Intervista al poeta Corrado Calabrò. A cura di Lorenzo Spurio

INTERVISTA A CORRADO CALABRÒ

A cura di Lorenzo Spurio

  

LS: Quale definizione di poesia si sente di dare?

C.C.: Telefonini, televisione, radio, computer ci hanno assuefatto a una visione banale, olografica del nostro essere al mondo. La Rete ha modificato il modo in cui il soggetto si percepisce. Tutto sembra essere stato detto in questo profluvio di parole: tutto tranne quello che attendevamo nel profondo. L’insoddisfazione viene saturata aumentandone la dose.

La poesia è un interruttore, un commutatore di banda, che fa sì che appaia sul nostro schermo interiore qualcosa che avevamo sotto gli occhi e che guardavamo senza vedere. Un trasalimento dell’anima che sposta un po’ più in là il nostro orizzonte mentale, o così ci piace credere.

Sì, a volte –in un momento felice che ha del magico- un’immagine, una percezione, un’intuizione si stacca dal film travolgente del quotidiano e s’impone all’attenzione con una suggestione imprecisabile, condensando in sé un significato che ci conquista come una rivelazione, tanto da diventare un’immagine, una percezione, un’intuizione sovradeterminata: un orizzonte di significato è stato superato.

È come il fiammifero di Prévert. Ricordate quella poesia di Prévert, Tre fiammiferi accesi nella notte? Un innamorato, al buio su un ponte sulla Senna, accende tre fiammiferi: uno per vedere gli occhi, uno per vedere la bocca, un terzo per vedere il volto tutto intero della sua ragazza. In quel momento in cui il fiammifero si accende, in cui scatta il flash, siamo tutti poeti, dentro di noi.  Ma è poeta solo chi riesce a far intravedere agli altri quel flash di bellezza che l’ha abbagliato. Come? Certo non con enunciazioni dirette: il volto della Medusa paralizza chi lo guarda direttamente, diceva Calvino.

Corrado Calabrò
Il poeta Corrado Calabrò

La poesia comunica per analogia, in modo indiretto, per evocazione, per allusione, per metafora. La metafora è lo strumento privilegiato della poesia. “Erano le cinque della sera” dice García Lorca nel suo Llanto por Ignacio Sanchéz Mejías. Ventisette volte ripete “a las cinco de la tarde”, “a las cinco en punto de la tarde”. Tutti gli orologi segnavano le cinque della sera… Perché lo dice così tante volte? Non vuol certo dirci l’ora! Vuol dirci qualcos’altro. Ma se avesse detto: “Quel pomeriggio, nella Plaza de Toros di Siviglia, il giovane e valente torero Ignacio Sanchéz Mejías, nel momento in cui stava infilando la spada nella cervice del toro venne incornato e, ferito a morte, venne portato via in barella e morì mentre veniva trasportato in ospedale… avrebbe fatto una piatta cronaca giornalistica o giudiziaria. Invece lui si limita a dire “erano le cinque della sera” e niente come questa espressione ci dà il senso della fragilità, della natura effimera della nostra vita. E non dice che è morto, dice che tutti gli orologi segnavano le cinque della sera. Perché quando un uomo muore l’orologio, il tempo, si ferma per sempre per lui. Parla dunque dell’orologio per dire della vita. È così la poesia: dice una cosa per farne intendere un’altra.

LS: Quando è stata la prima volta che ha scritto una poesia? Di che cosa parlava?

C.C.: Le prime poesia pubblicabili (e poi effettivamente pubblicate da Guanda) le ho scritte tra i quindici e i diciotto anni. Parlavano del mare: alcune figurano ancora nelle mie raccolte antologiche.

LS: Quali sono i tuoi autori preferiti? Quali sono le tendenze, le correnti italiane e straniere e i generi letterari che più la affascinano? Perché?

C.C.: I lirici greci, Dante, Tasso, Ariosto, Leopardi, Baudelaire, D’Annunzio, García Lorca, Rilke, Eliot, in poesia. Ma hanno spiegato forte influenza su di me anche Machiavelli, Nietzsche, Kafka, perché mi hanno fatto capire la valenza del non finito. Come scrive Musil, è vero poeta colui le cui frasi non hanno il punto finale; ti fanno desiderare il seguito, te lo fanno intuire mediante il non detto. Ma si tratta del non detto indotto da quello specifico detto. “Eran las cinco de la tarde….”.

LS: Quale è il suo legame con la regione natale, la Calabria?

C.C.: Vivo da oltre cinquant’anni a Roma, ch’è una città meravigliosa. Ma ogni mattina, quando appena sveglio apro le imposte, avverto un senso di privazione. Ancora assonnato, ogni mattina non mi rendo conto sul momento di cosa mi manchi. Solo un attimo dopo realizzo: mi manca il mare, quel mare che vedevo da ogni finestra della mia casa nativa. È la mia vita non vissuta che s’affaccia.

