi, p. 68.

[16] Ivi, p. 72.

[17] Ivi, p. 74.

[18] Ivi, p. 80.

[19] J. RUSSOTTI, Brezza ai margini, Edizioni Museo Mirabile, Marsala, 2022.

[20] Ivi, p. 15.

[21] Ivi, p. 16.

[22] Ivi, p. 17.

[23] Ivi, p. 18

[24] Ivi, p. 19

[25] Ivi, p. 20.

[26] Ivi, p. 21.

[27] Ivi, p. 22.

[28] Ivi, p.24.

[29] Ivi, p. 25.

[30] Ivi, p. 29.

[31] Ivi, p.30.

[32] Ivi, p. 31.

[33] Ivi, p. 32.

[34] Ivi, p. 33.

[35] Ivi, p. 38.

[36] Ivi, p. 39.

[37] Ivi, p. 37.

[38] Ivi, p. 35.

[39] Ivi, p. 36.

[40] Ivi, p. 37.

[41] Ivi, p. 41.

[42] Ivi, p.43.

[43] J. RUSSOTTI, Chiantulongu Piantolungo. Poesie nella parlata malvagnese e in lingua italiana, Edizioni Museo Mirabile, Marsala, 2022.

[44] Ivi, pp. 24-25.

[45] Ivi, pp.36-37-

[46] Ivi, pp. 40-41.

[47] Ivi, pp. 52-53.

[48] Ivi, pp. 70-71.

[49] Ivi, pp. 84-85.

[50] Ivi, pp.86-87.

[51] Ponti di rive opposte, Nulla die (di Massimiliano Giordano), Piazza Armerina, 2023.

[52] Ivi, p. 31.

[53] Ivi, p. 48.

[54] Ivi, p. 20.

[55] Ivi, p.37.

[56] Ivi, p. 26.

[57] Ivi, p. 40

[58] Ivi, p. 18.

[59] Ivi, p. 30.

[60] Ivi, p. 37.

[61] Ivi, p. 18.

[62] Ivi, p. 43.

[63] Ivi, p. 26.

[64] Ivi, p. 38.

[65] Ivi, p. 40.

[66] Ivi, p. 48

[67] Ivi, p.39.

[68] Ivi, p. 20

[69] Ivi, p. 19.

[70] Ivi, p. 37.

[71] Ivi, p. 55.

[72] Ivi, p. 57.

[73] Ivi, p.  58.

[74] Ivi, p. 75.

[75] Ivi, p. 77.

[76] Ivi, p. 78.

[77] Ivi, p. 83.

[78] Ivi, p. 95.

[79] Ivi, p. 91.

[80] Ivi, 93.

[81] Ivi, p. 94.

[82] Ivi, pp. 99-100. Della poetessa palermitana è stata pubblicata, nel 2021, dalla Fondazione Thule Cultura di Palermo, la raccolta completa di Poesie 2002-2021, preceduta, invero, da una vasta raccolta di saggi critici sulla produzione poetica della stessa (AA.VV., Il problema dell’essere e il richiamo spirituale nella poesia di Amalia De Luca, a cura di Tommaso Romano e Giovanni Azzaretto, Thule, Palermo 2020), che ne ratifica la levatura europea.


Questi testi vengono pubblicati nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionati dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Poesia e pace?”, articolo di Enrica Santoni

In questo momento di morte e guerre, nasce spontaneo chiedersi se possa bastare una poesia per salvare il mondo. Poesia come preghiera profonda, pianto intenso, ma anche inno alla vita. Siamo ormai consapevoli del fatto che le armi non potranno mai risolvere i problemi dell’umanità e che tutto si ripeterà recidivamente, come un rituale. Ma se le bombe, gli spari, i cannoni, il sangue, non possono salvarci, potrà forse farlo la preghiera?

Già sembra di intravedere un sorriso di scetticismo in coloro che leggeranno questa domanda. Tuttavia, tentare un nuovo percorso verso la pace, è necessario e urgente. Una sola piccola poesia, come preghiera umana, al di là di ogni credo religioso e filosofico, in nome dell’Uomo, della Vita, della Speranza, potrebbe trasformarsi in un seme fertile che potrebbe sbocciare dopo essere stato coltivato e curato con amore e attenzione. Come un canto antico che affiora dai pori della nostra pelle, dal nostro DNA sopravvissuto per milioni di anni ad ogni ostilità nei confronti della nostra evoluzione. È un enigma cercare di comprendere perché l’Uomo voglia trovare la pace attraverso la guerra, la vita attraverso la morte, l’amore attraverso l’odio. È un mistero nascosto nel profondo dell’ego umano, nella parte “bestiale” che caratterizza l’uomo, quella più oscura e terribile, che si sarebbe dovuta smussare attraverso lo sviluppo dell’anima unita all’intelligenza, soprattutto sociale, che contraddistingue la razza umana da quella animale e dai suoi istinti spesso crudeli.

È quindi il momento di rivalutare la preghiera. Non quella da filastrocche infantili ma quella che nasce da un sentito profondo, che punta a catturare l’essenza più spirituale e pura che ancora si annida dentro gli esseri umani e che non trova più il passaggio per fuoriuscire, alla luce, verso il prossimo.

Ci siamo riempiti di beni materiali e anche di nozioni intellettuali, di conoscenza fine a se stessa, ma abbiamo tralasciato il cuore, la sacralità anche delle nostre debolezze e delle nostre paure, della nostra capacità di commuoverci, di stupirci di fronte all’alba e al tramonto, che non sono mai gli stessi. Si è arrivati a scambiare la spiritualità per debolezza, per inutilità, per nullità, poiché non sembra portare profitti. Di conseguenza, la preghiera, l’inno alla bellezza umana e divina, hanno perso forza e sembrano spesso essere fonti di imbarazzo e incapacità. Si è giunti ad una sorta di capolinea per l’umanità. È assolutamente necessario trovare nuove direzioni e nuove motivazioni per la felicità, la pace e la convivenza sulla terra. Perché (tornare ad) essere idealisti e romantici e tentare di salvare noi stessi con la poesia, l’implorare la vita, l’amore, il nostro credo, la natura, il nostro essere più profondo?

Le prime forme di comunicazione linguistica dei nostri antenati erano simili a suoni cantati, liriche primordiali. Erano armonia e bellezza, andate perse con il materializzarsi della vita umana sulla terra, quando si ha iniziato a lottare per sopravvivere, per poi volere accumulare potere e ricchezze. Perché non tornare all’età dell’innocenza, come fossimo ancora bambini, incontaminati dalle negatività che ci circondano? Ci siamo riempiti del nulla svuotandoci. Perché non riprovare ripartendo dal poco per raggiungere una completezza e realizzazione con la semplicità e la sincerità? Basterebbe una poesia? Un canto? Un inno?

Il ritorno all’umiltà, in primis, ci potrebbe veramente salvare; questa enorme parola “umiltà”. Bisogna avere tanto coraggio ad essere umili. E la poesia è umiltà perché ci denuda di fronte al mondo e ci dona il coraggio di essere nuovamente ed autenticamente “uomini”.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Novalis: tra filosofia, magia e spiritualità”, saggio di Riccardo Renzi

Il presente saggio vuole concentrare la sua indagine su uno dei più grandi poeti della storia letteraria in lingua tedesca, che ha rivoluzionato la poesia e ha generato un nuovo sentire della poesia stessa, dal quale derivò una totalmente nuova corrente letteraria: il romanticismo.

Novalis, alla nascita Georg Philip Fredrich von Hardenber barone di von Hardenberg[1], fu colui che più di ogni altro autore romantico dettò un prima e un dopo all’interno del movimento letterario. Nacque nel 1972, secondo degli undici figli di Auguste Bernhardine Freifrau von Hardenberg, nata von Bölzig, (1749-1818) e Heinrich Ulrich Erasmus Freiherr von Hardenberg (1738-1814). Dopo aver frequentato il ginnasio luterano a Eisleben, si iscrisse nel 1790, come studente di giurisprudenza, all’Università di Jena. Lì il suo vecchio tutore personale Carl Christian Erhard Schmid (1762-1812)[2], che nel frattempo era divenuto professore di filosofia e uno dei maggiori rappresentanti del kantismo a Jena, lo presentò a Friedrich Schiller[3]. Tale conoscenza permeò profondamente il giovane poeta, infatti risulta impossibile comprendere a fondo la poetica di Novalis senza conoscere la filosofia di Schiller, che a sua volta è permeata da quella di Johann Gottlieb Fichte[4].

Novalis

Se volessimo tener il senso proprio, quello ficcante, filosofico e teologico, e non meramente letterario del termine “romanticismo”[5], dovremmo sostenere per onestà intellettuale che esiste un unico romanticismo: Novalis. L’unico vero testo romantico, intriso in ogni sua sillaba di tutta la filosofia del romanticismo, sono gli Inni alla notte[6]. Si può sostenere fermamente che Novalis sia l’unico autore romantico per un semplicissimo motivo, in lui i motivi teorici della Romantik nascono, si sviluppato e raggiungono l’apax di tutto il movimento. Il romanticismo, senza troppa audacia, possiamo sostenere che nasca e muoia con Novalis. Tutta la poetica di Novalis si basa sull’opera la Dottrina della scienza di Fichte, che gli fu introdotta dall’amico Schiller. Il romanticismo è per prima cosa una questione di magia e la prima formula magica è quella costituita dall’io fichtiano. Il primo mago del movimento fu proprio Fichte, l’anima di Jena, che il poeta studiò e commentò a più riprese. Tale lato magico in Novalis si mischia ad un profondo cristianesimo protestante imbevuto di misticismo.

Passo dall’altra parte

ed ogni pena

diventa un pugno

di voluttà


Ancora un poco

e sarò libero

giacerò ebbro

in grembo all’amore.

Vita infinita

fluttua in me potente,

dall’alto guardo

laggiù verso di te.

Su quel tumulo

Il tuo fulgore si spegne

un’ombra reca

la fresca corona.

Oh suggimi, amato,

con forza in te,

ché assopirmi possa

ed amare.

Sento della morte

il flutto giovanile,

il balsamo ed etere

trasmuta il mio sangue

vivo di giorno

con fede e fervore,

di notte muoio

nel sacro ardore[7].

La poesia di Novalis si caratterizza per una miscela sempre volta al vitalismo di vita e morte, nella quale funge da elemento di equilibrio, quasi come la bilancia della giustizia, l’amore. Quest’ultimo è l’elemento basilare della concezione vitalistica del creato.

Ti vedo in mille immagini,

Maria, amabilmente figurata,

ma nessuna può rappresentarti

quale la mia anima ti ha veduta.


So solo che il tumulo del mondo

da allora mi è svanito come un sogno,

e un cielo d’indicibile dolcezza

mi sarà nell’animo per sempre[8].

Ecco il misticismo della poetica di Novalis si mischia con un profondo credo cristiano.

Le fonti dell’immaginario novalisiano possono essere rintracciate in numerose tradizioni letterarie e religiose: si va dalle opere dei mistici tedeschi, tra tutti Meister Eckhart e Jakob Bohme, alla lirica romantica e cimiteriale di Edward Yoing, passando per Shakespeare, Schlegel, Herder, Schiller, Fichte e Goethe.

Novalis è un autore immenso, fondatore del romanticismo, al quale però nelle antologie scolastiche di mezz’Europa ancora si continua a concedere poco spazio.

Quando in ore di tormentosa angoscia

il nostro cuore quasi si arrende,

quando sopraffatto dal male

il nostro intimo è roso dall’ansia

pensiamo ai nostri fedeli amati,

come miseria e cure li opprimano;

nubi limitano la nostra vista,

raggio di speranza non le passa:


Allora Dio si china su di noi,

il suo amore ci si avvicina,

allora desideriamo quell’altrove

in cui un angelo è accanto a noi,

reca il calice della vita giovane,

ci mormora conforto e coraggio;

e non invano allora imploriamo

pace per i nostri cari[9].

In Novalis il male incombe sempre dietro l’angolo, l’uomo è perseguitato costantemente da esso, che spesso all’ansia si accompagna. Il male non colpisce mai il singolo uomo, ma ingloba tutto il suo universo, i suoi affetti e i suoi cari. Le uniche figure salvifiche in un mondo luciferino sono Dio e la Madonna. La concezione luciferina di Novalis spesso si mischia a magia e occultismo. Qui troviamo un evidente richiamo al Graal, «calice della vita giovane»[10], nella concezione dei trovatori provenzali[11]. È proprio in questo periodo che in Germania si radicalizzerà il mito del Graal.  

In Novalis anche l’immaginazione e l’immaginifico permeano profondamente il suo poetare. L’immaginazione di Novalis è quella intesa fichteanamente, dove finito e infinito si compenetrano. Essa produce magicamente una sintesi finzionale, rappresentativa, indugiando nel conflitto, oscillando tra gli estremi e cogliendone sempre un sunto. Essa è l’unica a vedere realmente l’unità originale della coscienza, cioè l’Io. Novalis fu tutto questo: magia, occultismo, profondo credo e innovazione filosofica. Novalis fu il romanticismo.


[1] Per la biografia di Novalis si veda: G. Fontana, Novalis, Venezia, Marsilio, 2008.[2] Carl Christian Erhard Schmidt è uno dei primi divulgatori della filosofia kantiana.Nel 1778 si immatricola a Jena, dove studia teologia e poi anche filosofia (con Johann August Heinrich Ulrich, un filosofo molto interessato alla filosofia kantiana). Nel 1781 è precettore presso la casa del padre di Friedrich von Hardenberg, in arte Novalis. Nel 1782 è Hausmeister a Schauberg e nel 1784 ottiene l’abilitazione (Magister) anche in filosofia, titolo grazie al quale può insegnare all’università di Jena. Nel 1785 tiene per primo lezioni sulla Kritik der reinen Vernunft. Proprio come ausilio per i suoi studenti nel 1786, pubblica un commentario di questa opera cui aggiunge un breve glossario, che, ampliato, costituirà il dizionario kantiano. Dal 1785 collabora con Christian Gottfried Schütz alla «Allgemeine Literatur-Zeitung» una rivista pubblicata a Jena che contribuì fortemente a diffondere il pensiero di Kant. A Jena è in contatto con molti esponenti del romanticismo, ma anche con Schiller e Goethe. Nel 1787 è nominato vicario e ordinato sacerdote a Wenigenjena, paese in cui suo padre è parroco dal 1777. Il 22 febbraio 1790 celebra le nozze tra Friedrich Schiller e Charlotte von Lengfeld. Nel 1791 è, a trent’anni, professore di logica e metafisica a Gießen. Nel 1793 torna a Jena sempre come professore di filosofia e, nel 1798, diventa professore anche di teologia.

[3] Per la biografia di Schiller si veda B. Von Wiese, Friedrich Schiller, Stuttgart, Metzler, 1959.

[4] Johann Gottlieb Fichte (Rammenau, 19 maggio 1762 – Berlino, 27 gennaio 1814) è stato un filosofo tedesco, continuatore del pensiero di Kant e iniziatore dell’idealismo tedesco. Le sue opere più famose sono la Dottrina della scienza, e i Discorsi alla nazione tedesca, nei quali sosteneva la superiorità culturale del popolo tedesco incitandolo a combattere contro Napoleone.

[5] M. Freschi, Mito e utopia nel Romanticismo tedesco, in Atti del Seminario Internazionale sul Romanticismo tedesco, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1984.

[6] Novalis, Inni alla notte, Canti spirituali, Traduzione a cura di Susanna Muti, Milano, Feltrinelli, 2012.

[7] Novalis, Inni alla, cit., pp. 71-72.

[8] Novalis, Inni alla, cit., p. 147.

[9] Ivi, p. 141.

[10] Novalis, Inni alla, cit., p. 141.

[11] Durante i secoli centrali del Basso Medioevo (1100–1230), il trovatore (o trovadore o trobadore – al femminile trovatrice o trovatora o trovadora – in occitano trobador pronuncia occitana: era un compositore ed esecutore di poesia lirica occitana (ovvero di testi poetici e melodie) che utilizzava la lingua d’oc, parlata, in differenti varietà regionali, in quasi tutta la Francia a sud della Loira. I trovatori non utilizzavano il latino, lingua degli ecclesiastici, ma usavano nella scrittura l’occitano. Indubbiamente, l’innovazione di scrivere in volgare fu operata per la prima volta proprio dai trovatori, supposizione, questa, da inserire nell’ambiente di fervore indipendentistico locale e nazionalistico (vedi età dei Comuni, nascita delle Università, eresie e autarchie cristiane).


