La voce di ventuno poeti sotto lente critica in “La Lampada di Aladino”, opera critico-antologica del poeta e critico letterario, Luciano Domenighini

Comunicato stampa

 10588670_10204421577366649_831852198_nTraccePerLaMeta Edizioni ha appena pubblicato La Lampada di Aladino. Annotazioni critiche su poeti contemporanei,[1] opera critico-antologica di Luciano Domenighini, poeta e critico letterario bresciano, e sotto la cura editoriale del poeta e aforista palermitano, Emanuele Marcuccio, ivi presente con sette titoli.

Luciano Domenighini nell’introduzione scrive: «[I]l poeta, come tutti gli artisti, ha un ruolo scenico, istrionico, un ruolo sociale di intrattenitore, inteso allo svago, al piacere di un pubblico proteiforme e giudicante, casualissimo e disimpegnatissimo. D’altra parte si vuole che al poeta sia concesso il lusso della sincerità nel manifestare la propria indole e i propri moti interiori. A me […] piace invece pensare che egli sia, oltre che glorificatore asservito o impudico teatrante di se stesso, anche libero custode della parola. La Lampada di Aladino si occup[a] di venti poeti italiani contemporanei, sconosciuti o emergenti, dilettanti o “professionisti”.

[…] Se la poesia, fatto salvo, volta per volta, il grado della sua caratura formale, è, in definitiva, un atto d’amore, anche la critica, pur tanto nell’arida pedanteria dei suoi schematismi analitici quanto, per contro, nella barbara e supponente arbitrarietà che così spesso si arroga, quando non divaga in digressioni vanesie e narcisistiche ma si rivolge esclusivamente all’oggetto artistico, la critica, dicevo, nel suo approccio conoscitivo, nel manifestarsi come volontà di comprensione, può essere anch’essa un atto d’amore.»

Nell’opera figurano le poesie dei seguenti autori: Emanuele Marcuccio, Giorgia Catalano, Marco Nuzzo, Giovanni Amato, Rosa Cassese, Lorenzo Spurio, Silvia Calzolari, Giuseppe Cristini, Sandra Carresi, Paola Surano, Maria Rita Massetti, Annamaria Pecoraro “Dulcinea”, Anna Maria Folchini Stabile, Anna Alessandrino, Michela Zanarella, Raffaella Amoruso, Anna Bonarrigo, Margherita Calì, Annamaria Stroppiana Dalzini, Matteo Cotugno, Luciano Domenighini.

  

Info:  wrww.tracceperlameta.org – info@tracceperlameta.org 

 
SCHEDA DEL LIBRO
 
TITOLO: La Lampada di Aladino
SOTTOTITOLO: Annotazioni critiche su poeti contemporanei
AUTORE: Luciano Domenighini
CURATORE: Emanuele Marcuccio
PREFAZIONE: Francesco Martillotto
EDITORE: TraccePerLaMeta Edizioni
GENERE: Critica Letteraria
PAGINE: 304
ISBN: 978-88-98643-22-6
COSTO: 13 €
Link diretto alla vendita

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Chi è Luciano Domenighini…

 Luciano Domenighini (Malegno – BS, 1952). È poeta, critico letterario e critico musicale. Ottenuta la maturità classica si laurea in Medicina e inizia la professione medica quale medico di Medicina Generale, attività che svolge tutt’ora. Negli anni universitari collabora, per tre anni, con una radio locale a Parma in qualità di critico musicale per la musica operistica.  Nel 2000, a Bologna, ottiene il primo riconoscimento letterario, una segnalazione a un premio di poesia. Nel 2003 vince il premio internazionale “Provincia di Trento” per la poesia “Canzone”. E nel 2004 al Vittoriale di Gardone Riviera gli viene assegnato il premio internazionale “Gabriele d’Annunzio” per la poesia “Esercizio di rima”. Sempre nel 2004 pubblica la sua prima raccolta di versi “Liriche esemplari”. Collabora nel frattempo saltuariamente con giornali locali come critico letterario. Nel 2004 ottiene il 4° posto al premio Nazionale di Poesia “Il graffito d’Oro”, riservato a Medici e Farmacisti letterati, con la poesia “Dalla spiaggia” e due anni dopo nel 2008, sempre al “Graffito d’oro”, vince il premio speciale della giuria con la poesia “Al figlio”. Ancora nel 2008 ottiene una segnalazione alla XXI edizione del premio Nazionale Città di Corciano con la poesia “Mottetto”. Nel 2010 redige un breve commento critico ad alcune poesie di giovani poeti siciliani fra cui quindici titoli della raccolta «Per una strada» di Emanuele Marcuccio. Ha scritto la prefazione al romanzo, Il dio sordo di Antonio Scotto Di Carlo, sua opera prima. Nel 2012 è stato membro di giuria del concorso letterario internazionale “TraccePerLaMeta”. Ha curato le prefazioni degli ultimi due libri di Emanuele Marcuccio. Ha in progetto un Volume di traduzioni di celebri poeti francesi, dall’Ottocento ad oggi.

[1] Il libro si chiuderà con un’appendice in cui Domenighini commenterà criticamente cinque poesie di celebri poeti della nostra letteratura: “A Zacinto” di Ugo Foscolo; “La Pentecoste” di Alessandro Manzoni; “La siepe” di Giovanni Pascoli; “Immagini del viaggio e della montagna”, “Il Canto della Tenebra” di Dino Campana.

Lorenzo Spurio intervista il poeta campano Ugo Piscopo

LS: La critica ha analizzato la sua ampia produzione poetica come un colloquio tra classicità e modernità e come una curiosa altalena tra continuità ermetica e affiliazione allo spirito “elettrico” delle avanguardie. Per la componente della poetica classica sono stati sottolineati nelle sue liriche sabismi e montalismi in linea con una poetica di tipo elegiaca e dal tono sofferente ripiegato sull’animo dolente dell’uomo. Si ravvisa, però, anche una sua vicinanza ai nuovi fermenti letterari delle cosiddette neo-avanguardie e un’assonanza con lo spirito del gruppo’63 e la categoria dei poeti ricordati come i “nuovissimi”. Può parlarci di questa fase letteraria italiana e dirci quanto è stata importante per la sua formazione di poeta nel corso degli anni?

UP: Preciso subito i miei rapporti col lessico: sia “classicismo” sia “modernismo”, li tengo in sospensione. Non è perché mi facciano venire le allergie, ma ne faccio uso con estrema cautela. Ben altro è il rapporto con “classicità” e “modernità”, che sono referenti valoriali in cui credo. E credo soprattutto nella forza dei loro scambi sinergici, come ci hanno creduto nel Novecento Quasimodo e Sanguineti, Yeats, Eliot e Rilke, Savinio e Bontempelli, e prima ancora (andando à rebours) Baudelaire, Shelley, Keats e Byron, Goethe e Novalis e tanti altri. Con la neoavanguardia e con i movimenti sperimentali del secondo Novecento, sono stato compagno di strada, ma in totale autonomia. Avrei dovuto essere a Palermo per la costituzione del Gruppo 63 e conservo ancora una cartolina di invito di Luciano Anceschi. Con Edoardo Sanguineti, c’è stata amicizia. Ha recensito dei miei libri, una volta per dodici settimana di seguito mi ha mandato una cartolina illustrata, ha scritto per una collana da me diretta un volume[1], e, quando è scomparso, stava scrivendo un  volume dedicato a Salerno sempre per la stessa collana.

  

LS: Anche la sua attività di acuto saggista è stata rivolta a testi/autori appartenenti a generazioni innovative catalogabili all’interno delle cosiddette “avanguardie storiche” quali il futurismo e il surrealismo. Si è dedicato, ad esempio, a studiare Alberto Savinio[2] che fu, assieme a Tommaso Landolfi, l’esponente di spicco del surrealismo italiano votato all’indagine dei recessi dell’io tra il fantastico, il misterioso e il perturbante. Tra gli altri studi che ha condotto va ricordato anche un saggio su Massimo Bontempelli[3], padre del cosiddetto “realismo magico”. Può parlarci della sua fascinazione nei confronti delle avanguardie e del suo rapporto con poeti e scrittori che appartennero a questo filone?

UP: Nella mia produzione saggistica, futurismo e surrealismo occupano uno spazio notevole. Oltre a quanto pubblicato, ho un articolato e polposo volume (che resterà inedito) concernente il profilo del surrealismo in Italia. Ho anche un contratto, che finora non ho onorato, con la Casa editrice Guida di Napoli per una rivisitazione del surrealismo alla luce della sensibilità e delle mitologie del mondo contemporaneo. Ma, oltre all’avanguardia storica, ho studiato anche movimenti, situazioni e autori di indirizzo sperimentale del secondo Novecento. Per tale aspetto, rinvio alla mia produzione critica riguardo al settore delle arti figurative: ho scritto volumi, curato cataloghi e mostre concernenti l’informale, l’astratto geometrico, il postmoderno, sono stato responsabile per la critica d’arte di “Paese Sera”, redazione di Napoli. In questi giorni, è comparsa in vetrina una mia robusta monografia[4], dove si analizza lo svolgimento di un significativo artista sperimentale attraverso la specola delle interrelazioni fra individuo e ambiente e fra Napoli e il mondo contemporaneo nella seconda metà del secolo scorso e nei primi anni del nuovo secolo.