LS: Quali dovrebbero essere secondo lei le doti umane del poeta?

C.C.: D’Annunzio aveva atteggiamenti detestabili; ma è il più grande poeta italiano degli ultimi cento anni. Anche Quasimodo e Montale erano sgradevoli. Cardarelli era invece empatico; ma è meno valido degli altri due.

La poesia è una creatura che vive una sua propria vita, disgiunta da quella del suo autore. Vive nell’interazione col lettore, con l’ascoltatore; entra in risonanza ed acquista significanze ulteriori se corrisponde a un’attesa profonda e (semi)sconosciuta del destinatario, fornendogli le parole per esprimere qualcosa che pulsava in lui subliminalmente e non riusciva a prendere forma.

LS: Se dovesse scegliere tra Eugenio Montale e Quasimodo chi sceglierebbe e perché?

C.C.: Quasimodo, senza esitazione. Le sue immagini, i suoi distici timbrano la nostra percezione, si stampano dentro e ritornano nell’orecchio interiore. La sua infedele traduzione dei lirici greci rende genialmente lo spirito degli originali, infonde loro nuova vita, come nessuna traduzione letterale potrebbe fare.

Montale è più laborioso, più intenzionale; meno incisivo.

LS: Secondo Lei tutti sono in grado di comprendere la Poesia o la corretta ricezione della parola può avvenire solo in seguito a una sorta di addomesticamento letterario e studio?

C.C.: Io non so se sarei riuscito a sentire, come sento, la poesia se, tra i dieci e i venti anni, non avessi letto, e in parte imparato a memoria, tutti i più grandi poeti italiani e francesi (compreso Corneille). Ho detto: imparato a memoria. La bellezza e la forza evocativa di una vera poesia si coglie solo alla quarta, quinta lettura. Ma nessuno arriva alla seconda lettura se non è già attraente alla prima. Allora, se è una vera poesia ti ritornerà irresistibilmente nella mente, come il canto delle Sirene.

Quanto male hanno fatto questi anni di antipoeticità al gusto della poesia! Ci hanno forse preservati dalla retorica, ma ci hanno inculcato la fumisteria, la vacuità, l’insignificanza, come i sarti de I vestiti nuovi dell’Imperatore di Andersen.

Lo studio non è tutto; ci sono doti istintive e c’è l’intuito, che non è di tutti. Ma nemmeno Mozart, che componeva a cinque anni, sarebbe stato quel che è stato  se non avesse assimilato tanta musica di alto livello già nei primi anni di vita.

LS: Negli ultimi anni sono fioriti una serie di movimenti culturali di impronta per lo più minimalista quali l’empatismo (Giusy Tolomeo), il metateismo (Davide Foschi), la neon-avanguardia (Ivan Pozzoni), etc. Pensa che sia ancora possibile nel nostro oggi essere portavoce di una idea di originalità e che il movimento e il manifesto possano servire ancora come collanti dai quali partire?

C.C.: Movimenti, tendenze, congreghe tendono a mascherare una realtà impresentabile: l’impotenza creativa, l’Imperatore in mutande. Creano aggregazioni come la massoneria. A cominciare dal Gruppo 63, hanno imposto la più assurda e arrogante pretesa: che poesia fosse solo il prodotto degli appartenenti a una determinata cerchia. Così prima si stabiliva chi dovessero essere i poeti e poi cosa fosse la poesia.

La poesia, come dicevo, non consente una lettura diretta; ma non per questo può chiudersi in un cerebralismo asfittico ed autoreferenziale, incomunicabile per assioma, in un solipsismo in cui il poeta si compiaccia di capire lui solo quello che ha scritto e poi ci metta mezz’ora per spiegarlo artificiosamente. No, la poesia non tollera spiegazioni estrinseche. La poesia è come le barzellette o come un tiro in porta. È ozioso raccontare: ho colpito la palla di piatto, di collo, con l’esterno del piede; se il tiro è sbagliato l’hai sbagliato, se è entrato in porta hai fatto goal.

C’è un mio saggio, Il poeta alla griglia che mette bene in luce questa deviante deriva che per trent’anni ci ha portati ad arenarci in un fondale sabbioso, a star lì a  fare il pediluvio senza affrontare il mare aperto.

Per tali opinioni mi è stato comminato l’ostracismo dalle tendenze vincenti (che hanno anche occupato le cattedre universitarie). Come i perseguitati politici, ho chiesto asilo poetico all’estero (e lì ho pubblicato 32 libri con traduzioni in 21 lingue).

LS: Che cosa pensa dei reading poetici? È un buon modo per far poesia e condividere esperienze oppure no? Perché?

C.C.: Sì, perché:

– Vengono interessate alla poesia persone che la percepiscono meglio ascoltandola che leggendola;

– Si fanno conoscenze e a volte si simpatizza (talaltra si antipatizza, ma c’est la vie).

Io, poi, ho motivi particolari per ricordarli con piacere.

