“Sul far della poesia” di Guglielmo Peralta. Recensione di Gabriella Maggio

Recensione di GABRIELLA MAGGIO

Dal finito all’infinito, dall’opacità alla verità, dal deserto al canto che vince la rovina è la tensione che anima Sul far della poesia, raccolta poetica di Guglielmo Peralta, edita da Spazio Cultura nel febbraio del 2022. Il poeta, come enuncia il titolo, vuole esprimere il momento aurorale della poesia, l’attimo in cui l’etimo privato diventa segno universale della condizione umana.

Attorno a questo nucleo concettuale Peralta si rivela sottile, inquieto, indagatore, attento all’accento profondo della cultura e alle riflessioni dell’intelligenza, sentiti come manifestazioni di una superiore realtà. Dai segni sensibili, percepiti dallo sguardo, grafia che sottolinea una lacuna, un’assenza tra l’io e il vedere, dal lampo che il velo squarcia ha origine la poesia: dove hanno radici / il canto il sogno la parola. Enell’istanza della parola che “finge”, plasma, il mondo Peralta trova il frutto del mio senodove nasce e dimora / l’universo.

La Poesia è “vetta e abisso”, regina dei sogni, fata benevola…  vita autentica: e io vivo sì io vivo  / per la grazia di un verso / per questa sacra ostia dove / Poesia / si transustanzia… Ma il fare poesia non è immediato o scontato, mantiene sempre  un qualcosa d’enigmatico e misterioso: Solo qualche miraggio offre /la Bellezza specchio dell’invisibile. E il miraggio deve trovare un’eco, una corrispondenza con lo stato in cui si trova il soggetto che le darà espressione.

L’avventura della Bellezza, nascosta nella complessità della realtà, dà al poeta uno stato di grazia che lo conduce all’Anima del mondo a scaldarsi al fuoco sacro della Poesia. Il paradiso del canto si dipana spesso nell’atmosfera  solitaria della notte: Nel respiro dell’aria assopita è la mia felicità e la mia pace… e sono terra vergine nel giardino soale /  dove il sogno  scava la mia notte. O anche Non è forse feconda la notte d’ideali favelle? Nell’eco di Novalis: Sacra, ineffabile, arcana notte, come si legge nel I Inno alla notte.

Prezioso l’aggettivo soale che coniuga sogno come immaginazione creatrice e realtà. In un mondo di conflitti nascosti e palesi il poeta, nuova Shérazade, allontana l’orrore e dà voce all’invisibile attraverso il suo canto, che è sempre un canto d’amore per uomini e cose.

Chi ha paura dei poeti? La barbarie che opprime i popoli / teme la loro parola / che nel silenzio e nel buio / urla e scintilla / e si fa voce del mondo / dono prezioso e fionda / contro i filistei di ogni tempo / Davide è la poesia che vince Golia.

La raccolta è divisa in tre sezioni Delle brame e delle meraviglie, Abitare l’essere, Nove. Se la prima sezione, come enunciano chiaramente le brame e le meraviglie della Bellezza è un inno alla poesia e alla letteratura che culmina nei cinque componimenti dedicati a Proust, la seconda affronta il silenzio di Dio.A lui Peralta chiede di schiodare l’uomo dalla sua croce, dal libero arbitrio che diventa licenza di morte.

Si amplia in Abitare l’Essere l’uso del linguaggio liturgico, il senso sacro della poesia. Nove sposta l’attenzione sul mondo che dorme nella la vedovanza di lingua e d’amore, nello spreco della sua autonomia. L’ultimo testo Epifanie compendia il significato dell’opera: Fare poesia / Praticar la bellezza / Bene del mondo.

La poesia di Guglielmo Peralta è pura, intensa creazione intellettuale, che non ignora, ma trascende la realtà sensibile, l’inferno quotidiano, per raggiungere la grazia della creazione, il canto, la gaia poesia che annuncia il rinnovamento dell’uomo. Il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l’uno né l’altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa più che mediocremente dell’altro genere, quanto all’indole primitiva dell’ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell’immaginazione. Queste parole, tratte da I Pensieri di Giacomo Leopardi, illustrano a pieno il magistero poetico di Guglielmo Peralta.

