Ivan Caldarese, Ambulatorio 62. L’inchiostro che parla di cancro, Marotta & Cafiero, Napoli, 2016.
Recensione di Lorenzo Spurio
Dovendo vivere per un tempo limitato, è un vero peccato lasciar scorrere via, nell’apatia o nell’indifferenza, così tanti momenti. La verità è che, il più delle volte, realizziamo l’importanza delle cose quando non ci sono più oppure quando iniziano a scarseggiare. (27)
Il romanzo di Ivan Caldarese, Ambulatorio 62, è uno di quei libri che non lasciano indifferenti chi si accosta ad esso e lo legge. Capita raramente che una lettura si dimostri sin dalle prime righe avvincente e persuasiva tanto da portare a fagocitare l’intero volume in un paio di ore. Capita, al di là del coinvolgimento nei viluppi narrativi che siamo intenzionati a conoscere come evolvano, quando –come nel caso del libro di Ivan- il lettore sperimenta una forma dialogica intima con l’autore, una relazione di prossimità e vicinanza che non gli consente di abbandonare né di tralasciare il personaggio della storia e di posticipare la lettura delle sue vicende in un tempo futuro. Romanzi del genere hanno la volontà di descrivere un’esistenza che non può né deve essere bloccata neppure dinanzi alla organizzazione lettoria di chi se ne appropria perché il flusso emotivo, la carica introspettiva e gli scavi dell’anima che vengono trasposti sulla carta hanno una forza talmente alta che il lettore non può sentirsi solamente tale, ma una sorta di sodale del nostro, di amico che, pur silente, accoglie con vicinanza il disincanto, la difficoltà e le problematiche esistenziali. Qui, in Ambulatorio 62, avviene tutto questo perché ci troviamo dinanzi a una sorta di diario delle vicende mediche che contraddistinsero il personaggio in prima persona, immagine dello stesso autore, in un difficile calvario tra la minaccia della morte e la rinascita.
Con un linguaggio semplice e d’uso comune Ivan Caldarese ci narra, senza toni patetici, con confidenza il suo dramma psicologico che fa seguito l’indomani di un esame destabilizzante, quello dell’ago spirato. La nuova realtà che si prospetta ai suoi occhi, avallata dagli esami medici, è sconvolgente: quella di una malattia assai grave che va trattata con urgenza, ma anche con uno spirito sereno, speranza e grande voglia di combattere. Assistiamo così nelle varie pagine che contraddistinguono il romanzo, efficacemente raccolte in quattro sotto-sezioni a rappresentare gli elementi della natura che, analogicamente, hanno un riflesso diretto nelle vicende narrate, al tormento esistenziale di un uomo tra paura, insicurezza e una forma d’ansia perenne che ne mina la tranquillità, condizione dilaniante che lo porta, però, a una nuova conoscenza del mondo, ovvero a riscoprire la bellezza e l’importanza di ogni cosa, anche degli aspetti da sempre ritenuti rituali, domestici o banali. In questo approfondimento della coscienza risiede la chiave di volta che permette al Nostro di non cadere nel baratro della depressione e dell’auto-annullamento ma di intrattenere una battaglia costante contro quel male oscuro, quell’ospite malvagio che ha inopportunamente e vilmente occupato il suo corpo da minacciarlo in forma sempre più seria.
La vita così, se prima era rappresentata da un semplice e meccanico concatenarsi di azioni (alzarsi, andare a lavoro, mangiare, etc.), diviene ora il motivo di una più ampia esegesi, a tratti meravigliata nei confronti dei meccanismi della natura, mai osservati con tanto interesse e partecipazione, come quando il Nostro si siede sul balcone ed osserva il cielo o uno stormo di uccelli. L’evento minaccioso e in quanto tale traumatico è a sua volta portatore di una rivelazione del mondo, come il velo di Maya che copre i nostri occhi e che, dinanzi al timore e al pericolo, viene tolto svelandoci una realtà fatta di ricchezza e colore, sempre per lo più bistrattata o data come normalità. La metafora del viaggio in treno aiuta a capire il tortuoso itinerario del nostro, camminamento aggravato da perplessità e forti paure che in qualche modo sviliscono la natura dell’uomo come se venisse denudato dinanzi l’esistenza.
Al cospetto della “inappellabile sentenza” (28) il mondo cambia di colpo: gli interessi che priva vedevano il Nostro legato alla comunità (famiglia, lavoro, amici) di colpo vengono soppiantati dal dominio della persona. Tutte le attenzione, smanie, ossessioni prevalgono e lo stato di salute diviene l’elemento cardine. Da subito Ivan contrappone, però, un animo pacato, una rilassatezza che, pur nello stato ansiogeno, è capace di intravedere la positiva possibilità, non facendo mai spegnere la labile fiamma della speranza. Così sperimenta, in un mondo di finzione, una terapia dalle sfumature ilari che gli consente di alleviare il morbo esistenziale, interessandosi al mondo ma in chiave esterna. Crea film mentali, possibili canovacci di esistenze della gente che incontra, costruisce racconti figurandosi le persone come personaggi in improbabili racconti cercando di indagare la natura dell’uomo, la complessità delle sue forme, di sviare il suo tormento. Questa immersione in un mondo inedito e sconosciuto rappresenta, però, come ben presto lo stesso personaggio rivelerà, una via di fuga illusoria. Creativa e seducente, ma surreale e inappropriata, come mettersi una maschera per mostrare chi non si è.