In Italia ho incontrato in una di quelle occasioni, più di trent’anni fa, una giovane poetessa con la quale è nato un grande amore.

All’estero ho incontrato qualcuno che ha messo in orbita la mia poesia.

LS: In che maniera sceglie quello che di volta in volta sarà il titolo di una silloge poetica? Lo trae da una poesia particolarmente significativa raccolta nella silloge oppure è completamente diverso dai titoli delle liriche all’interno?

C.C.: Molte mie raccolte recano il titolo di una mia poesia, che mi è sembrato evocativo: Mittente sconosciuta, Il filo di Arianna, Presente anteriore, A luna spenta, Ricordati di dimenticarla, Alba di notte, Una lama nel miele, Deriva, T’amo di due amori, Password, Mi manca il mare. Altri titoli, forse i più importanti, no: Una vita per il suo verso, Oscar Mondadori, 2001; La stella promessa, Lo Specchio Mondadori, 2009.

LS: Può parlarci del recital Ricordati di dimenticarla, come è nato e quale è la storia in esso contenuta?

C.C.: Si tratta di un recital-spettacolo che ha una trama, un andamento teatrale; è accompagnato dalla musica e da canzoni. La prima performance (con altro titolo) fu al Teatro Argentina a Roma, il 28 ottobre 2001, in occasione dell’uscita della raccolta Una vita per il suo verso.

Poi, una compagnia di attori (Walter Maestosi, Daniela Barra. Maria Letizia Gorga, con il musicista Giovanni Monti), hanno inserito il recital nel loro programma itinerante e ne sono seguite numerosissime repliche in Italia e all’estero: a Roma, all’Auditorium Conciliazione e in vari altri teatri, a  Torino -al Teatro Regio e al Teatro Gobetti-; a Milano -al “Piccolo”-; a Genova -al Teatro Govi-; a Firenze –al Teatro La Pergola-, a Bari, Cagliari, Orvieto, Foggia, Arezzo, Perugia, Pesaro, Lodi, Potenza, Catanzaro, Vicenza, Vercelli, Cosenza, Pavia, Reggio Calabria, Messina, Verona, Novara, Aosta, Biella, Padova, Bologna, Sidney, Melbourne, Varsavia, Parigi, Buenos Aires, Madrid, Montecarlo.

Sono stati fatti anche vari compact disks con le voci di Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Giannini, Walter Maestosi, Paola Pitagora, Alberto Rossatti, Daniela Barra.

Corrado Calabrò ottiene la Laurea Honoris Causa all'Università Statale di Mariupol (Ucraina) nel Maggio 2015.
Corrado Calabrò ottiene la Laurea Honoris Causa all’Università Statale di Mariupol (Ucraina) nel Maggio 2015.

LS: La domanda che vorrebbe le fosse posta in una intervista o la cosa che mai nessuno le chiede?

C.C.: “Cosa prova quando fa poesia?”

E la risposta è: “Quando mi sembra di essere riuscito a fissare in un verso quel lampo di bellezza che mi ha abbagliato provo una gioia intensa. Poi, rileggendo quei versi a distanza di tempo, mi viene il sospetto di non essere riuscito a trasmettere (nel modo evocativo, allusivo, ipertestuale, proprio della comunicazione poetica) quello che ho sentito così fortemente. Mi sorge il dubbio che non sia del tutto inaspettato quello zampillo d’acqua vergine  scaturito dalla roccia per un tocco di bacchetta magica; che ci sia del convenzionale nel suo porgersi. Così com’è per convenzione che riteniamo che l’ostia ci rievochi il mistero dell’eucarestia.

LS: Un ricordo piacevole che vuole condividere con noi di questi vari anni di poeta (una persona incontrata, il colloquio con qualcuno, un’osservazione, un fatto curioso, ….)?

C.C.: Due sono i ricordi più impressivi.

Una ventina di anni fa, in Grecia, a Kavala, ci fu un meeting di poeti di vari Paesi (per l’Italia c’ero io). La sera, dopo i recitals, andavamo per le taverne del porto a sentire e a cantare canzoni greche. L’ultimo giorno andammo all’isola di Thassos. Lì mi fecero ascoltare una canzone di Theodorakis e mi chiesero: “Non noti nulla?”. Avevano aggiunto un’ultima strofe con, tradotti in greco, questi versi di una mia poesia: “E non dirò ch’è amore, se non vuoi.//No, non dirò ch’è amore, se hai paura”.

Ma l’incontro per me più importante è avvenuto in Messico, una dozzina di anni fa. Un altro meeting internazionale. Io presentavo la raccolta messicana delle mie poesie Alba en la noche e, come al solito, leggevo alcune poesie in italiano mentre un messicano le leggeva in spagnolo. Partecipava al meeting, per la Spagna, il poeta e professore universitario Luis Alberto de Cuenca, già ministro per la cultura con Aznar. A cena, sedendo al mio tavolo con la deliziosa moglie Alicia, mi disse che le mie poesie erano molto belle e che non sempre la traduzione le rendeva al meglio. Mi chiese di mandargli qualche mio libro in italiano, che lui capisce perfettamente (e, nello scritto, raffinatamente), pur parlandolo con limitazioni.