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“Il canto vuole essere luce. Leggendo Federico García Lorca” a cura di Lorenzo Spurio. Recensione di Franca Canapini

Il 2 gennaio scorso su http://www.granadahoy.com è apparso un articolo molto interessante del giornalista e scrittore spagnolo Andrés Cárdenas, intitolato “De García Lorca se hablará siempre”. Contiene una premessa in cui l’autore riflette sul rapporto simbiotico tra Granada e Lorca e, a seguire, ci racconta vari fatti tra i quali una storia molto intrecciata riguardante Agustin Penón, un americano che, recatosi a Granada tra il 1955 e il 1956, aveva raccolto una valigiata di informazioni su Federico García Lorca, pensando di scriverci un libro. Ma era morto e la valigia era passata di mano in mano, mentre Penón, che alla sua ricerca aveva sacrificato anche parte delle sue sostanze, era stato dimenticato. 

Questo per dire come e quanto il Poeta granadino sia stato e sia ancora un lievito potente per gli intellettuali di tutto il mondo: ¡De García Lorca se hablará siempre! Non ci dobbiamo dunque stupire della nascita nel 2020 di Il canto vuole essere luce (Bertoni, Perugia). Un libro di vari autori italiani, curato da Lorenzo Spurio e tutto dedicato a Lorca, artista eclettico e uomo di grande impegno sociale.  

Il curatore ci tiene a farci sapere che, pur avendo il libro la forma del saggio scritto a più mani, è di più, molto di più; è “un atto d’amore e di riverenza verso uno dei maggiori intellettuali che la letteratura mondiale ha mai visto: il poeta spagnolo Federico García Lorca”. Tanto che il titolo, consistente in un verso di Lorca, assume significato simbolico: il libro è il canto corale con il quale s’intende illuminare almeno in parte l’opera del Poeta.

Nel 2016 Lorenzo Spurio aveva riacceso il fuoco dell’interesse per Lorca, dando alle stampe Tra gli aranci e la menta, una plaquette di sue poesie dedicate al Granadino. Da quel momento, tramite contatti spontanei, altri poeti amici hanno aggiunto ottima legna al suo fuoco. E il fuoco è divampato in un’offerta corale di contenuti esegetici, di ritratti e di poesie. Il testo, infatti, è illustrato con ritratti del Poeta eseguiti dal Maestro Franco Carrarelli “L’Irpino” ed è diviso in due parti. 

La prima riporta i saggi con i quali gli aficionados indagano su molti aspetti del fenomeno Lorca.  Francesco Martillotto ci presenta il Lorca amante della musica e ottimo pianista, buon conoscitore della musica classica e della musica popolare che mette sullo stesso piano e riflette sull’interscambio felice tra musica e poesia nelle sue opere poetiche e di teatro. 

Lucia Bonanni ci mostra il Lorca amante delle tradizioni popolari della sua Andalusia, che saranno di fertile ispirazione per le poesie e il teatro. Affascina, anche nell’analizzare il surrealismo dell’opera teatrale El público, la sua ricerca dei significati metaforici e del valore dei simboli nella Parola del Poeta.

Cinzia Baldazzi cerca di penetrarne in profondità le peculiarità del linguaggio poetico: “…Immortale…è il loro mondo semantico e logico: immenso, popolato di ombre illimitate a latere di luci accecanti, provenienti da un’arcana fonte senza inizio e senza fine…”.

Lorenzo Spurio ci porta dentro “Tamar e Amnon” del Romancero gitano, indicandoci la denuncia sociale che sottende l’opera; ma anche in Poeta a New York dove la parola poetica s’incupisce nel denunciare la disumanità della metropoli, mettendone in risalto gli aspetti negativi. E per finire ci conduce nelle opere teatrali più importanti per analizzare i temi ricorrenti: la violenza, il disagio degli emarginati, la condizione della donna e i suoi diversi atteggiamenti nella lotta contro la sopraffazione variamente esercitata dal maschio.

Ugualmente interessante la seconda parte che assomiglia a un’antologia poetica ripartita in due sezioni. Nella prima sono raccolti alcuni dei compianti, odi e elegie scritti, subito dopo la tragedia dell’assassinio, da Antonio Machado, Rafael Alberti, Pablo Neruda e da vari esponenti della Generazione del ‘27, quasi tutte strazianti e bellissime a partire dal grido di Machado: “…que fue en Granada el crimen – sabed – ¡pobre Granada! – ¡en su Granada!…” fino allo sperdimento di Rafael Alberti che se lo vede tornare vivo in sogno: “Has vuelto a mí más viejo y triste en la dormida / luz  de un sueno tranquilo de marzo…”.

La seconda sezione accoglie voci di poeti contemporanei suggestionati dalla Parola del Poeta. Un florilegio di voci diverse che incuriosisce, commuove, rende vivo Federico, ne canta la tragedia, ne interpreta le sfumature dell’anima colte sia direttamente nei suoi testi poetici, sia indirettamente negli atteggiamenti dei personaggi del suo teatro. Testimonianza forte dell’amore che ha saputo generare e di quanto la sua parola può ancora incantare.  

Il canto vuole essere luce è un libro che offre molte informazioni di approfondimento sulla persona e gli interessi culturali, artistici e civili di Lorca; senza contare l’ampia bibliografia a cui attingere nel caso volessimo continuare a conoscerlo. Un libro tutto da “patire” per chi desidera entrare più a fondo nel suo universo delicato e sapiente, gioioso e drammatico, etico e propositivo. 

FRANCA CANAPINI

Arezzo, 10/01/2022


L’Autrice ha autorizzato alla pubblicazione su questo spazio senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. La pubblicazione del presente testo, in formato integrale e/o di stralci, non è consentita senza il permesso da parte dell’Autrice.

N.E. 02/2024 – “La poesia amorosa di Borges”, saggio di Dante Maffia

Circa una ventina di anni fa pubblicai un elzeviro su “La Nación” di Buenos Aires intitolato Borges, ricordando ai lettori di quel quotidiano la leggenda di un Borges mai esistito, pura creazione della stampa e dei mass media, entità spirituale inventata per mettere in risalto una certa Argentina popolata di fantasmi, di antenati nobili dal passato aristocratico e colto in cui specchiarsi. Per anni durante i suoi lunghi viaggi il poeta ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, perché, come ha confessato in una conversazione informale, non si rendeva conto se quella leggenda era nata per seppellirlo o comunque per toglierlo dalla circolazione. Ci fu perfino chi disse che assegnargli il Premio Nobel sarebbe stato assegnarlo al vento.

Naturalmente si è pensato anche che sia stato lui stesso a mettere in giro voci del genere e che la persona chiamata Borges fosse soltanto un prestanome pagato lautamente dalla Casa editrice Losada di Buenos Aires e dal Governo argentino. Chiacchiere infinite, che hanno contribuito a formare attorno alla sua vita un cumulo di voci, la maggior parte delle quali sono assurde dicerie, affermazioni gratuite e prive di senso.

Io ho conosciuto il poeta, in più d’una occasione, e anche se non mi ha mostrato la sua carta d’identità, ho avuto modo di ascoltare dalla sua voce aneddoti illuminanti per la comprensione della poesia, aforismi taglienti, giudizi lapidari. È l’atteggiamento “arrogante” che spesso hanno i geni, anzi è l’atteggiamento semplice e diretto che mostrano senza veli, convinti che basti affermare, senza spiegare, senza soffermarsi a “giustificare” criticamente il frutto delle loro argomentazioni.

Insomma, di Borges si è detto di tutto; attorno a lui s’è creata una scia di considerazioni e di illazioni che sempre più si allarga, soprattutto perché, come sostiene Luigi Baldacci, a forza di non essere letto è diventato un classico.

Se contiamo il numero delle pagine pubblicate (sono circa tremila), ci rendiamo conto che la sua produzione non è immensa, ma se diamo uno sguardo alle tematiche affrontate si resta stupefatti: i suoi sconfinamenti sono sterminati, le sue indagini vaste. Dalla letteratura latina a quella americana, da quella tedesca a quella inglese, da quella spagnola a quella italiana. Molto acuti e preziosi i suoi scritti su Dante.

In questa vastità di interessi Borges ha avuto anche il tempo per l’amore, per scrivere poesie d’amore. Poche, in verità, che non cantano le lodi della donna se non per rapidi lampi, ma quasi sempre mettono l’accento sulla sua assenza, su ciò che ormai è avvenuto. Tutto perciò vive nel ricordo, con lucidità e precisione. Chi si aspettasse una poesia d’amore che sospira, che rincorre il mai o il sempre degli innamorati, non trova che la pienezza di un perenne presente. Si può dire, a un primo impatto, che l’amore per lui sia atto di assenza, perdita a cui pensare dopo, recupero della memoria di un tempo che forse non è felicità, ma sicuramente incanto vissuto nella normalità, momento magico di un tratto di strada compiuto e chiuso, e rimasto a significare una certa cosa di cui però si ha contezza dopo, soltanto dopo.

Questa è la prima impressione, l’impatto. Anche grazie all’insistenza di ocaso e di ausencia che pare vogliano siglare la condizione umana in genere dell’amore.

È come se Borges non potesse e non volesse parlare dei suoi rapporti con la donna, tenerli soltanto per sé. A volte, all’interno di testi che parlano di Buenos Aires o d’altri luoghi e d’altri argomenti, c’è un accenno, una indicazione, ma si tratta di momenti in cui sembra “costretto” a farlo per evitare che la composizione perda la sua circolarità.

Che cosa abbia contribuito a questa sua “riservatezza” è difficile dirlo, è certo che egli pone l’amore oltre i confini della quotidianità, come una luce che inonda e fugge lasciando poi un luogo incontaminato a cui fare riferimento soltanto in poche occasioni.

Nella raccolta d’esordio, Fervore di Buenos Aires, la prima lirica d’amore che incontriamo si intitola proprio Assenza. Sono diciotto versi che vale la pena di leggere per rendersi subito conto di come egli vede la donna, come la sente, come la vive o l’ha vissuta:

“Dovrò rialzare la vasta vita

che ancora adesso è il tuo specchio:

ogni mattina dovrò ricostruirla.

Da quando ti allontanasti,

quanti luoghi sono diventati vani

e senza senso, uguali

a lumi nel giorno.

Sere che furono nicchie della tua immagine,

musiche in cui sempre mi attendevi,

parole di quel tempo,

io dovrò formularle con le mie mani.

In quale profondità nasconderò la mia anima

perché non veda la tua assenza

che come un sole terribile, senza occaso,

brilla definitiva e spietata?

La tua assenza mi circonda

come la corda la gola

il mare chi sprofonda”.

Cominciamo col dire che non abbiamo indicazione di nomi, né di sembianze e che non c’è il minimo cenno al desiderio, alla sensualità, al vortice che ingorga di solito l’anima e il corpo e fa disperare “l’amore nel cuor dell’uomo”. Tutto è detto con la massima semplicità e con la massima oggettività. Sembra che egli parli di un uomo qualsiasi, non di se stesso, eppure dentro le parole si sente il gorgogliare di una ferita insanabile, mai minimamente rimarginata, tanto è vero che l’assenza è “come un sole terribile”, senza tramonto, che brilla crudele e malvagio. Anche la dolcezza degli incontri è figurata con una immagine indiretta efficace e davvero alta: “musiche in cui sempre mi attendevi”.

Più o meno negli stessi anni Vincenzo Cardarelli in Italia scriveva una poesia intitolata Attesa, ma in questa l’assenza è riferita a un appuntamento mancato. In Borges invece l’assenza diventa un fiorire attivo di ricordi che si materializzano e fanno male. E nonostante che egli non amasse troppo la poesia spagnola, qui ne troviamo echi che poi saranno soprattutto di Pedro Salinas, oltre che di Aleixandre.

Nella stessa raccolta troviamo una poesia intitolata Sabati, con la dedica a C. G. Non sappiamo chi sia, ma le quattro parti che compongono la lirica sono scandite con accenti direi musicali, ritmati con forza, siglati inizialmente sempre dall’occaso (“Fuori c’è un occaso, gioiello oscuro / incastonato nel tempo”) e conclusi con una immagine che investe le corde più sottili dell’uomo e una coralità che scaturisce da lontane nostalgie di assoluto: “Sempre, la moltitudine della tua bellezza”; “In te sta la delizia / come sta la crudeltà nelle spade”; “Nel nostro amore c’è una pena / che somiglia all’anima”; “Tu / che ieri soltanto eri tutta la bellezza / sei anche tutto l’amore, adesso”. A differenza però della precedente poesia, qui troviamo una indicazione precisa del corpo: “il biancore glorioso della tua carne” e troviamo quindi un Borges che fa una deroga alla sua pudicizia, al rispetto assoluto che ha della donna, perché “biancore” è una immagine solare priva di qualsiasi tentazione, del minimo riflesso di sensualità.

Il poeta e scrittore argentino Jorge Luis Borges

Ho cercato di individuare in tutta la produzione elementi che mi suggerissero dati illuminanti della sua poesia amorosa, ma Borges non è disposto mai a denudarsi, a mettere in piazza le sue illusioni e i suoi languori, le sue accensioni e il suo essersi perduto nelle braccia di una donna. Parsimonioso sempre, oculato nella scelta dei vocaboli, con un rigore che ci riporta all’essenzialità dei classici greci e latini. Infatti in Trofeo, in cui si racconta di un giorno intero trascorso con una lei possiamo soltanto apprendere questo dato: “io fui lo spettatore della tua bellezza”, informandoci che dopo sarebbe subentrata, in un modo molto particolare, ancora e sempre l’assenza. Insomma, spettatore della bellezza come lo si può essere di una cascata, di un prato fiorito, di una tela importante al museo.

La poesia d’amore successiva che incontriamo, sempre in Fervore di Buenos Aires, è Congedo. Anche in questa riappare la parola assenza: “Definitiva come un marmo / rattristerà la tua assenza altre sere”. Ecco, la donna nel ricordo è diventata come un marmo definito e ineluttabilmente fermo, chiuso nel rigore di una struttura immutabile, quindi, ancora una volta, immagine di un repertorio conservato nel suo fulgore oggettivo.

Due anni dopo, il 1925, Borges pubblica Luna di fronte, che con poche modifiche viene ristampato nel 1969. Borges ricorda che “Verso il 1905, Hermann Bahr decise: ‘L’unico dovere, essere moderno’. Più di vent’anni dopo, mi imposi anch’io questo obbligo del tutto superfluo. Essere moderno è essere contemporaneo, essere attuale; tutti fatalmente lo siamo. Nessuno…ha scoperto l’arte di vivere nel futuro o nel passato”. A volte il poeta sembra tautologico, ma bisogna stare attenti, perché egli in questo modo apparentemente innocuo, piano ed elementare, cerca di sbrogliare la matassa di eterni enigmi che diversamente si alzerebbero come un muro dinanzi alla nostra comprensione. Insomma, egli afferma e affermando nega e negando sposta l’asse della verità in direzione di una logica che da sé entra nel gioco oscillante del possibile e svela, per similitudine o per improvviso rigetto dell’ossimoro, tutta la sapienza del dettato. In Amorosa anticipazione vediamo infatti che Borges apre i primi tre versi con una negazione (finora in poesia si aveva soltanto l’esempio di A Zacinto di Ugo Foscolo inciso con una simile determinazione forte e perentoria – “Né più mai toccherò le sacre sponde”) che vuole mettere in risalto il “come guardare il tuo sonno implicato / nella veglia delle mie braccia”. Adesso abbiamo, finalmente una “fronte chiara come una festa” – simile a un verso bellissimo di Alfonso Gatto: “Ti perderò come si perde un giorno chiaro di festa”, e abbiamo “l’abitudine del tuo corpo”, ma la donna diventa proprio per questo “Vergine miracolosamente un’altra volta per la virtù assolutoria del sonno”. E così si ritorna a immagini scultoree, poste a guardia della memoria e il poeta si pone come un cenobita che contempla e lo fa “come Dio deve vederti, / sbaragliata la finzione del Tempo, / senza l’amore, senza di me”. Dunque più che una poesia d’amore si tratta di una poesia religiosa, la cui spiritualità, ancora una volta è nell’assenza dell’amore, addirittura di se stesso, in modo che la donna diventi puro spirito distaccato dagli elementi terrestri, dalla umanità calda e dalla quotidianità.

