Gabriella Maggio su “Il ritorno di Omero” di Dante Maffia

Chiunque possieda un numero sufficiente di libri da porsi il problema della loro sistemazione, sa che la questione non è affatto peregrina. Aveva ragione quel bibliotecario che asseriva solenne: le biblioteche sono governate da una scienza in sé e per sé, non c’è nulla da fare!( Marco Filoni, Inciampi, Italo Svevo 2019).

Alcuni giorni fa mentre cercavo un libro nella mia biblioteca ho trovato, incollato  ad un grosso volume, Le famose concubine imperiali  a cura di Ludovico Di Giura, ed. Arnoldo Mondadori 1958,  un fascicolo azzurro, in parte ingiallito. Era Il ritorno di Omero di Dante Maffia, scritto nel 1982 e pubblicato nell’’84 nei Sedicesimi di Letteratura, n.5, supplemento a “Periferia”, n.20 , Cosenza, con prefazione di Giulio Ferroni. Il fascicolo contiene sedici brevi poesie che trattano di come Dante Maffia, riviva la poesia dell’antico Omero. 

È opinione condivisa  che la poesia sia un luogo fatto di memoria e di sentimenti, un continuo colloquio interiore del poeta con se stesso  e con i propri autori; che sia un modo  di essere  nel  mondo  e cercarne la verità. Chi come Dante Maffia  è nato  sulle sponde del Mare Ionio, nell’antica Magna Grecia, percepisce nell’anima  la  presenza del confine  geografico e letterario con la Grecia. Separazione  e  nello stesso  tempo collegamento, ma soprattutto per i poeti autentici come Dante Maffia  irrinunciabile invito a fare  poesia, a ridefinire la propria identità culturale e umana. Mescolando  la propria  voce poetica a quella dell’antico Omero, Dante Maffia  rielabora il  mito  del cieco cantore in maniera originale facendo riferimento alle inevitabili “modificazioni” del mito  stesso, generate dal susseguirsi degli accadimenti, che ne scandiscono la distanza, e nello stesso tempo definendo  le “persistenze”: “c’è sempre qualcuno che porta i miei occhi ,/qualcuno che dice ciò che ho detto”, in nome dell’universalità della poesia teorizzata da Aristotele  nella  “Poetica”.

Tra i due poeti c’è uno scambio fecondo d’identità per cui Omero versus Dante può dire: “Scendo nelle profondità del vento,/aspiro il nettare dolce del trapasso,/ muto di conoscenza in conoscenza,/ mi trovo in ogni forma, in fasi alterne/ di secoli bugiardi, di deliri”.

Il poeta Dante Maffia

L’esperienza personale di Dante Maffia,  che intreccia  quotidiano, ricerca esistenziale e  desiderio  di autenticità umana, è resa sulla pagina  filtrata dalle trasparenze mitiche che avvolgono Omero:  non avere nessuna patria , il proprio maledetto vagare. L’Omero  di Dante Maffia arriva  per mare,  remando “su una piccola barca… non è cieco,  cerca un tempo/ ignoto alle pupille, ma nel cuore impresso”. Come acutamente nota Giulio Ferroni nella prefazione questo Omero è simile a Caronte, è  un traghettatore che unisce le due rive non dell’Acheronte, ma  del Mare Ionio, accompagnando  il compimento della poesia dell’audace Maffia.

Leggendo i versi de Il ritorno di Omero qua e là traspare sia la mediazione culturale dell’Alighieri, che tuttavia non osava identificarsi con i poeti antichi, accontentandosi di essere “sesto tra cotanto senno” o di gareggiare con Ovidio e Lucano come nella iactatio del canto XXV dell’Inferno e di Ugo Foscolo che in quel mare greco ebbe “la culla”. Il “signore dell’altissimo canto / che sovra li altri com’aquila vola”, secondo le parole dell’Alighieri nel IV canto dell’Inferno, ha abbandonato il nobile castello,  ora  si contamina con l’identità incerta, del poeta contemporaneo, si frantuma per esprimere i sentimenti degli uomini d’oggi, velleitari che posano a eroi “Sminuzzato e rifatto in particole,/in diseguali miti/inseguo me stesso”. I traguardi sono perduti. Di questi tempi  si è  “Eroi solo per un giorno” come dice David Bowiein Heroes.

Il poeta Omero/Dante resta nella zona d’ombra dell’esserci:”Potessi ancora diventare Ulisse…Ritroverei la forza del mio canto…” Insieme agli eroianche il canto epico  che li ha creati  cede  nei versi  del  poemetto all’elegia  del “primo fiato d’erba…dei colori dell’aprile”. La “parola risolutrice” dev’essere cavata dal buio del cuore  con fatica  simile  a quella  del minatore che estrae la materia preziosa dalle cavità della terra. E non è più certa la fama, quella che  arriva a chi viene dopo e lo  nutre   come il  frutto maturo che si disfa  nella terra  e si fa nuovo cibo. Ma come il giovane Holden nel romanzo di Salinger si chiede dove vadano le anatre quando gela il laghetto di Central Park, Dante Maffia/Omero si chiede: “Dove sono i miei versi ?…La mia parola chissà/ se come frutto si dissolve/ o resta al fondo/ di simboli segreti…” Eppure  Maffia sa di germogliare  dal quel seme dell’antico Omero e non ostante tutto si apre alla  fiducia: “Perché la parola vince, apre le tenebre…non s’arrende all’inerzia della carta”. E ne è consapevole. Nel suo solitario raccoglimento il poeta trova difesa e consolazione nell’affascinante viaggioculturale che salda passato e presente, nel convincimento della centralità della Grecia nella stratificazione culturale  dell’occidente. La  sua  ardita operazione culturale consiste nella  traslitterazione del mondo epico in elegia. Il passato assoluto, i miti destinati a  compimento, il paradigma dei valori accettati e condivisi si problematizzano e frantumano, diventando ricerca e domanda di senso.  È acuta la consapevolezza di un’unità irrimediabilmente perduta nel mondo contemporaneo, proposta nella ripresa del mito di Eurinome e Ofione:  “Eurinome trasale, la sua carne / s’apre alla demenza”.

Il ritorno di Omero è  un’opera  di forte  impatto emotivo  ancora oggi, strutturata su una vasta cultura rivissuta con  piena consapevolezza di ciò che necessariamente muta e ciò che resta, pur nella incessante metamorfosi  odierna:  il canto dei poeti. Il ritmo dei  XVI  componimenti  è fluido, le immagini visive e sonore  si susseguono senza interruzione. È frequente l’uso dell’enjambement che  dà risalto alle parole, mentre la sintassi semplice asseconda il movimento espansivo del pensiero, dal mito alla quotidianità.

GABRIELLA MAGGIO


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N.E. 02/2024 – Su Mihai Eminescu. Saggio di Dante Maffia

Mihai Eminescu è una delle figure più interessanti della poesia europea dell’Ottocento. Intanto la sua vita: un crogiolo di avvenimenti, a cominciare dalla famiglia numerosa. Era il settimo di undici fratelli, uno dei quali si suicidò, una sorellina di pochi anni, Hanrieta, fu colpita dalla paralisi e gli altri morirono quasi tutti di tubercolosi. Un’infanzia così orribile, così piena di disgrazie e di dolore produsse in lui lo sfacelo psichico e non bastò la dolcezza della natura dove trascorse i primi anni (a Ipotesti, Botosani) a ripararlo dalla strazio che lo investì con ferocia inaudita. Rimase spesso gelido, lontano dagli accadimenti altrui, assente, fermentando nel suo animo furori contraddittori, fantasmi sconci e osceni che soltanto la Natura poteva curare con la sua innocenza. Aveva otto anni quando fu mandato a studiare a Cernauti, nella Bucovina dove si parlava tedesco. Non gli piaceva trascorrere le giornate a studiare, ma ebbe la fortuna di avere come professore Aron Pùmnul che, come scrive Gino Lupi, “amò fortemente e gli rivelò l’intima unione esistente fra la nazione e la lingua”. Ma non abbiamo notizie precise su questo periodo, solo ipotesi e intuizioni, con una certezza, fu sempre irregolare, inseguì un suo sogno di cui non dette ragioni e spiegazioni, neppure al padre che, a più riprese, cercò di riportarlo agli studi.

I primi versi li scrisse in morte del professor Pùmnul e furono pubblicati nel 1866 sulla rivista “Familia”. Aveva poco più di sedici anni e forse per questo motivo il direttore della rivista, Iosìf Vulcàn, l’accetto con entusiasmo, ma anche perché intravide nella filigrana dei versi qualcosa che lo spinse ad avallarlo. All’epoca Mihai firmava col cognome Eminovici e fu il redattore, non amava ciò che sapeva di slavo, che arbitrariamente lo cambiò in Eminescu. Al giovanotto piacque e da allora lo adottò per sempre.