Quello è stato un importante decollo per la mia poesia: dopo d’allora tre editori spagnoli hanno pubblicato cinque raccolte delle mie poesie, tra cui una, edita da SIAL, di 570 pagine, accompagnata da un CD. Non ho nemmeno in Italia una raccolta così vasta delle mie poesie.

Ultimamente, poi, lo stesso editore di SIAL, Basilio Rodrίguez Cañada, ha pubblicato, nelle edizioni Pigmaliόn, la raccolta Acuérdate de olvidarla, composta interamente di poesie d’amore, alla quale è stato assegnato, il 17 febbraio di quest’anno, il Premio Internacional de Literatura Gustavo Adolfo Bécquer 2015.

LS: Che cosa ne pensa della figura del critico che spesso, in virtù del suo approccio distaccato e obiettivo, commette l’errore di dare una lettura fredda e manualistica di una poesia finendo per sminuire la poeticità racchiusa proprio nell’atto ispirativo e creativo?

C.C.: Oggi la poesia italiana, come la poesia, l’arte in tutto il mondo, attraversa una grave crisi d’identità, ch’è una crisi di valori, di fiducia nella capacità espressiva dell’arte e massimamente del linguaggio poetico. Innegabilmente, dai tempi di Omero, di Dante, di Shakespeare, la parola ha subito un irrecuperabile processo di designificazione.  La fiducia nella parola rivelatrice è scossa irreparabilmente. E tuttavia noi avvertiamo l’esigenza di stabilire un contatto con qualcosa che vada al di là del ripetitivo e del convenzionale.

Gli psicologi ritengono verosimile che la coscienza (facoltà esclusiva della specie umana) si sia evoluta per selezione naturale a partire dal momento in cui l’uomo ha cominciato a sviluppare il linguaggio. E i neurobiologi hanno riscontrato che la nostra mente ha una natura linguistica e che il nostro pensiero dipende dal linguaggio, il quale addirittura conforma la struttura del nostro cervello secondo la sintassi. Il che significa che siamo noi stessi, con le parole che facciamo nostre, a sviluppare la capacità di comprendere. In altri termini, che facciamo entrare il mondo dentro di noi! Per ognuno di noi il mondo esiste solo nella misura in cui la sua mente lo percepisce. Ma accanirsi letterariamente sul linguaggio ne anemizza la vitalità espressiva. Un linguaggio fine a se stesso, un linguaggio ripiegato su se stesso avvizzisce sé e con esso le nostre strutture mentali.

Esprimere l’indicibile è impossibile e al tempo stesso irrinunciabile, per qualche ragione che ci sfugge, come gli alpinisti non sanno rinunciare a scalare le vette più alte, perfino ad altezze dove manca l’ossigeno.

I critici che si confinano in un’esegesi puramente cerebraloide, in un formalismo fine a se stesso sono come quei pittori che ricalcavano sempre la stessa raffigurazione stereotipata nelle icone bizantine o nei cammei giapponesi.

Non si può rinunziare alla significanza della poesia, sebbene la poesia resti sospesa tra l’inveramento della promessa e la negazione definitiva; l’amore, la poesia si collocano fra la presenza e l’assenza, fra il contatto e la perdita di contatto.

Una corposa edizione delle poesie di Corrado Calabro edite in lingua spagnola
Una corposa edizione delle poesie di Corrado Calabro edite in lingua spagnola

La tecnica, la sperimentazione, sono necessarie. La poesia trascorre come un’ala; per catturarla al volo occorre una tecnica raffinata. Non si può cogliere il senso di una visione poetica separato dal suo modo d’esprimersi, di significarsi, come non si può cogliere una palla al volo in un attimo diverso da quello del suo impatto e se non con quell’atteggiamento dinamico di tutto il corpo, con quella giusta torsione del piede (quella e quella sola) che indirizzi la palla in modo appropriato, tale da cambiare la situazione.

Occorre dunque padroneggiare perfettamente la metrica. Ma guai a scambiare gli esercizi di versificazione con la poesia; sarebbe come scambiare la ginnastica e il palleggio preparatori con la partita.

Qualsiasi espressione (perché di un’espressione non può farsi a meno) è un atto estetico solo in quanto ci rechi il messaggio che inconsapevolmente attendevamo. In cosa consiste questo messaggio? Consiste, è racchiuso –come accade nei sogni-, nel preannuncio, nella premonizione di un’imminente rivelazione. Se una frase musicale, un verso, un tratto di pennello non ci fanno sentire che stanno per dirci qualcosa, che alludono, preludono a un arcano disvelamento (e non importa poi che la rivelazione venga continuamente rinviata), essi non inducono a quella levitazione del preconscio, non provocano quel palpito dell’avvento, che sono la connotazione, le stimmate della (ri)creazione artistica.