Che cosa può significare tutto ciò? Come mai Borges ha questo atteggiamento rigido che porta inesorabilmente alla negazione o al vagheggiamento del bene che nella memoria diventa perfino atto straordinario e però privo di un significato legato al rapporto uomo donna, amore e morte? Che cosa significa questo suo sterilizzare sentimento ed emozione, corpo e anima in un flusso di sottile e imprendibile proiezione figurativa? Siamo al di là di qualsiasi romanticismo, di qualsiasi nota decadente, passionale, accesa, carica di sogno o di possibilità, al di fuori di qualsiasi regola canonica, fuori dalla portata degli stereotipi, ma anche al di fuori di connotazioni che abbiano agganci e diramazioni di carattere storico inteso in direzione della tradizione,  e proprio grazie all’utilizzo della memoria poetica e letteraria che si corrobora di assonanze e di verità più di carattere filosofico anziché strettamente poetico, con una punta di intellettualismo, che egli riesce a rendere lievitato, coinvolgente, come se fosse frutto di una emozione che investe la totalità della persona umana, come se la donna non fosse corpo e calore, ma segno intoccabile di una astrazione onirica.

Subito dopo troviamo un’altra composizione intitolata Un congedo. Perché prima Congedo e adesso Un congedo? Borges non adopera le parole mai casualmente e anche un articolo indetermonativo ha il suo peso nell’economia di una interpretazione. Un congedo perché ci sono infiniti modi di dirsi addio, e infinite maniere di leggere la realtà che sempre si presenta per sineddoche e pretende tuttavia di diventare verità assoluta, unica.

L’amore è concepito come un rapporto che scava l’addio. Anche qui per tre volte, come in una giaculatoria, abbiamo la sera, e addirittura abbiamo un riferimento a “le nostre labbra nella nuda intimità dei baci”, ma pare che niente serva a protrarre la meraviglia degli incontri già deteriorati dalla presenza costante della sera e poi dalle lacrime di lei.

“Sera che dura vivida come un sogno

tra le altre sere.

Dopo io raggiunsi e superai

notti e navigazioni”.

Mai una promessa, mai una parola di passione, un abbandono, una esaltazione, un pensiero torbido, accecante, irrazionale e anche quando ci racconta, in La mia vita intera, il percorso e la dimensione del suo credo, hanno una sola espressione nei confronti della donna: “Ho amato una ragazza altera e bianca e di una ispanica quiete”.

A parte l’incomprensibile “ispanica quiete” (sappiamo tutti quanto focose e appassionate, sensuali e calde siano le donne spagnole) devo confessare che leggendo per la seconda volta l’aggettivo bianco, riferito alla donna, ho avuto un momento di perplessità. Il bianco è l’assillo della follia, l’illibatezza, la grazia, ma soprattutto l’assenza (!) o la somma dei colori. Secondo la simbologia si colloca all’inizio o alla fine della vita diurna e del mondo manifestato, il che gli conferisce un valore ideale, asintotico, tendente cioè ad avvicinarsi a qualcosa senza mai raggiungerla. Ma, come dicevo, mi ha lasciato perplesso anche la “ispanica quiete” della ragazza non solo per la connotazione che esula da qualsiasi riferimento se uno pensa alla donna spagnola roteante in una frenetica danza di flamenco, ma anche per l’avvertimento a voler ribaltare i luoghi comuni a tutti i costi.

Dunque, che cosa pone Borges in questa posizione asettica che lo fa concludere così: “Credo che le mie giornate e le mie notti eguaglino in povertà e in ricchezza quelle di Dio e quelle di tutti gli uomini”. Una maniera sibillina di appiattire la presenza della donna, di porla al di là del bene e del male e renderla una creatura che in qualche modo è appena una ruota di scorta dell’uomo, anche quando ama, anche quando diventa lontananza e ricordo che ci accompagna, cioè ancora e sempre assenza?

Che Borges sia stato misogino e nessuno se n’è mai accorto? Certo è che per trovare un’altra poesia d’amore bisogna arrivare a L’altro, lo stesso del 1964. E proprio in una delle liriche intitolate 1964 troviamo ancora una volta, però, il perenne motivo del suo mondo amoroso, le stesse note dolenti dell’addio e dell’assenza:

“Addio alle mutue mani, addio alle tempie

Che amore avvicinava. Non hai più

Che il fedele ricordo e i vuoti giorni”.

E proseguendo leggiamo, più oltre:

“Un oscuro miracolo si cela:

La morte, un altro mare, un’altra freccia

Che ci fa liberi da sole e luna

E dell’amore. Il bene che mi desti

E mi togliesti devo cancellarlo;

Ciò ch’era tutto dev’essere niente.

Solo mi resta il gusto d’esser triste,

L’abitudine vana che m’inclina

Al Sud, a quella porta, a quel cantone”.

Quattro anni dopo, 1969, esce Elogio dell’ombra. Qui avvertiamo una ulteriore rarefazione del tema, starei per dire l’assenza se non fosse per accenni come “… e tra le pagine appassita / la viola, monumento d’una sera / di certo inobliabile e obliata”; oppure, quaranta pagine dopo: “È il giorno in cui lasciammo una donna e il giorno in cui una donna ci lasciò” e altre venti pagine dopo: “le donne son quello che furono in anni lontani”.

Poesia misteriosa quella di Borges, ma che pone molte domande al lettore avido di conoscere che cosa si cela nella sua anima sempre avida e così poco propensa a parlare d’amore. Anche L’oro delle tigri è privo di poesie che trattino l’argomento amoroso. Sì, ci sono sei “Tanka” che fanno pensare alla parvenza, all’idea di donna e niente altro. Poi bisognerà arrivare a La moneta di ferro, del 1976, per avvertire un altro piccolo cenno:

“Che cosa non darei per il ricordo

Di te che m’avessi detto che mi amavi,

E di non aver dormito fino all’aurora,

Straziato e felice”.

o per leggere la breve poesia dedicata a Maria Kodama, l’ultima sua compagna di vita. Ma anche questi versi non sono allegri o passionali:

“C’è tanta solitudine in quell’oro.

La luna delle notti non è luna

Che il primo Adamo vide. I lunghi secoli

Dell’umano vegliare l’han colmata

D’antico pianto. Guardala. È il tuo specchio”.

Poi, ne La moneta di ferro si legge, proprio nella poesia eponima: “Perché è necessario a un uomo che una donna lo ami?”.  Niente altro. E nella successiva raccolta, Storia della notte, del 1977, Endimione a Latmo è un confronto letterario perché non possiamo non sentire il peso della letterarietà di versi come: “Oh le pure guance che si cercano, / Oh fiumi dell’amore e della notte, / Oh bacio umano e tensione dell’arco”. Anche La felicità, che fa parte de La cifra, del 1981, non trascina, non fa sentire il fiato caldo né le accensioni che portano a considerare l’amore nelle forme a cui siamo abituati, negli eccessi e negli incanti che conosciamo:

“Sia lodato l’amore che non ha né possessore né posseduta, ma in cui entrambi si donano.

Sia lodato l’incubo che ci rivela che possiamo creare l’inferno”.

Lo stesso si dica de L’inferno che ripercorre la storia dantesca di Paolo e Francesca e di qualcuno degli haiku, molto felici e luminosi, ma privi di quel fulgore acceso e demente che dovrebbe accompagnare la poesia amorosa.

Qualcosa gli sfugge ne I doni, del 1984, e qualcosa ne Il labirinto (“Maria Kodama e io ci perdemmo quel mattino e seguitiamo a perderci nel tempo, quest’altro labirinto”), ma non sentiamo una voce che rincorre sogni, che li proietta, che li codifica, li dilata, li accende, li uccide, li spande a piene mani. Come abbiamo visto, tutto è chiuso all’interno di quell’assenza di cui parla all’inizio; il resto è un esercizio altamente letterario, che fa pensare a un uomo desolato, con l’anima posta in equazione con la mente, e tutto preso dai problemi del tempo, dello spazio, della morte, della vita, degli specchi, della cecità. Quello della cecità è stato un argomento vissuto sulla sua pelle, che forse sentiva dentro, tra l’altro, perché da giovane studiò Milton, Il paradiso perduto, al quale, secondo me, deve moltissimo, molto più di quanto si pensi, e che amò anche per la medesima condizione umana, per la precoce cecità. Ma questo è un altro argomento.

La poesia amorosa di Borges sembra priva di vita, perfino di effettivo dolore, anche quando egli si trova nella condizione dell’assenza e dell’addio, quando ripercorre i lontani momenti dei suoi innamoramenti, del suo matrimonio con Elsa. Sentite che cosa risponde a Giuseppe Centore in una intervista pubblicata nel 1984 su L’amanuense di Borges: “D: È vero che una delle ragioni per cui il suo breve e tardivo matrimonio fallì fu il fatto che sua moglie Elsa non sognava?” – R.: “O forse, chissà, si vantava di non sognare. Veniva da una famiglia in cui era proibito il nonsense, il fantasticare. Comunque mi son detto: se lei non sogna sono perduto”. E più avanti: D: “C’è chi sostiene che nella sua vita non c’è amore” – R: “Si sbaglia. Non sa che io scrivo per distrarmi dall’amore”. Due risposte che ci illuminano sul suo atteggiamento nei confronti della donna. Del resto uno dei libri che Borges ha maggiormente amato, e per il quale ha scritto una magistrale e dotta introduzione, è stato Micromegas di Voltaire, che così comincia: “Memnon concepì un giorno il progetto insensato d’essere perfettamente saggio. Non c’è uomo al quale questa follia non sia passata qualche volta per la testa, Memnon si disse: ‘Per essere saggissimi, e di conseguenza felicissimi, basta non avere passioni; e nulla è più agevole, come si sa. In primo luogo, non amerò mai una donna, poiché, vedendo una bellezza perfetta, dirò a me stesso: quelle guance un giorno diventeranno rugose; quei begl’occhi saranno orlati di rosso; quella bella testa diventerà calva. Ora non devo far altro che vederla fin da questo momento con gli stessi occhi con i quali la vedrò allora, e sicuramente quella testa non farà girare la mia”.  Mi pare evidente che non ha voluto e non è riuscito a imparare, come ha scritto Mandel‘stam, “la scienza degli addii”, e nemmeno quella dell’assenza, visto che la canta come una reliquia, come avvenimento estraneo, e visto che nella bellezza intravede subito il disfacimento. Forse la colpa è del suo eccesso di intellettualismo che in questo caso non è riuscito a diventare lievito essenziale di stupore e allora mi viene spontaneo ripetermi la domanda: “che Borges sia stato davvero un misogino?”.  Magari dopo la delusione di Elsa che si è portato appresso per tutta la vita come una condanna e una ferita che non gli ha permesso di uscire dal suo “rancore”?

Non lo sapremo mai, anche perché poi altre donne lo hanno amato e Maria Esther Vasquez e Maria Kodama lo hanno adorato e servito fino alla morte.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“L’impronta lorchiana nella poetica di Emanuele Marcuccio”. Saggio di Lorenzo Spurio

Nel periodo immediatamente successivo alla diffusione della notizia della fucilazione del poeta granadino Federico García Lorca, avvenuta nell’agosto del 1936 nella campagna sterrata tra Víznar ed Alfacar, un gran numero di intellettuali, soprattutto di nazionalità spagnola e che avevano avuto l’opportunità di averlo conosciuto di persona e non solo tramite i suoi scritti, come oggi è dato a noi posteri, scrissero e dedicarono liriche, più o meno intimiste, talora aggressive e sfiduciate verso l’abominio della guerra civile, tal altra incentrate sugli sprazzi di amicizia rievocati nella tragica occasione. Tra di loro Antonio Machado, celebre per le raccolte poetiche Campos de Castilla e Soledades nelle quali è possibile rintracciare una pagina vivida di alcune tra le più importanti tendenze di inizio secolo scorso: il novecentismo e il modernismo.

Antonio Machado, che apparteneva a una generazione precedente a quella di Lorca, e ad un ambiente regionale profondamente diverso dall’Andalusia torrida e fiera dei romances di Lorca, ossia quello della Castiglia autentica, di quello scenario castizo nel quale la tradizione ci dice che fu culla della lingua e della cultura castigliana prima e spagnola poi, dedicò al granadino scomparso la celebre poesia “El crimen fue en Granada” volendo intendere con Granada non tanto la città dove pure Lorca con la sua famiglia visse per vari anni ma, come si dice in spagnolo, el entorno, ossia la zona di provincia ad essa prossima dove, appunto, secondo le documentazioni più attestate, avrebbe trovato la morte. Il condizionale è d’obbligo perché dalla data della sua fucilazione, modalità dell’esecuzione sulla quale gran parte degli storici sono concordi quasi da descrivere una posizione unanime, sino ad oggi si è prodotta una grande quantità di testi improntati a una resa biografica delle vicende di Lorca e vere e proprie cronache documentarie fatte di investigazioni, repertazione di materiali e tanto altro per cercare di poter scrivere in maniera più verosimigliante alla realtà quanto di drammatico accadde.

La stampa spagnola ha llevado a cabo, ossia ha portato avanti, nel corso degli anni e in maniera sempre più attenta e scrupolosa in tempi a noi più vicini, un particolare interesse documentario verso gli ultimi istanti della vita dell’uomo, del luogo del suo assassinio (ancora dibattuto e non localizzato con certezza) e soprattutto del seppellimento. Persistono, infatti, considerazioni diverse in merito al luogo di sepoltura che negli ultimi anni alcuni gruppi ideologici che conservano la memoria del poeta sono giunti alla richiesta di scavo di alcune delle zone identificate con i materiali documentari per provvedere all’esumazione del corpo ed, eventualmente, ad esami del DNA. Ma tale direzione delle ricerche storiche, che debbono essere necessariamente condotte per poter far chiarezza e cancellare la possibilità della formulazione di piste revisioniste che ne infangherebbero la memoria, è stata ben presto sbarrata dalla famiglia García Lorca quando decise di non dare il consenso all’esumazione dei possibili resti del congiunto per motivazioni di carattere personale.

Alcuni studiosi hanno anche avanzato la possibilità che Federico García Lorca in effetti non si troverebbe sepolto in qualche recondito spazio della campagna andalusa dato che uno dei suoi ultimi amanti, l’uruguayo Enrique Amorim, grazie alle sue fornitissime possibilità economiche avrebbe provveduto alla traslazione (o al vero e proprio furto?) della salma fatta arrivare sino a Salto (Uruguay) dove oggi sarebbero conservate le sue ossa in una cassa murata all’interno del monumento in onore a Lorca. Posizione questa che ha avuto poca eco e che non è mai stata accreditata sebbene lo scrittore peruviano Santiago Roncagliolo abbia deciso di dedicare un intero volume, con documenti alla mano, a sostegno di questa tesi[1]. Senza ombra di dubbio restano documentati l’affetto e l’amore di Lorca per Amorim al quale dedicò pure dei bozzetti e con ampia probabilità una serie di poesie che hanno finito, poi, per costituire la raccolta di Poemas del amor oscuro, ma reputo azzardata (pur non avendo letto il volume di Roncagliolo) la sua posizione soprattutto alla luce di una impraticabilità dell’esumazione dei resti avvenuta in sordina dalla famiglia, dagli enti locali e dalla Spagna tutta.

Ma per ritornare ad Antonio Machado nella lirica citata ci troviamo dinanzi a una elegia che utilizza un tono indignato con parole dure, tese a fotografare l’attimo di dolore catturato nella viltà della fucilazione: Mataron a Federico / cuando la luz asomaba. / El pelotón de verdugos / no osó mirarle a la cara […] / Muerto cayó Federico / -sangre en la frente y plomo en las entrañas[2].

Il pianto che parte da Granada, dal luogo del tragico misfatto, si fa nazionale, internazionale e cosmico abbracciando quanti hanno indefessamente difeso l’ideologia repubblicana (democratica) contro il franchismo (il totalitarismo). Il dolore è pungente, totalizzante e disarmante, privo di retorica e le descrizioni lapidarie di Machado sono altamente visive, tanto che riusciamo a veder scorrere sotto ai nostri occhi le immagini dell’abominio.

La seconda strofa del carme luttuoso che si intitola “El poeta y la muerte” è come un lento passaggio su uno stradello che ci incammina al camposanto. Il poeta ora non è più in compagnia del nemico, del torturatore, dell’annientatore delle libertà ma al contempo non è neppure solo: Machado trasmette qui un ultimo accorato tentativo dialogico di García Lorca; quasi non accettando la sua dipartita fa ancora parlare l’amico Federico in uno squarcio di conversazione profondamente lirica in cui il poeta appena deceduto si intrattiene con la Morte. Il crimine, come recita il titolo della poesia, accadde a Granada ma esso fu pianto in ogni angolo del mondo.