A guardare la brevità della sua esistenza, muore a soli trentanove anni, si stenta a credere che egli abbia viaggiato tanto e scritto tanto, viaggiato anche da solo, come Dino Campana, per conoscere il mondo contadino della Romania, per sentirsi libero. Dino Campana addirittura per raggiungere Firenze da Marradi, si avviava a piedi, e non è escluso che anche Mihai non abbia fatto lunghe scarpinate; atteggiamento tipico di chi è portatore di malattie nervose. Si tratta di pure coincidenze, ma vedo negli studi disordinati di Eminescu anche un modo simile a quello di Ovidio, la stessa avidità di conoscenza del poeta latino, il variare degli interessi, un eclettismo molto selettivo e ricco di interessi che non trascuravano le scienze e la filosofia, il rapporto con la vita: disordinato, caotico, intenso; con l’amore: irto, fatale, ciclico; con la morte, con gli studi, con la politica, con l’ambiente, soprattutto con la lingua rumena che voleva sentire viva e palpitante nei suoi versi, voce del popolo, ma anche congiunzione di un ideale che doveva racchiudere la sintesi di una intensità che non trascurava la cultura in senso lato. Si noti che quando si iscrisse all’Universtà nell’anno 1871-1872, seguì contemporaneamente i corsi di economia, di lingua rumena, di anatomia, di diritto, di fisiologia, di medicina legale e i corsi di analisi dedicati a Spinoza, Leibniz e Descartes.

A dominare la vita del poeta è l’inquietudine che lo spinge a cercare il senso segreto delle cose, con la convinzione che comunque la letteratura abbia anche una funzione pedagogica che educa gli animi a un’etica sempre corroborata dall’estetica e senza che l’una limiti l’altra o la renda ancella. Un equilibrio così potente è sempre difficile che regga, eppure in Eminescu non solo trova spazio e ragioni, ma dura e diventa la forza di un modo di intendere la vita nel suo farsi quotidiano. Giustamente alcuni critici sostengono che Eminescu poeta non lo si possa intendere e godere nella sua portata se non si conoscono i suoi scritti giornalistici (nei sette anni in cui lavorerà come redattore alla rivista ”Timpul”  pubblica oltre trecento articoli in cui affronta i problemi più scottanti e più urgenti del suo tempo)  ma altrettanto giustamente io dico che la poesia di Eminescu offre, anche al lettore che per caso ci si imbatte, molte emozioni, molte frenesie e molte possibilità di entrare in armonia con l’universo al di là dei fattori contingenti che qua e là affiorano.

Quando dico entrare in armonia con l’universo non intendo il luogo comune che pretende di unificare soggettivismo e universalismo, ma naturale realizzazione di qualcosa che non appartiene più alla realtà, perché è entrata nella dimensione della musica, del sogno, di un universalismo ideale che comprende in un unico fiato il senso della vita e dell’amore. Eminescu aveva una capacità fenomenale di “sentire” la forza dei poeti, basti pensare all’incontro avuto con la poesia di Aleksandr Sergeevič Puškin che lo travolse e che gli fece quasi imparare il russo in pochi giorni.  La sua psiche però “ragionava” secondo le accensioni di interessi che scantonavano alla ricerca di un qualcosa di definitivo che egli aveva intravisto e non riusciva ad acciuffare facendo accrescere in lui la curiosità della conoscenza, proprio con atteggiamento dantesco. L’aveva colto molto bene Mario Luzi che scrisse: “Per necessità naturale e per situazione geopolitica vissuta, Eminescu ha fatto ciò che nel secolo successivo al suo e anche oggi si tenta di fare per convinzione o per calcolo: una letteratura senza frontiere tra germanesimo e retaggio latino, tra Oriente e Occidente. Con questo respiro vivo, grande, spontaneo e conscio Eminescu ha dato freschezza e vigore al profondo desiderio romantico; e ha dato anche drammatica perspicuità all’accento della sua sconfitta, senza per questo compromettere o diminuire la sua energia creativa”. E tutto questo senza mai entrare nella scia di quel maledettismo che in Francia, e non solo, ruppe gli argini e immerse la poesia spesso in un fuoco di significati esoterici ed eterogenei che crearono molta confusione e affermarono il concetto del disordine come espressione poetica di somma libertà.

Le avanguardie molto spesso aprono strade nuove e svecchiano, ma qualche volta fanno anche parecchi danni quando pretendono di sradicare gli alberi d’una foresta e senza ripiantarne uno solo. Eminescu aveva dalla sua le ragioni linguistiche che lo aiutarono a restare fermo nelle forme classicheggianti, anche quando il canto delle sue liriche prense l’aire o quando la musica dei versi si snodò in vibrazioni stridenti. In lui poeta c’era la necessità di saldare le scissioni interiori che lo dilaniavano e lo sbattevano in venti contrari, tanto è vero che il suo peregrinare ne è testimonianza pura, a cominciare dal fare il suggeritore di teatro, lo scrivano, lo studente distratto e svogliato. Ho l’impressione che la sua vita fu guidata da intermittenze allucinatorie che lo sbattevano tra inferno e paradiso, tra momenti in cui sembrava di avere trovato l’equilibrio e la sintesi delle sue ansie e lo sfaldamento di tutto, lo scendere verso le cateratte oscure di un inferno che apriva orizzonti sconcertanti, chimere che svaporavano nell’assurdo, soluzioni che non erano mai pause vere e proprie, ma appena singhiozzi di mortificazione per non essere riuscito a saldare la sua necessità di saldare il cerchio.

Il poeta romantico rumeno Mihai Eminescu (1850-1889)

Leggendo le sue poesie si ha la sensazione di attraversare una strada infinita senza strisce che guidino e senza muretti laterali; di trovarsi allo scoperto mentre in cielo l’azzurro si appallottola per nascondersi al viandante. E il viandante è sempre lui, Mihail, che a volte perde il senso della direzione e si nasconde nel guscio vuoto di sensazioni clamorosamente effimere, frantumate da singhiozzi di un vento infernale che non smette mai di spirare. Ogni situazione poetica che Eminescu affronta nasce da un suo dubbio, da una riflessione più che da uno scatto lirico; poi avviene il mutamento e la scommessa di fermare in immagini il riverbero, sempre però tenendo a freno l’anima, quasi che temesse di essere frainteso, offeso, colto nel momento in cui le considerazioni potrebbero cadere nell’aura del senso di colpa, addebitando alla sua persona i mali del mondo, le cadute a picco nell’impotenza e nell’adesione perfetta alle cose e al sentimento.

Anche nelle poesie d’amore più accese si avverte una sorta di timore ad abbandonarsi totalmente (è casuale che una delle parole più ricorrenti nella produzione di Eminescu sia marmo?) e così il suo romanticismo si veste di classicità, diventa misura che contempera accenti precisi cadenzati dalle forme metriche tradizionali come il sonetto, la ballata, le quartine utilizzando spesso anche la rima baciata.

Alla fine degli anni ottanta, epoca in cui ho frequentato spesso Firenze, ho avuto l’occasione di parlare spesso con Sauro Albisani di Mihai Eminescu. Volevo capire in che cosa consiste il suo fascino e la sua forza, la bellezza della sua poesia che non si lascia mai andare a uno straripamento, neanche ne L’astro Lucifero, neanche quando il suo cuore bolle e non riesce ad estenuare la possanza del sentire i rintocchi e le accensioni del suo animo. In lui persiste e resiste la misura, che non è tutta edulcorata dal riverbero classico greco e latino. Egli ha trovato un suo modo pudico di entrare nelle valenze umane e spirituali e ne ha fatto un rivolo di luce che irrora la parola e la porta a compiere quasi un dovere espressivo che deve racchiudere, saper racchiudere il senso apparente e ciò che vive anche dietro l’apparenza, perfino ciò che sfuma verso l’alto e diventa essenza del sogno.

– Oh, sei bello come solo in sogno

       Un angelo si affaccia,

Però mai ti seguirò

       Sulla via che mi mostri:

Straniero nelle parole e nel costume,

       Risplendi senza vita,

Ché io son viva, tu sei morto,

      E l’occhio tuo m’agghiaccia”.

Quanto al riferimento che alcuni critici hanno fatto a Giacomo Leopardi personalmente non vi ho trovato riscontri. Sì, sono morti tutti e due a Trentanove anni, hanno vissuto una breve esistenza studiando in modo “matto e disperato”, ma Leopardi chiuso nel suo borgo e Eminescu vagando, cercando se stesso:

“Chiedere un segno, amore, per non dimenticarti?

Ti chiederei soltanto te, ma non sei più tua;”

                                                       (Separazione)

Una delle cifre più umane e poetiche di Eminescu è proprio dentro la sua inquietudine. Ho citato prima Dino Campana, ma non escluderei Nazim Hikmet e soprattutto… ma si tratta di affinità che vagano e che comunque arrivano dopo la sua presenza. Sarà stato anche il suo seme che si è sparso con il passare del tempo forgiando il nettare di altri poeti, favorendo il loro lievito? Non è escluso, ma a noi oggi preme accertare in che cosa consiste la grandezza di Mihail Eminescu, al di là delle connessioni che può avere avuto prima e dopo. La sua poesia ha il sapore pieno della vita, una intensità espressiva rara che rasenta, per fare una citazione tutta italiana, quella di Giosuè Carducci, una verticalità spirituale e linguistica che riesce a raggiungere esiti efficaci e spesso decisi in sono tessuti i fermenti di una “visione” che non si ferma soltanto alla poesia, ma va oltre, per affermare una identità attraverso il linguaggio mai approssimativo, mai giocato sulle ambiguità o sulla marginalità. Egli è davvero il testimone di un Paese che finalmente si ritrova dentro una coralità e dentro una emotività che da una parte vuole svincolarsi dal peso quasi irremovibile della latinità e dell’altra vuole affermare con decisione

“Sì, nascerò dal peccato,

      Ricevendo un’altra legge;

All’eternità sono legato,

      Ma voglio essere liberato”,

                        (L’astro Lucifero).