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LS: William Butler Yeats (1865-1939), poeta irlandese, vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1933. E’ considerato, assieme a Virginia Woolf e James Joyce, uno dei padri del modernismo inglese, quella fase poetica anglosassone più aderente alle problematiche ed esigenze dell’uomo, che sviscerò il disagio psichico e per la prima volta smitizzò la coscienza dell’artista per renderla, invece, materia dalla quale partire per fare letteratura. Le propongo qui una sua poesia intitolata “I vecchi che si ammirano nell’acqua”[5] per chiederle una sua interpretazione personale:

 Ho udito i vecchi, i vecchissimi, dire:
«Tutto muta,
E a uno a uno noi scompariamo»,
Avevano mani simili ad artigli, e le ginocchia
Contorte come i pruni antichi
Presso le acque.
Ho udito i vecchi, i vecchissimi, dire:
«Tutto ciò che è bello trascorre via
Come le acque».

 

UP: All’irlandese Yeats dedicai trentenne (1964) una conferenza presso l’Istituto Italiano di Cultura di Tripoli, nella città dove mi trovavo per conto del Ministero degli Esteri, Relazioni culturali con l’estero. A lui e all’Irlanda del primo Novecento (in particolare, a Joyce) mi piace pensare di frequente. La composizione qui proposta è deliziosa, avvolgente e comunicativa e appartiene meno al filone yeatsiano sperimentale che a quello simbolista-visionario, che si costituisce su una cifra ermeneutica tutta personale di interrogazione degli aspetti primari dell’esistenza, per ricavarne spunti di riflessione sulla storia e sul destino dell’uomo. Il quale, come soggetto attivo delle contraddizioni e degli intrecci di tensioni vitali, diventa icona di una condizione patica di verifica dell’esser-ci. In questi versi, estremamente trasparenti ed essenziali, il dramma esistenziale si cala in toccate e fughe lievi e allusive sulla liquida mobilità del vivere, sottolineata da “presso le acque” e “come le acque”. Sul bordo delle acque sono collocate statuariamente delle sculture umane di figure lavorate dal tempo con «mani simili ad artigli» e «ginocchia contorte come pruni antichi». Intanto, nell’atmosfera attorno fluiscono parole, narrazioni brevi sul senso del tutto: «tutto muta», «tutto ciò che è bello trascorre via».  

  

LS: L’idea di questa intervista è quella di poter diffondere le varie interpretazioni sulla Poesia e in questo percorso ho ritenuto interessante proporre a ciascun poeta il commento di due liriche di cui la prima è di un poeta contemporaneo vivente e ampiamente riconosciuto dalla comunità letteraria e un’altra di un poeta contemporaneo, esordiente o con vari lavori già pubblicati, per consentire l’articolazione anche di una sorta di dibattito tra poeti diversi, per esperienza, età, provenienza geografica, etc e di creare una polifonia di voci e di interpretazioni su alcune poesie appositamente scelte. La prima che Le propongo per un’analisi è “Fior di cactus” tratta dalla silloge La grazia di casa mia[6] del poeta di origini brasiliane Julio Monteiro Martins[7]:

Cambiali e minotauri,
saturnali e minestroni,
angurie e folgorazioni.
 
Soldi e versi.
 
Tristi accoppiamenti.
 
E intanto
arrivano bollette
e il poeta soffre.
 
La vita intera
sull’orlo dello sfratto.
 
Gli spazi chiusi
sempre instabili,
Le pareti costano.
 
Al poeta povero,
sgradito ai proprietari,
respinto dalle mura,
resta l’aperto.
L’addiaccio.
 
 
Sulla mia vita
all’aperto
ve ne racconto una,
gratis come sempre.
 
Esiste un luogo
dove non c’è televisione
e non arrivano giornali.
È una sorta di deserto.
È bello visitarlo all’alba
quando fioriscono i cactus.
 
Lì ho conosciuto
l’ironia vegetale.
Il cactus più brutto
è quello dal fiore più bello:
un gigantesco giglio,
profumato,
variopinto,
che si apre solo all’alba.
Si capisce.
Da quelle parti
il sole è così ardente
che il fiore
non ha scelta
e deve rimanere chiuso
per tutta la giornata.
 
Ma state tranquilli.
Trattenete pure
le interpretazioni.
Questa storiella
non è una metafora
della miseria del poeta.
 
È soltanto un ricordo.
Un richiamo forse.
Una fitta.
Una piccola cosa,
mentale
e inestimabile.

 

UP: Non conosco l’autore di questa poesia. E’ la prima volta che leggo dei suoi versi. Intanto, questa composizione non mi lascia indifferente con la sua immediatezza comunicativa, con le sue movenze rapide, pressoché sussultorie, con gli umori sarcastici e lievemente dissacratori tenuti sotto controllo, ma garbatamente, giocosamente lasciati trasparire in superficie. L’autore non si pone frontalmente nei confronti di chi legge o ascolta, anzi si colloca da quest’altra parte della scena, come uno del pubblico, col quale ha il piacere di colloquiare provocatoriamente con allegra tristezza di dietro o lateralmente. Entro questo scenario, si viene progressivamente formando un’atmosfera di perplessità e di attesa su stigmi di una modernità tutta cose e contraddizioni, che non concedono spazi all’evasione, alle regressioni, alle confortanti rassicurazioni. Il linguaggio fatto di concretezza e di oralità, tuttavia, non si nega al momento magico dello stupore, quando al centro di una condizione di rudezze esperienziali si apre improvvisamente un varco all’apparizione dell’inatteso, del diverso, quel fiore di cactus, che è una delizia, proveniente dalla pianta più ostica e retrattile, che è il cactus.

 

 LS: Di seguito, invece, Le propongo la poesia “Il drago infuocato”[8] della poetessa Anna Maria Folchini Stabile[9]:

 

Un fiume di parole si inseguono
nell’aria ferma
che si fa di ghiaccio.
Pensieri e visioni di passato rotolano sul presente,
eruttati dall’urna di cristallo.
 
Il vuoto,
il rammarico
riempiono, poi, il cuore
di infinita e sconsolata
 
Meglio sarebbe stato inghiottire il drago adirato
con tutto il suo pennacchio di fumo…

 

UP: Egualmente, come già per Julio Monteiro Martins, devo segnalare che adesso per la prima volta sto prendendo contatto con la scrittura di Anna Maria Folchini Stabile. Trovo anche questa composizione significativa. Essa mi mette a contatto con una voce che, in una stanza illuminata dalle pareti lisce e rigorosamente prive di ornamentazioni e altre aggiunzioni, sul filo di una disciplinata pazienza, evoca situazioni in cui il complessivo e la complessità stessa si assoggettano a processi e a linee di essenzializzazione. Lo stile è del suggerimento e della confidenzialità estremamente sobri, se non cauti. Poi, improvvisamente avviene uno scarto, un’impennata. Mentre, il discorso stava avvolgendosi tutto all’interno di una stanza di castigata meditazione, il cavallo dell’immaginazione balza oltre l’ostacolo. Un guizzo, un salto e via… Non a caso anche la poetessa adopera i puntini sospensivi, per suggerire a chi legge che di là in poi deve correre (collaborativamente) con la sua fantasia e immaginare quello che oggi potremmo chiamare il sequel, che sta diventando sempre più tema ricorrente nei dibattiti e sui media.

  

LS: La sua prima silloge, Catalepta, appare al lettore come una prima summa di esperienze con il mondo viste con uno sguardo mesto e leggermente sofferente; va rintracciando, infatti, quelle che sono le amarezze, le “fragili speranze”, la debolezza (intendiamo fisica, ma anche morale) degli uomini, i dolori della guerra e della dittatura («ci sono ancora le camice nere»[10]) e ne fuoriesce a tratti un’indagine di carattere crepuscolare che, però, rifugge ciascuna forma di vittimismo dopo aver preso coscienza che la vita, pur gravata da dolore, è importante e va rispettata e considerata il dono più grande in nostro possesso. Nella penultima lirica della raccolta, intitolata “Vita”[11], scrive appunto:

 

Guazzando in una pozza
di luce
affondo le mani
Son vivo.
Riconosco la  vita
in quel poco di carne
che noi soffriamo
caldi d’un soffio oltramondano.

 

Può dirci come è nata questa poesia e quanto secondo Lei è importante il dolore, la sua percezione e contestualizzazione, come elemento esperienziale nel percorso dell’uomo?

 

UP: Prima qualche precisazione su questa poesia: la scrissi negli anni universitari, quando ero molto suggestionato dai classici antichi e moderni, a cominciare dagli autori greci (soprattutto, i lirici e i tragici). Tra i moderni, incalzavano particolarmente Leopardi, Baudelaire e Rimbaud, Ungaretti e Quasimodo, i romantici inglesi, Lorca e Guillén. Sul piano del pensiero, l’attenzione era assorbita dalle interrogazioni sull’esistenza che vanno da Kierkegaard a Sartre. Passiamo, poi, al dolore. Già, il dolore, il sale della vita. Chiediamolo a Montaigne, a Leopardi. Attraverso questo filtro, acquistiamo senso nel mondo e diamo senso ai nostri rapporti col mondo. La sua esperienza è, dunque, condicio sine qua non di partecipazione e dell’acquisto di consapevolezza della partecipazione a una situazione generale in divenire in una condizione, purtroppo, di individualità mortale, di limitatezza e parzialità che si vorrebbe ricongiungere al tutto. Sul diagramma del dolore registriamo la nostra storia, l’avventura della nostra presenza. Il dolore, però, rispetto alla poesia e all’arte è un primum soltanto. Non è col dolore che si fa poesia, ma con le parole, come dice Valéry. Con la scrittura, come sostiene Derrida.