Pablo Neruda, con il quale García Lorca strinse una conoscenza piuttosto importante per entrambi durante gli anni di frequentazione della Residencia de Estudiantes a Madrid in una lirica a lui dedicata (prima della sua morte) lo definiva in maniera alquanto poetica con l’espressione sintetica di un naranjo enlutado[3] ravvisando nel Granadino sia la componente più primitiva, naturalistica e popolare caratterizzante la sua appartenenza all’Andalusia, terra di zagare e profumi speziati, sia una infelicità o una turbolenza di fondo nell’animo del poeta (forse dovuta dalla critica situazione politica venutasi a creare in Spagna con l’avvento della guerra civile e il fatto che venisse stigmatizzato dalla cultura ufficiale o ancora la sua condizione di omosessuale di certo non apprezzata né consentita dalla società ultra-moralizzatrice del periodo).

Queste sono solamente due delle testimonianze alla memoria di García Lorca che debbono necessariamente essere tenute da conto quando ci si avvicina alla sua poliedrica personalità come avviene in questo caso in cui l’amico e poeta palermitano Emanuele Marcuccio pone alla mia attenzione due liriche ispirate e dedicate al poeta granadino. Sono poesie già di mia conoscenza sia per averle apprezzate in lettura, sia per averle commentate in almeno una presentazione dei libri dell’autore ed anche per essermi occupato delle relative traduzioni in spagnolo.


Per uno come Emanuele Marcuccio che si è formato sui classici ed ha amato instancabilmente la poesia tradizionalista, si veda Leopardi, anima d’influenza notevole nella sua prima produzione e poi Pascoli e Carducci, aver posto l’attenzione nei riguardi di Federico García Lorca è cosa già di per sé notevole: sia per aver allargato lo sguardo verso una letteratura straniera, sebbene sia praticamente “sorella” di quella italiana, sia nello specifico per essersi interessato alla figura di un intellettuale come quello di García Lorca che ha al suo interno un universo di mondi tutt’altro che tradizionalisti e canonici. Di García Lorca in questi suoi due componimenti a Marcuccio non interessa tanto la sua produzione poetica (che dimostra, comunque, di conoscere per la scelta azzeccata e consona di alcune terminologie e simboli) né quella teatrale (García Lorca fu uno dei maggiori drammaturghi del secolo scorso, influenzato nel suo teatro da varie ispirazioni: dal surrealismo al comico-burlesco, sino alla serie dei drammi rurali, nonostante in Italia il suo nome venga richiamato spesso unicamente in relazione alla sua attività poetica), ma un evento determinante della stessa componente biografica dell’uomo: la sua morte.

García Lorca morì nel 1936, nell’anno che detta l’inizio di una dolorosissima guerra civile dove i repubblicani si scontrarono contro la frangia nazionalista dei militari appoggiati anche dai monarchici, dai carlisti e dalla Chiesa. Le tante battaglie che infuocarono il paese non furono solo dettate da una strenua difesa delle rispettive ideologie ma riguardarono per l’appunto anche la dimensione religiosa tanto che esponenti del bando repubblicano (socialisti, comunisti, anarchici, laici) provvidero anche a una serie di attacchi, saccheggi e distruzioni di luoghi religiosi con un gran numero di preti massacrati e giustiziati in processi sommari.

Chi conosce l’universo poetico di García Lorca sa che esiste nella sua visione del mondo una dimensione religiosa, un Dio, spesso insito nell’ambiente che lo circonda sebbene eviti di appellarsi a lui, di invocarlo o di pregarlo in una maniera che ci consentirebbe di definirlo una persona animata da un sentimento cattolico. Sappiamo anche che dal punto di vista ideologico e per il suo serio impegno nel sociale che lo portava sempre a schierarsi in prima linea per la difesa e la tutela dell’emarginato, il poeta si collocava all’interno della dimensione anti-militare, anti-nazionale. I nazionalisti, strenui difensori di un concetto di moralità intoccato e devoti al potere dell’onore, si scaglieranno duramente contro García Lorca ritenuto un rojo pericoloso perché persona con un grande seguito e portavoce di ideali repubblicani, democratici.

Ed è così che poco dopo le attività del teatro itinerante “La Barraca” ideato assieme ad Eduardo Ugarte sono stroncate e messe a tacere del tutto perché Lorca viene a rappresentare per i nazionalisti una spia comunista, un acerrimo nemico, profondamente temuto proprio per le grandi masse che lo apprezzano e lo seguono. Qualcosa di simile avverrà con la messa in scena dell’opera teatrale Yerma nella quale Lorca mette in scena la storia di una donna che, a causa della sua infertilità e della anaffettività e trascuratezza del marito, finirà per perdere la testa e rendersi colpevole di uxoricidio. Nell’opera, al di là del tragico epilogo, la finalità era quella di diffondere e inscenare un universo domestico in cui la donna (che nella visione dei nazionalisti deve essere assoggettata all’uomo, l’unico padrone, perché ad egli è inferiore) non solo non accetta i divieti coniugali che le impongono di essere relegata in casa e di non intrattenere conversazioni con nessuno, ma addirittura si arma della propria forza fino ad allora repressa ed affronta, con violenza, il marito, fino a vincerlo e ucciderlo. Sono contenuti, questi, estremamente pericolosi che mettono in scena un ribaltamento sconveniente per i nazionalisti nel modo di intendere la famiglia spagnola: non più il patriarca o padre-padrone che comanda e la donna che esegue, ma la donna che, stanca e sfiduciata, razionalmente portatrice di una visione ugualitaria, cerca ed ottiene l’equiparazione dei sessi, smitizzando i pilastri della società retrograda.

Perché García Lorca viene assassinato? È presto detto: perché è una persona temuta e fastidiosa per il neonato regime totalitario, perché è portavoce di ideali repubblicani nutriti dalla difesa della democrazia e dal rispetto delle libertà, perché è un intellettuale di spicco con una grande presa sulla società, perché con la sua letteratura (il teatro itinerante “La Barraca” e la trilogia drammatica) è portavoce di una società provinciale retrograda e dispotica in cui la donna è considerata inferiore, perché sfida lo stringente concetto di onore di impronta settecentesca, lo minaccia, lo de-costruisce e ne mette in luce le idiosincrasie nel suo periodo; perché è omosessuale e in quanto tale portatore di una stravaganza di fondo che non collima con la rettitudine e l’austerità del pensiero anti-liberale dei nazionalisti difensori dell’idea del “sesso forte”.

Ma non è solo questo, infatti in tempi a noi più recenti alcuni studiosi hanno voluto leggere nell’omicidio di Lorca non il motivo ideologico-politico ben noto a tutti, quanto, invece, un terribile episodio di vendetta, un regolamento di conti tra esponenti di famiglie storicamente avversarie nella Vega[4] granadina. In particolare è Miguel Caballero Pérez il difensore di questa tesi che viene esposta in maniera documentata nel suo recente libro nel quale non manca di portare episodi concreti di animosità e vere e proprie lotte familiari per il controllo e il prestigio nella zona.[5] Questo per dovere di cronaca per quanti vorranno effettuare maggiori letture ed analisi in tale direzione ben tenendo in considerazione, comunque, che a tutt’oggi la pista più creduta e credibile, data per ufficiale, sia quella che vide Lorca assassinato per ragioni ideologiche (la sua adozione alla Repubblica) e per oscenità/discredito della morale (la sua omosessualità).

Per tornare ai componimenti di Emanuele Marcuccio è necessario osservare come il linguaggio tendenzialmente rilassato del poeta si faccia in queste liriche fortemente spietato, condensato nelle immagini e pregno di desolazione. In “Assassinio: Terzo omaggio a García Lorca”[6] (poesia scritta il 18 dicembre 1997):

Putrida vena,

d’un orizzonte disseccato.

I nardi esplorano

il loro chiacchiericcio inconsueto,

e nuvole di fango inondano

coi loro piombi infuocati.

Un’alba azzurra

si stende solitaria

su ambiguo crocevia,

e un riverbero di verde luna

si accende, su occhi di fumo.

Marcuccio esordisce con un verso forte dal quale traspare vivida una suggestione olfattiva nauseante collegata da subito al tema della corporeità e del sangue (una delle immagini-simbolo nella produzione di García Lorca): “putrida vena”. Il Nostro però sembra volersi interessare qui, più che al fermo immagine di una scena di guerra in cui la morte è fagocitata dal processo di decomposizione del corpo che produce un olezzo “putrid[o]” alla definizione del paesaggio, cioè al tratteggiamento del locus che ospita la nefanda azione umana. È quello di uno scenario abbandonato, stepposo, arido e apparentemente privo di presenze umane; quell’ “orizzonte disseccato” è uno spazio-trappola nel quale il Sole, unico indiscusso sovrano e il silenzio dei campi sembrano eludere ogni altra presenza che, invece, si farà viva e in maniera alquanto sadica nel corso della lirica.

L’occhio del Marcuccio si posa con meticolosità negli “angoli” di quella campagna che apparentemente è una campagna comune e che non ha nulla di particolarmente rilevante se non fosse che i nardi (fiori che pullulano di vita nelle poesie lorchiane[7]) vengono colti nel loro “chiacchiericcio inconsueto”. Sono i primi testimoni del massacro, la natura è pavidamente spettatrice dell’abominio che di lì a poco si consumerà dinanzi ai propri occhi, impotente e addolorata essa stessa. Le “nuvole di fango”, se si eccettua il verso d’apertura, è la prima immagine perturbante che interviene nella lirica a descrivere un cielo coperto e minaccioso, ben diverso da quel sole accecante che il lettore ha potuto cogliere, non nominato, nei precedenti versi che descrivevano un “orizzonte disseccato”.

Inizia in questo modo la parabola degradante della poesia: Marcuccio costruisce in primis con soverchia attenzione il setting dell’azione passando poi a connotarne con particolarità alcuni degli elementi che lo compongono sino a che il cielo sembra abbuiarsi di colpo e farsi di “fango”, indistinto, melmoso, viscido e pesante; il grigiore vacuo del cielo lascia ben presto il posto a quello ben più doloroso delle munizioni d’artiglieria colte nel momento del fuoco.

Il silenzio della campagna, prima armonizzato dalla presenza di un lieve “chiacchiericcio” dei nardi, ora è rotto per sempre in maniera irreparabile. I “piombi infuocati” sono stati azionati e hanno colpito i bersagli[8]. È il momento della morte fisica del poeta, della sua caduta scomposta a terra, faccia sull’erba secca, della fine delle speranze e al contempo un ammutinamento della natura che, indifesa e oltraggiata, non è capace di osservare il sangue che cola a terra.

La poesia è sapientemente costruita tenendo in considerazione un’ampia realizzazione temporale che si delinea in un prima della fucilazione e in un dopo. Il post-mortem lorchiano è investito da una “alba azzurra” che ha perso, però, la coralità autentica della natura e il conforto del cantore del popolo e infatti essa appare “solitaria” quasi da stonare con quella scena di morte che si è consumata nelle ore precedenti sotto di essa.

Tutto a questo punto resta galleggiante nell’indefinitezza, nell’impossibilità di caratterizzazione, ora che è morto il poeta che più di ogni altro aveva cantato la Terra: l’alba è “solitaria” e anche il crocevia nei pressi dei luoghi della tragedia è “ambiguo”. Sia perché, come detto sopra, il luogo dell’esecuzione di Lorca non venne mai identificato con indubbia certezza e permangono ancor oggi posizioni discordanti in merito, sia perché è inutile dinanzi alla Morte che esacerba dolori e sconfigge il tempo utilizzare un metro toponomastico: non ha senso identificare quale sia il crocevia della Morte perché in ogni spazio ora si rammenta il lutto e ci si strugge.

Marcuccio mostra di aver letto con profondità le liriche del Nostro e di conoscerle con doviziosità, soprattutto nel momento in cui mostra interesse verso la componente cromatica degli elementi, aspetto che costituisce uno dei nerbi costitutivi della liricità lorchiana. Ed ecco che dopo il giallo accecante dei campi “disseccat[i]”, il grigio scuro delle nuvole, l’argento pesante del piombo fuso, il rosso dell’incandescenza dei colpi d’arma da fuoco e del sangue, sopraggiunge prima l’azzurro a rischiarare l’ambiente come una sorta di purificazione e ancora, la luna nel suo “riverbero di verde”. La luna quale simbolo nella “mitologia” lorchiana è sempre sintomo o sinonimo di morte così come lo è il verde: si pensi ad Adela in La casa de Bernarda Alba che, contro il parere della madre che la obbliga a vestire il lutto per la morte del padre, decide d’indossare l’abito verde e deroga a una serie di atteggiamenti che le sono stati imposti tanto da divenire una delle “ribelli” lorchiane più note. Chi conosce il dramma sa anche che a dispetto di tanto vitalismo ed energia (altro significato del verde visto nel cambiamento e nella fertilità) al termine la ragazza troverà la morte in una delle scene più commoventi dell’intero teatro del Nostro.

Ed è così che in chiusura, dopo aver tratteggiato l’ambiente naturalistico che accoglie la morte e avendoci fornito l’immagine sonora della fucilazione, che Marcuccio ritorna a serrare le fila sul corpo martoriato del poeta. I suoi “occhi di fumo”, ormai vacui ed eternamente incantati, privi di lucidità e di movimento sembrano rilucere sotto quella luna argentea e rimandare l’errore sperimentato negli ultimi istanti di vita. La luna è così testimone di una morte dolorosa che ogni notte, con il suo lento incedere nel cielo, sembra riproporsi con la sua inaudita ferocia. Quegli occhi svuotati, ormai fatti cenere rappresentano lo sguardo mitico di un uomo che ha combattuto con la parola in difesa del diverso e che ha ricevuto l’oscuramento dell’esperienza visiva quale condanna estrema, proprio lui che era affranto di luce e signore indiscusso nell’utilizzo della tavolozza dei colori.

Nell’altra poesia lorchiana di Marcuccio (“Omaggio a García Lorca”, scritta il primo maggio 1997)[9]

Felce d’azzurro,

scrosci di tempesta vespertina,

autunno vaporoso e nodoso,

rammarico dell’ormai svanito,

vita rossa di sangue coagulato,

erpici identici e convessi

in un plotone di fucileria,

schizzi incandescenti trasvolano

per la dura terra,

per un cielo di speranze placate,

di ardente divampamento di luce

a foggia di croce,

verso un punto centrale.

ritroviamo il livore del colore azzurro, ora legato all’immagine muschiosa della felce a descrivere uno scenario naturalistico più paludoso e umido, differente rispetto al precedente in cui l’azione bruciante del sole aveva prodotto campi “disseccat[i]”.

Pur condividendo una sintassi aspra e tagliente, in linea con la durezza degli elementi evocati, questa poesia si discosta dall’altra per aver maggiormente i connotati di una vera e propria elegia. La lirica, infatti, non fotografa il momento della fucilazione, del trapasso dell’uomo, e ha piuttosto la fisionomia di una commemorazione nei tempi successivi all’assassinio: si parla di “autunno vaporoso e nodoso” benché Lorca venne ucciso nell’estate del 1936 ed è da intendere, allora, il ricordo doloroso che Marcuccio ne fa attraverso il tempo, ripensando all’atto nefando che provocò la morte del poeta. Non a caso è richiamato il “rammarico dell’ormai svanito”: a questo punto la storia è stata scritta e non c’è niente da fare se non tributarne il ricordo (diversamente dall’altra lirica che, invece, verseggia l’accadimento nefasto quasi in presa diretta).

Il sangue non è liquido e neppure caldo, non sgorga dal corpo, i zampilli non imbevono la terra (come avveniva nell’elegia Llanto por Ignacio Sánchez Mejías che Lorca dedicò all’amico e torero) poiché il sangue si è rappreso, il sole lo ha seccato e il trascorrere del tempo lo ha “coagulato” privandolo della sua materialità fluida da divenire roccia di una vita ormai tramontata. E conseguentemente segue il ricordo visivo del momento dell’esecuzione con gli “schizzi incandescenti” di vita del poeta che, trivellato da colpi alle spalle, finiva per esalare gli ultimi respiri.

La terra si è fatta “dura” perché le stagioni l’hanno appiattita, impoverita, sfruttata ma anche perché è l’uomo che l’ha esacerbata e oltraggiata con l’azione ignominiosa e perché è lui a essere duro (cinico e insensibile). La vita, vista nel regolare scorrere dei fluidi, ha subito un arresto che l’ha condotta a un processo di deumidificazione e vera e propria corificazione. Solo il cielo, allora, proprio come avveniva nella lirica precedente, sembra mantenere il suo stato di materia, vacuo e aeriforme, uno spazio incontaminato che, però, fa da cappa stagnante a quanto sulla terra accade. L’accecante luce di un “ardente divampamento” sembra quasi il riflesso di un rogo disumano che ha la sembianza indistinta di una forma ectoplasmatica dotata di luce propria, impossibile da concepire che marca il luogo della disfatta e della viltà umana.