Insomma, il suo progetto romantico si svela e si adegua ai canoni per rifiutarli e addirittura romperli, in modo che la sua caduta nel baratro dell’angoscia e della follia diventi seme necessario, cito ancora Mario Luzi, “la sua energia creativa”. Una energia che ha qualcosa di infernale e di caduco e che tuttavia è stata “capace di annullare e di trascendere il dato autobiografico per elevarsi a ricerca di valori universali”, come sostiene Marina Tudorache.

Sentiamo che cosa dice Eminescu rivolgendosi agli amici critici: “I fiori sono tanti, ma pochi / frutti daranno al mondo; / tutti bussano alla porta della vita, / molti cadono morti. // Scrivere poesie è facile / se non si ha niente da dire, / si mettono in fila parole vuote, / facendo in modo che ultime facciano rima. // Ma se il tuo cuore è infastidito / da forti sofferenze e da grandi passioni, / e la tua mente / ascolta tutte le voci, // e queste voci, come fanno i fiori alla soglia della vita, / bussano alla porta dei tuoi pensieri, / e domandano di entrare nel mondo, / di adornarsi di parole. // Verso i tuoi sentimenti, / verso la tua vita, / dove potrai trovare giudici / dagli occhi gelidi e spiatati? // Ah, in quel caso ti sembrerà / che il cielo si abbatterà sul tuo capo: / e così troverai le parole / per esprimere compiuta la verità? // Oh critici, fiori appassiti / che mai darete frutti- / E’ facile scrivere poesie, / se non si ha niente da dire”.

Scetticismo? O piuttosto fede cieca nella poesia che però non deve cincischiare e occuparsi del fuggitivo, di quel che corre in fretta e si dilegua? La fede di Eminescu è totale eppure non si confessa in pienezza, cerca la via indiretta e l’ironia per affermare il dogma della poesia, la sua totale necessità.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La poesia amorosa di Borges”, saggio di Dante Maffia

Circa una ventina di anni fa pubblicai un elzeviro su “La Nación” di Buenos Aires intitolato Borges, ricordando ai lettori di quel quotidiano la leggenda di un Borges mai esistito, pura creazione della stampa e dei mass media, entità spirituale inventata per mettere in risalto una certa Argentina popolata di fantasmi, di antenati nobili dal passato aristocratico e colto in cui specchiarsi. Per anni durante i suoi lunghi viaggi il poeta ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, perché, come ha confessato in una conversazione informale, non si rendeva conto se quella leggenda era nata per seppellirlo o comunque per toglierlo dalla circolazione. Ci fu perfino chi disse che assegnargli il Premio Nobel sarebbe stato assegnarlo al vento.

Naturalmente si è pensato anche che sia stato lui stesso a mettere in giro voci del genere e che la persona chiamata Borges fosse soltanto un prestanome pagato lautamente dalla Casa editrice Losada di Buenos Aires e dal Governo argentino. Chiacchiere infinite, che hanno contribuito a formare attorno alla sua vita un cumulo di voci, la maggior parte delle quali sono assurde dicerie, affermazioni gratuite e prive di senso.

Io ho conosciuto il poeta, in più d’una occasione, e anche se non mi ha mostrato la sua carta d’identità, ho avuto modo di ascoltare dalla sua voce aneddoti illuminanti per la comprensione della poesia, aforismi taglienti, giudizi lapidari. È l’atteggiamento “arrogante” che spesso hanno i geni, anzi è l’atteggiamento semplice e diretto che mostrano senza veli, convinti che basti affermare, senza spiegare, senza soffermarsi a “giustificare” criticamente il frutto delle loro argomentazioni.

Insomma, di Borges si è detto di tutto; attorno a lui s’è creata una scia di considerazioni e di illazioni che sempre più si allarga, soprattutto perché, come sostiene Luigi Baldacci, a forza di non essere letto è diventato un classico.

Se contiamo il numero delle pagine pubblicate (sono circa tremila), ci rendiamo conto che la sua produzione non è immensa, ma se diamo uno sguardo alle tematiche affrontate si resta stupefatti: i suoi sconfinamenti sono sterminati, le sue indagini vaste. Dalla letteratura latina a quella americana, da quella tedesca a quella inglese, da quella spagnola a quella italiana. Molto acuti e preziosi i suoi scritti su Dante.

In questa vastità di interessi Borges ha avuto anche il tempo per l’amore, per scrivere poesie d’amore. Poche, in verità, che non cantano le lodi della donna se non per rapidi lampi, ma quasi sempre mettono l’accento sulla sua assenza, su ciò che ormai è avvenuto. Tutto perciò vive nel ricordo, con lucidità e precisione. Chi si aspettasse una poesia d’amore che sospira, che rincorre il mai o il sempre degli innamorati, non trova che la pienezza di un perenne presente. Si può dire, a un primo impatto, che l’amore per lui sia atto di assenza, perdita a cui pensare dopo, recupero della memoria di un tempo che forse non è felicità, ma sicuramente incanto vissuto nella normalità, momento magico di un tratto di strada compiuto e chiuso, e rimasto a significare una certa cosa di cui però si ha contezza dopo, soltanto dopo.

Questa è la prima impressione, l’impatto. Anche grazie all’insistenza di ocaso e di ausencia che pare vogliano siglare la condizione umana in genere dell’amore.

È come se Borges non potesse e non volesse parlare dei suoi rapporti con la donna, tenerli soltanto per sé. A volte, all’interno di testi che parlano di Buenos Aires o d’altri luoghi e d’altri argomenti, c’è un accenno, una indicazione, ma si tratta di momenti in cui sembra “costretto” a farlo per evitare che la composizione perda la sua circolarità.

Che cosa abbia contribuito a questa sua “riservatezza” è difficile dirlo, è certo che egli pone l’amore oltre i confini della quotidianità, come una luce che inonda e fugge lasciando poi un luogo incontaminato a cui fare riferimento soltanto in poche occasioni.

Nella raccolta d’esordio, Fervore di Buenos Aires, la prima lirica d’amore che incontriamo si intitola proprio Assenza. Sono diciotto versi che vale la pena di leggere per rendersi subito conto di come egli vede la donna, come la sente, come la vive o l’ha vissuta:

“Dovrò rialzare la vasta vita

che ancora adesso è il tuo specchio:

ogni mattina dovrò ricostruirla.

Da quando ti allontanasti,

quanti luoghi sono diventati vani

e senza senso, uguali

a lumi nel giorno.

Sere che furono nicchie della tua immagine,

musiche in cui sempre mi attendevi,

parole di quel tempo,

io dovrò formularle con le mie mani.

In quale profondità nasconderò la mia anima

perché non veda la tua assenza

che come un sole terribile, senza occaso,

brilla definitiva e spietata?

La tua assenza mi circonda

come la corda la gola

il mare chi sprofonda”.

Cominciamo col dire che non abbiamo indicazione di nomi, né di sembianze e che non c’è il minimo cenno al desiderio, alla sensualità, al vortice che ingorga di solito l’anima e il corpo e fa disperare “l’amore nel cuor dell’uomo”. Tutto è detto con la massima semplicità e con la massima oggettività. Sembra che egli parli di un uomo qualsiasi, non di se stesso, eppure dentro le parole si sente il gorgogliare di una ferita insanabile, mai minimamente rimarginata, tanto è vero che l’assenza è “come un sole terribile”, senza tramonto, che brilla crudele e malvagio. Anche la dolcezza degli incontri è figurata con una immagine indiretta efficace e davvero alta: “musiche in cui sempre mi attendevi”.

Più o meno negli stessi anni Vincenzo Cardarelli in Italia scriveva una poesia intitolata Attesa, ma in questa l’assenza è riferita a un appuntamento mancato. In Borges invece l’assenza diventa un fiorire attivo di ricordi che si materializzano e fanno male. E nonostante che egli non amasse troppo la poesia spagnola, qui ne troviamo echi che poi saranno soprattutto di Pedro Salinas, oltre che di Aleixandre.

Nella stessa raccolta troviamo una poesia intitolata Sabati, con la dedica a C. G. Non sappiamo chi sia, ma le quattro parti che compongono la lirica sono scandite con accenti direi musicali, ritmati con forza, siglati inizialmente sempre dall’occaso (“Fuori c’è un occaso, gioiello oscuro / incastonato nel tempo”) e conclusi con una immagine che investe le corde più sottili dell’uomo e una coralità che scaturisce da lontane nostalgie di assoluto: “Sempre, la moltitudine della tua bellezza”; “In te sta la delizia / come sta la crudeltà nelle spade”; “Nel nostro amore c’è una pena / che somiglia all’anima”; “Tu / che ieri soltanto eri tutta la bellezza / sei anche tutto l’amore, adesso”. A differenza però della precedente poesia, qui troviamo una indicazione precisa del corpo: “il biancore glorioso della tua carne” e troviamo quindi un Borges che fa una deroga alla sua pudicizia, al rispetto assoluto che ha della donna, perché “biancore” è una immagine solare priva di qualsiasi tentazione, del minimo riflesso di sensualità.