GABRIELLA MAGGIO

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Dittico poetico di Emanuele Marcuccio e Marzia Carocci

ATTIMO[1]
di MARZIA CAROCCI
 
 
Ombre su specchi
dai lividi incanti
dove muore riflessa
una parte di me;
ironico il mio sguardo…
nel silenzio assordante
mentre resta sospesa
l’evanescenza d’un pensiero
che scivola via sul vetro
come fresca rugiada.
 
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INCANTO[2]
 DI EMANUELE MARCUCCIO
 
Calma, pacata immensità dell’universo,
palpito dell’infinito:
sogno, immergersi rapito,
palpitar d’acque tremolanti,
risorsa ai sonori ardori,
attimo immobile e incantato,
anelito ad emergere,
rimaner sopito,
rifuggire sommerso.
Rifulge lo specchio che traluce,
che trapassa, si allontana:
pur divampa, pur s’immerge,
senza tempo.
 
 
1 aprile 1998
 
 
Emanuele Marcuccio
 
 
 
Commento critico di Luciano Domenighini

 

La quartina iniziale (5, 6, 7, 7), scolpita nella sua musicale cadenza, ha per argomento l’autoidentificazione visiva ed esordisce con un esposto contenuto e difeso nelle criptiche metafore dei due brevi versi di apertura (“Ombre su specchi/ dai lividi incanti) per poi aprirsi in un distico scandito in tronca, nitido, esplicativo, folgorante descrizione dell’attimo (“dove muore riflessa,/ una parte di me;). Malgrado la confezione un po’ convoluta dell’incipit, a ben guardare in questa strofa è notevole la capacità di sintesi descrittivo-concettuale nel rappresentare il processo autoidentificativo nella percezione temporale dell’istante. La composizione, coniugando intelligenza e immaginazione, è una prova di virtuosismo poetico.

È la sapiente, dettagliata descrizione di un attimo, di una frazione dell’hic et nunc che prosegue ingentilita da un distico di settenari, sospeso ed elegante il primo, (“ironico il mio sguardo”) ossimorico il secondo (“nel silenzio assordante”), mentre la quartina conclusiva, lievissima, aggraziata, racconta di un pensiero, “sospeso”, “evanescente”, “scivolante via”, “fresco come rugiada”.

Se Marzia Carocci ha saputo scomporre e colorire di parole il fugace spazio di un momento, Emanuele Marcuccio con la sua lirica celebra una dimensione cosmica, una percezione panica della natura e la connette con uno stato d’animo incantato e pago, rapito e sognante.

Leggere la sua lirica dal tono grandioso e pacificante è come immergersi in un’atmosfera protetta e protettiva, assolutamente incontaminata e mettere il proprio cuore in sintonia con il battito dell’universo.

Il bagaglio lessicale scelto, d’altra parte, è alquanto suggestivo: il respiro, la luminosità e l’acquatica mobilità di questa empatia cosmica sono resi dall’ampio ventaglio delle forme verbali (“immergersi”, “palpitar”, “emergere”, “rimaner”, “rifuggire”, “rifulge”, “traluce”, “trapassa”, “si allontana”, “divampa”, “s’immerge”) e dalla scelta  dei sostantivi (“immensità”, “infinito”, “palpito”, “sogno”, “ardori”, “attimo”, “anelito”), dagli aggettivi (“rapito”, “tremolanti”, “immobile, “sonori”, “incantato, “sopito”, “sommerso”) e dalle locuzioni semanticamente audaci (“immergersi rapito”, “risorsa ai sonori ardori”, “rifuggire sommerso”) a rappresentare un clima magico e atemporale siglato dalla locuzione avverbiale dell’ultimo verso (“senza tempo”).

 

Luciano Domenighini

 

Travagliato (BS), 13 agosto 2014

 

 

 
[1] Marzia Carocci, Némesis, Carta e Penna, 2012.
[2] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC Edizioni, 2009. Ri-edita nella quarta di copertina dellʼAntologia del concorso nazionale di poesia Lʼarte in versi. I Edizione – 2012, Photocity Edizioni, 2012.