E non c’è creazione artistica, non c’è poesia senza ispirazione.

Capisco che chi non ha conosciuto la condizione di entusiasmo sperimentata da chi ha sentito un dio dentro di se (εν-θεóς), quella condizione di possessione della mente, di divina follia, di cui parla Platone, neghi la realtà dell’ispirazione, la ritenga una mistificazione. Ma è come negare la realtà degli ultrasuoni perché l’orecchio umano non li sente.

No, la poesia non è la fabbricazione del nulla, non è il vuoto spinto, e i critici non hanno la funzione di controllare il traffico delle mosche, come certe correnti letterarie asfittiche hanno voluto farci credere nel lungo periodo di glaciazione della cultura (J. P. Aron) che abbiano attraversato. “Conosco facendo” diceva Giambattista Vico. E il primo significato di πоιέω è proprio fare.

“Nelle scienze si cerca di dire in un modo che sia capito da tutti qualcosa che nessuno sapeva. Nella poesia è esattamente l’opposto”, osservava sarcasticamente il grande fisico Paul Dirac.

È vero, non si può rinunciare al linguaggio; ma a un linguaggio che si alimenti di conoscenza e ne sia tramite. L’interdipendenza degli approcci caratterizza oggi, più che mai, la cultura. La scienza, nella sua ultima proiezione, si sovrappone all’arte e alla filosofia. Può la letteratura, la poesia, rifiutare l’osmosi della scienza senza autocondannarsi all’estinzione come i Catari?

La poesia non parla col linguaggio della scienza, ma deve dire, suggerire qualcosa che ci protenda oltre noi stessi.

Siamo arrivati a un punto di ricerca dell’ultima realtà davanti alla quale non ci soccorrono più i mezzi di visione diretta. Nell’acceleratore di Ginevra non si ha visione diretta delle particelle ricercate, ma certe traiettorie, nello scontro di particelle, fanno desumere l’esistenza di altre particelle. Bene, non è una forma di metafora questa?

Mi viene in mente il mito della caverna di Platone, un filosofo poeta (anche se lui bandiva i poeti dalla sua Repubblica…) di profondità non ancora del tutto sondate. Ricordate cosa diceva nel mito della caverna? “All’uomo non è dato conoscere la realtà ultima delle cose”, quella che lui chiamava l’essenza ideale: l’uomo non può vedere le cose direttamente, ne vede soltanto le ombre proiettate sul muro della caverna mentre scorrono al di fuori.

È quello che noi vediamo nell’acceleratore di Ginevra. Una traiettoria che è segno di uno scontro dal quale nasce qualcosa che noi non riusciamo a vedere.

Non c’è un accostamento significativo a quella visione di Platone? E anche alla poesia, perché la poesia parla per analogia, parla per evocazione, parla per allusione.

Se la poesia si rinsangua, forse riesce anche a esser meno compiaciuta di sé e più strumentale alla rivelazione di un qualcos’altro, di quel qualcosa che il cieco Omero vedeva e noi usualmente non vediamo. La forma poetica è un modo per intuire che c’è qualcosa al di là del muro, come diceva Montale. Quando questo non è un enigma dentro l’enigma, voluto a forza per apparire intelligenti quanto artificiosi; quando c’è sincerità e talento, è un momento di grazia, come quando si trova l’accordo a mettere felicemente insieme due o tre note. In quel momento la poesia svolge una funzione sempre attuale, sempre viva, che ci proietta anzi verso il futuro.

LS: Lei figura da anni in numerose Giurie di concorsi letterari. Quanto è difficoltoso e importante il ruolo di Giurato in un Premio letterario e in che cosa consiste la difficoltà?

C.C.: La difficoltà consiste in un giudizio non superficiale.

Ricevo una cinquantina di libri per ogni premio in cui sono in Giuria. Nel premio Camaiore, addirittura, sono più di 200 ogni anno. Come si possono leggere tutti funditus? Si va un po’ a tentoni, si orecchia, ci si sofferma di più su alcune opere, meno su altre; non è giusto, ma è così. È già tanto se si resta tetragoni alle sollecitazioni.

LS: Un autore letto e riletto, che torna spesso a sfogliare o a spolverare perché i suoi brani sono importanti lezioni di vita?

  • Einstein: L’unificazione dello spazio e del tempo in una sola dimensione, lo spazio-tempo, ha cambiato la nostra visione dell’esistente, ha riconciliato la duplicità tra l’essere di Parmenide e il divenire di Eraclito. Einstein ci ha rivelato scientificamente la compresenza del passato nel presente: noi vediamo oggi quello che è accaduto in una stella due miliardi di anni fa. Lo vediamo come se accadesse ora; e per noi accade adesso, in questo momento. (L’arte fa qualcosa di simile: pensate ai guerrieri di Riace).
  • Stephen Hawking: esempio sbalorditivo della indomabile potenza della mente in un corpo totalmente disabilitato.