Il poeta e scrittore argentino Jorge Luis Borges

Ho cercato di individuare in tutta la produzione elementi che mi suggerissero dati illuminanti della sua poesia amorosa, ma Borges non è disposto mai a denudarsi, a mettere in piazza le sue illusioni e i suoi languori, le sue accensioni e il suo essersi perduto nelle braccia di una donna. Parsimonioso sempre, oculato nella scelta dei vocaboli, con un rigore che ci riporta all’essenzialità dei classici greci e latini. Infatti in Trofeo, in cui si racconta di un giorno intero trascorso con una lei possiamo soltanto apprendere questo dato: “io fui lo spettatore della tua bellezza”, informandoci che dopo sarebbe subentrata, in un modo molto particolare, ancora e sempre l’assenza. Insomma, spettatore della bellezza come lo si può essere di una cascata, di un prato fiorito, di una tela importante al museo.

La poesia d’amore successiva che incontriamo, sempre in Fervore di Buenos Aires, è Congedo. Anche in questa riappare la parola assenza: “Definitiva come un marmo / rattristerà la tua assenza altre sere”. Ecco, la donna nel ricordo è diventata come un marmo definito e ineluttabilmente fermo, chiuso nel rigore di una struttura immutabile, quindi, ancora una volta, immagine di un repertorio conservato nel suo fulgore oggettivo.

Due anni dopo, il 1925, Borges pubblica Luna di fronte, che con poche modifiche viene ristampato nel 1969. Borges ricorda che “Verso il 1905, Hermann Bahr decise: ‘L’unico dovere, essere moderno’. Più di vent’anni dopo, mi imposi anch’io questo obbligo del tutto superfluo. Essere moderno è essere contemporaneo, essere attuale; tutti fatalmente lo siamo. Nessuno…ha scoperto l’arte di vivere nel futuro o nel passato”. A volte il poeta sembra tautologico, ma bisogna stare attenti, perché egli in questo modo apparentemente innocuo, piano ed elementare, cerca di sbrogliare la matassa di eterni enigmi che diversamente si alzerebbero come un muro dinanzi alla nostra comprensione. Insomma, egli afferma e affermando nega e negando sposta l’asse della verità in direzione di una logica che da sé entra nel gioco oscillante del possibile e svela, per similitudine o per improvviso rigetto dell’ossimoro, tutta la sapienza del dettato. In Amorosa anticipazione vediamo infatti che Borges apre i primi tre versi con una negazione (finora in poesia si aveva soltanto l’esempio di A Zacinto di Ugo Foscolo inciso con una simile determinazione forte e perentoria – “Né più mai toccherò le sacre sponde”) che vuole mettere in risalto il “come guardare il tuo sonno implicato / nella veglia delle mie braccia”. Adesso abbiamo, finalmente una “fronte chiara come una festa” – simile a un verso bellissimo di Alfonso Gatto: “Ti perderò come si perde un giorno chiaro di festa”, e abbiamo “l’abitudine del tuo corpo”, ma la donna diventa proprio per questo “Vergine miracolosamente un’altra volta per la virtù assolutoria del sonno”. E così si ritorna a immagini scultoree, poste a guardia della memoria e il poeta si pone come un cenobita che contempla e lo fa “come Dio deve vederti, / sbaragliata la finzione del Tempo, / senza l’amore, senza di me”. Dunque più che una poesia d’amore si tratta di una poesia religiosa, la cui spiritualità, ancora una volta è nell’assenza dell’amore, addirittura di se stesso, in modo che la donna diventi puro spirito distaccato dagli elementi terrestri, dalla umanità calda e dalla quotidianità.

Che cosa può significare tutto ciò? Come mai Borges ha questo atteggiamento rigido che porta inesorabilmente alla negazione o al vagheggiamento del bene che nella memoria diventa perfino atto straordinario e però privo di un significato legato al rapporto uomo donna, amore e morte? Che cosa significa questo suo sterilizzare sentimento ed emozione, corpo e anima in un flusso di sottile e imprendibile proiezione figurativa? Siamo al di là di qualsiasi romanticismo, di qualsiasi nota decadente, passionale, accesa, carica di sogno o di possibilità, al di fuori di qualsiasi regola canonica, fuori dalla portata degli stereotipi, ma anche al di fuori di connotazioni che abbiano agganci e diramazioni di carattere storico inteso in direzione della tradizione,  e proprio grazie all’utilizzo della memoria poetica e letteraria che si corrobora di assonanze e di verità più di carattere filosofico anziché strettamente poetico, con una punta di intellettualismo, che egli riesce a rendere lievitato, coinvolgente, come se fosse frutto di una emozione che investe la totalità della persona umana, come se la donna non fosse corpo e calore, ma segno intoccabile di una astrazione onirica.

Subito dopo troviamo un’altra composizione intitolata Un congedo. Perché prima Congedo e adesso Un congedo? Borges non adopera le parole mai casualmente e anche un articolo indetermonativo ha il suo peso nell’economia di una interpretazione. Un congedo perché ci sono infiniti modi di dirsi addio, e infinite maniere di leggere la realtà che sempre si presenta per sineddoche e pretende tuttavia di diventare verità assoluta, unica.

L’amore è concepito come un rapporto che scava l’addio. Anche qui per tre volte, come in una giaculatoria, abbiamo la sera, e addirittura abbiamo un riferimento a “le nostre labbra nella nuda intimità dei baci”, ma pare che niente serva a protrarre la meraviglia degli incontri già deteriorati dalla presenza costante della sera e poi dalle lacrime di lei.

“Sera che dura vivida come un sogno

tra le altre sere.

Dopo io raggiunsi e superai

notti e navigazioni”.

Mai una promessa, mai una parola di passione, un abbandono, una esaltazione, un pensiero torbido, accecante, irrazionale e anche quando ci racconta, in La mia vita intera, il percorso e la dimensione del suo credo, hanno una sola espressione nei confronti della donna: “Ho amato una ragazza altera e bianca e di una ispanica quiete”.

A parte l’incomprensibile “ispanica quiete” (sappiamo tutti quanto focose e appassionate, sensuali e calde siano le donne spagnole) devo confessare che leggendo per la seconda volta l’aggettivo bianco, riferito alla donna, ho avuto un momento di perplessità. Il bianco è l’assillo della follia, l’illibatezza, la grazia, ma soprattutto l’assenza (!) o la somma dei colori. Secondo la simbologia si colloca all’inizio o alla fine della vita diurna e del mondo manifestato, il che gli conferisce un valore ideale, asintotico, tendente cioè ad avvicinarsi a qualcosa senza mai raggiungerla. Ma, come dicevo, mi ha lasciato perplesso anche la “ispanica quiete” della ragazza non solo per la connotazione che esula da qualsiasi riferimento se uno pensa alla donna spagnola roteante in una frenetica danza di flamenco, ma anche per l’avvertimento a voler ribaltare i luoghi comuni a tutti i costi.

Dunque, che cosa pone Borges in questa posizione asettica che lo fa concludere così: “Credo che le mie giornate e le mie notti eguaglino in povertà e in ricchezza quelle di Dio e quelle di tutti gli uomini”. Una maniera sibillina di appiattire la presenza della donna, di porla al di là del bene e del male e renderla una creatura che in qualche modo è appena una ruota di scorta dell’uomo, anche quando ama, anche quando diventa lontananza e ricordo che ci accompagna, cioè ancora e sempre assenza?

Che Borges sia stato misogino e nessuno se n’è mai accorto? Certo è che per trovare un’altra poesia d’amore bisogna arrivare a L’altro, lo stesso del 1964. E proprio in una delle liriche intitolate 1964 troviamo ancora una volta, però, il perenne motivo del suo mondo amoroso, le stesse note dolenti dell’addio e dell’assenza:

“Addio alle mutue mani, addio alle tempie

Che amore avvicinava. Non hai più

Che il fedele ricordo e i vuoti giorni”.

E proseguendo leggiamo, più oltre:

“Un oscuro miracolo si cela:

La morte, un altro mare, un’altra freccia

Che ci fa liberi da sole e luna

E dell’amore. Il bene che mi desti

E mi togliesti devo cancellarlo;

Ciò ch’era tutto dev’essere niente.

Solo mi resta il gusto d’esser triste,

L’abitudine vana che m’inclina

Al Sud, a quella porta, a quel cantone”.

Quattro anni dopo, 1969, esce Elogio dell’ombra. Qui avvertiamo una ulteriore rarefazione del tema, starei per dire l’assenza se non fosse per accenni come “… e tra le pagine appassita / la viola, monumento d’una sera / di certo inobliabile e obliata”; oppure, quaranta pagine dopo: “È il giorno in cui lasciammo una donna e il giorno in cui una donna ci lasciò” e altre venti pagine dopo: “le donne son quello che furono in anni lontani”.