  

LS: Una delle sue opere maggiori è considerata Quaderno a Ulpia, la ragazza in mantello di cane (Guida, 2002) che è completamente ispirata e dedicata alla sua compianta cagnetta, legata a lei da un rapporto molto stretto. Il libro, oltre ad apparire come un lungo canto soave volto a rimembrare  momenti felici e giocosi vissuti con Ulpia, si offre al lettore come un vivido testo di impronta esistenzialista. In un certo senso parlando di un cane è come se volesse mettere in luce quanto l’animale da lei amato possedesse qualità inenarrabili e fosse capace di ricambiare quell’affetto donato che, invece, oggigiorno trova sempre una maggior reticenza e latitanza nel comportamento dell’uomo. Può dirci come è nato questo libro e qual è stata l’intenzione che ha mosso l’intera opera?

UP: Questa raccolta, insieme con le raccolte e con le composizioni che la precedono a partire dagli anni Novanta del secolo scorso (connotati dal ripiegamento sul minimale e sulla ragione debole, dalla sempre più accentuata diffidenza nei confronti delle grandi narrazioni e delle spiegazioni ultime e ultimative, dagli scandagli non neutri e freddi della fine dei tempi, dal ricorso come risorsa alla non-coerenza in risposta all’andata in crisi del mito del progresso e della fede nell’unidirezionalità del cammino della storia) e insieme con le raccolte e con le composizioni che la seguono, segna decisamente un punto di svolta. Di qua in poi, la ricerca avviata sin dall’inizio (anni Cinquanta), ma prevalentemente in maniera allusiva e simbolica, acquista un atteggiamento di maggiore esplicitezza sulla probabilità di una Weltanschauung libera dai condizionamenti e dall’autoreferenzialità dell’antropocentrismo. Si tentano recuperi di linguaggi dimenticati nel sottosuolo della coscienza, contattazioni di snodi e intrecci fra l’Io del singolo e l’Io più complessivo, con cui ci muoviamo in sincronia, di ciò che non è umano (il cane in questo caso, poi le erbe (Haiku del loglio e d’altra selvatica verzura), poi le pietre (Esistenze preesistenti. Pietre di Serra di Pratola Serra), poi…

 

LS: Negli ultimi anni un numero sempre maggiore di intellettuali, tanto scrittori quanto artisti afferenti ad altre forme d’espressione, hanno posto al centro della propria attività un chiaro interesse ecologico, volto cioè, ad evidenziare come la sconsiderata azione dell’uomo provochi gravissimi danni alla natura, alcuni dei quali non visibili direttamente ma che si manifestano inaspettatamente con un’inaudita violenza (terremoti, frane, ecc.). L’utilizzo del tema ha significato, oltre a un chiaro intento dell’artista di sensibilizzare nei confronti di realtà che riguardano indistintamente tutti, un nuovo modo del poeta di relazionarsi alla natura. Si pensi come è cambiato nel corso dei secoli il rapporto dell’uomo con l’elemento naturale e nel sistema dei comportamenti e nella rappresentazione che la letteratura ne ha fatto (si pensi al mito dell’Arcadia, all’esaltazione del paesaggio fatta dai romantici inglesi, al saggio Nature di R.W. Emerson e al romanzo Walden[12] di H.D. Thoreau). Che cosa ne pensa dell’utilizzo del tema con chiari intendimenti legati alla salvaguardia del benessere ecologico? Conosce o ha letto poeti che sono particolarmente sensibili al tema?

UP: Io provengo dal mondo contadino (Irpinia), i miei nonni paterni e materni erano contadini, il mio immaginario e la mia sensibilità hanno avuto un imprinting per sempre dal mondo della natura. Le mie nonne (la paterna e la materna) erano analfabete, ma sapevano usare e decifrare linguaggi complessi di interpretazione e di relazione con la vita e ne facevano uso di grande sapienzialità. La mia nonna materna, che è stata la mia seconda madre e che ha esercitato un grande ruolo nella mia prima formazione, mi ha trasmesso un grande rispetto per la vita, nella sua ricchezza, nella sua varietà e nelle sue meraviglie o, meglio, nei suoi miracoli. Negli scritti creativi (prosa e poesia), la mia fantasia si riferisce puntualmente a quelle frontiere, sia quando ne tratto esplicitamente, sia quando tratto situazioni altre e lontane. Allora, forse, ancora di più. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, con un amico artista, Toni Ferro, oggi scomparso, dopo un manifesto sul teatro totale, elaborammo un progetto di un nuovo linguaggio artistico ispirato alle esigenze ecologiste e ne nacque una rivista dal titolo Arte ed Ecologia. All’ecologia ho dedicato grandissimo spazio nelle mie pubblicazioni per la scuola. Mi si chiede se conosca o abbia letto poeti particolarmente sensibili a questo tema. Rispondo così: ce ne sono tanti soprattutto oggi di questi poeti. Ma sempre la poesia, in quanto poesia, è stata per un’ecologia sostanziale della parola, della sensibilità, dell’immaginario. Certo, è stata anche di parte. A cominciare da Omero e da Esiodo, passando per Teocrito e Virgilio, fino a Guillén, che dedica tante poesie al trifoglio, a Montale intriso nella memoria dei profumi dei limoni, a Zanzotto che fa rifluire storia ed esistenza nella corporeità di selve e di fiori. E oltre ancora.

  

LS: Lei ha alle spalle una lunga attività di docente nella scuola secondaria, di preside di liceo e di dirigente superiore del Ministero della Pubblica Istruzione con funzioni ispettive, che le ha consentito di rapportarsi direttamente con le nuove generazioni. Perché, secondo lei, i giovani considerano la poesia, e più in generale lo studio della letteratura, come una grande noia che non ha nessuna utilità pratica nel mondo concreto? Si è mai trovato a spiegare a dei giovani l’importanza della letteratura e, se sì, portando quali argomentazioni?

UP: Per la scuola e per i giovani ho scritto tanto: libri, saggi, articoli, relazioni. Alcuni miei libri sono stati dei bestseller.[13] Conosco bene il problema proposto: in effetti, i giovani, nel corso degli anni di istruzione e di formazione a scuola, vengono prevalentemente disgustati (se non intossicati) nei riguardi della letteratura, della poesia, del tema della bellezza. Ciò accade, anche se non dovrebbe accadere, spesso per colpa degli operatori stessi della scuola, che adoperano questi argomenti in maniera sbagliata o inadeguata: atteggiamenti iussivi e coercitivi e perfino punitivi, ripetitività fino alla noia, moduli generalizzati non tarati sulla sensibilità e sulle motivazioni dei soggetti in apprendimento, celebrazioni panegiristiche di autori e indirizzi. Ma, purtroppo, con indirizzi carenti o distorti interni alla scuola, interagiscono molteplici fattori esterni, che influenzano oggettivamente i processi formativi: i diffusi pregiudizi sulla scuola, sulla letteratura, sulla poesia, sull’arte, le vulgate iconografie del letterato, del poeta, dell’artista, che adeguano queste figure a mammolette e a sempliciotti scollegati dalla realtà. Anche l’uso improprio, che si fa sui marciapiedi, al bar, altrove del concetto di poesia e di arte dà il suo contributo in negativo. Oggi, poi, sempre più massicciamente hanno effetti negativi di ricaduta gli usi dei nuovi media, che distolgono dalla lettura, dall’esercizio critico, abbreviano i tempi di applicazione dell’attenzione, sollecitato ricezioni di carattere dilettevole. E ciò avviene non per colpa dei media stessi, ma per le strategie di eterodirezione delle coscienze dall’alto e per le relazioni che si stabiliscono in maniera frettolosa e rude con i linguaggi mediatici dal basso.

   

LS: Oggigiorno, anche grazie alla spasmodica filiazione di case editrici non a pagamento, book-on-demand e altre soluzioni di facile utilizzo, tutti si improvvisano scrittori. Ognuno ha probabilmente un suo modo di intendere il libro, l’opera e la letteratura, ma sta di fatto che la crescita esponenziale di opere sul mercato, rende estremamente difficoltosa da parte dei lettori la scelta dei testi. Dall’altra parte, il fenomeno è ulteriormente negativo, se si pensa che molti validi scrittori –magari incompresi e non spalleggiati da grandi marchi editoriali- finiscono per soccombere prima ancora di nascere. Che cosa ne pensa del panorama editoriale italiano e quali consigli si sente di dare agli esordienti?