Le immagini costruite dal Marcuccio, la “putrida vena”, le “nuvole di fango”, gli “schizzi incandescenti”, l’ “ardente divampamento”, apparentemente stridenti perché costruite spesso su sistemi di sineddoche e sinestesie trasmettono con vividezza la scena di dolore e sono altresì capaci di far risaltare dimensioni sensoriali quali l’udito nel boato del fucile, la caduta, goffa, del corpo a terra e di far echeggiare quel silenzio massiccio e pungente che come un manto torna a coprire la scena dopo l’oltraggio al mondo della natura. La meticolosa resa visiva delle immagini tanto da poter parlare di un concretismo materico iperrealista, contribuisce nettamente alla trasposizione di un sentimento profondamente indignato e offeso verso lo scempio perpetuato. I tragici quadri paesaggistici ed emozionali si fanno così proclami di un’ingiustizia dolorosa dovuta alla messa al bando delle libertà fondamentali e al contempo costruiscono visivamente un manifesto convinto alla lotta non violenta e alla salvifica confessione nella Parola.

LORENZO SPURIO

Jesi, 10 agosto 2015 


[1] Santiago Roncagliolo, El amante uruguayo. Una historia real, Alcalá Grupo Editorial, 2012.

[2] “Ammazzarono a Federico / quando la luce spuntava. Il plotone dei boia / non osò guardarlo in faccia […] / Cadde morto Federico / -sangue alla fronte e piombo negli intestini”.

[3] Un arancio in lutto.

[4] Pianura.

[5] Miguel Caballero Pérez, Las trece últimas horas en la vida de Garcia Lorca: el informe que da respuesta a todas las incognitas sobre la muerte del poeta: ¿Quién ordenó su detención?, ¿Por qué le ejecutaron?, ¿Dónde está su cuerpo?, La Esfera de los libros, 2011.

[6] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, Ravenna, 2009, p. 75.

[7] Si legga ad esempio l’incipit del “Romance de la luna, luna”: “La luna vino a la fragua / con su polisón de nardos” (“La luna arrivò alla fucina / col suo paniere di nardi”).

[8] Anche se ci interessiamo alla sorte del poeta va osservato che venne fucilato assieme ad altre persone che vennero poi gettate in un’unica fossa.

[9] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, Ravenna, 2009, p. 74. Entrambe le poesie fanno parte di un ciclo di quattro che, scritte tra il 1997 e il 2000, Marcuccio ha dedicato al grande poeta spagnolo, con l’intento di rivisitarne lo stile. L’intero ciclo è edito in Per una strada e nel marzo 2013 è stato da me tradotto in lingua spagnola. 


Questo saggio è stato pubblicato sulla rivista «Quaderni di Arenaria – Nuova Serie», Palermo, vol. VIII, 2015, pp. 20-27, link: www.quadernidiarenaria.it/volumi/quadernidiarenaria-volume8.pdf, Sito consultato il 05/05/2021 (Si ringrazia il prof. Lucio Zinna per la pubblicazione sulla rivista) ed è stato riproposto sul profilo personale Academia.edu dell’autore.


La pubblicazione del presente saggio, in formato integrale e/o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto, non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

“François Mauriac, da dove è cominciato tutto?”, saggio di Fausta Genziana Le Piane

Nella letteratura tra le due guerre, François Mauriac rappresenta, con Bernanos, il romanzo d’ispirazione cristiana.

Nato a Bordeaux nel 1885, ricevette dalla madre un’educazione strettamente cattolica. Dopo gli studi al liceo e alla Facoltà di Lettere di Bordeaux, si stabilisce a Parigi, dove si dedica alla letteratura, pubblicando due raccolte poetiche (Les mains jointes, 1909; L’Adieu à l’adolescence, 1911). Rinunciando alla poesia per il romanzo, pubblica nel 1913 L’Enfant chargé de chaînes, ma il successo arriverà più tardi, nel 1922, con Le Baiser au lépreux. Questo libro non è soltanto il primo capolavoro di Mauriac, ma esprime anche, molto nettamente, il dono di questo romanziere cattolico per l’analisi, nel contesto dei costumi della sua provincia natale, del conflitto tra peccato e sacrificio, tra la vita dei sensi e la liberazione spirituale.

Negli altri romanzi (citiamo: Le Désert de l’amour, 1925; Thérèse Desqueyroux, 1927; Destins, 1928; Le Mystère Frontenac, 1931; Le noeud de vipères, 1932; La Fin de la nuit, 1935; La Pharisienne, 1941), Mauriac confermava le qualità di moralista e scrittore, dotato di uno stile sempre adeguato alle situazioni dei personaggi. Ma qualche cosa è cambiata o almeno ha subito un’evoluzione nella visione che questo romanziere si faceva del mondo. In effetti è facile seguire, attraverso le sue opere, il passaggio da un cupo pessimismo che lo spinge a osservare lo spettacolo del peccato e del crimine (Thérèse Desqueyroux), a una presenza della Grazia che dà al nodo oscuro della coscienza la speranza della salvezza. Questa evidenza del problema della Grazia conferisce all’opera di Mauriac, secondo alcuni critici, un tono tipicamente giansenista.

Tra le altre opere di questo scrittore ricordiamo una Vie de Jésus (1936), Asmodée (1937), Les mal aimés (1945) e Le Cahier noir (pubblicato nel 1943 con lo pseudonimo di Forez) in cui espresse la sua fede di resistente. Essendosi dedicato al giornalismo politico, pubblicò Bloc-Notes (1958). Partigiano del gollismo, scrisse una biografia del Generale (De Gaulle, 1964). Mauriac si spense nel 1970.

Il poeta, scrittore e giornalista francese François Mauriac

Thérèse Desqueyroux

Accusata di aver tentato di avvelenare il marito, Thérèse Desqueyroux, protagonista dell’omonimo romanzo (1927) di Mauriac, è infine messa in libertà per non luogo a procedere, in seguito alla deposizione favorevole dello stesso marito desideroso di soffocare lo scandalo che travolge il nome della propria famiglia.

Rientrando ad Argelouse, uno sperduto villaggio della Gironda ove il marito l’attende, Teresa prepara la sua difesa in vista di una riappacificazione ma, evitando le facili e meschine giustificazioni, va alla ricerca delle ragioni che l’hanno condotta al crimine. Evoca così – e siamo alla pagina che qui presentiamo – la sua infanzia, che essa stessa vede come “de la neige à la source du fleuve le plus sali” (“neve alla fonte del fiume più sporco”). Si rivede pura accanto alla sua amica prediletta, Anna, ma la sua non è una semplicità sciocca, dovuta all’ignoranza delle cose. Disegna per sé l’immagine di un angelo, ma di “un ange plein de passion” (“un angelo pieno di passione”, presenza del tema della sensualità). Lasciando al lettore la scoperta di queste notazioni, ci limitiamo a osservare quanto sinuosa e sottile, lucida e spietata sia questa ricerca di Mauriac, che insiste sulle pieghe più riposte e più lontane dell’anima per rintracciarvi il senso di un destino.

Le speranze di Teresa risulteranno vane. Il marito, nella sua sanguigna semplicità, non è fatto per capire e comprendere la complessità delle cose e quindi, dopo averla sacrificata ad Argelouse, conduce la moglie a Parigi, ove l’abbandona.

“Attraversò a tentoni il giardino del capostazione, sentì i crisantemi senza vederli. (In tutto il libro domina il senso dell’olfatto: sentire i crisantemi è più importante che vederli, attraversare il giardino è più importante che vedere i fiori e gli alberi).

Nessuno nello scompartimento di prima classe, dove d’altra parte la luce fioca del treno non sarebbe stata sufficiente ad illuminare il suo viso. Impossibile leggere: ma quale racconto non sarebbe sembrato insipido a Teresa, al prezzo della sua vita terribile? Forse morirebbe di vergogna, di angoscia, di rimorso, di fatica – ma non morirebbe di noia. (La luce non è sufficiente, luce in tutti i sensi. Teresa è nelle tenebre del peccato: ancora una volta il senso della vista non è coinvolto. Il tema della luce attraversa tutti il libro alternato a quello del buio. Ecco i sentimenti che offuscano Teresa, la opprimono: vergogna, angoscia, rimorso, fatica. La donna aspira al perdono e per questo prepara la sua difesa, la confessione che le consentirà di arrivare al sospirato perdono – che non arriverà).

Si cacciò in un angolo, chiuse gli occhi. Era verosimile che una donna della sua intelligenza non arrivasse a rendere questo dramma intellegibile? Sì, finita la confessione, Bernard l’avrebbe risollevata: “Va’ in pace, Teresa, non ti preoccupare. Nella casa di Argelouse, aspetteremo insieme la morte, senza che possano mai separare le cose compiute. Ho sete. Scendi in cucina. Prepara un bicchiere di aranciata. Lo berrò d’un fiato, anche se è torbido. Cosa importa se il gusto mi ricorda quello che aveva un tempo il mio cioccolato del mattino? Ti ricordi, mia cara, tutto quel vomitare? La tua cara mano sosteneva il mio capo; tu non distoglievi lo sguardo da quel liquido verdastro; le mie sincopi non ti spaventavano. Tuttavia, come diventasti pallida quella notte in cui mi accorsi che le mie gambe erano inerti, insensibili. Tremavo, ricordi? E quell’imbecille del dottor Pédemay meravigliato che la temperatura fosse così bassa e il polso così agitato…”. (Confessione, notte – anche notte e buio del peccato -, gusto: temi costanti).

“Ah! Pensa Teresa, non avrà capito. Bisognerà ricominciare dall’inizio…” Dove è l’inizio dei nostri atti? Il nostro destino, quando vogliamo isolarlo, somiglia a quelle piante che è impossibile strappare con tutte le radici. Teresa risalirà fino all’infanzia? Ma l’infanzia stessa è una conclusione, un risultato. L’infanzia di Teresa: neve alla fonte del fiume più sporco. (Teresa si interroga sul suo destino, è un misto di purezza e peccato: è pura come la neve, vuole essere pura ma è contaminata, è sporca, la passione la domina. Angelo e demonio. Più volte nel corso del romanzo si definisce mostro).

Al liceo, era sembrata vivere indifferente e come assente dalle piccole tragedie che laceravano i suoi compagni. Gli insegnanti spesso proponevano l’esempio di Thérèse Larroque (è il nome di famiglia di Thérèse): Teresa non chiede altra ricompensa che, se non la gioia di realizzare in sé stessa un tipo di umanità superiore. La sua coscienza è l’unica e sufficiente luce. (Eccola la luce alla quale Teresa nella sua oscurità tende!).

L’orgoglio di appartenere alla élite umana la sostiene meglio di quello che farebbe la paura del castigo…”. (Altro binomio fondamentale, il perdono e il castigo).

Così si esprimeva uno dei suoi insegnanti. Teresa si interroga: “Sono felice? Sono così candida? Tutto ciò che precede il mio matrimonio assume nel mio ricordo questo aspetto di purezza: contrasto, senza dubbio, con l’inevitabile sudiciume delle nozze. Il liceo, al di là del mio tempo di sposa e di madre, mi appare come un paradiso. Allora non ne ero cosciente. Come avrei potuto sapere che in quegli anni prima della vita stavo vivendo la vera vita? Pura, io l’ero: un angelo, sì! Ma un angelo pieno di passione (Teresa è un misto di purezza – alla quale tende – e tenebre).

Qualunque cosa pretendessero le mie insegnanti, soffrivo e facevo soffrire. Gioivo del male che causavo e di quello che proveniva dalle mie amiche; pura sofferenza che nessun rimorso alterava: dolori e gioie nascevano dai più innocenti piaceri”.  (Teresa indaga sull’origine dei suoi atti e per fare questo risale all’infanzia e al liceo).

La ricompensa di Teresa, era, quando la stagione bruciava, di non giudicarsi indegna di Anna (Anne de la Trave, l’amica d’infanzia di Teresa) che raggiungeva sotto le querce di Argelouse. (Le querce con i pini rappresentano lo sfondo naturale di tutto il romanzo. La quercia è un albero sacro investito dei privilegi della divinità suprema del cielo, senza dubbio perché attira il fulmine e rappresenta la maestà).

Occorreva che potesse dire alla bambina educata al Sacré-Coeur: “Per essere pura come te, non ho bisogno di tutti quei nastri né di tutti quei ritornelli…”Magari la purezza di anna fosse fatta di ignoranza. Le dame del Sacré-Coeur interponevano mille veli tra la realtà e le loro ragazzine. Teresa le disprezzava perché confondevano virtù e ignoranza: “Tu, cara, non conosci la vita…”, ripeteva in quelle lontane estati d’Argelouse. Quelle belle estati…Teresa, nel trenino che si mette in moto, infine, confessa che il suo pensiero deve risalire fino a loro, se vuole vedere chiaro. Incredibile verità che in quelle albe completamente pure della nostra vita, i peggiori temporali erano già sospesi. Mattinate troppo blu: cattivo segno per il tempo del pomeriggio e della sera. Annunciano aiuole devastate, i rami rotti e tutto quel fango. Teresa non ha riflettuto, non ha premeditato mai in nessun momento della sua vita; nessuna curva brusca: ha sceso una pendenza insensibile, prima lentamente poi più velocemente. La donna persa di quella sera è proprio quell’essere radioso che fu durante le estati di quell’Argelouse dove ora torna furtiva e protetta dalla notte. Che fatica! A che scopo scoprire gli aspetti segreti di ciò che è compiuto? La giovane donna. Attraverso i finestrini, non distingue nulla se non il riflesso del suo volto morto. Il ritmo del trenino si rompe; la locomotiva soffia a lungo, si avvicina con prudenza alla stazione. Una lanterna da un braccio, richiami in gergo, le grida acute dei maialini sbarcati: già Uzeste. Ancora una stazione, e sarà Saint Clair da dove occorrerà compiere in una vettura a cavalli l’ultima tappa verso Argelouse. Resta poco tempo a Teresa per preparare la sua difesa! (“Non puoi immaginare la liberazione dopo la confessione, dopo il perdono, – quando di nuovo puliti, si può ricominciare la propria vita”, così diceva a Teresa l’amica Anna. Teresa anela al perdono del marito, di Bernard che però la respingerà. La natura gioca un ruolo importantissimo ed è sempre associata ai turbamenti della protagonista, al suo sentire. Il pino è molto importante e generalmente, in Estremo Oriente, è simbolo d’immortalità, cosa che spiegano contemporaneamente la persistenza del fogliame e l’incorruttibilità della resina. I pini sono legati all’incontro di Teresa con Jean: riflettono, come uno specchio, gli stati d’animo della donna).

I pini: Il mio primo incontro con Jean…Devo ricordare ogni circostanza: avevo scelto di andare a quella colombaia abbandonata dove mangiavo un tempo con Anna e dove sapevo che, dal quel momento in poi, le era piaciuto raggiungere quel Azévédo. No, non era nella mia mente, un pellegrinaggio. Ma i pini, da quel lato, sono cresciuti troppo perché si possa spiare i colombacci: non rischiavo di disturbare i cacciatori. Questa colombaia non poteva più servire poiché tutta la foresta intorno nascondeva l’orizzonte: le cime allontanate non quei grandi viali di cielo dove chi spia vede sorgere i voli.

FAUSTA GENZIANA LE PIANE


Bibliografia

François Mauriac, Thérèse Desqueyroux, éd. Grasset, 1956.

Le traduzioni nel corpo del testo sono di Fausta Genziana Le Piane


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Tre drammi di Jon Fosse: “Variazioni di morte”, “Sonno” e “Io sono il vento”. Saggio di Anna Vincitorio

Jon Fosse – definito da molta critica come “nuovo Ibsen” – è stato proclamato Premio Nobel per la letteratura nel 2023. Secondo la motivazione dell’Accademia, “le sue opere, tradotte in più di quaranta paesi, danno voce all’indicibile”.

Il poeta, scrittore e drammaturgo Jon Fosse
(Premio Nobel per la Letteratura 2023)

Osservo il suo volto ombrato: occhi chiari che trapassano il tempo. Solitudine, tristezza. Uomo dei fiordi e delle nebbie. Ha sessantaquattro anni. Un passato di alcool. Il suo sentirsi solo, attraverso la parola, ha suscitato emozioni profonde, un linguaggio scarno, innovativo, fortemente drammatico. La sua scrittura esprime il dramma del vivere attraverso la parola scarna, visionaria a volte, minimalista che trapassa e scava come goccia sulla pietra.                 