Poesia misteriosa quella di Borges, ma che pone molte domande al lettore avido di conoscere che cosa si cela nella sua anima sempre avida e così poco propensa a parlare d’amore. Anche L’oro delle tigri è privo di poesie che trattino l’argomento amoroso. Sì, ci sono sei “Tanka” che fanno pensare alla parvenza, all’idea di donna e niente altro. Poi bisognerà arrivare a La moneta di ferro, del 1976, per avvertire un altro piccolo cenno:

“Che cosa non darei per il ricordo

Di te che m’avessi detto che mi amavi,

E di non aver dormito fino all’aurora,

Straziato e felice”.

o per leggere la breve poesia dedicata a Maria Kodama, l’ultima sua compagna di vita. Ma anche questi versi non sono allegri o passionali:

“C’è tanta solitudine in quell’oro.

La luna delle notti non è luna

Che il primo Adamo vide. I lunghi secoli

Dell’umano vegliare l’han colmata

D’antico pianto. Guardala. È il tuo specchio”.

Poi, ne La moneta di ferro si legge, proprio nella poesia eponima: “Perché è necessario a un uomo che una donna lo ami?”.  Niente altro. E nella successiva raccolta, Storia della notte, del 1977, Endimione a Latmo è un confronto letterario perché non possiamo non sentire il peso della letterarietà di versi come: “Oh le pure guance che si cercano, / Oh fiumi dell’amore e della notte, / Oh bacio umano e tensione dell’arco”. Anche La felicità, che fa parte de La cifra, del 1981, non trascina, non fa sentire il fiato caldo né le accensioni che portano a considerare l’amore nelle forme a cui siamo abituati, negli eccessi e negli incanti che conosciamo:

“Sia lodato l’amore che non ha né possessore né posseduta, ma in cui entrambi si donano.

Sia lodato l’incubo che ci rivela che possiamo creare l’inferno”.

Lo stesso si dica de L’inferno che ripercorre la storia dantesca di Paolo e Francesca e di qualcuno degli haiku, molto felici e luminosi, ma privi di quel fulgore acceso e demente che dovrebbe accompagnare la poesia amorosa.

Qualcosa gli sfugge ne I doni, del 1984, e qualcosa ne Il labirinto (“Maria Kodama e io ci perdemmo quel mattino e seguitiamo a perderci nel tempo, quest’altro labirinto”), ma non sentiamo una voce che rincorre sogni, che li proietta, che li codifica, li dilata, li accende, li uccide, li spande a piene mani. Come abbiamo visto, tutto è chiuso all’interno di quell’assenza di cui parla all’inizio; il resto è un esercizio altamente letterario, che fa pensare a un uomo desolato, con l’anima posta in equazione con la mente, e tutto preso dai problemi del tempo, dello spazio, della morte, della vita, degli specchi, della cecità. Quello della cecità è stato un argomento vissuto sulla sua pelle, che forse sentiva dentro, tra l’altro, perché da giovane studiò Milton, Il paradiso perduto, al quale, secondo me, deve moltissimo, molto più di quanto si pensi, e che amò anche per la medesima condizione umana, per la precoce cecità. Ma questo è un altro argomento.

La poesia amorosa di Borges sembra priva di vita, perfino di effettivo dolore, anche quando egli si trova nella condizione dell’assenza e dell’addio, quando ripercorre i lontani momenti dei suoi innamoramenti, del suo matrimonio con Elsa. Sentite che cosa risponde a Giuseppe Centore in una intervista pubblicata nel 1984 su L’amanuense di Borges: “D: È vero che una delle ragioni per cui il suo breve e tardivo matrimonio fallì fu il fatto che sua moglie Elsa non sognava?” – R.: “O forse, chissà, si vantava di non sognare. Veniva da una famiglia in cui era proibito il nonsense, il fantasticare. Comunque mi son detto: se lei non sogna sono perduto”. E più avanti: D: “C’è chi sostiene che nella sua vita non c’è amore” – R: “Si sbaglia. Non sa che io scrivo per distrarmi dall’amore”. Due risposte che ci illuminano sul suo atteggiamento nei confronti della donna. Del resto uno dei libri che Borges ha maggiormente amato, e per il quale ha scritto una magistrale e dotta introduzione, è stato Micromegas di Voltaire, che così comincia: “Memnon concepì un giorno il progetto insensato d’essere perfettamente saggio. Non c’è uomo al quale questa follia non sia passata qualche volta per la testa, Memnon si disse: ‘Per essere saggissimi, e di conseguenza felicissimi, basta non avere passioni; e nulla è più agevole, come si sa. In primo luogo, non amerò mai una donna, poiché, vedendo una bellezza perfetta, dirò a me stesso: quelle guance un giorno diventeranno rugose; quei begl’occhi saranno orlati di rosso; quella bella testa diventerà calva. Ora non devo far altro che vederla fin da questo momento con gli stessi occhi con i quali la vedrò allora, e sicuramente quella testa non farà girare la mia”.  Mi pare evidente che non ha voluto e non è riuscito a imparare, come ha scritto Mandel‘stam, “la scienza degli addii”, e nemmeno quella dell’assenza, visto che la canta come una reliquia, come avvenimento estraneo, e visto che nella bellezza intravede subito il disfacimento. Forse la colpa è del suo eccesso di intellettualismo che in questo caso non è riuscito a diventare lievito essenziale di stupore e allora mi viene spontaneo ripetermi la domanda: “che Borges sia stato davvero un misogino?”.  Magari dopo la delusione di Elsa che si è portato appresso per tutta la vita come una condanna e una ferita che non gli ha permesso di uscire dal suo “rancore”?

Non lo sapremo mai, anche perché poi altre donne lo hanno amato e Maria Esther Vasquez e Maria Kodama lo hanno adorato e servito fino alla morte.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 01/2023 – “Follia e poesia”. Saggio di Dante Maffia

Mi sono sempre domandato, e continuo a farlo insistentemente, da dove arriva la poesia, da quale fonte scaturisce (il problema del che cos’è e a che serve si presenta dopo).

E’ depositata in qualche luogo segreto e c’è qualcuno predestinato a scovarla e a portarla all’umanità, oppure cammina nell’aria, invisibile, e soltanto alcuni eletti (o condannati) possono vederla, coglierne qualche petalo e offrirlo?

E’ un problema che non sarà mai risolto. Le ipotesi si sono succedute nel tempo e filosofi, critici, teologi e psicanalisti hanno tentato una strada e un’altra senza mai arrivare a una conclusione.

E sono convinto che non ci potrà essere conclusione, perché la poesia, tra le tante cose, è innanzi tutto mistero del senso, visione di un palpito che chiede ascolto nello stesso istante in cui si dissolve.

La verità è che appare, indica e diventa brezza di un annuncio rivolto quasi sempre all’immaginazione.

A cogliere questo annuncio è il poeta o il presunto tale. Ma il presunto tale s’investe da sé, si dà un ruolo da sé, assolve a una funzione per la quale non ha né ragioni, né inclinazioni, né meriti né vocazione, né fini.

Ed ecco che la categoria poeta (o come bisogna indicarlo?) si trova ad avere davanti un binomio terribilmente dispari: l’eletto, o l’imbecille presuntuoso che crede di essere eletto e si investe dell’alloro, convinto di avere trovato la chiave per entrare nel mistero, di essere il portatore di stelle e di arcobaleni “neniando” la mediocrità e la superficialità.

La poesia si concede soltanto alla follia, a quella vera, accertata, indissolubile, perché è attraverso la follia che può portare il lettore nei meandri del divino o del nulla, del divenire o delle perdite, delle acquisizioni impossibili o delle dissolvenze illuminanti. Se il poeta non fosse folle, almeno nell’istante in cui coglie le parole inimitabili che il mistero gli suggerisce, non potrebbe sopportare l’abbacinamento, il fuoco violento che forgia il nuovo senso.

Immagino lo scetticismo con cui possono essere valutate queste mie affermazioni, immagino l’accusa di esoterismo, di vaghezza, e di altro, ma se si fa attenzione ci si può rendere conto che nelle parole dei poeti veri non c’è mai vaghezza o esoterismo gratuito, non c’è mai approssimazione. Anzi, cito da Nelo Risi, il poeta è un supremo realista che ha la possibilità di leggere la realtà nei dettagli, nelle sfumature, nei rivoli laterali, oltre che nell’essenza. Il poeta è nella pienezza della realtà e nella sua marginalità  e dunque ha facoltà di entrare nell’immensità del finito e dell’infinito, nella briciola che si fa universo, nell’universo che si fa briciola.

E si badi che non si tratta di sillogismi, ma di esperienze vissute in prima persona e vissute e verificate attraverso migliaia e migliaia di altre esperienze.

Negli anni ho raccolto una infinità di “definizioni” della poesia e mi sono reso conto che, pur contraddicendosi, hanno tutte ragione. Ciò può soltanto significare che il mistero e il senso intimo delle cose hanno sfaccettature cangianti, perfino ibride, e che bisogna temprarsi alle ragioni incomprensibili dei messaggi della poesia. Che non sono messaggi da intendere nell’accezione usuale, ma messaggi che hanno la sostanza di input, che al momento del coagulo definitivo si spostano e deragliano in altro, a testimoniare che la vita stessa è deragliamento di senso, approdo non codificato e non codificabile, nonostante quel che dicono i benpensanti abitudinari e le religioni.