UP: Che penso dell’editoria, io che sono stato consulente di case editrici, fondatore e direttore di collane? Che è un continente a geografia variabile, con profonde insenature, con massicci sistemi montuosi, ma anche con sabbie mobili e con profonde depressioni al di sotto del livello del mare. Non va né condannato, né celebrato, ma va studiato e possibilmente aiutato a migliorarsi, se il contesto sociale e culturale sa/vuole incalzare le politiche editoriali, se l’utenza sa scegliere e non funzionare unicamente come utilizzatrice finale che si lascia guidare dai clamori e dalle persuasioni (non sempre occulte) dei produttori e dei distributori. Ma come orientarsi, mi si chiede, in mezzo all’attuale alluvione di pubblicazioni dei nostri giorni? La situazione, non solo italiana, ma globale è pressoché babelica: questo, però, non deve spaventare, perché l’offerta così abbondante offre anche l’opportunità di imbattersi nel buono e perfino nell’ottimo. Molto dipende dalla credibilità e affidabilità della mediazione critica e recensiva. Oggi, un ruolo intellettuale ed etico/civile sempre più determinante è affidato oggettivamente dalle situazioni a chi lavora in questo campo e si fa carico di leggere e valutare per sé e per gli altri, immune da partigianerie e da allettamenti di mercimonio. L’educazione che si deve elaborare e trasmettere è dell’autonomia dalle seduzioni del gregarismo e della spettacolarizzazione, e dell’innalzamento dei livelli di criticità e di responsabilità di ognuno e di tutti. Perché oggi leggere, proprio come scrivere, è a rischio maggiore di connivenza e di colpa, rispetto al passato.                                                             

 

 Napoli, 6 giugno 2013

 

[1] Edoardo Sanguineti, Genova per me, Napoli, Guida, 2005.

[2] Ugo Piscopo, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973.

[3] Ugo Piscopo, Massimo Bontempelli. Per una modernità delle pareti lisce, Milano, Mondadori, 2001.

[4] Ugo Piscopo, Carmine Di Ruggiero. Nel vento solare della luce, San Sebastiano al Vesuvio, Alfa Grafica, 2013.

[5] Il titolo della poesia in lingua originale è “The Old Men Admiring Themselves in the Water”. La poesia è contenuta nel volume The Collected Works of William Butler Yeats, Halcyon Press Ltd, 2010.

[6] L’intera silloge alla data odierna è inedita e verrà pubblicata probabilmente nel 2014, come mi è stato comunicato dall’autore stesso.

[7] Per maggiori informazioni sul poeta si legga la sua biografia nel capitolo-intervista a lui dedicato.

[8] Anna Maria Folchini Stabile, Il nascondiglio dell’anima, Avola (SR), Libreria Editrice Urso, 2012, p. 18.

[9] Anna Maria Folchini Stabile è nata a Milano nel 1948. Attualmente vive tra la Brianza e il Lago Maggiore. Ha alle spalle una lunga carriera nel mondo dell’insegnamento. E’ poetessa, scrittrice e presidente dell’Associazione Culturale TraccePerLaMeta. Di poesia ha pubblicato Spuma di mare (Lulu Edizioni, 2009), Il nascondiglio dell’anima (Libreria Editrice Urso, 2012), A volte non parlo (Libreria Editrice Urso, 2013); di narrativa ha pubblicato le raccolte di racconti L’estate del ’65 (Lulu Edizioni, 2008), Un topolino di nome Anna (Lulu Edizioni, 2010) e Noccioline (Lulu Edizioni, 2010). Ha curato, inoltre, per il sito Racconti Oltre dove scrive regolarmente, il manuale Come si scrive? – piccolo prontuario per l’autocorrezione dei più comuni errori ortografici, assieme a Luca Coletta. Partecipa a concorsi letterari ottenendo buone attestazioni.

[10] Ugo Piscopo, Catalepta, Napoli, L’arte tipografica, 1963, p. 15

[11] Ivi, p. 26.

[12] Walden o La vita nei boschi, pubblicato nel 1864, è il romanzo più celebre dell’autore. Esso contiene in forma romanzesca un’analisi sul rapporto dell’uomo con la natura.

[13]  Cfr. Ugo Piscopo, Antologia di cultura contemporanea, Palermo, Palumbo 1969, il primo libro interdisciplinare (dalle molte edizioni e ristampe) dedicato alle questioni aperte nel mondo giovanile e nella cultura in movimento dopo la prima ondata della contestazione (1968); Carlo Salinari – Ugo Piscopo, Noi e gli altri, ibidem, 1973, antologia per i bienni delle scuole secondarie superiori; Ugo Piscopo – Giovanni D’Elia, La società civile, Napoli, Ferraro, 1979, testo di educazione civica, che tra la fine degli anni Settanta e nella prima metà del decennio successivo fu il più diffuso in Italia, con tre milioni di copie vendute. 

A Recanati il 10 maggio la Premiazione del 2° Concorso Lett. TraccePerLaMeta e un reading di poeti marchigiani

Nel pomeriggio di sabato 10 maggio nella prestigiosa Sala Foschi del Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati (MC) si terrà un importante evento culturale organizzato e promosso dalla Associazione Culturale TraccePerLaMeta e dalla rivista di letteratura “Euterpe”.

La serata si aprirà con i saluti introduttivi della Presidente della Ass. Culturale TraccePerLaMeta (Anna Maria Folchini Stabile) e a seguire quelli del Sindaco di Recanati (Francesco Fiordomo) e del Presidente del Centro Nazionale Studi Leopardiani (Fabio Corvatta).

L’evento centrale del pomeriggio sarà la premiazione del 2° Concorso Letterario Nazionale “TraccePerLaMeta” che in questa seconda edizione si apriva con i versi di un estratto di una lirica di Leopardi alla quale era possibile ispirarsi.

Da ogni parte d’Italia arriveranno i vari vincitori e menzionati a vario titolo (per le due sezioni di partecipazione: poesia e racconto) e altri partecipanti i cui testi saranno pubblicati in un’opera antologica che verrà diffusa nella stessa serata.

l pomeriggio letterario, appoggiato moralmente dalla Regione Marche, dalle Province di Ancona, Macerata, Pesaro-Urbino, Fermo, Ascoli e dai Comuni di Macerata e Recanati proseguirà con un reading con alcune voci di poeti locali che leggeranno proprie poesie.

Ad arricchire ulteriormente la serata sarà un intervento dal titolo “La modernità nella poetica di Leopardi” della poetessa e scrittrice Annamaria Pecoraro e le musiche di Luca Mengoni (violino) e Federico Perpich (violoncello) della Civica Scuola “Beniamino Gigli” di Recanati.

La S.V. è invitata a prendere parte al pomeriggio culturale secondo il programma in locandina.

Ingresso gratuito.

Info: info@tracceperlameta.orgwww.tracceperlameta.org

recanati-locandina

 

programma estratto dalla locandina

A Pieve Emanuele la presentazione di “Viviamo errando” di Luigi Marini

“Viviamo errando”, la nuova raccolta poetica di Luigi Marini

TraccePerLaMeta Edizioni pubblica l’opera poetica del poeta pievese

 

 cover MariniÈ stata pubblicata da TraccePerLaMeta Edizioni l’ultima silloge poetica intitolata “Viviamo errando” di Luigi Marini, noto personaggio e poeta Pievese.

L’opera, che sarà  presentata ufficialmente nel corso del reading poetico che si terrà a Pieve Emanuele (MI) il 29 settembre p.v., è una raccolta di poesie dedicate all’uomo, agli affetti veri, ai principi e ai valori che fanno da leitmotiv non soltanto alla sua poetica personale, ma allo spirito educativo e civile della nostra società.

Come dice nella sua prefazione Anna Maria Folchini Stabile, poetessa e scrittrice, presidente dell’Associazione Culturale TraccePerLaMeta, Luigi Marini è un profondo conoscitore della vita e della sua gente e «le sue  qualità di osservazione, ascolto, attenzione e  sensibilità profonda gli permettono di scrivere poesie sulle persone che camminano con lui lungo la strada della vita da lui intesa come un pellegrinaggio, ricco di incontri ed emozioni, parentesi da percorrere prima di raggiungere la meta definitiva dove tutto avrà compimento, come egli scrive nella poesia che non a caso si intitola “Viviamo errando” che dà titolo alla raccolta e  che è anche una quadreria di personaggi che a Pieve Emanuele vivono o hanno vissuto e di questa comunità sono tradizione, forza e caratteristica».

Il libro verrà presentato a Pieve Emanuele (Mi) domenica 29 settembre a partire dalle ore 15,30 all’interno dell’evento “Reading & Flamenco” organizzato dalla Associazione Culturale TraccePerLaMeta in collaborazione con la rivista di letteratura Euterpe.

 

Luigi Marini è nato a Pizzabrasa, nel comune di Pieve Emanuele (MI), nel 1944 e risiede da sempre in questa cittadina in cui si è adoperato per migliorarne la qualità dei rapporti umani e i servizi a favore della collettività. Il suo interessamento per le persone in difficoltà lo porta a rafforzare la Croce Bianca con la promozione di corsi di aggiornamento per il volontariato, a fondare il comitato per le tossicodipendenze, a recuperare case coloniche trasformandole in mini appartamenti per anziani, a fondare l’A.I.D.O. Pievese. Marini si diletta a scrivere poesie sia in dialetto pievese sia in italiano che esprimono la nostalgia per un tempo passato in cui i rapporti tra la gente di paese erano più schietti e solidali, caratterizzati da semplicità e cordialità. Marini traccia i ritratti delle persone che conosce o che incontra casualmente con poche e colorate espressioni da vignettista. Non sono mancati riconoscimenti ufficiali alla sua poetica: nel 1982 vince il premio in una gara indetta dal Comune di Pieve Emanuele e nel 2012 il 1° Concorso Letterario Internazionale Bilingue “Tracce PerLaMeta” con la poesia “Viviamo errando” che appartiene a questa raccolta. (Dalla postfazione di Clara Block)

Titolo: Viviamo errando
Autore: Luigi Marini
Prefazione: Anna Maria Folchini Stabile
Postfazione: Clara Block
Casa Editrice: TraccePerLaMeta Edizioni
Collana: Poesia
Anno: 2013
Isbn: 978-88-98643-01-1
Pagine:  66
Costo: 9 €
Link diretto alla vendita