LS: Quali attività letterarie la vedono impegnato in questi mesi?

C.C.: Assisto, dalla finestra, all’uscita di altre mie traduzioni. È un ruolo quasi passivo, certo, ma quando l’ispirazione non pulsa in modo irresistibile io non incalzo la Musa; aspetto.

Come dicevo, il poeta si esercita, si cimenta, si predispone, si allena, fa laboratorio e ricerca. Ma ho imparato che il lungo lavoro di sperimentazione, di esercizio, ci serve semplicemente per essere pronti in quell’attimo, in quella fase che è stata definita d’avantesto, cioè la fase di gestazione del testo, in cui ci troviamo in uno stato d’attesa, d’incubazione di qualcosa che preme oscuramente a livello subliminale, preme per prendere forma.

«Il primo verso è sempre un dono degli dei» ha scritto Paul Valéry (ch’eppure non era un romantico). Accade quando accade, se accade. E, comunque, poi?

L’intervallo tra quando un dio ci ha visitati ed è andato via, e un altro deve ancora venire può essere lungo, molto lungo. Il poeta, anche il grande poeta, nasce  e muore ogni volta con la sua creazione, come l’agave, e ogni volta lo fa con l’innocenza di una nuova nascita. Nessuno può dire se e quando scriverà di nuovo una vera poesia. Parafrasando Jules Renard, possiamo dire che nella casa della poesia la stanza più grande è la sala d’attesa.

 

Roma, 04-06-2015

“Piume di cobalto” di Daniela Ferraro, la prefazione al volume a cura di Lorenzo Spurio

“Piume di cobalto” di Daniela Ferraro

PREFAZIONE A CURA DI LORENZO SPURIO 

Daniela Ferraro - Piume di cobalto
Daniela Ferraro – Piume di cobalto

Questa nuova silloge poetica di Daniela Ferraro richiama il lettore a un’interpretazione concettuale dell’opera quale universum di contenuti, in cui le varie liriche sono in qualche modo –si cercherà di spiegarlo- non solo unite tra loro, ma si riflettono l’un l’altra. La poetessa calabrese ritorna così dopo Cerchi concentrici (a cadere dell’alba), pubblicato nel 2012, a compendiare le suggestioni che nutre verso il mondo, le emozioni variopinte e speziate dal ricordo e a svelare parte di sé e della sua esperienza di donna. Seppure è notevole il processo di maturazione che la poetessa ha effettuato in questi ultimi anni (individuabile soprattutto in una tecnica sintetica del verso, che raramente sfiora l’ermetico) credo di poter osservare che da un punto di vista meramente tematico (così come avevo accennato in una recensione alla sua precedente opera) risulta quanto mai difficoltoso sviscerare nella loro singolarità le motivazioni dalle quali questa poetica parte.

E’ chiaramente il mondo paesaggistico con le sue varietà floreali, arboricole e condizioni meteo a fare da sfondo alle varie liriche nelle quali la poetessa è come se si fermasse di colpo per donarci una sorta di diapositiva. In effetti l’io poetico sembra sospendersi più volte man mano che leggiamo le varie poesie; al lettore è richiesta implicitamente una compartecipazione all’atto della costruzione poetica (poiesis in greco significa “costruire” con le parole) superiore a quella che normalmente si pattuisce tra autore-lettore in qualsiasi atto di lettura e di interpretazione. Questo non perché le poesie siano difficili o costruite in un modo che al lettore può sembrare ostico comprenderne il significato, ma per tentare di ridurre al massimo le possibilità di incomprensione. Chi scrive poesia non si occupa (o non dovrebbe occuparsi) di come questa, nell’atto di lettura di un altro, venga intesa, concepita e realizzata concettualmente perché è chiaro che ogni lettore leggerà e interpreterà una silloge in base al suo filtro verso il mondo, in base alle sue conoscenze, in base al grado di affinità e di empatia e a tante altre cose che, in via generale, non sussistono, invece, per quanto concerne la narrativa dove, ciò che si narra è ciò che l’autore vuole farci intendere e che quindi dobbiamo essere disposti ad accettare.

Nel mondo poetico di Daniela Ferraro (ed è questo a mio modo di vedere uno dei punti di forza) ci si potrebbe in effetti perdere di continuo, ma perdersi non è mai qualcosa di negativo perché mette in moto un processo di analisi e ricerca nel quale l’animo umano è altamente cosciente e impegnato. Non è un caso che in “Farfalle” (emblema di leggerezza, ma anche di sospensione per ritornare a quanto sopra si diceva) la poetessa parli di “vita/ che ormai non ha crocicchi”, uno spazio concreto e della mente dove la destinazione, la possibilità di fuga o un eventuale punto d’incontro (tra sé e gli altri, tra l’io e il proprio sé) sembrano ormai essere impossibili.