Dev’essere questa sfuggente materia incandescente di cui è fatta la poesia a causare a volte corti circuiti anche nei poeti veri che in alcune situazioni non riescono a tenere il passo degli scardinamenti, degli smarrimenti e delle sottrazioni e arrivano al suicidio.

Dentro la follia dunque nasce la poesia. Ma attenti, nessuno psichiatra sarà mai in grado di stabilire in che padiglione ricoverare il poeta. In tutti  e in nessuno, perché quella della poesia è malattia non definibile, non catalogabile, eppure infettiva in maniera pericolosa, perché crea epidemie che simulano alla perfezione la malattia e fa fiorire la banalità con un sussiego che ha forme perverse e stupide, cadute nel vuoto, nella sciatteria, nella miseria umana e nel sussiego più irritante.

Conosco una miriade di imbecilli che scrivendo “è spuntato il sole / e illumina” sono convinti di avere creato qualcosa di eterno. Certo, lo spuntare del sole è eterno, ma il fatto che qualcuno lo ribadisca è soltanto tautologia, notizia priva di emozione, di mistero, di implicazioni che portino oltre la sfera del risaputo.

Dicevo che poesia e follia sono una equazione perfetta. Dicevo anche che questo tipo di follia in rapporto con la poesia non è decifrabile o catalogabile. Allora come fare a cercare la fonte da cui scaturisce la parola che poi, se è poesia autentica, illuminerà il percorso umano?

In molte occasioni mi sono domandato se senza la poesia il mondo odierno sarebbe così com’è o peggiore o migliore. Non ho avuto mai nessun dubbio, peggiore, ancora felino e scompostamente acerbo, perfino disumano. Capisco le obiezioni di coloro i quali affermano che per secoli la maggior parte dell’umanità è stata analfabeta e quindi non ha mai letto un verso. Ma si tratta di obiezioni di parte, perché non è la divulgazione della poesia a determinare il fattore etico che s’insinua nelle organizzazioni sociali, ma arrivare nell’animo dei legislatori, dei politici, dei governanti.

La poesia non fa il gioco diretto, ma quello indiretto: illumina il senso e lo arricchisce di quello spessore che permette di alzarci al di sopra del senso comune.

Adorno non aveva ragione quando dopo la barbarie nazista affermò che ormai la poesia era morta e non aveva più motivo di esistere. Non ha pensato che forse se non ci fosse stato il “deterrente” della poesia ad aleggiare in qualche modo nelle scorie di qualche cervello, forse lo sterminio sarebbe stato più vasto, più feroce, più duraturo?

Il folle vede cose che gli altri non vedono; vede la luce nel buio, la bellezza nell’ombra, il dolore in un campo di girasoli, la gloria in una finestra spalancata, la felicità in una carezza, il lupo in una goccia di rugiada, la miseria in un sorriso… Cioè vede oltre, vede l’invisibile, e ce ne dà la misura se riesce a trovare le parole che possano addensare quel rapporto, quella visione, quella luce. E se ce ne dà la misura, vuol dire che è poeta, non è soltanto folle. Se invece non riesce ad andare oltre ed è chiuso nel limite della demenza, allora significa che quel  folle è folle soltanto, non ha il privilegio di  un ulteriore occhio, di un ulteriore cuore, di  saper entrare e uscire  dal nido di semenza che cresce alitando come un miracolo.

Attenti però ai finti folli, a coloro i quali hanno magari subito la follia per un certo periodo e poi sono ritornati nella normalità della vita quotidiana non riuscendo ad andare mai oltre la siepe. Ma consapevoli di una esperienza se ne ricordano e la utilizzano facendo credere agli altri di essere ancora al fondo dell’abisso.

La follia ha uno sguardo che non si può imitare nemmeno dopo averlo avuto e poi perduto, e il folle finto poeta, il poeta finto folle rimugina dolore e tristezza, negazioni e limiti con un vezzo che io ho trovato sempre comico. E’ il caso, per fare almeno un esempio, di Alda Merini, che ha spettacolarizzato la follia per imporre una poesia del patetismo a volte perfino becero e comunque abbastanza di maniera.

Chi invece ha subito le stimmate irreversibili della follia è Dino Campana, che con Canti orfici è riuscito a darci il ritratto di una condizione umana e poetica rara, in cui il crogiuolo delle contraddizioni e delle lacerazioni diventa inferno senza remissione fino a far credere che le immagini da lui usate siano prestiti dal surrealismo e sono invece magma incandescente delle metamorfosi che lo dilaniano e lo sbattono in terra ogni volta che tenta di rompere la catena delle tentazioni e perfino delle rinunce. Dino Campana è dentro ogni suo verso con anima e corpo, s’immola, muore, resuscita, ricade nel mulinello del vuoto e si ricrea in una immagine sapendo d’essere appena un seme marcio che non potrà fiorire se non nella parola.

Ed è questa parola che deve portare il lievito a chi legge (badate che non ho detto messaggio, ma lievito), deve sincronizzare l’assurdo verso la luce, l’intuizione verso la forma, quale che possa essere.

Un caso recente è quello di Maria Marchesi, sulla quale aleggia il dubbio addirittura della sua esistenza.

La Marchesi ha dissacrato tutto. Due libri in vita, uno postumo. In ogni pagina dei suoi tre volumi c’è la dannazione che avvampa, c’è il tripudio dell’indecenza come arma per tagliare con le consuetudini, c’è la dissacrazione della sacralità e delle assuefazioni, dei rituali e di tutto ciò che è considerato intoccabile. Perfino i miti della poesia vengono sconvolti e vivisezionati, non so, Beatrice, Laura e Silvia, in modo che attraverso il filo rosso della follia ogni arbitrio risulti verità del profondo e non accoglimento dello stato di fatto.

Eppure non è terroristica, la sua non è protesta politica e sociale, ma presa di coscienza di una condizione attraverso la quale la realtà si apre e gioca a nascondiglio offrendo al lettore la possibilità di entrare nelle verità dell’altro lato della medaglia.

Ma non vorrei fare l’elenco dei poeti dichiaratamente folli, di quelli che sono stati ricoverati nei manicomi, molti dei quali si sono suicidati. Vorrei fare intendere come la follia alberga silenziosa in tutti i grandi poeti, anche quando questi non hanno dato segni di squilibrio comportamentale, nel rapporto con gli altri, nelle azioni quotidiane.

Cominciamo da lontano. Dall’Alighieri. La sua follia è totale. Egli riesce ad entrare nella condizione del morto e riesce a visitare il regno dei morti con una naturalezza che soltanto chi è veramente morto (il corpo non c’entra) può descrivere con tanta naturalezza e verità. Egli è un tramite che dentro la follia trova la strada del cammino verso la Luce.

Non è da meno Petrarca. Laura c’è e non c’è. Ha poca importanza. C’è l’amore, che si espande, che bussa, che chiede, che inonda, che patisce e che grida da luoghi lontanissimi il suo dramma. Se non ci fosse la follia a sorreggere il poeta tutto si sfalderebbe in cerimoniose adesioni a un’idea di donna dentro la banalità di un desiderio, grande o piccolo che sia.

Ma dove la follia impera e gode fino alla esasperazione, fino a farsi incanto di voli senza protezioni, è L’Orlando Furioso. Ariosto ha ceduto il suo cervello all’ammasso e resta a guardare se stesso mentre ha a che fare con protagonisti così bizzarri. Gioca, ma è un gioco di riflessi che ci portano dentro la magia di sussulti avvertibili soltanto se si ha l’umiltà di mettersi in sintonia con il ritmo delle ottave.

Ritmo che si ha dolorosamente sincopato, solenne, imprevedibile ne La Gerusalemme Liberata.

Sulla follia del Tasso sono stati scritti tanti volumi, ma nessuno ha mai detto che il poeta riesce a cogliere la prepotenza della sua poesia da un’angolazione così particolare che ha fatto pensare a una ostinazione invece che a una scelta.

Scelta fatta dalla sua follia, punto di vista fatto dalla sua follia che perseguiva le vicende per poterle aprire nel laboratorio della sorpresa assidua. Sì, Tasso ha seguito le indicazioni di un laboratorio che lo ha spinto a guardare attentamente fino a rendersi conto che poteva vedere attraverso il muro, che poteva ascoltare le voci del passato, e poteva rinascere dai residui della civiltà dei padri. Si rileggano attentamente soprattutto le sue Rime immortali.

Poesia e follia!

Non è una formula inventata per parlarne a un convegno, ma la scoperta di una condizione imprescindibile, di una realtà esatta che però è stata da sempre negata o distorta. O volutamente o ingenuamente interpretata in modo approssimativo e tendenzioso.

Ho letto nel romanzo di un’autrice americana una frase che mi ha dato la conferma di come girano i luoghi comuni e si radicano: “Che cosa sono depressione e psicosi, in fondo, se non deviazioni dal realismo?… Un Dio insufficiente è meglio che nessun Dio”.