  

Info:  www.tracceperlameta.org – info@tracceperlameta.org

“A volte non parlo” di Anna Maria Folchini Stabile, recensione di Lorenzo Spurio

A volte non parlo
di Anna Maria Folchini Stabile
con prefazione di Paola Surano
Liberia Editrice Urso, 2013
Numero di pagine: 55
ISBN: 9788898381104
Costo: 9,50 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

198La nuova silloge poetica di Anna Maria Folchini Stabile, A volte non parlo (Libreria Editrice Urso, 2013), arricchisce il suo curriculum letterario che vanta altresì di varie pubblicazioni di narrativa breve. Chi conosce la poetica di Anna Maria, o ha avuto almeno il piacere di leggere qualche sua poesia (ricordo che la poetessa pubblica con regolarità le sue liriche sul sito Racconti Oltre gestito da Luca Coletta), sa bene che le suggestioni che ci trasmette fuoriescono direttamente dalla sua considerazione nei confronti della realtà quotidiana. Le sue poesie, infatti, sia quelle che hanno come tema l’amore, sia quelle che, invece, partono dall’indagine del tormento interiore motivato spesso da una riconsiderazione del passato, condividono tutte una essenzialità di linguaggio e una purezza semantica che incontra di certo il favore del lettore. La poetessa rifugge gli orpelli retorici, i tecnicismi e addirittura sembra mostrare una certa sofferenza nei confronti della metrica stantia, del verseggiare classico e chiuso e si offre, invece, in pensieri sciolti, che giungono diretti al cuore del lettore e poi alla mente. Troveremo, dunque, la poetessa a riflettere su un amore solido ed entusiasmante, duraturo nel tempo tanto che il lettore è certo che esso non conoscerà mutamento nel suo divenire, descrizioni più cupe che partono, invece, dall’analisi a tratti inquieta a tratti dubitativa dell’essere. Ci saranno, inoltre, liriche che presentano il sottofondo scenico caro alla poetessa, quello del suo luogo di residenza con vari e continui accenni al lago come avviene in “Lacustre”, dove la vista del lago al primo mattino, come fosse un saluto rinnovato ad un amico sempre presente, si veste di imperscrutabilità del futuro: «Niente/ turba/ questo inizio di giorno.// Tutto/ è possibile» (48).

Una lirica ricca di contenuti, di tematiche e di sfaccettature; si susseguono prospettive visuali diverse: a volte è come se la poetessa colloqui con se stessa, altre volte è evidente l’intento di voler annunciare il contenuto delle sue liriche al mondo; molte poesie si arrovellano sul Tempo sia dal punto di vista tematico che dal punto di vista strutturale: intere liriche in cui Anna Maria utilizza il condizionale, quella condizione ipotetica che si sarebbe sviluppata nel passato se avesse fatto/non fatto qualcosa («Avrei cambiato il mondo/ se avessi fatto…/ Ma sono rimasta alla finestra/ e avete fatto tutto voi», 12), altre, invece, si configurano come una sequela di domande, con un tono ascendente dove, però, i quesiti non trovano risposta. Ma è un po’ tutta la silloge ad essere investita da una sensibilità nuova; nell’opera precedente, Il nascondiglio dell’anima (Libreria Editrice Urso, 2012), che si apriva con una mia nota di prefazione, avevo osservato che le liriche si caratterizzavano per una eclatante fascinazione per il colore, il bello, gli elementi naturali nel loro felice divenire, tanto da definire la sua poetica modernista (con riferimento al modernismo spagnolo e sud-americano). Qui, nella nuova silloge, l’atmosfera è differente, si è stemperata, le primavere e i bagliori sembrano aver lasciato il posto a crepuscoli e folate di vento gelido. I colori si sono scuriti e a tratti anche la parola –pur sempre limpida e lineare- si è ispessita, in linea con una nuova concettualizzazione delle tematiche. E questo mutamento, questa metamorfosi “decadente” si esplica nei vari riferimenti al sé-poeta dubbioso, alla continua ricerca di risposte, di soluzione a quesiti, alla difficile liberazione da inquietudini che fanno dell’io lirico un animo scisso, apparentemente debole e tormentato, anche e soprattutto dalla difficoltà dei tempi contemporanei riscontrabili nei «Giorni pesanti/ Difficoltà nuove/ […] Ogni giorno/ ha il suo fardello» (18) di “Uomini e draghi”. E se è vero che la poetessa molto ci trasmette con le sue liriche, è altrettanto vero che si respira un certo sentimento omertoso, come se ci sia nel sottofondo qualcosa che, sino alla fine, non viene mai rivelato al lettore. Tutto questo è esemplificato dal titolo stesso della raccolta, A volte non parlo, lirica che apre il testo. La poetessa Anna Scarpetta tempo fa, parlandomi della nuova silloge dell’amica Anna Maria Folchini Stabile, mi disse: «Hai visto, Lorenzo? Anna ha scritto “A volte non parlo”… e, invece, dice tanto. Dice tutto!»; ed è di certo una considerazione valida e possibile anche se a mio avviso, come già detto, nella silloge si respira una nuova aria, insomma una diversa Anna Maria. E sulla mia stessa linea è anche la poetessa varesina Paola Surano che nella prefazione al testo osserva: «balza subito all’occhio e alla mente che questa raccolta è diversa dalle altre» (5). Vediamo il perché di quanto si sta dicendo in maniera più scientifica.

E’ di certo la lirica iniziale che contiene il manifesto di questa nuova venatura poetica di Anna Maria Folchini Stabile; qui si legge, infatti, di “pensieri masticati” (pensiamo si tratti di idee difficili da gestire, che ritornano a infastidire l’animo della poetessa, dure, ingestibili e che, dunque, necessitano una masticatura più prolungata e veemente) e di “labirinto di ipotesi” che evoca nella nostra mente una situazione fastidiosa di stallo e di tomento, di ricerca di una fuga con esiti già scritti e tutti abbastanza deludenti come osserva lei stessa nei versi che seguono: «non vi è alcuna uscita tra le siepi di bosso/ che costeggiano questo cammino…» (9). Vicolo cieco? Strada sbarrata? Vie tortuose che confluiscono con altre per poi depistare? E’ una possibilità con la quale l’autrice vuol intendere quella difficoltà insita nel senso stesso dell’esistenza da lei rappresentato enigmaticamente come un «rigioco sulla scacchiera invisibile» (9) che tanto mi fa pensare al gioco a dadi della Morte nella celebre ballata di T.S. Coleridge.

E come si diceva poc’anzi il tempo è oggetto della poetica della donna: esso è onnipresente, a tratti latente, a tratti esplicitato, la poetessa non lo teme né ha necessità di affrontarlo, non ci colloquia, evitando di considerarlo un degno interlocutore, ma lo tiene in considerazione, lo osserva da distante e ne tiene conto. Il passato è visto quale momento felice dell’esperienza personale che non è morto e in sé chiuso a comparti stagni con il presente liquido, ma si configura quale fattore esperenziale che si rinnova con la rimembranza e che nel momento in cui viene “rivissuto” giunge addirittura a eternizzarsi nell’istante che funziona nell’animo come rivelazione: «E le speranze promesse/ e i desideri accennati/ e i sogni sorridenti/ per un attimo/ riprendono vita./ Solo per un attimo» (20-21). Ma quel presente che si riappropria del passato a sprazzi, per immagini o ricordi singoli, è illusorio e fugace: il momento si esaurisce velocemente e la finitezza del ricordo “rivissuto” è, forse, ulteriore causa del disagio e del senso d’apatia dell’io lirico, conseguenza dell’incapacità di sapersi destreggiare nei vari piani temporali: «Non è dolore/ questo tempo andato,/ ma sabbia di clessidra/ che vorrei rivoltare» (14) scrive in “Grigio di cielo”.

In “Occhi innamorati” la poetessa si proietta verso il futuro cercando di ipotizzare come sarebbe stato se avesse fatto/fosse successo qualcosa sviluppando uno sguardo acronico nel quale cerca di vedersi dall’alto come si sarebbe comportata in certe situazioni per concludere lapalissianamente «Non lo sapremo mai/ come sarebbe stato» (17): la storia, tanto privata quanto pubblica, infatti, non si costruisce con i ‘se’ né con i ‘ma’; le ipotesi, lecite e curiose, di ciò che sarebbe successo “se” riflettono ancora una volta quel senso di continua ricerca della donna di giungere ad una più completa analisi delle sue “gesta” passate. Solo nel sogno il tempo si ferma e sembra congelarsi: esso non scorre e sembra annullarsi, semplicemente perché anche la ragione e dunque tutte le attività umane ritrovano pace e riposo: «Attimi sospesi, idee scintillanti/ tempo fermo» (26) ed anche Peloso, il cane della poetessa, sembra divertirsi di più nel sogno/ricordo piuttosto che nel presente ed infatti «rincorre farfalle/ di un’altra primavera» (27).

In “Incapace” la poetessa esprime nel suo “scoramento” il senso di desolazione che si mostra come miscela di paura, scoraggiamento e rabbia tacita per quella falsità endemica che, purtroppo, ci circonda, contenuta nei «pensieri doppi» (10) che, più che individuare strutture polisemiche, mi sembra di intendere come sinonimo di falsità, mediocrità, opportunismo e menzogna. In questo clima ripugnante il sensibile io lirico non può far altro che chiedere aiuto («Aiutami») e far appello affinché un valido sostegno morale sopraggiunga a rinfrancare la poetessa: «Ti prego/ sostienimi» (10).