I suoi personaggi sono nel tempo e fuori del tempo. Non hanno un nome. Sono visioni di una realtà crudele e incisiva. La sua scrittura prevarica le convenzioni, i limiti della parola. Scrive parole che vanno oltre la parola stessa, producendo emozioni che solo la poesia autentica può dare. Chi ascolta o legge i suoi drammi si sentirà proiettato in una dimensione atemporale. Il saggio di Leif Zern su Fosse, Quel buio luminoso, è introduzione e origine del volume. Tre drammi: Variazioni di morte, Sonno e Io sono il vento. Immagini come cascate che fiottano parole. I suoi personaggi non sono eroi ma quelli che non ce la fanno a reggere il peso degli eventi, gli smarrimenti, sono personaggi la cui identità è sospesa tra la vita e la morte.

VARIAZIONI DI MORTE (2001)

Spazio in cui si susseguono eventi in cui sovrana è la parola. Il tempo non ha una dimensione oggettiva. Si ripetono e si dilatano suoni. Possono estasiarti come ferirti. Sei avvolto da una atmosfera che ti imprigiona. La parola quando ti penetra, fa di te il personaggio. Sono attimi di una realtà che non ti appartiene ma che tu avverti sulla pelle come un brivido. L’uomo anziano, la donna anziana. Dialoghi brevi: “Che errore! / proprio non capisco…/ che lei se ne potesse andare”. Lei disperata: “Possiamo ancora fare qualcosa…”. L’uomo anziano: “Non possiamo fare niente”. La loro unica figlia che segue il suo destino… “È morta / È via per sempre…”. Nulla tiene ora uniti quei due. Lui non vuole vederla. Se ne vuole andare. Un evento tragico quasi sempre distrugge un passato comune. È crudele ma inevitabile. Sulla scena una donna giovane entra e un uomo giovane. Si incontrano e si abbracciano. Poco denaro, una squallida cantina dove vivere. “Non è davvero molto / Tutto è così incerto; / questa è la vita / Ho paura e sono preoccupata / Non aver paura / tu…: Dovetti andare / Loro telefonarono / E lei stava stesa là…/ E i suoi capelli / E i viso / il suo viso”. Parole, quasi sussurrate ma dure come pietre. Sulla scena nuovamente i due giovani. “Lei ha le doglie. Sta male…”. “E così lei se n’è andata / via per sempre”.

Si alternano un prima e un dopo. La storia non è chiara. Presente e passato s’intrecciano. C’è una figlia; contrasti tra i due giovani di prima; incomprensione tra gli anziani. Non è importante il susseguirsi di una storia con vuoti improvvisi e ritorni, quanto le emozioni provocate dal suono delle parole. Riandare ripetuto dalla vita alla morte e viceversa. “Credo che si possa avere / un segreto, una pace dove si riposa / solo riposo / l’uno nell’altro / Ma io voglio stare sola / sempre sola…”. Ricordi di un tempo che non c’è più: “E lui veniva verso di me / con la pioggia nei capelli / una sera: veniva verso di me / con la pioggia nei capelli / una sera / veniva verso di me… / la luce nei suoi occhi / veniva… / in quella musica che è sua veniva / E la pioggia nei suoi capelli / resterà sempre là / I suoi capelli nella pioggia / una sera / proprio là / proprio allora”, “Lei uscì di notte / nella pioggia / nel vento/…”. È un susseguirsi di parole che straziano. È un parlare, ricordo e presagio di morte. Ma affascina. “Perché i suoi capelli nella pioggia / stavano là / come la luce del cielo / Perché l’amore assomiglia alla morte… È una sola sera con la pioggia”. Ho riportato alcuni frammenti dei dialoghi. Vanno ascoltati, non descritti. Il lettore ne proverà la potenza su se stesso. Ancora, la figlia: “Mi pento/ voglio ritornare/ voglio stare sola/ Non avrei dovuto/…”. È importante per me in un’opera teatrale, non tanto comprendere quanto affogare nell’estasi trascinante delle parole.

SONNO (2005)

I personaggi non hanno nome. Dove il tempo? Nel ricordare. Il lettore affonda in personaggi senza storia. Attese malinconiche; eppure in questo – poco –, si comprenderà la natura nemica. Sono le voci di dentro che tutti conosciamo e scopriamo a un tratto. Non ha importanza l’evento che potrebbe anche non verificarsi ma penetrare nel non detto, sentirsi reietti, vivi o nel “sonno” che precede la morte. I personaggi sono anziani o di mezza età. Più che dialoghi si notano esternazioni di un pensiero. “Ti ricordi / e la stessa cosa / e fai la stessa cosa con me (ride un attimo) no che sciocchezza”. La donna anziana: “E io sto sempre peggio / le gambe / non mi vogliono sostenere / Non ce la faccio quasi a fare più niente / E non posso più parlare”. L’uomo anziano: “…ecco è caduta…l’ho trovata stesa sul pavimento… non parlava… ma si cioè respirava / e così tornasti di nuovo in vita e incominciasti a parlare…”. Il dramma è la solitudine e l’attesa. Il figlio arriva ma deve subito andare via. Resta l’uomo anziano: “Noi ce la facciamo/ Non preoccuparti di noi / tutto va bene”.

In qualunque paese queste scene si ripetono. Attese, fuga e arrivi e poi, nuovamente solitudine e silenzio. Il sonno diviene conforto o solo preludio di morte? L’opera ha debuttato in prima assoluta a Sesto Fiorentino per il Festival Intercity Oslo. Ne parla Eleonora Tedeschi: “Il suo è un teatro complesso in cui il ritmo è scandito dai silenzi, sospensioni, interruzioni. La parola stenta ad arrivare alle labbra per la difficoltà e forse addirittura l’impossibilità della parola di esprimere il dramma dell’esistenza”.

IO SONO IL VENTO (2007)

Due soli attori. Voci che fluttuano in uno spazio immaginario che però prende forma dalle loro parole. Una barca sul mare. È tutto grigio: gli isolotti, le isole, i monti e le pietre sulla spiaggia.

L’uno vorrebbe attraccare la barca in una insenatura. “La barca sarà al sicuro / Entriamo a vela e attracchiamo… E oggi il mare è tranquillo… E il mare è mare aperto”. Sono voci che si spandono nella nebbia… L’uno: “Io non volevo / Lo feci così per caso”. L’altro: “Accade così per caso / Ma poi avevi / paura che accadesse / Si. E così accadde”. È un lungo dialogo sulla vita che ognuno plasma secondo il suo essere. La vita è presente nell’altro. L’uno parla, forse spiega il perché del suo atto. Il non voler più essere. Non è ma ricorda. Non può essere sulla barca ma c’è. Cosa rappresenta la barca? Un rifugio precario perché il vento la spinge verso il mare aperto. Il pericolo affascina come la follia perché non può essere compreso. L’uno che non è più invita l’altro a fissare le corde e nella vicinanza della costa a saltare. La corda fissata ad un palo e poi nuovamente saltare per tornare sulla barca e qui, insieme, consumare del vino…mangiare. Sembrerebbe che il dramma tenda ad allentarsi. Il mare aperto è oltre la scogliera “e là / là si incontrano il mare e il cielo”. Così come la vita va incontro alla morte. Parole, parole che si dicono. Parole che diventano pietra. La pietra è greve, non muta come il deciso impulso di non essere più. Disteso nell’acqua e poi via per sempre.

È la solitudine che sospinge verso la morte “che sta là / non solo come pensiero / non solo come paura / ma come qualcosa vicina”, “Ma tu / la vita… non è poi così brutta / Non sempre… è bello vivere”. Sempre il vento sospinge la barca immaginaria verso il largo. L’uno: “Ho sempre avuto paura che accadesse / e ho pensato che sarebbe accaduto / e ho avuto paura”. L’altro: “…io non posso far niente / in mezzo al mare aperto…; Io guardo e lo cerco… la barca va avanti. Dove sei? Ma non posso vederlo”. Le onde sono nere e bianche e piove. “Ma perché lo hai fatto?” “L’ho fatto e basta… Sono via / Sono andato via con il vento / Io sono il vento”.

Dramma trascinante. Sospensioni, riprese. Il tutto in un clima allucinatorio. La sua fine è la fine di ogni essere umano sia che la agogni, sia che la tema. Teatro di pensiero in spazi immaginati, descritto con parole di mare e di nebbia e noi, perduti, affascinati e avvolti dal sibilare del vento. Il teatro siamo noi che ci immedesimiamo negli attori. Siamo quel pubblico che ascolta dall’alto del loggione e che Giorgio Albertazzi definì Les enfants du Paradis. Mi rivedo ragazzina correre per le ripide scale della Pergola per guadagnare un posto e poi… Si alza il sipario.


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N.E. 01/2023 – Recensione di “Ogni respiro un mondo” di Tiziana Colusso. A cura di Annamaria Ferramosca

L’invito che Tiziana Colusso rivolge al lettore nella nota a fine libro Ogni respiro un mondo (La Vita Felice, 2022) è ineludibile: chi attraversa queste pagine di poesia e insieme di denso sapore sapienziale, non può esimersi dall’aggiungere il proprio respiro-mondo a quello ben più largo, cosmico e pure profondamente umano, che qui si svolge e fortemente coinvolge.

Il respiro a cui allude Tiziana si configura, nella sua visione di armonia universale, come un moto quantico sottile, un flusso di energia che abbraccia tempo e spazio, materia di anatomie viventi e materia – presunta inerte – dei quattro elementi aria-acqua-terra-fuoco, che abitano cieli laghi oceani crosta terrestre. Il respiro attraversa felicemente ogni molecola e corpo lungo la loro storia evolutiva, e ne trascina traccia ovunque, fondendo le dimensioni e infondendo la propria impronta in ogni entità. Come non scorgere in questa visione armonica del tutto, di certo di ispirazione orientale, anche il velo imprendibile della poesia, la sua limpida e onnicomprensiva dimensione dell’ascolto e dello sguardo! È questo costante ascolto che porta i poeti a percepire la musica cosmica, la bellezza e l’equilibrio capaci di illuminare ogni buio. Così Tiziana Colusso dice in poesia della voce di Joan Baez percepita come un “paradiso inarrivabile”, del sapore sacro di ogni emozione, chiedendosi perfino della possibilità di presentire future trasmutazioni in consistenze angeliche.

È il respiro, ancora, non è certamente un moto fisiologico, ma una spinta sublime, nel senso etimologico di sub limine, sotto la soglia comunemente percepibile, che accomuna oceani e continenti, umani in preghiera o in terrore, viventi che cantano o sognano. Così lungo i quanti del respiro la dimensione del sacro può riapparire nel ricordo del padre che recita preghiere in latino, o un sogno può far rivivere l’istinto di protezione della figlia verso la madre che, atterrita dalle onde è acquietata dal respiro.  

Questa pratica del respiro-pensiero-vita, che penso sia quotidiano spazio contemplativo buddista di Tiziana, si rivela nella scena della visita al tempio tibetano sull’Amiata, soglia aperta da cui lei guarda l’universo, che le rende visibile in un filo di nebbia il canto di una cinciallegra, come lontana eco di un pianto trasmutato. La mente può, sembra dichiarare l’autrice, superare il tempo di ogni ferita, ogni urto, e ritornare libera nella luce, alla inesauribile promessa della vita.

E all’ascolto segue il suono, che segna incisivamente l’espressione del pensiero, facendosi grido potente di consonanze, come nell‘achtung dato nel testo a pag. 21, avvertimento a non soffermarsi sul ricordo di torti subiti, reali o presunti, ad avere invece il coraggio di sostare sull’essenza del nostro dentro, con i suoi vari nomi di mente/anima/coscienza, unica nostra persistente luce. E Tiziana dimostra la sua bella padronanza del ritmo, maneggiando con grande efficacia comunicativa la sonorità del lessico, come nel testo di pag.25, dove la soluzione essenziale del vivere non potrebbe essere detta se non in questo incisivo memorabile altro modo:               

Ancora un nodo                          un nuovo torto

                  sul filo ritorto del divenire:

           ci vuole senz’altro un altro modo

                                             un nuovo mondo,

un tèlos tessuto

                         di consonanze

                                alleanze mute

Nella visione di un equilibrio universale non potevano certamente mancare le riflessioni accorate sulla violenza perpetrata al pianeta, terracqua violata che pure, materna, accoglierà nel ventre gli umani colpevoli dello scempio e della propria estinzione.  Eppure Colusso crede ancora nella resipiscenza dell’umano, perché spera nella creatura che non s’arrende (pag. 30), come nella sua acuta sensibilità e costante inquietudine si autopercepisce. Cercare la quiete, trovare spazi di chiarezza e flashes di saggezza si può ancora, come nel suo saper sorridere sui bordi di ogni deserto-metafora, nel suo giocare il gioco delle parole (è il suo poiein!), nel mai disperare e sempre resistere.

Tutto il libro offre squarci sorprendenti, con versi che ci fanno basculare tra la tensione ferma a vigilare e proteggere il respiro del mondo, e la dimensione contemplativa pura, come nella bellissima scena dell’infante che segue le ombre fluttuanti sulla culla, immagine stupita di un nostro tempo originario, lontanissimo. E pure l’autrice dichiara, come contraddicendosi, di continuare a lasciarsi sommergere dalle voci vorticose del reale, che a volte le appaiono più dense e significative di ogni possibile poesia. Ma la contraddizione svanisce leggendo le ultime tre sezioni, dove la sua poesia assume una piega più disincantata sulla propria vicenda esistenziale. Nella sezione Fons Sapientiae vi è una sosta nel luogo dello studio giovanile, intorno alla Fontana della Minerva – Università degli Studi La Sapienza, dove l’autrice fa un bilancio del suo viaggio e delle sue aspirazioni, soffuso di nostalgia e percezione-accettazione del proprio destino. Nella sezione Alfabeti vegetali si prosegue affabulando un cammino assimilato all’incantevole percorso di un seme-infanzia vivida e incontaminata, che diviene macinato-maturità tormentata dalle sofferenze del mondo; un pane infine che potrebbe lievitare in sacrosanta pace, ma ne è impedito dalle ferite continuamente inferte all’equilibrio umano e planetario.

La poetessa offre quindi una commossa dichiarazione di gratitudine al mondo vegetale, dal seme che riesce a germogliare anche da una stretta fessura, all’albero che resta – nobile sentinella – la sola essenza autentica e generosa rimastaci accanto nel degradato ambiente urbano.

Per poi terminare il proprio canto che meravigliosamente si colora con insert di altre lingue, quasi in una preghiera accorata di comprensione e solidarietà globale, un respiro largo ancora, per scongiurare ogni deriva.

*

Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

N.E. 01/2023 – “Il paradigma cristologico nella poesia di Amelia Rosselli”. Saggio di Gino Scartaghiande

gyro devocet aerio

(Catullo, 66, 6)

Premessa

La presente postilla fa seguito al questionario sulla poesia propostomi da Lorenzo Spurio e pubblicato con le mie risposte sul numero 32 di “Euterpe” del dicembre 2020. Vi riprendo specificamente la domanda “Che definizione si sente di dare di poesia?”, a cui cerco di rispondere da un punto di vista rigorosamente fenomenologico e tenendo presente il titolo/tema suggerito dalla redazione per questo primo numero del nuovo corso della rivista: “I libri: lo specchio dell’io”. Lo svolgimento verte attorno all’idea di libro-libellum-libellula su cui credo si imperni l’opera di Amelia Rosselli. Ne rivisito ascendenze dal “novum lepidum libellum” catulliano; dalle tradizioni liturgiche orali preabramitiche; dalle litanie senza parole medioevali; dal senso pittorico polittico dell’arte italiana e straniera, di tutti i tempi e luoghi.

I

A ben vedere, e con il girare un po’ più alla larga sulla domanda, direi che la quête, la questio, la ricerca, il ritrovamento, sono di già altrettante componenti essenziali della poesia, percepita nella sua totalità e nel come lei stessa si pone. Una ulteriore didascalia su di essa, una chiosa, o anche un commento, a non altro potrebbero condurre che alla segreta decrittazione, e seppure l’eco, di quel capro espiatorio, sofferente, ma alla fine gioioso, che lei stessa è. E che mentre corrisponde alle nostre attese di una vera e salvifica bellezza, subisce puntualmente la violenza che di un suo uso improprio l’artefice cattivo, ovvero insano – quel vesanum poetam di oraziana memoria (Ars poetica, 455) – è coattamente spinto a farne in quanto suo mitico antagonista.