Soltanto l’ingenuità americana di Martha Cooley poteva trovare una formula così. Come dire che chiunque si allontana dal circuito si allontana dalla verità. Orribile! Semmai chiunque si allontana dal circuito può incorrere in un incidente, può perdersi, può scantonare, ma è comunque su una nuova strada e non è fuori da nessun realismo né tanto meno è deviazione dal realismo. Ecco, la poesia nasce quasi sempre dall’uscita del circuito e non per partito preso, per una sorta di incarico imperativo ricevuto da qualcuno, ma perché la poesia ha il compito di cercare l’insondabile, l’imprevisto e l’imprevedibile, l’ingranaggio che si muove lontano dalle abitudini. Certo, un simile comportamento, nelle varie società organizzate dentro regole precise e codificate, fa scandalo, preoccupa, indica una direzione non prevista. Ma la poesia deve fare sempre scandalo, o con la sua semplicità e la sua essenzialità, o con la sua valanga che deve rigenerare il vento flaccido del risaputo.

La poesia vera può risultare a prima lettura addirittura un paradosso, perché anticipa e mette davanti al futuro. E chi ne ha paura pensa subito alla follia. Ma certo, è frutto della follia, perché soltanto il folle riesce a vedere lontano, molto lontano, a percepire i mutamenti che verranno, perché necessari per la sopravvivenza dell’uomo.

Ha scritto Daniel Defoe che “Il Diavolo, condannato a vagabondare, girovagare, essere nomade, non ha una fissa dimora e pur avendo una sorta di impegno sulla distesa liquida o sull’aria, essendo la sua natura angelica, è sicuramente parte del castigo il suo non possedere uno spazio o un luogo su cui posare la pianta del piede”.

Ecco, il poeta è condannato a vagabondare, girovagare e guai se posasse la pianta del suo piede su qualche superficie. La sua parola sarebbe inchiodata a una data epoca e non all’universale, al tempo senza tempo. Naturale quindi che, non avendo mai sosta, non avendo casa, non avendo uno scopo pratico e immediato, egli si trovi nella condizione dello “sbandato”, del “clochard”, del “randagio” . In realtà egli è assolutamente libero, non legato da niente e da nessuno, ha la stessa natura del vento, cioè è folle. Folle dentro la saggezza del movimento, della forma che si rinnova, del tripudio del senso che si rincorre e di disfa, che si crea e si rinnova, mai sazio e mai pago del raggiungimento.

In questa accezione la follia si fa mano di poesia e ridisegna ogni giorno il colloquio necessario per non diventare biblioteca della morte.

Comunque poesia e follia è tema di cui si sono occupati i maggiori psichiatri e ognuno ha detto la sua con esempi presi in prestito sia dalle proprie esperienze e sia dai classici della poesia grazie al fatto che sia il poeta e sia il folle sono attraversati dalla dinamica del profondo. Da Basaglia a Borgna i riferimenti accurati si sono fatti seguendo passo dopo passo i versi di alcuni morti suicidi o isolati dal mondo per propria scelta. Ma io vorrei sottolineare che non c’è bisogno di ricorrere a Silvia Plath, a Cristina Campo, a Nietzesche, a Walser, a Milton, ad Antonia Pozzi, per rendersi conto che davvero e incontrovertibilmente “In ogni ombra c’è un po’ di grazia”, come diceva Simone Weil. Si può perfino ribaltare e dire che in ogni grazia c’è sempre un po’ di ombra.

E’ evidente comunque che ricorrere alle citazioni dei poeti aiuta a entrare nella pienezza del discorso senza alzare muri di dubbio, ma basterebbe ricordare quel che diceva Erasmo da Rotterdam sulle passioni (“In primo luogo è pacifico che tutte le passioni rientrino nella sfera della follia”) per essere certi che davvero “La follia è la sorella sfortunata della poesia”.

Potrei continuare all’infinito, ma mi pare che Clemens Brentano abbia colto in pieno il rapporto esistente tra poesia e follia.

Già nel Cinquecento un erudito inglese, un certo Burton, affermava che “Tutti i poeti sono matti” e comunque l’idea era mutuata da fonti greche, a dimostrazione del fatto che sul poeta anche la gente comune ha sempre avuto un atteggiamento sospetto. Già, un uomo che corre appresso alle parole come i bambini corrono appresso alle farfalle o come il vento corre appresso il polline che cosa può fare di concreto? Che può dare a se stesso e agli altri?

Riporto un aneddoto che altre volte mi è occorso di ricordare. In un paesino della Calabria, San Demetrio Corone, nel secolo scorso c’era un collegio tra i più importanti del sud, con un liceo di riguardo. Ma spesso i posti letto del collegio non bastavano e allora qualche studente doveva andare a pensione presso le famiglie del paese.

Tra questi studenti ci fu uno scrittore calabrese, un poeta, Sharo Gambino, di Serra San Bruno, che abitò presso una famiglia distinta. A distanza di anni la signora che l’aveva ospitato si ricordò del giovane e domandò sue notizie alla nipote studentessa universitaria. La nipote rispose: “Nonna, Sharo è diventato un poeta”. E lei, di rimando, facendosi il segno della croce: ”Dio mio! Eppure era un bravo ragazzo”.

Voglio dire che la follia, se si legge la filigrana degli scritti dei poeti, la si trova perfino in quelli che all’apparenza sembrano perfettamente normali secondo i canoni correnti. Giovanni Pascoli può essere un esempio probante. La sua vita è scorsa nei binari del perbenismo, nella routine di una quotidianità che non pare mai scossa da nessun terremoto, se non quello del dolore, ma se scaviamo in alcune sue liriche sentiamo che lui è dentro visioni che si sfaldano, sensazioni che hanno forme  astratte simili a fantasmi che mutano e gemono sull’orlo degli abissi.

Ma io, ovviamente, parlo da poeta e senza cognizione della psichiatria, e quando dico follia intendo l’andare controcorrente, non restare nelle norme, allontanarsi dall’acqua stagnante del risaputo e mettersi contro l’assiepamento del senso del finito.

Se un poeta invece si accoda, se accetta di restare nel cerchio del giardino concluso e profumato di passato, seppure perfetto, allora vuol dire che è soltanto un esecutore di forme vuote, un finto poeta, uno che ripete le onde imitando la vita interiore che non è mai ferma, mai paga, mai definita.

Non posso dunque schierarmi con nessuna scuola psicologica o psichiatrica, ma osservare quel che mi si è mosso dentro ogni volta che ho aperto un testo le cui parole sono frutto caldo del sangue e non versione scolastica.

Nell’Avvertenza a Psicologia e poesia di Carl G. Jung troviamo un riferimento a, Hermann Hesse:

“… il giovane Emil Sinclair, scopre su un banco un foglio sul quale si legge: ‘L’uccello si sforza di uscire dall’uovo. L’uovo è il mondo. Chi vuol nascere deve distruggere un mondo”.

L’esempio mi pare evidente. Il poeta vuole nascere e per farlo ogni volta deve distruggere il mondo, mettersi contro ogni regola, seguire “l’esperienza visionaria” consapevole o non, anticipando “mutamenti presenti e futuri” e additando “possibilità di rigenerazione a  tutta l’umanità”. Ci sono dei versi di Raffaele Carrieri che “spiegano” molto bene questa condizione: “Il poeta muore diciassette volte in una sola giornata, poi viene la morte e dice basta”.

Però forse è bene specificare che la poesia non è il frutto diretto della malattia. A volte i poeti si immedesimano così tanto e così tanto bene da essere ammalati soltanto per il periodo che occorre per essere veritieri, credibili, veri. Il poeta può, riesce a fingere fino a diventare vero. Non si tratta di credibilità o meno, né di finzione teatrale portata all’estremo limite, ma di vera e propria immersione nella follia in modo che nessun freno inibitorio, nessun condizionamento intervenga o possa avere diritto di modifica o di limitazione.

Ma a questo punto si apre un’altra voragine e Jung direbbe che al poeta “Non gli resta che obbedire e seguire questo impulso apparentemente estraneo, rendendosi conto che la sua opera è più grande di lui, e perciò ha su di lui un potere al quale non può sottrarsi”. Un fatto è certo: la poesia è frutto di un processo lungo che macera all’interno dell’anima e nell’indeterminatezza dell’inconscio e la conoscenza umana può poco o niente per analizzarla nelle scaturigini. Non sapremo mai da che cosa si genera la parola che accende i lumi dell’indeterminatezza e si fa lucida determinatezza spiegando l’indecifrabile attraverso le lenti del sogno. Un sogno che naviga naturalmente, che si forma, cresce e si espande alla stessa maniera in cui lo fa un fiore. Meccanismi imprendibili nel loro farsi e disfarsi, nel loro alitare a volte parole che aprono ferite, che fanno sanguinare, che costruiscono interi mondi o li demoliscono, che sono melodie ch’erano perdute, recuperi di verità affondate nei baluginii di un dissesto che anelava alla perfezione e alla compiutezza.

Forse è tutta una illusione?

O è soltanto una maniera che consapevolmente o inconsapevolmente ci avvicina a Dio, ai disegni segreti dell’essere e del divenire? Per dirla con Celan “E’ come porsi fuori dell’umano, un trasferirsi, uscendo da se stessi. In un dominio che converge sull’umano ed è arcano”.