A dominare nelle varie liriche sono ambientazioni prevalentemente fosche descritte in termini asciutti e rivelatori di una meteorologia infausta quanto inclemente, declinazione, forse, di uno stato d’angoscia con il quale si è convissuto in un determinato momento dell’esistenza. Dal punto di vista climatico, infatti, tra tante nuvole, tempeste, nebbie e pioggia, risulta sempre più difficile trovare un raggio di sole. Questo non significa che esso sia totalmente assente, ma nascosto, che va ricercato non tanto nel cielo, ma dentro di noi. Il vento, poi, è padrone indiscusso di una lirica nella quale non tanto si traccia un momento del passato con il ricordo dello sferzare delle fronde o il lambire della pelle, ma si incita alla sua forza, quasi cantandone l’importanza e decretandone il bisogno del rispetto nei suoi confronti, affinché, “imprima il bacio/ per morire in silenzio”.

L’impalcatura del libro è quella di un viaggio nel tempo (concreto) del giorno (dall’alba al suo tramonto o crepuscolo, come indicato in una lirica) e di un anno con le varie stagioni che ritroviamo nella diversa tipologia della flora anche se –in linea con l’ombrosità meteorologica di cui si diceva- è l’autunno a dominare, quel momento fatto di scurezza, desolazione e apparente morte naturale (gli alberi si spogliano, alcuni animali vanno in letargo). Non è assolutamente un caso che una delle parole più ricorrenti in tutto il libro sia quella di ‘ombra’ (con le sue naturali derivazioni ), che sta a delineare da una parte una realtà cupa, nella quale la luminosità sembra una recondita utopia, dall’altra una sorta di frontiera sospesa, in un universo dove a tratti è difficile fuoriuscire dal sogno per entrare nella realtà o dove si rischia di trovarsi ingabbiati in aporie di difficile soluzione. E’ richiamato a livello semantico e concettuale un modo che supera quello reale e concreto e nel quale, con l’opportuno utilizzo di vocaboli, si cerca di intessere uno stretto e affiatato colloquio tra il reale e il metafisico: “danzavano i sogni/ su punte di cristallo/ nel viale fiorito”; altre volte la Ferraro plana sul pensiero esacerbandone la forma per rinverdire considerazioni esistenziali volte a una ricerca infruttuosa ma con la quale è oramai in pace con se stessa: “Chi ero o sono io/ vaga è importanza”.

Il linguaggio, com’era stato nella precedente silloge, si rafforza con l’uso di vocaboli che non solo trasmettono un’immagine in sé definita, ma addirittura un concetto nel quale, con una modalità simile ai versi comunicati, si riversa il significato di liriche già lette, connettendole in un percorso della psiche, forse tortuoso, caratteristico del poetare della Nostra. L’utilizzo di alcuni termini desueti non intralcia più di tanto il naturale percorso di comprensione (la Nostra è una docente di Lettere e ha un rapporto diverso con il vocabolario italiano rispetto a quello che potrebbe avere la comune “casalinga di Voghera”) né lo ingabbia in una poetica d’antan o dal gusto barocco nella resa sulla carta di situazioni, eventi e riflessioni su momenti vissuti. Per gli amanti della letteratura, inoltre, non sarà difficile ritrovare qualche cameo letterario in “lo stormir di fronde” o nel “dolore antico” di leopardiana e carducciana memoria, rispettivamente.

Alcune poesie si fanno più intime e sembrano racchiudere il nerbo di un vissuto che ha sperimentato gioie e dolori e da entrambi ne ha tratto esperienza e conoscenza del mondo. Sono poesie in cui è evidente l’afflato per la vita, il canto alla gioia e a una vita di condivisione con l’altro; se un abbraccio ultimo, unico testimone di un allontanamento (non ci è dato sapere se obbligato e dunque subito o se libero, frutto di una decisione) è vissuto in termini fortemente cromatici e visuali come “l’ortica tra il rosso dei papaveri”, è anche vero che in questo libro si leggerà molto di amore (o meglio, si scoprirà l’animo sensibile di una donna che non teme di offrirsi ai più) e in questi versi chiosa verità eclatanti sostenute da un linguaggio semplice, aperto a tutti e di impressionante resa: “Non c’è memoria quando l’amore è inganno” o ancora “L’amore è un demone santificato”. L’amore ci insegna la Nostra è un sentimento nel quale credere e affidarsi se scevro dall’inganno, frutto di una propria scelta e motivato da un reale affiatamento perché, in altre circostanze, non è poi così raro che esso possa tramutare in qualcos’altro di molto deprimente: in una scialba consuetudine, come bersaglio di un tradimento, come strumento per soggiogare mente e corpo. Ecco perché la nostra sente il bisogno di porre l’attenzione qua e là sulla necessità che il sentimento sia autentico e vissuto, anche perché il clima sociale nel quale viviamo nel nostro oggi non aiuta nella realizzazione e conservazione dei rapporti umani dove tutto, anche l’amicizia o l’amore, spesso è ridotto a mercificazione, “La gente ha fretta…/ Passa, saluta, inciampa”.