L’ambientazione cupa chiaramente intimistica si ravvisa anche nei «pensieri inespressi» (12), nel «sorriso bello/ di anni e luoghi/ sepolti/ nel passato,/ tempo di sogni/ e di incertezze certe» (23), nella solitudine dalla quale la poetessa cerca di distanziarsi in “Pausa” (30), nel desiderio di sentirsi  priva di tomenti: «Vorrei essere libera e senza pensieri» (39) e nelle «domande/ senza voce,/ sospese/ nella timidezza/ della mente» (53). A stemperare la gravità delle divagazioni esistenzialistiche che Anna Maria fa mi sento di osservare almeno due elementi: 1) il sentimento di giovinezza che la poetessa nutre e 2) la vita intesa come percorso, come un cammino a tappe e rivolto a una meta. In relazione alla giovinezza d’animo, nella lirica “Spuma di mare”, infatti, leggiamo «Mi guardo/ nello specchio della vita/ e ritrovo/ la ragazzina/ che mi sento» (43); si osservi che la poetessa non dice “la ragazzina che ero” né “la ragazzina che vorrei essere”, ma “la ragazzina che mi sento” in un verso che traspira grande carattere e forza di volontà e di certo smorza l’inquietudine che pervade l’opera. Quanto al cammino, poi, vorrei segnalare la bellissima lirica “I giorni a venire” –a mio modesto parere la migliore della silloge- dove è chiaro e continuo il riferimento all’universo itinerante: ‘incontri’, ‘strada’, ‘cammino’, ‘percorso’, ‘sosta’ che, più che delineare un componimento on the road, concretizza sulla carta il suo fervido convincimento nell’idea che il percorso formativo, culturale, morale dell’uomo nella realtà terrena sia una semplice ma non banale metafora dell’esistenza. Non è un caso che l’Associazione Culturale da lei fondata assieme a me, Sandra Carresi, Laura Dalzini e Paola Surano e della quale è Presidente, abbia come nome TraccePerLaMeta e che l’ultimo concorso organizzato abbia avuto come tema “il cammino”. In questo percorso fisico dell’uomo verso una meta, un luogo ambito o sconosciuto, da raggiungere mediante un percorso accidentato o progettato, più o meno lungo, l’uomo è continuamente minacciato, osteggiato e macchiato dall’errore che potrà porlo nell’infelice situazione di «inveire/ [o] maledire la vita» (24). La silloge rifugge il pessimismo, ma è chiaro l’intento di fondo: l’uomo deve rimboccarsi le maniche e non lasciarsi scoraggiare dalla desolazione che può investirlo e demoralizzarlo sempre più per riscoprire, invece, la ricchezza insita nella sua genuinità:

 

Usciamo
dalle nostre solitudini
riscopriamoci persone
quali siamo
in questi egoismi di realtà divise
con muri invalicabili e invisibili. (36)

 

 

 

Lorenzo Spurio

(scrittore, critico letterario)

 

Jesi, 27 Maggio 2013

 

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

 

 

ANNA MARIA FOLCHINI STABILE è nata a Milano nel 1948. Attualmente vive tra la Brianza e il Lago Maggiore. Ha alle spalle una lunga carriera nel mondo dell’insegnamento. E’ poetessa, scrittrice e presidente dell’Associazione Culturale TraccePerLaMeta. Per la poesia ha pubblicato Spuma di mare (Lulu Edizioni, 2009), Il nascondiglio dell’anima (Libreria Editrice Urso, 2012). Per la narrativa ha pubblicato le raccolte di racconti L’estate del ’65 (Lulu Edizioni, 2008), Un topolino di nome Anna (Lulu Edizioni, 2010) e Noccioline (Lulu Edizioni, 2010). Ha curato, inoltre, per il sito Racconti Oltre dove scrive regolarmente, il manuale Come si scrive? – piccolo prontuario per l’autocorrezione dei più comuni errori ortografici, assieme a Luca Coletta. Partecipa a concorsi letterari ottenendo buone attestazioni ed è membro di giuria nei concorsi organizzati dall’Associazione di cui è Presidente.

A Firenze la premiazione del I Concorso Int.le Bilingue TraccePerLaMeta

Sabato 11 maggio a FIRENZE presso la Sede dell’ARCI Provinciale sita in Piazza dei Ciompi si è tenuta la premiazione del I Concorso Letterario Internazionale Bilingue TraccePerLaMeta dal titolo “Camminanti, gitani e nomadi: la cultura itinerante” promosso dalla Associazione Culturale TraccePerLaMeta (www.tracceperlameta.org) fondata da Anna Maria Folchini Stabile (presidente), Sandra Carresi (vice-presidente), Paola Surano (tesoriere), Laura Dalzini (Art director) e Lorenzo Spurio (Pr).

Si è inoltre presentata l’antologia bilingue del concorso contenente i testi risultati vincitori e segnalati dalle due commissioni di giuria, quella di lingua italiana e quella di lingua spagnola.

Alla premiazione hanno preso parte persone provenienti da tutta Italia e gli organizzatori hanno previsto premi per i primi tre arrivati di ciascuna sezione, premi speciali, segnalazioni della giuria e rilasciato attestati di partecipazione.

Gli autori hanno letto le proprie opere.

L’evento è stato allietato dalla ballerina di flamenco LAURA ZAGNI.

La serata di premiazione è culminata con un buffet conviviale.

Di seguito alcune foto scattate durante la premiazione. Seguirà il video integrale.

Info sull’Associazione possono essere trovate a www.tracceperlameta.org

A Rozzano (Mi) la rassegna d’arte del maestro Valeriano Dalzini e la presentazione del libro “Vibrazioni cromatiche”

Locandina_RassegnaArteDalzini_4maggio2013

VERNISSAGE

4 MAGGIO 2013 ORE 18.00 – Ingresso libero.

RASSEGNA D’ARTE

DAL 4 AL 10 MAGGIO 2013

PERSONALE DEL MAESTRO D’ARTE

 

VALERIANO DALZINI

“VIBRAZIONI CROMATICHE”

 

Introduce: Anna Maria Folchini Stabile

 

Centro Culturale Cascina Grande di Rozzano

viale Togliatti – Rozzano (MI)

ORE 10.00-12.00  15.00-19.00

con il patrocinio del Comune di Rozzano (MI)

Durante il vernissage verrà presentato il libro “Valeriano Dalzini: Vibrazioni Cromatiche” pubblicato da TraccePerLaMeta Edizioni da Anna Maria Folchini Stabile e Annamaria Stroppiana Dalzini, con prefazione a cura di Lorenzo Spurio.

[…] Il libro nasce da un’idea di Laura Dalzini come regalo per gli ottant’anni di suo padre, Valeriano Dalzini, pittore, affrescatore, artigiano e artista che ha svolto la sua attività in Milano e in Lombardia nel corso della seconda metà del ‘900. […] In breve, questo libro è una testimonianza di come un uomo ha amato e ama la vita, di come è stato capace di inseguire e seguire la sua passione facendone il suo destino, senza mai perdere forza e carattere, desideroso di superare vittoriosamente tutte le contrarietà quotidiane sia da bambino che da adulto e perfino in questi suoi giorni in cui con volontà e impegno affronta la sua giornata di paziente affetto dal Morbo di Parkinson. […] 

Anna Maria Folchini Stabile

(scrittrice e poetessa)

cover_vibrazioni cromatiche[…] Questo libro non è solo un accurato percorso tra i trascorsi di un uomo che tanto ha donato al privato quanto al pubblico, ma anche un manifesto di un artista come pochi nel nostro secolo che ha donato la sua professionalità e voglia di rappresentarsi a tutti. Un restauratore è un grande artista che vive coscienziosamente tra Passato e Presente: riconosce la gloria artistico-culturale degli anni andati e sensibilizza di fronte al deterioramento del tempo che passa motivando il bisogno di “far rinascere” rispettando i canoni classici. Persone che hanno questa grande capacità di colloquiare tra sfere temporali diverse sono rarissime e ancor più lo sono quelle che lo fanno con amore, rispetto per la tradizione e con un chiaro intento solidaristico e sociale: chi restaura un affresco storico non lo fa per se stesso, ma lo fa per l’arte in generale, per l’amore verso la tradizione, per gli altri, per i posteri. Lo fa, insomma, per tutti. […]

 Lorenzo Spurio

(scrittore, critico letterario)

  

[…] Valeriano Dalzini non va ricordato solo per i lavori a carattere monumentale: egli è anche un ottimo “pittore da cavalletto” che sa realizzare dipinti pregevoli tanto con la pittura a olio quanto con quella all’acquerello. Anche il suo disegno, classicamente impostato e dal tratto sicuro e nervoso, si differenzia per puntualità veristica, per una particolare dote costruttiva e per un accentuato vigore espressivo. […] I personaggi di Dalzini sono tratteggiati con grande efficacia, supportati da una tecnica agile e veloce che mantiene la freschezza del bozzetto e la suggestione dell’incompiuto. Nondimeno i suoi paesaggi possiedono sensibilità naturalistica e grande attenzione verso magiche atmosfere di ascendenza tardo-impressionistica.