Ed oramai, con troppi poeti borghesi, è stato compiuto un errore ermetico, proprio in quanto mis-fatto mimetico, ovvero la proposta di un’arte mitica, non effettuale. Ed è quasi per un “nonnulla” – una doppia negazione che afferma – che Amelia Rosselli riesce a neutralizzarne la carica distruttiva – in ispecie dell’ermetismo nostrano – innalzando tra il 1958, centenario di Lourdes, e il 1979, la sua Croce, di cui La libellula (1958) è il patibulum e l’Impromptu (1979) lo stipes. Quest’ultimo, nella stessa posizione apicale dell’INRI, riporta il proprio incipit –“Il borghese non sono io”–  quale decrittazione fenomenologica di quell’ acronimo latino.

Ritorna così, entro l’abscondita effettualità della poesia, l’originale tetragramma del Golgota, come sappiamo scritto oltre che in latino anche in ebraico e in greco, in qualità di fenomeno dell’impronunciabile nome di Iahvè. Anche Amelia non lo pronuncia, ma ne afferma la presenza tramite una doppia negazione – che è anche una doppia sospensione, ovvero epochè fenomenologica – quella del borghese che nega Dio, e quella di sé stessa che non è il borghese. Come se Iahvè stesso, tramite l’incipit di Amelia, venisse ad affermare il proprio nome manifestandosi non per quello che è – “Io sono colui che sono” – ma per quello che non è. L’incipit di Impromptu non è altro così che l’ineffabile nome di Jahvè già contenuto nel tetragramma INRI, a leggere quest’ultimo con le iniziali in ebraico, e ovviamente da destra a sinistra1.

E anche il senso del “rullo”-Libellula di Amelia è “davvero non cinese, anzi cristianissimo, ispirato al tema della giustizia ebraica”, come lei stessa ci dice nelle Note a «La Libellula» nell’edizione SE (1985) del  poemetto. Tale sua abscondita lettura porterà questo primo “libello” di Amelia ad essere quell’intarsio-patibulum, quel “volatile”asse orizzontale della Croce, che, prima levitando qui e là entro il corpus rosselliano, con il frammento del ’62-’63 apparso su «il Verri», e dopo la sua prima pubblicazione integrale su «Nuovi Argomenti» del gennaio-marzo 1966,  e il quasi occultamento in apertura del mare magnum della Serie ospedaliera del ’69,  acquisterà poi, stavo dicendo, piena visibilità solo con la citata edizione SE del 1985, quale libro a sé stante, pur con la coda di 31 testi tratti da Serie ospedaliera, allorquando, nel suo volo su di lui,  potrà inserirsi nel cuore stesso dello stipesImpromptu, scritto nell’inverno del 1979 e già pubblicato nel febbraio dell’81 per farsi trovare pronto ad accoglierlo, tale “libello” maggiore, nel suo definitivo asSEtto cruciale. Reiterandovi lo stesso nome della casa editrice SE, una volta messe tra parentesi tutte le realtà contingenti, quale essenziale parte dell’opera verbale di compimento fenomenologico, anche nel suo rivolgersi geopolitico Sud-Est verso Gerusalemme, il proprio Golgota.2

La poetessa Amelia Rosselli

Così come lo stesso fenomeno occitanico di un abscondito nome dell’Immacolata Concezione, aveva già portato i poetae novi di Sicilia e di Provenza a cantarne la bellezza sub specie di donna angelicata, fino alla conchiusa preghiera alla Vergine di Dante e di Petrarca. E in quello stesso giorno dell’11 febbraio, giorno dell’apparizione di Nostra Signora e della tragica morte di Amelia Rosselli e di Sylvia Plath, troveremo le due poetesse ai piedi dei Pirenei, in quella stessa grotta, con tutto il carico dell’interdetto della modernità, ma come a risolversi comunque in quella origine occitanica, in quell’identico sé, da cui s’era mosso tutto il giro occidentale della poesia.

L’antico catasterismo callimacheo della Chioma di Berenice, viene così di nuovo ad una ipostasi terrena ai giorni nostri, dopo essere stata già fonte d’ispirazione per le nuove forme grammaticali scritte di Arnault Daniel e Iacopo da Lentini. La chioma in effettinon è mai stata separata, fosse anche solo per nostalgia, dal vertice della sua Regina; vuoi da Berenice stessa che l’aveva offerta in voto alla propria madre deificata Arsinoe II Zefirite, vuoi dai poetae novi latini che da essa, tramite Callimaco, ricevono la possibilità di ricongiungersi alla tradizione lirica greca; vuoi, nei cantori siciliani e provenzali, come riverbero del nome di Maria per il catasterismo della propria donna dentro. E anche per essi, come già in Callimaco, la formadei loro piccoli suoni ha l’ufficio di una eguale offerta votiva di sé, come di preghiere d’amore, ovvero supplicanti litanie, e nel contempo ringraziamento per i doni ricevuti da Madonna.

Al compimento della questio, quale preghiera, o litania, concorre nei poeti fra Due e Trecento questa nuova forma di scrittura fatta di piccoli suoni che culminerà nei sonetti e nelle canzoni di Dante e di Petrarca, non senza essere repleti ovviamente di tutta quella scientia crucis cui aveva esperito la Mater Dei. Ipostasi dolorosa cui ritorna d’emblée, sospintavi dalla tragicità della Storia, Amelia Rosselli allor che tiene fra le braccia il figlio morto Rocco Scotellaro: “Dopo che la luna fu immediatamente calata / ti presi fra le braccia, morto”3. E prima ancora, in qualità di figlia, il proprio padre assassinato Carlo.  

Di “primato della litania” nella poesia di Amelia Rosselli – ovvero, aggiungo io, di un canto bellico di antichissima ascendenza biblico-angelica quale fondamento musicale a doppia voce che si apre nel contrappunto barocco di un terzo distale – parla Arnaldo Colasanti, come della “vettorialità di uno spazio” che proprio nel rigido, immobile e reiterato rigore grammaticale della scrittura fa sì “che la musica stabilisca un moto perpetuo”, una sorta di suo eterno e salvifico infinito. Nello specifico Arnaldo Colasanti commenta un testo di Variazioni Belliche, “Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita. Dopo la pazienza”, intervenendo nella trasmissione radiofonica Paesaggio con figure, incontro con Amelia Rosselli condotto da Gabriella Caramore4.  

È proprio questo spazio musivo baroco, già culminante nell’antitesi del “et ardo, et son un ghiaccio”di Petrarca CXXXIV, il vettore emanante della parola-idea, ed è “perpetuo”in quanto “speranzoso”sempre, e anzi, come suonano gli ultimi due versi del testo di Amelia: “Speranzosi barcolliamo fin che la fine peschi / un’anima servile”.  E sono, tali ultimi due versi, finalmente secreti quali resina liberatoria, che libera cioè, dopo una spossante fuga attraverso pareti di reiterata fissità grammaticale, tutto il profondo contenuto e significato del testo, a lungo trattenuto dal moderno interdetto.

Che poi non sarebbe altro, questa “anima servile”, che la teoria veterotestamentaria del servo di Dio in Isaia, e nell’arte quel sacrificio di sostituzione che di dovere l’artista ha da compiere su se stesso e che nella sostanza è quanto proclamato da Lautréamont nel primo dei suoi Canti di Maldoror: “Je parerai mon corps de guirlandes embaumées, pour cet holocauste expiatoire”. E tale pervenuto ad Amelia, “cet holocauste expiatoire”, quale luminare eco di molteplici fasci biblici di luce-or, di forza credo già durante i suoi giovanili campeggi estivi nel Vermont, ancor prima che rintracciasse come lei stessa ci ricorda, una copia del libello ducassiano, tradotto in italiano sotto forma di poemetto, su di una bancarella romana, quale evento scatenante l’ispirazione di Libellula.

Proprio vicinissimo alla mansarda di Amelia di via del Corallo, precisamente in via di Parione, aprirà i battenti nel 1977 la libreria Maldoror di Giuseppe Casetti, che terrà a battesimo Francesca Woodman, proveniente da New York, con le prime esposizioni delle sue foto, oltremodo caravaggesche. Il tutto nel maggior coacervo barocco della Piazza Navona di quegli anni.

Dei libri, delle cose in sé, come fiotti d’acqua in un bicchiere di finissimo, trasparente cristallo, sono ad un tempo contenente e contenuto, scritture a mo’ di ipostasi di altrettante sefirot, strumenti di Dio, illuminazioni senza limiti, presenza di quell’infinito ein soft biblico, vento o soffio come quello che tra le piante ricolma di pienezza Giacomo Leopardi, e che investe qualsiasi oggetto senza cambiamento della propria forma ed essenza.

II

No. Se, come ho modo di credere, la poesia è persona che assomma in sé storia e geografia secondo emanazionidi un suo rigorosissimo fenomeno, è di già nel Vermont che Amelia viene dapprima raggiunta dal faro-lanterna della Montevideo-Monte dell’orao, patria di Isidor Ducasse; da quel “ver luisant” del primo canto degli Chantes, che nel Ver-mont di Amelia diventerà la sua Libellula-lucciola.

È Isidor Ducasse che le annuncia l’Idea della parola, veicolata poi da una lunga linea sud-nord del continente americano, tanto meravigliosa quanto adimensionale, che passa per i cotonifici della Nouvelle-Orleans di Edgar Degas, precursore e altro padre pontificale dell’anima-tutù del “volatile”, nonché ligneo poemetto-patibulum di Amelia; risale poi, tale faro-lanterna, per gli studi sui sonetti “delle prime scuole italiane” degli Spazi metrici rosselliani cui aveva riguardato dapprima il giovane Eliot da una finestra della Smith Accademy di Saint Louis –“Wen we came home across the hill / No leaves were fallen from the trees”5 – fin su nelle vallate del Vermont, sui verdi altipiani dove durante i camp estivi un’adolescente Amelia mungeva mucche, andava a cavallo, pitturava fienili, si bagnava nei “fiumiciattoli”, vedeva la notte illuminarsi di lucciole, e di giorno tra le acque l’iridescenza delle libellule.

Di quelle esperienze dirà nell’intervista radiofonica sopra citata: “volevo diventare se possibile […] agricoltore”. Già nel Vermont era diventata una contadina del Sud, prima ancora dell’incontro con Rocco Scotellaro, e cioè si preparava a quel sacrificio di sé, che per l’artista equivale al diventare contadino, secondo una derivazione dantesca, da Comoedia, canto della villa, e cioè portatore di un canto remisus et humilis, che Dante fonda sull’autorità del sermo rusticus oraziano, e che arriverà fino agli ultimissimi versi dell’Impromptu di Amelia: “ E se paesani / zoppicanti sono questi versi è // perché siamo pronti per un’altra / storia”.

Un canto remisus et humilis, contenente un’“altra storia” e da essa contenuto, che la fa da padrone anche sul dato stilistico-grammaticale già in Dante, dove troviamo un essenziale sconvolgimento della classica ripartizione fra tragico, comico ed elegiaco potendo essere d’uso il sermo humilis nel trattar della tragedia e quello altissimo, superior, nel riguardare il più felice, ovvero comico esito del Paradiso. Un canto che contiene in sé perpetuamente l’essersi dispogliato di ogni addentellato mitico, una volta riconosciuto, oltre ogni illusione, quanto il mito stesso uccida e richieda, letteralmente e fuor d’ogni metafora, vittime, non altro che l’intera umanità dei diseredati.

Per contro, il sacrificio dell’artista contadino è un efficiente rito espiatorio di sostituzione, e tutta l’arte non è altro che questo offrire sé stesso come vittima regale – si ricordino il primo re storico di Atene, Teseo, e il sacrificio volontario del proprio padre Egeo –al posto di quei giovinetti che nel labirinto cretese vengono dati in pasto al Moloch del successo, in ispecie al mito letterario di una morte famosa, quel “famosae mortis amorem”, già stigmatizzato da Orazio (Ars, 469) il cui prezzo poi graverà sull’intera umanità.

Tale mito-mostrum da vincere non è altro che quello stesso a cospetto del quale nasce e si sostiene ogni formad’arte, come ci ha dimostrato mirabilmente il canone del sonetto lentinese, a fronte sia di un siciliano mostrum-polifemico – nel nostro caso un rosselliano “Otello siciliano” su cui Amelia impernia il suo Sleep-fuga – sia nel contrasto con l’ideologia epicurea di Federico II; come pure, in ambito provenzale, il distinguersi, il prendere le distanze di Arnault Daniel da una Montpellier già in balìa del più inveterato gaudentismo universitario.

Sono queste le origini siciliane di Amelia, cui lei teneva enormemente. È stata concepita a Lipari, come non manca occasione di ribadire, da dove lo stesso suo padre Carlo aveva attuato la sua mirabolante Fuga in quattro tempi. Quella stessa che Amelia realizzerà nel fenomeno di una sola parola-idea, Sleep, che sarà quel suo “giro del pane”, o “panegirico”, o “rullo cinese”, in cui è contenuta fin dal concepimento tutta la sua esistenza, e da cui attua il proprio contrappunto di fuga nel concentrico infinito della parola, e verso la concezione di un’altra immacolatezza, da cui forse già una volta era stata toccata ma che è pur sempre da riconquistare: paris-lipari / pari-sleep. La scossa vulcanica liparota le dà anche, a suo buon uso, energia per simile impresa, così da poter capovolgere di nuovo tutto il metro grammatico della modernità.

Il qualmetro grammatico, sotto la cui egida possiamo riunire poesia e musica, scrittura e teatro, così come l’età classica ce lo aveva tramandato, aveva di già subito uno scossone assoluto nel Medioevo con l’avvento del cristianesimo, allorché i tre generi poetici, tragico, comico ed elegiaco, andarono escatologicamentee di fatto via via sussunti verso le finalità del secondo, quello comico.

Comoedia è titolo dantesco che si va costituendo di già durante tutto il Medioevo, Dante non fa che portarlo a maturità rivelandone, al contempo e all’interno stesso della propria opera, tutta la contraddizione con la più canonica classificazione retorica dei generi. Il fatto definitivamente esplicitato, anche se pur sempre presente nella tradizione poetica di tutti i tempi, è il fine comico sussunto dalle arti di “perducere ad felicitatem” l’umanità intera già“in hac vita” (Dante, Epistola XIII). Compito per il quale sarà infine di un rigore del tutto felice l’esito della risorta poesia o “metro grammatico” moderno, quello per dirla con Petrarca rinato “apud Siculos” (Ad Socratem suum, Familiares,I,1).

La stessa Comoedia nel suo fenomeno si basa, per usare ancora le parole di Arnaldo Colasanti a commento del testo di Amelia ed estendendole alle origini stesse della poesia moderna, su di “una logica non della rappresentazione, non del senso, ma della esibizione grammaticale”, intendendo tale esibizione grammaticale quale mostra da parte della grammatica di un “altro moto” all’interno di una sua fissità, documentabile quale moto effettuale che Amore stesso detta al poeta e che pur potendo essere rappresentato e significato resta non-compreso e non-rappresentato anche da parte di coloro che “per prova” ne hanno fatto esperienza. La quale esperienza il nuovo metro grammatico può solo esibire in un suo infinito approssimarsi al proprio oggetto, ma senza mai coincidere perfettamente con esso-lui.

Tale è il rigido canone grammaticale stilnovista donde Dante inizia il suo viaggio ultraterreno, che ha come meta l’ineffabile. Anche queste categorie si possono universalizzare ovviamente, essendo sempre identico il portato dell’ispirazione artistica in tutti i tempi e luoghi.

È il dato univoco di una loro esplicitazione personale nell’ambito di una cattolicità confessionale il fatto nuovo che sorge con il medioevo cristiano; il teatro dell’anima, la sua rappresentazione, si riducono quasi a zero, in favore della testimonianza di una presente esperienza fenomenologica del Logos trinitario cristiano. Si pensi alla Trinità di Brunelleschi in Santa Maria Novella, al suo essere una liturgia, e attraverso di essa un lavoro fatto per il popolo.

Allorché per Amelia questo “moto” si attua modernamente quasi attraverso un automatismo grafico-modale, come da antichi modi ecclesiastici, ovvero liturgici, della musica medioevale. E come questi, vengono poi ad aprirsi, quasi per un loro “effetto paradossale” dice ancora Arnaldo Colasanti, in una “spazialità” ulteriore, come tra le pareti di un fermo innalzarsi delle masse d’acqua del mare, lo spazio salvifico per il popolo ebraico in fuga verso la libertà.

Sono acque che un’alga tinge di rosso, ma se passaggio può esservi è dovuto al sangue dei martiri. Perché ogni cosa si paga, secondo quel precetto di Lucilio al giovane Albino per cui la virtù è conoscere il giusto prezzo per le cose in mezzo alle quali ci troviamo e viviamo, “praetium persolvere quis in versamur6.    