Piume di cobalto, in questa sintesi superba di itinerario poetico in cui il blu acceso e quasi metallico si sposa con una dimensione aerea, sospesa, quasi surreale, è anche un invito a saper cogliere l’attimo, a far dono non solo dei propri successi, ma anche delle proprie sconfitte, a saper rielaborare le esperienze, riviverle e ricrearle con l’atto della scrittura, un po’ per esorcizzarne le negatività, un po’ per convincersi che poi quegli “ombreggianti pensieri”, quelle “vaghe apparenze tra fluttuanti nebbie”, non siano che caricature di un vissuto che poco ci appartiene perché siamo riusciti a cogliere quel raggio di sole, pure flebile, che nascosto dietro le nebbie dell’esistenza, ha messo fine a quell’universo di ombre e incertezze.

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 23.09.2014

 

“Il Tasso epistolografo. Lingua e cultura nelle Lettere” di Francesco Martillotto

TITOLO:  Il Tasso epistolografo. Lingua e cultura nelle Lettere
AUTORE: Francesco Martillotto
EDITORE: Edizioni Simple (Macerata)
ANNO: 2011
ISBN: 978-88-6259-411-0
PAGG. 189
COSTO: € 18,00

Copertina testoSINOSSI: Le lettere tassiane, che qui si prendono in esame dal punto di vista linguistico fondando lo studio sulle tradizionali partizioni e caselle grammaticali, rappresentano un documento fondamentale per ricostruire la biografia del poeta sorrentino (occupano un’estensione temporale che va dal 1556 al 1595), non solo per gli accadimenti più rilevanti che lo scrittore racconta ai suoi corrispondenti, ma anche per scoprire gli angoli più nascosti della sua forma mentis, per percepire, ad esempio, l’umore e i sentimenti oscillanti fra la rabbia per le stampe scorrette e l’intima confessione agli amici, fino alla serenità e al distacco del suo animo in quella che è ritenuta l’ultima lettera all’amico Costantini. In esse si rintracciano, più che nei Dialoghi, i risultati più alti dell’eloquenza tassiana per quella forma che, impreziosita dall’inserimento di tessere poetiche (il debito maggiore è certamente contratto con le tre «corone» trecentesche), oscilla tra il realistico-oggettivo (si pensi alle lunghe lettere sulle cose di Francia e sul matrimonio), il metaforico-concettoso, il biografico-narcisistico, ma rimane sempre attenta ai timbri ritmico-melodici, elegante ed ordinata, a metà tra “biografia e poesia”.

BIOGRAFIA: Laureato in Lettere Moderne (nel luglio 1998), con lode, presso l’Università degli Studi della Calabria, ho conseguito nel gennaio 2005 presso lo stesso ateneo il dottorato di ricerca in “Scienze letterarie, retorica e tecniche dell’interpretazione” (XVI ciclo). Dal 2004 collaboro con la cattedra di Letteratura italiana dell’Università degli Studi della Calabria per la quale ho tenuto seminari sulla “Vita Nuova” di Dante, su Francesco Petrarca), sul romanzo epico-cavalleresco nel Cinquecento e su Torquato Tasso. Nel 2008 sono docente a contratto di “Competenze linguistiche” presso la Facoltà di Ingegneria dell’ Università degli Studi della Calabria, e nell’a.a. 2009/10 del “Laboratorio di educazione linguistica” presso il Corso di Laurea Interfacoltà in Scienze della Formazione Primaria della medesima università. Al Tasso ho dedicato alcuni articoli usciti presso la rivista “Studi tassiani” (2000 e 2007), negli Atti dell’Accademia Galileiana in Padova (1999-2000), in quelli dell’ADI – Associazione degli Italianisti Italiani (convegno di Napoli 2007: gli Atti sono online su http://www.italianisti.it sez. pubblicazioni) ed una monografia sull’epistolario (“Il Tasso epistolografo. Lingua e cultura nelle Lettere”, Macerata, Edizioni Simple, 2011, pp. 189). Ultimamente ho studiato L’Antologia della lirica moderna italiana di Severino Ferrari (comunicazione al XIII Convegno della MOD) e l’opera di Flavio Biondo (comunicazione al XV Congresso Nazionale ADI: gli Atti sono pubblicati dalla casa editrice Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2012). Ho scritto anche per la rivista “Oblio” (http://www.progettoblio.com/).Docente di ruolo nell’area di Italianistica, nelle scuole svolgo anche attività di docenza nei PON (Programmi Operativi Nazionali) e nei POR. Sono socio dell’ ADI (Associazione degli Italianisti Italiani) e della MOD (Società Italiana per lo Studio della Modernità Letteraria).

 

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