E vi sono ancora infiniti altri soggetti che l’artista ha puntualmente ritratto tentandone, di volta in volta, una personale interpretazione che ne rendesse, oltre all’aspetto esteriore, l’essenza nascosta fra le pieghe delle apparenze visive. […]

 Franco Migliaccio

(pittore, docente e critico d’arte)

copertinaFB

“Percorsi Di-Versi” di Catello Di Somma, recensione di Anna Maria Folchini Stabile

Percorsi Di-Versi

DI Catello Di Somma

Ed. Vicolo del Pavone – 2012

Recensione di ANNA MARIA FOLCHINI STABILE

 
foto (3)Ho conosciuto il poeta Catello di Somma durante una trasmissione radiofonica di cui entrambi eravamo ospiti, un momento di reading ovvero un incontro in cui i poeti leggono le loro liriche e mettono a nudo la loro anima.
Considerando che potrebbe essere mio figlio –  coetaneo dei miei – mi ha da subito positivamente impressionata il fatto che è un uomo giovane e gentilissimo, schivo per quanto riguarda la sua vita professionale di cui accenna appena con compostezza e serietà, ma entusiasta della sua vita familiare e dell’affetto che lo lega a sua moglie e al suo figlio. É un giovane perbene che mi parla della sua poetica, delle sue liriche e di come la poesia sia per lui voce e occasione per testimoniare i sentimenti e le esperienze fatte, il cammino di crecita e di maturazione personale , il legame indissolubile stabilito con la Vita e con la Bellezza.
Due ore sono un tempo brevissimo per conoscere un uomo, peró, al primo impatto, quando le persone si incontrano o si piacciono o si lasciano perdere, perchè non è cosa abituale che un’anziana signora e un giovane uomo che ha l’età dei suoi figli, possano comprendersi letterariamente da subito e immediatamente su cosa sia il senso della vita, nutrendo entrambi rispetto profondo davanti al meraviglioso Mistero che conduce l’esistere di tutti noi.
“Nella poesia non si può essere tra sconosciuti, ma solo tra anime affini” mi scrive nella sua dedica e ne convengo appieno, perchè non appena mi accingo alla lettura attenta e curiosa della sua opera, mi ritrovo in un luogo “altro”, ricco di spunti di riflessione e meditazione; un cammino insolito, ma definito, in cui ogni parola ha significato univoco, forte ed esclusivo teso a definire un percorso umano e personale che abbraccia tutte le donne e tutti gli uomini che il poeta incontra sulla sua strada rivolgendo a ciascuno la sua personale attenzione e il suo verso evangelicamente rispettoso.
Catello Di Somma è proprio il contrario dei poeti maledetti che ammaliano spesso la gioventù con versi provocatori, perchè il poeta Di Somma, anche se non disconosce la verità cruda, l’amarezza profonda, il dolore e i meandri degli oscuri gironi danteschi dell’esistenza umana, riesce a illuminare il degrado con la luce della compassione – la “cum-passio”- e la pena non lo porta ad allontanare lo sguardo, ma a  comprendere, quasi come in una meditazione consapevole delle sofferenze del Cristo che tutto carica su di sè e tutti salva.
Le pagine che compongono il libro sono una successione di parole non casuali che si fanno verso prima e poesia dopo, in un ordine non casuale.
L’opera, introdotta da  Maria Carmen Matarazzo che sottolinea la capacità di Catello di Somma di “coniugare con intensa partecipazione sogni e realismo, malinconia e gioia” , si divide in tre parti :
– Percorso nel mondo
– Il percorso del poeta
– Percorso nella fede.
In ognuna di esse la domanda di fondo verte sul tema del come si ponga  l’essere umano nel suo rapporto con la vita.
Domande antiche e impegnative a cui il Poeta,  ancorato agli affetti fondamentali, disposto all’attenzione verso gli ultimi e sensibile alla chiamata a cui ogni uomo, scavando nella sua anima, a suo modo risponde, trova le risposte.
Sotto questa luce si inquadra la lirica ” Matteo”, dedicata al figlioletto in cui il poeta guarda al futuro assillato dalle domande  “Chi sarai domani? / Quale passione albergherà nel tuo cuore?/ E chi sarò io/per te domani?… ” e la soluzione pacata  e fiduciosa non può essere che una: ” Nell’attesa cresceremo insieme”.
L’uomo che ha l’arma della poesia, non resta indifferente davanti  ai  dolori del mondo e ne vede sia la disperazione  che il deserto delle anime, ma giunto al punto in cui potrebbe limitarsi alla descrizione del fatto, rifugge dalla condanna e si veste di compassione e comprensione ripartendo dalla comune umanità.
Le quattro liriche dedicate ad aspetti della femminilità violata hanno titoli forti: “Aborto” , “Stupro”, “Lucciola triste”, “Qui sotto la pioggia attendo” .
Esse esprimono drammi, ma hanno parole semplici: “…e persi la mia vita /con il figlio che non nacque.”, “Respiro / ma sono morta / quel giorno.”, “Adesso vendo l’unica cosa che possiedo. / In realtà era un tramonto conosciuto”, “Non è questo pianto / che mi può lavare…./ Anche adesso, domani, non ha smesso di piovere”.
Catello Di Somma, lo stesso uomo che si china sui mali del mondo, ha alle spalle un percoso suo di maturazione e di cambiamento che gli permette di guardare tutto con occhi differenti.
È così  che nello scorrere dei versi e  nella successione delle pagine, sentimenti e atteggiamenti cambiano: ” Siano gli altri ad emettere sentenze / poichè nessuno ti nominó giudice, / nemmeno di te stesso. ” , “Ecco / le nubi incombono / … ma lì, sul fondo, la luce già barluma.” 
Alla fine del percorso l’anima del poeta naufragando nell’abbraccio della Fede, ritrova se stessa, tanto che egli potrà dire: “Come un pellegrino / ho bussato ad ogni porta / …finchè un giono / mi sono deciso ad aprire / le porte di una grande casa / scoprendo che era da sempre casa mia”.
Leggere le poesie di Catello Di Somma è, quindi, equivalente a un cammino attraverso la mente e il cuore di un uomo che ” Centellina le parole / come l”acqua della bisaccia  / nel deserto…” e può dire con serenità che “Senza fede / avevamo mille domande irrisolte. / Nella fede una sola risposta “.
ANNA MARIA FOLCHINI STABILE
08-04-2013
QUESTA RECENSIONE VIENE QUI PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.
E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.

“Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile”, Edizioni Agemina (2012)

Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile
di AA.VV.
Curatore: Pina Vicario
Edizioni Agemina, Firenze, 2012
ISBN: 978-88-95555-52-5
Pagine: 134
Costo: 10 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio
Uomo!
Riprendi il tuo posto,
evita il danno e l’imbarazzo
di un mondo spogliato.
(“Uomo” di Sandra Carresi, p. 91)

Antologia-2Appena una settimana fa ho avuto il piacere di conoscere la signora Pina Vicario, poetessa e dirigente di Edizioni Agemina, una realtà editoriale di piccole dimensioni ma che sta seguendo numerosi e validi autori del panorama culturale contemporaneo. In quell’occasione la signora Vicario mi ha omaggiato di una copia del volume poetico-antologico dal titolo Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile, edito per l’appunto dalla sua casa editrice. Ne sono stato molto contento, perché un’antologia di poesia civile è probabilmente quello di cui avevamo realmente bisogno in questo oggi difficile e alienante, come pure la stessa Vicario osserva nella sua interessante nota di prefazione. Parlare di poesia civile significa imboccare un percorso il cui inizio va rintracciato in decenni e secoli a noi distanti perché, anche se i testi di storia di letteratura dedicano uno spazio approssimativo al genere, la poesia civile, voce dell’uomo e del popolo (ossia dell’uomo che si unisce) sulle problematiche che soffre sulla sua pelle, è sempre esistita. Diversi i problemi, le esigenze, le denunce o gli “inganni sociali”, ovviamente, uguale, invece, il senso di oppressione, emarginazione e sconfitta del “povero cristo” che soffre direttamente sulla sua pelle condizioni d’indigenza che contrastano, invece, con l’opulenza di chi comanda per il bene del paese. O che dovrebbe farlo.

Per questo l’antologia si apre con una prima parte nella quale si da’ spazio ad alcuni grandi poeti di sempre: William Blake, il precursore del romanticismo inglese, l’esistenzialista Ungaretti, il pessimista Leopardi, Neruda e vari altri scrittori di altissima levatura che, a loro modo, danno la rappresentazione del dramma sociale. Tra questi ci sono versi “potenti” e dolorosi come quelli di San Martino del Carso di Ungaretti e delle considerazioni amare sul senso del nascere, il genio recanatese scrive in “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: “Nasce l’uomo a fatica,/ ed è rischio di morire il nascimento” (cit. p. 10).

La seconda parte del volume, quella più ampia, da’ invece voce ai poeti contemporanei, più o meno noti, presentando anche una scheda biografica per ciascuno di essi. Un’analisi esaustiva dell’intero volume presumerebbe una scrittura critica attenta per ogni componimento; mi soffermerò brevemente solo su alcuni testi e versi, invitando però il lettore a leggerli tutti, con altrettanto interesse ed attenzione.