Tale punto di fuga delle arti è pienamente di un portato/portante orante, e ancor più in Amelia attinge ad un formulario sacro, ancorato più alla presenza di un Logos effettuale ripeto, che non ad una logica della sua rappresentazione, o del senso di lui. E non è altro, per l’appunto, che una litania, la quale da una parte sussume il metro grammatico classico avvolgendolo in una modalità polittica medievale; e dall’altra tutti gli esiti formali della modernità, financo l’automatismo surrealista, a quella modalità polittica medievale assoggettandoli, e facendoveli coincidere.

Che la forma polittica sia originariamente quella di un libellum dalle molte pieghe aprentesi e chiudentesi a piacimento, riporta immediatamente il titolo rosselliano in ambito catulliano, al suo “lepidum novum libellum / arida modo pumice expolitum” (Catullo, 1,1-2), non senza il corteggio di una significativa messe di fenomeni consonanti con la mineraria Lipari rosselliana e l’excrucior del carme 85; lepidum, Lipari, pomice, expolitum, excrucior. Dove il sacrificio amoroso dell’odi et amo, è già programmato nella macchina dolorosa dell’arida pumice, dell’essersi appena ripulito, e fattosi atto ad invocare la propria protettrice, “o patrona virgo” (Catullo, ibidem, 9).

Amelia sarebbe così la pittrice musicale di un polittico che abbraccia tutta la Storia, con la Croce centrale dei suoi due poemetti e i pannelli delle altre sue opere attorno di essa. Una sorta di Santa Ildegarda di Bingen della modernità per universalità e profondità di interessi, in un percorso convertente che è pure il simile della fenomenologia di Husserl, di quello attuato da più d’uno fra i suoi discepoli, ed esemplarmente da Edith Stein nel ritorno dalla fenomenologia al tomismo. E tutto ciò preservando il contenuto, anzi esaltandolo. Perché la problematica legata al canone musicale “non è solo metrica o ritmica ma di contenuto”, sottolinea Amelia di seguito alle parole di Arnaldo Colasanti.

Detto tra parentesi, proprio l’insieme dei due poemetti di Amelia contorniati da tutte le sue opere a formare un polittico – si tratta di veri e propri insiemidi lasse-sequenze medioevali, che hanno cioè come nucleo fondante le litanie post-liturgiche della Messa dai primi secoli fino al XII-XIII, lì dove la musica senza parole è sostenuta da vocalizzio memorizzata da un pacchetto di prosodie schematiche preparate ad hoc– affonda lontanissimo le proprie radici in tutta la Storia umana.

“La santità dei santi padri”, che è l’incipit di Libellula, è appunto una formula ipocoretica, ovvero vezzeggiativa, avente anche quella funzione iterativo-mnemonica quale ritroviamo nell’epica greca, già presente in quelle varie realtà cultuali che vanno dall’antico Egitto a tutto il bacino mesopotamico in cui, è bene ricordare, non mancavano ispirazioni monoteistiche pre-abramitiche, si pensi all’idea monoteistica del faraone Akhenaton (metà XIV secolo a. C.) o al principio del dio unico del persiano Zoroastro. E di fatti non c’è nulla nella poesia universale di più antico di questo incipit-formulario rosselliano –“La santità dei santi padri” – precipitatoci addosso, a noi moderni, direttamente dalle fonti orali del Genesi, a testimonianza di quella  reazione  cultuale che portò gli ebrei nomadi  tra l’Alta Mesopotamia e l’Egitto, al riassorbimento dell’ideale del deserto in quello ecclesiale, fino alla formazione dell’edah Israel, la chiesa di Israele, sorta attorno alla tradizione profetica pre-mosaica, quella appunto della  “santità dei santi padri”, partendo dalle antichissime iscrizioni religiose assire  di parentelacon la divinità , del XX secolo a. C., fino ad arrivare al “Codice di Santità” e alla “Legge della Santità” di Levitico 17,26, nonché 1,7, dove la Santità  “è legata con il potere di sacrificare nel Tempio”.

Va da sé che Libellula nella quadruplice simmetria delle sue ali, che sempre ricordano il momento rotativo fisicodello spin e dello spinore, è in tutto e per tutto anche un angelo babilonese. E non sorprendono affatto, questi carotaggi culturalmente abissali, in un lignaggio ebraico, quale quello dei Rosselli di Livorno, come pure da Livorno l’altro dei Modigliani, memore anch’esso, attraverso l’arte scultorea di Amedeo, dei “pilastrini di bellezza” di Babilonia, quei piccoli obelischi votivi al deo Marduk, messi davanti le porte a protezione delle case, e portanti di notte lucerne illuminate. A Marduk molti studiosi fanno risalire l’origine extra-olimpica di Apollo.

Amedeo Modigliani che, detto per inciso, sarà lo scultore discobolo che lancerà ad Amelia quei Canti di Maldoror che portava sempre in tasca; fino a farglieli ritrovare su di un vecchio banco di Roma, come ispirazione scatenante, ovvero liberatoria, per la sua Libellula.

Il fatto è che l’antica grammatica, irrigidita ancor più in scale modali ecclesiastiche nel Medioevo era proprio in quanto tale quel vivo legno atto a secernere tanto contenuto. Ed era pur sempre quel pino della Colchide, quale persona viva, che parla a Catullo (ait) in forma di Phaselus ille, sospinto nelle acque del Garda. Echi collodiani sono pur presenti, laddove è un figlio che parla.

E tale sua rigidità lignea di persona viva dicevamo, l’arte grammatica ha rifulso nei suoi poeti, se già Catullo ne aveva tratto quel suo excruciorpatibulum dell’odi et amo; e per Amelia è stato il mezzo per ritrovare classicamente, rivoltandosi da ogni gratuita modernità surrealista, il profondo tesoro di un proprio excrucior, da essa tanto ricercato: “Io non so / quale vuole Iddio da me, serii / intenti strappanti eternità”7  e poterne parlare sempre il contenuto. Amelia non cerca l’eccezione, ma piuttosto la regola, e la trova.

Di necessità, e purtroppo, l’arte grammatica viene uccisa tra Otto e Novecento dall’ideologia positivista, il suo contenuto vilipeso, l’albero tagliato, fatto a pezzi. Collodi si trova davvero tra le mani un ciocco di legno morto, una grammatica defunta. Ed è giocoforza ricominciare dalla sua riesumazione: “Pinocchio col suo bravo abbecedario nuovo sotto il braccio prese la strada che menava alla scuola”. Ma non più di una scuola di Stato si trattava, bensì di quella di un padre-madre desolato. Funzione di lingua attonita-atonale ripresa da Amelia e presenziata nella sua partecipazione al Pinocchio di Carmelo Bene (1961). 

Emanuele Conegliano, meglio conosciuto col nome preso da converso di Lorenzo da Ponte, discendente da una comunità ebraica di Conegliano – sembra che il papà Geremia avesse sposato, dopo la morte della prima moglie Anna Cabiglio, madre di Lorenzo, una Rachele Pincherle – già sui ventuno anni insegnava retoricaal Collegio Marconi di Portogruaro. Emigrato negli Stati Uniti, si stabilisce a New York dedicandosi all’insegnamento della lingua e letteratura italiana e aprendovi una propria libreria; nel 1825 diventa professore di italiano alla Columbia University a Manatthan.

Un secolo e passa dopo, tra il 1941 e il 1945, durante il suo soggiorno nel sobborgo newyorkese di Larchmont, Amelia si recherà una volta a settimana a lezione di italiano dalla nonna, Amelia Pincherle Rosselli; “ricordo che andavo con la mia bicicletta dall’altra parte del villaggio, o cittadina, di fronte a Long Island, a tener su l’italiano con studi su Dante presso mia nonna”, (Paesaggio con figure, cit.).

Una Libellula dunque partita da Montevideo sotto forma di lucciola nella notte e che risalendo il subcontinente americano arriverà a New Orleans dove Degas le appronterà la bellissima anima-tutù, trasmutandola in libellula e rinviandola  poi a Saint Louis tra il Missouri e la Louisiana di Eliot che la specializzerà con tutto il suo precipuo corredo  poetico-filosofico – da Dante alla fenomenologia di Husserl – e ancora per poi volare, pazza d’Amore e di colori, sui boschi e gli stagni e le “fienaggioni”del Vermont ad incontrare gli occhi meravigliati di una dodicenne Amelia. 

Ma soprattutto idea ducassiano-dantesca, se la stessa ispirazione dei Canti di Maldoror deriva a sua volta dalla Commedia di Dante, in primis dal volo delle gru di Inferno V: “comme un angle à perte de vue de grues fileuses, meditant beaucoup, qui, pendant l’hiver, vole puissamment à travers le silence” (Canti di Maldoror, I). Esuli mazziniani erano già da qualche decennio a Montevideo quando Isidore Ducasse vi nasce nel 1849, a diffondervi, tra le altre cose, il verbo dantesco, come poi, una volta a New York, i Rosselli saranno accolti e circondati da esuli di primordine e dalla stessa “Mazzini Society” creata da Gaetano Salvemini nel 1939.  

Di tradizione familiare mazziniana, anche Amelia Rosselli nonna leggerà Dante ai suoi nipoti. La lingua di Dante si trasfonderà nell’opera di Amelia Rosselli con tale robustezza ed icasticità, con così altissima recezione vocazionale, come forse non era ancora accaduto lungo il corso dei secoli.

“Tener su l’italiano”, dopo la catastrofe positivista tra Otto e Novecento ci pensa questa superstite famiglia Rosselli, nonna Amelia, nuore e nipoti, a trovare una terra promessa per salvare la lingua. La loro traversata dell’Atlantico inseguiti dai sommergibili tedeschi, non è diversa da quella degli ebrei in fuga dall’Egitto, e il sangue dei martiri atto a “persolvere praetium” per il passaggio delle acque di sempre, sarà stato pur quello dei tre fratelli Rosselli, Aldo, il primogenito, il protomartire, caduto ventenne sul fronte del Carso nel 1916, Carlo e Nello fatti assassinare nel 1937 in Francia dal regime fascista.

Non era ovviamente una nazioneluogo per salvare qualcosa, tutto era stato già distrutto; tutto era già perduto per Amelia Rosselli nonna, già giovane sposa abbandonata dal marito Joe Rosselli, poi vedova dopo la prematura morte di questi, alla fine privata anche di tutti e tre i figli. La “terra promessa” i Rosselli la portavano dentro di sé, e unirono il loro atollo di libertà all’altro che Lorenzo da Ponte aveva sospeso un secolo prima sopra le acque della Storia come Documento in una perenne  ghenizah diantica Schola ebraica.

Note

1

Anche Robert Graves, nei suoi studi sull’alfabeto irlandese, seguendo un suo metodo molto personale individua nella successione delle lettere del Tetragrammon, e leggendovi anche le vocali nascoste, il nome ineffabile di Dio.  

2

L’instabilità “volatile” del poemetto ne fa una sorta di nubecola cruciale che avvolge la nostra moderna «Civiltà delle macchine». Il riferimento è alla nota rivista su cui “Amelia Rosselli sostiene […] che La libellula vide la luce nel 1959” (Giovannuzzi 2003). Lo stesso critico però non indica in quale luogo Amelia sosterrebbe quanto sopra, limitandosi a riferire che il dato bibliografico è acquisito anche dalla Tandello (1997). C’è di fatti che alla verifica sui numeri di «Civiltà delle macchine», il poemetto “non compare, né quell’anno né i successivi”, continua sempre Giovannuzzi, “né i precedenti” aggiunge la De March (2006). D’altra parte, se prescindiamo da una pubblicazione a mezzo stampa, e intendiamo quel “vide la luce” come atto di nascita dell’opera nel momento stesso in cui il poeta ne concepisce l’esistenza, la convinzione di Amelia di un’irreale pubblicazione del poemetto su «Civiltà delle macchine» nel 1959 sarebbe vera, ma appunto di una verità non reale, bensì superiore e fenomenologica, riguardante una sua più profonda intenzionalità perseguita proprio mettendo in parentesi il dato realistico, e anzi, come è proprio della natura di Amelia quando il dato di fatto contrasta con il fenomeno della propria vocazione, a optare decisamente per quest’ultimo.  Di un manifesto filo di idealismo nei Rosselli, in tutta la loro storia familiare tra Otto e Novecento, parla di prima mano Aldo Rosselli nelle sue cronache su di essi (Aldo Rosselli, La famiglia Rosselli, Bompiani, 1983). Ma in Amelia si ha un decisivo salto verso il rigore delle Ideen di Husserl, per cui non si accetta “il dato di fatto” se questo non è conforme al fenomeno. Che è quanto già veniva a rivelarsi in un Carlo Rosselli bambino di quattro anni, allorché si oppose alla partenza della nurse Emmy che sua madre Amelia aveva dovuto licenziare per le sopraggiunte ristrettezze economiche dopo la separazione dal marito. Carlo vi si oppose “protestando che non voleva fosse partita”.  L’episodio ci è raccontato in un passo delle sue Memorie (il Mulino, 2001),dalla signora Amelia che così conclude: “si può ben dire di Carlo, che non ha mai voluto, fatto uomo, che una cosa fosse, quando andava contro la sua volontà”.  E così anche la nostra Amelia, proprio in linea con il carattere del padre, se il titolo “Civiltà delle macchine” è mimetico di quello ben più vero e antico di “La civiltà cattolica”, è su quest’ultima rivista che intenzionalmente pubblica il suo poemetto nel 1959, venendosi a trovare in un mondo delle essenze, e non della mimesi, in cui la sua dolorosa macchina poetica, fatta di carne e di legno, si fa sorella a quella dell’excrucior catulliano, oltre che alla precedente macchina di tortura mentale del perifyseos lucreziano, entrambe d’indubbia impronta amorosa. A fronte di una meccanica editoriale del tutto disamorante, e di tanta pseudo-civiltà letteraria, Amelia oppone la propria vibrante termodinamica amorosa, quale energon di una ispirata liturgia popolare, di lavoro già del tutto compiuto da lei stessa per il popolo di Dio. Lo stesso dicasi per le sue idiosincrasie nei confronti  della stampa massificata delle varie case editrici. La sua idea di libro stampato invece, era di un albero vivo, di una Croce vivente. La cosa le riuscì miracolosamente con l’edizione Saggiatore della Serie Ospedaliera, dove non solo i testi conservano i caratteri e la spazialità del dattiloscritto, ma tutto l’insieme è di già la tavola lignea di un polittico pittorico in cui il concentrico e geometrico quadro in copertina di un labirinto mentale rappresenta gli annali di quel suo albero-“giro del pane”, in cui sacrosantamente il patibulumLibellula si contorna delle metope ospedaliere del proprio sacrificio per una effettuale Salus  populi romani. Verrebbe in atto l’immagine-azione come di Tempi moderni di Chaplin (1936) e, oltre l’ineffettuale tuffo pitagorico degli ermetici-idealisti nell’eternità, o quello altrettanto ineffettuale del meccanismo-romanzo dei famosi mulini a vento, Amelia affronta la stritolante meccanica moderna, se non anche proprio aristotelica, impiantandovi dentro il proprio patibulum. La stessa com-posizione di La libellula va di pari passo, in una visione al contempo sincronica e diacronica, con tutto il resto del polittico, dalle Variazioni all’Impromptu; quando in concomitanza con altri suoi libri, quando acquisendo una sua più specifica autonomia. Giusto perché Amelia parte da un’Idea innata e, a partire dalla nuova famiglia Rosselli dopo l’abbandono di Joe Rosselli, familiare della Croce, che invece era stata effettivamente rimossa da tutto l’idealismo ermetico, rielaborandoun suo imperantepolittico giottesco – la Crocefissione – la cui sola elevazione può dare significazione alla propria ideogrammatica pittoricità, caduto ormai ogni velo di arte, di musica e parola, straziatosi ormai ogni gradino del nazi-ritmo, caduta lei stessa ai piedi della Croce, tra i residuati suoi versi “paesani e zoppicanti” dell’Impromptu.

3

Amelia Rosselli, Cantilena (poesie per Rocco Scotellaro) (1953), in Primi Scritti 1952-1963, Guanda 1980.

4

Una trascrizione della trasmissione, andata in onda il 25 ottobre 1992, si può leggere in È vostra la vita che ho perso, Le lettere, 2010, pag. 265-319.

5

T. S. Eliot, Song, 1-2.

6

Ettore Bolisani, Lucilio e i suoi frammenti, Padova 1932.

7

Amelia Rosselli, Roberto, chiama la mamma, trastullantesi nel canapè, in Variazioni belliche.

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