Ivan Caldarese, l’autore del libro
La situazione si fa critica perché l’ansia e il timore sembrano non abbandonare il Nostro che così scrive: “Quando impari a conoscere e a riconoscere la fisionomia della tristezza e della paura, non puoi scordarti dei loro tratti distintivi. Mai più” (55). Ed è così che di soppiatto, non invitata, entra in scena il personaggio più triste che si potrebbe pensare, la Signora Morte, da Ivan rappresentata e richiamata come un essere quasi in carne ed ossa, talmente capace a percepirne la spiazzante presenza malefica. Essa è portatrice della vittoria nella battaglia tra la vita e la morte dell’amico Pietro che, in breve tempo, passerà all’aldilà a seguito di una grave malattia. Si tratta dell’incontro più doloroso, quello con la Morte, la nemica infame che Ivan vive come una sorta di nefando pronostico, quasi come una vigilia a più ampi e gravi dolori che seguiranno. In queste pagine pervade un senso di profonda costernazione: “la fisionomia della Signora vestita di nero. Desiderava il possesso carnale di una vita, aveva aspettato con pazienza e alla fine era riuscita nel suo intento” (61).
Con la recente perdita del caro amico i quesiti esistenziali e il dramma emotivo si fanno ancora più vivi, segno che la Signora vestita di nero non guarda in faccia nessuno e la sua inesorabilità e imbattibilità rendono l’uomo privo di un sano ragionamento. Lo scrittore, nella disanima di quei tremendi momenti, è in grado di approfondire il suo animo che risulta essere la fonte di considerazioni assai sagge: “il male ci sembra spesso lontano, come se non ci riguardasse mai, come se fosse qualcosa riservato sempre e solo agli altri e non a noi” (80).
Se la terapia di dar vita a livello finzionale alla vita degli estranei non funziona, ecco che al tormento e al senso di vaghezza il Nostro contrappone il recupero della memoria, vale a dire di quei momenti –soprattutto dell’infanzia- che hanno rappresentato un periodo felice, denso di attenzioni e di amore che ora, come un bambino, evoca quali baluardi di sicurezza. Interviene anche la religione e, sebbene il protagonista si dica in più punti non credente, arriverà a sentire la necessità di confidare a Dio il suo dolore chiedendone aiuto per mezzo della preghiera.
In questa decisa ed univoca scelta per la vita Ivan Caldarese mostra con acribia i vari meccanismi da lui attuati, in sintonia con una profonda fede nella speranza, per attuare se non un addolcimento, uno sviamento degli ineluttabili e ombrosi pensieri. Mostra, cioè, in linea con quanto hanno evidenziato anche studi scientifici, quanto possa essere rilevante in casi di tumore o di profonda malattia che lede la stabilità psicologica, un temperamento rilassato e positivo, tendenzialmente creativo e operoso, speranzoso e battagliero.
Seppure spesso faccia capolino una “costante sensazione di aver già vissuto tutto” (110) il Nostro non abbassa mai la guardia, non si lascia sprofondare da quello che potrebbe configurarsi come un lecito e comprensibile stato depressivo e di rifiuto dell’esistenza, ma è sempre animato alla proiezione nel futuro: “È uno scenario desolante, ma la forza che viene fuori un po’ a tutti, a chi prima e a chi dopo e la voglia di vivere che emerge sempre, sono un’altra grande lezione di vita” (121).
La narrazione si chiude con due asserzioni di importante contenuto che, se possono in qualche modo sembrare antitetiche, in realtà non lo sono ed evidenziano ancor meglio la complessità dello situazione post-operatoria che non viene a significare la conclusione della terapia. Ivan dice infatti “Sapevo di non aver finito ancora di combattere […] La mano gelida dello spettro della morte continuava a stritolarmi la gola, ero sempre lì, la vedevo e la sentivo costantemente” (126). Nella chiusa del libro, che intuiamo riferirsi a un periodo temporale successivo agli eventi precedentemente narrati, lo stesso autore così scrive, quasi fosse un grido liberatorio “Ti ho sconfitto, cancro” (130), suggello di una felice risoluzione di una patologia che ha dimensione e diffusione spaventosa e che, purtroppo, non sempre consente a chi l’ha vissuta di fornirne un racconto, scritto od orale che sia.
Il plauso va a Ivan Caldarese che non solo ci ha fatto dono di una vicenda assai personale aprendoci il suo mondo intimo per testimoniare quanto ardua sia la convivenza con un male che minaccia l’intero corpo, ma per averci mostrato quanto la speranza, vale a dire la proiezione di un senso di positività relativo a un prossimo futuro, possa significare nell’avvicendarsi di un periodo infausto e debilitante, quale è la malattia del cancro che spesso non dà motivo di sperare né di ricreare la vita, come lui ha fatto, riscoprendosi bambino.
Lorenzo Spurio
Jesi, 06-02-2017
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