Marzia Carocci, poetessa e critico-recensionista fiorentino, celebra il valore della donna nella lirica “8 Marzo 1908” che rievoca la tragica morte in un rogo scoppiato in una fabbrica americana, evento attorno al quale poi nacque la “festa della donna” che tutti gli anni celebriamo. La Carocci ammonisce il lettore invitandolo a ricordare quel sacrificio e il valore-dono che la Donna stessa rappresenta: “E tu donna, che ancora lotti invano/ musa, mistero, madre del tuo tempo/ ricorda che quel fiore profumato/ è rosso sotto un giallo camuffato/ del sangue delle donne forti e fiere” (p. 31). Rosalba Satta Ceriale in “Ma la poesia non muore” riconosce il valore di questo genere letterario: difesa, approdo, consolazione e forza per concludere “Ma la poesia non muore con l’inganno” (p. 39). Nicoletta Corsalini, invece, dipinge in una lirica incalzante con dei versi reiterati, la violenza dell’uomo che si macchia di peccato, reato e prepotenza con le sue atroci azioni senza rendersi conto che ferisce se stesso nel momento in cui le compie.

Parlare di sociale non significa parlare solo di povertà, ma di tutte quelle realtà che pongono l’uomo in una difficoltà inarrestabile nel condurre una vita dignitosa: abbandono, esilio, l’essere orfani, la violenza sessuale (si legga la poesia “Broken” di Davide Rocco Colacrai, basata su di un doloroso episodio d’incesto, p. 67), l’offesa ricevuta, la prostituzione (si legga la bellissima lirica di Loretta Giannangeli intitolata “La giovane prostituta nera”, p. 55), la denigrazione, lo schiavismo, lo sfruttamento lavorale (leggere “La fabbrica che uccide” di Paolo Tonelli, p. 114), la sofferenza per la guerra (leggere “Partigiani” di Giorgia Francesconi, p. 105 che si chiude con dei versi magnifici: “Fammi lottare per il meriggio della Vita”), il vagabondaggio, la mancanza di un lavoro, la discriminazione religiosa, il razzismo e così via. C’è dolore, ma non rassegnazione in queste pagine, le lacrime si mescolano alla nuda terra, alla polvere e le grida sembrano squarciare il silenzio. In “11 settembre” Maria Grazia Castagna rievoca l’attacco più doloroso che la società contemporanea abbia mai subito scrivendo “l’umanità si accartoccia/ opulente e sciocca/ nel delirio” (p. 108).

Questo volume regala al lettore pepite d’inestimabile valore, pagina dopo pagina. Solo dalla riflessione sul mondo e dalla comprensione, che giungono solo grazie alla compartecipazione e alla condivisione d’idee, si può modificare la società nel bene, proprio come “L’uomo di fumo” di Daniele Carboni in cui l’uomo, dopo aver “emarginato, rifiutato e cancellato”, giunge a una riflessione aperta sul senso dell’esserci.

Non ci sono migliori parole che quelle usate da Anna Maria Folchini Stabile nella sua poesia “Corrono gli anni…”, un quadretto di consapevole e riconoscente storia dell’uomo, dell’italiano nella fattispecie, con riferimenti ad eventi storici dolorosi. La speranza e l’ottimismo, che sono elementi comuni in molte poesie di questo libro, non sono una manifestazione effimera dell’utopia che tutti i giorni rincorriamo, ma sono esse stesse rivelatrici di una lucida volontà di migliorarsi, aiutarsi e scoprirsi utili all’altro a partire dai più piccoli gesti:

Ci saranno
giorni migliori
quando tutto
avrà compimento,
quando ognuno,
conosciuto il suo ruolo,
farà della storia
il suo Credo (p. 113).

Lorenzo Spurio

Jesi, 13-02-2013

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“Le parole sono segnali stradali” di Veronica Liga, recensione di Anna Maria Folchini Stabile

Veronica Liga
“Le parole sono segnali stradali”
OTMA Edizioni – 2011
 
Recensione di ANNA MARIA FOLCHINI STABILE 

product-coverCommentare una silloge poetica implica due aspetti : l’attenzione a comprendere il messaggio di chi scrive in versi affidando alle parole il proprio sentimento e la disponibilità di chi legge a guardare alle proprie esperienze di vita attraverso l’eco che i versi del poeta avviano nella propria anima.

Sarebbe troppo facile dire che l’opera di Veronica Liga è un punto fermo nella sua crescita affettiva, perché si perderebbe di vista ciò che la poesia, quando diventa arte, riesce a comunicare al lettore e, cioè, il richiamo a quel percorso individuale che ogni persona fa lungo le strade della vita fino raggiungere la consapevolezza che il cammino è stato fatto.

Il titolo della silloge non è casuale e l’acme comunicativo di Veronica Liga è completo nella lirica finale intitolata “Contifacendo” che si conclude con due versi che ben illustrano la valutazione su quella sua parte di vita già vissuta:

Chiedi: “E cosa hai fatto di bello?”

“Ho cercato di non fare male”.

Perché incentrare un commento sulla poesia finale di una raccolta?

Perché tutti noi siamo portati a ripercorrere con la memoria le nostre azioni, a valutare la nostra vita e a ripensarci in maniera spesso ingenerosa.

Avremmo voluto essere, fare, pensare, agire in modo “altro” giocando una partita differente, come se vivere fosse un match infinito in cui non si ammettono sconfitte.

Invece, scrive poetando la nostra Poetessa, si può arrivare a definirsi felici ( “Un abbozzo dispettoso”) se si prende atto con umiltà di tutti i cambiamenti, anche dolorosi, attraverso cui passiamo e che servono a costruire sì un passato, ma anche un bagaglio di esperienza che contribuirà a fortificarci.

” Le parole sono segnali stradali” , sia le nostre, che quelle altrui, perché scandiscono incontri, amori, passioni, addii, ma sempre momenti di vita, dice Veronica Liga che riesce a fare un bilancio di tutto in quella splendida lirica , in cui io personalmente mi ritrovo, intitolata “Laghee” dedicata al suo lago e forse anche al mio lago, luogo reale e ideale, luogo di arrivo e di partenza, in cui ci si ritrova a vivere, esclusivamente privato eppure frequentatissimo, immagine definitiva del ritrovarsi Persona tra le persone che inevitabilmente costituiscono “il muro” contro cui tutti noi finiamo prima o poi , ma che può essere, perché no? , luogo di appuntamento per un nuovo inizio.

ANNA MARIA FOLCHINI STABILE

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“Volevo fare la casalinga” di AA.VV., recensione di Anna Maria Folchini Stabile

VOLEVO FARE LA CASALINGA

di AA.VV.

Albus Edizioni, 2012

Recensione di ANNA MARIA FOLCHINI-STABILE

 

Copertina (Albus) - Volevo fare la casalingaIn tempi di dibattiti politici sulle quote rosa, ottima versione attuale della disputa medioevale sul fatto che le donne avessero o no l’anima,  in un momento in cui le donne non si chiedono mai perché la metà del cielo numericamente più consistente demandi a quella meno consistente di decidere sulle loro persone e spesso del loro destino, alcune scrittrici hanno raccolto la proposta di Albus Edizioni partecipando alla stesura di un libro sapientemente curato da Chiara Santoianni, a sua volta scrittrice e blogger, sempre molto attenta alle problematiche del mondo attuale e femminile.

Ne è nato un libro a mezzo tra l’ironia e la cronistoria di come le donne di oggi vedono se stesse e la loro vita lavorativa, familiare e affettiva in un quadro divertente e arguto sulle giornate delle donne moderne che nell’arco delle ventiquattro ore si dividono in molteplici ruoli adattandosi agli impegni che nel prosieguo della giornata le vedono protagoniste infaticabili e insostituibili.

L’opera si rivela una satira di costume su un mondo che le vuole come professioniste in carriera, madri affettuose, mogli devote, amanti appassionate, ma sempre in equilibrio funambolico tra doveri inderogabili e sogni personali.

Con un sorriso tra le labbra leggiamo le avventure di Principesse di ogni età che inseguono il principe dei loro sogni e che, lancia in resta, vivono vite frenetiche nelle quali di principesco c’è poco e ogni spazio personale è difeso con intelligente coraggio.

Sarà così per sempre? Non so, ma è così per tutte, se sedici autrici radicate nelle diverse regioni italiane sembrano esprimere tutte insieme e sorridendo il disagio comune, sebbene nessuna rinuncerebbe alla vita che ha.

Non è facile essere donna.

Qualche giorno fa chiacchieravo con un’anziana e affermata imprenditrice che mi raccontava di quando all’inizio della sua carriera difendeva la sua professionalità e mi diceva che per lei l’essere stata donna è significato, nel suo ambito lavorativo, la nautica, valere come almeno due uomini.

Le credo, siamo quasi coetanee e allora, da ragazze, per noi le cose non erano facili.

Ma siamo sopravvissute e sono convinta che ce la faranno anche le protagoniste dei racconti di questo libro, come di certo ce la faranno le nostre figlie e le nostre nipoti.

Ad un’unica condizione, che ricordino sempre che non esistono scorciatoie ed essere donna è un valore in più: pensiamo, progettiamo, creiamo, lavoriamo come un uomo, ma in più diamo la vita.

Non è poco, per una che è “solo” una donna!

Ooopppsss… dimenticavo: uno dei racconti, il diciassettesimo di questa silloge, è scritto da un autore maschio….Tutti i miei complimenti a quell’uomo che riesce a comprendere l’animo femminile e a descriverlo.

Onestamente, anche questa non è cosa da poco!

 

Anna Maria Folchini Stabile

Angera, 28 gennaio 2013

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