Dopo tutto ciò che ho detto però alla fine mi sono ricordato di quel che diceva Sant’Agostino sul tempo:
“ Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”.

Jorge Luis Borgese propone di applicare la stessa domanda alla poesia. Io propongo di applicarla anche alla follia.

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Michela Zanarella esce con “Recupero dell’essenziale” per i tipi di Interno Libri

Nota di Lorenzo Spurio

Dopo il fortunato Le parole accanto, pubblicato con Interno Poesia nel 2017, a distanza di cinque anni esatti, Michela Zanarella si presenta ai lettori con una nuova e insolita raccolta edita con Interno Libri, progetto editoriale di Interno Editoria, casa editrice che ha fondato e gestisce il marchio Interno Poesia Editore.

Recupero dell’essenziale prende forma dal mistero delle coincidenze. Il libro è il frutto di un recupero di poesie andate perdute, ritrovate con l’aiuto di alcuni amici dell’autrice. La raccolta, con prefazione del noto poeta calabrese candidato al Premio Nobel Dante Maffia e postfazione della poetessa lucana Anna Santoliquido, è dedicata all’indimenticata amica e frequentatrice Marcella Continanza, voce nota della poesia contemporanea, ideatrice del Festival della Poesia Europea di Francoforte sul Meno, scomparsa il 29 aprile 2020.

Con una scrittura densa e viva, la poetessa accompagna il lettore nel suo cammino di ricerca e riflessione sui grandi temi dell’esistenza fino a condurci nella dimensione del sogno, della memoria, della bellezza, in piena comunione con l’universo.

Attenta scrutatrice del mondo, la Zanarella si lascia trasportare dagli elementi della natura che regolano la vita sulla terra, si pone in ascolto rivelando al lettore le infinite voci del cosmo.

Michela Zanarella è nata a Cittadella (PD) nel 1980. Dal 2007 vive e lavora a Roma. Ha pubblicato diciassette libri tra cui alcuni in lingua straniera (Imensele coincidenţe, in rumeno, edita da Bibliotheca Universalis nel 2015; Meditations in the Femine, in inglese, edita da Bordighera Press nel 2018 e Infinito celeste edita da Universitalia di Roma nel 2021). Giornalista, autrice di libri di narrativa e testi per il teatro, è redattrice di Periodico italiano Magazine e Laici.it. Le sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, arabo, spagnolo, rumeno, serbo, greco, portoghese, hindi, cinese e giapponese, edite in riviste e antologie internazionali. Figura tra gli otto co-autori del romanzo di Federico Moccia La ragazza di Roma Nord edito da SEM. Presente in numerose commissioni di giuria di premi letterari nazionali e internazionali è Presidente di Giuria del Concorso Letterario “Città di Latina” e “L’arte in versi” di Jesi, presidente dell’Associazione Culturale “Le Ragunanze” APS che annualmente bandisce il prestigioso premio letterario “Le Ragunanze”.

Sull’opera dell’amica Michela Zanarella ho dedicato, nel tempo, vari articoli, note di lettura, recensioni, interviste e saggi (non tanto perché amica ma perché – come unanimamente osservato da stampa e critica – è una delle poetesse giovani più interessanti e insieme promettenti, distintive e peculiari della nostra età dove predomina una poesia poco fluida e manchevole di differenziazione e spesso di pregio o di indiscussa rarità) che, per un approfondimento, riporto in forma bibliografica per eventuali letture e riferimenti: “Michela Zanarella poetessa internazionale. Esce La verdad a la luz, silloge in spagnolo”, «Blog Letteratura e Cultura», 05/02/2022; “Dare confidenza alle nuvole: la poesia di Michela Zanarella”, «Pomezia Notizie», maggio 2021, pp. 8-13; ripubblicato su «Xenia», anno VI, n°1, marzo 2021, pp. 84-92 (analisi delle opere La filosofia del sole, Ensemble, Roma, 2020 e di Infinito celeste, Universitalia, Roma, 2021); “L’istinto altrove (Ladolfi, 2019) di Michela Zanarella – con tre inediti”, «Blog Letteratura e Cultura», 19/02/2020; “In arrivo L’esigenza del silenzio, opera poetica di Michela Zanarella e Fabio Strinati, «Blog Letteratura e Cultura», 25/05/2018; “Intervista a Michela Zanarella, a cura di Lorenzo Spurio”, «Blog Letteratura e Cultura», 26/05/2015; “Le identità del cielo di Michela Zanarella, recensione di Lorenzo Spurio”, «Blog Letteratura e Cultura», 26/12/2013; “Lorenzo Spurio intervista Michela Zanarella, autrice di Meditazioni al femminile”, «Blog Letteratura e Cultura», 14/08/2012; “Meditazioni al femminile, recensione di Lorenzo Spurio”, «Blog Letteratura e Cultura», 03/03/2012; “Sensualità, poesie d’amore d’amare, recensione di Lorenzo Spurio, «Euterpe», n° 2, Febbraio 2012, p. 79; “Sensualità, poesie d’amore d’amare – Intervista a Michela Zanarella”, «Blog Letteratura e Cultura», 12/07/2011.

Alcuni componimenti tratti dalla nuova raccolta:

Lascia che sia il sole
a prendere possesso dei nostri sguardi
abbiamo bisogno dello stato di luce
che avviene all’alba nell’ora più pura.
Tienimi il cuore come un’ampolla
per raccogliere acqua limpida alla sorgente
prestiamoci ancora alla vita nella sua sacralità
è questo l’amore:
immergersi uniti nelle volontà del tempo
dai polsi alle caviglie in un sogno sempreverde.


Nel silenzio erano nascoste strade infinite
nessuno l’aveva mai toccato con gli occhi
di chi rimane per giorni a guardare con la mente
un passaggio di polline a terra.
Erano là fuori sciolti anche i nostri ritorni nel cuore
quelli che non sapevamo durassero
quanto la salita della luna dentro la notte.
Siamo entrati forse per la prima volta
oltre qualcosa che avevamo dimenticato
un sole improvviso ci ha svegliato
e avvicinato
all’inizio del cielo.


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Carmen Moscariello su “Il suicidio, lo stupro e altre Notizie”, ultima opera poetica di Dante Maffia

Recensione di Carmen Moscariello

Non si tratta solo di una raccolta di poesie, questa volta Maffia ha sfidato il mondo intero, ha urlato a pieni polmoni, per chi non l’avesse ancora inteso, la sua libertà, la sua dignità, il suo orgoglio poetico che non cede a schiamazzi televisivi o giornalistici: La poesia non ha bisogno della prima pagina dei quotidiani, né di battiti di mani; non è il sogno della cronaca. Preferisce radure, vecchi campanili e marine. La poesia è una baraccopoli nella quale cadono le stelle e nessuno ci fa caso[1]. Bisogna dargli atto che per la sua intera vita mai ha rinunziato a se stesso, mai ha piegato il suo ginocchio se non davanti all’amore.

“Sono grata a Maffia per non aver ceduto, in decenni di poesia, prosa teatro e critica, alla tentazione di darsi in pasto ai grandi gruppi editoriali…. Il suo agire da lupo sciolto insofferente alle dinamiche del branco e restio a leccare la mano ai padroni delle più prestigiose collane, ha nutrito la sua sensibilità e la sua poesia con la rabbia salvifica di chi continua a combattere una guerra che tutti considerano già finita da tempo”[2].

Egli ci presenta un mare marcio con rigagnoli in cancrena, e cieli anemici che fluttuano in un universo che da tempo, da troppo tempo ormai, ha perso la sua méta.  La violenza è furiosa, le sue onde in tempesta devastano senza pietà. L’unica certezza è la Sua poesia. Gli intrugli ai quali anche molti poeti sono abituati non interessano Maffia. Questa volte ha scardinato, anche sul piano formale, tutto quello che la poesia ci ha dato da Dante Alighieri a Montale, qui non c’è il turbamento o la rabbia, qui c’è un’indomabile Zebra rossa che rincorre invano un’alba chiara nel deserto degli uomini.

Il dolore domina tutto, ma il Poeta non può morire: “Rifugiarmi nella Città del Sole/nelle parole di Cartesio, di Montaigne, d’Epicuro e di Seneca… oscillare, ritornare sui testi /imbrattarsi il cuore di refusi, condannare e assolvere me stesso, e non riuscire mai a sentire la musica / che genera il fiorire di una foglia/, di quella foglia ch’ ho tenuto/fra le mie mani accarezzandola,/ facendola sentire umana creatura,/ benedizione del sole, respiro del Concerto”.[3]

 Anche solo questi pochi versi, rendono la Sua Poesia degna del Nobel.

 L’opera denunzia una società dove domina il lupus est homo homini,[4] racconta un progredire della morte, il cui fetore ammorba tutto; mentre il mondo governato da Caino ha dato vita a una cacocrazia[5] dove i peggiori comandano e il suicidio e lo stupro sono divenuti pane quotidiano; a   questo, la Sua Anima si ribella, non vuole nemmeno essere sfiorata dalla putrida cancrena. Intanto, il posto dell’anima è stato preso dai “codicilli” dei peggiori che sono esaltati e occupano i posti più alti. Non c’è solo il Coronavirus a portare la morte, molti si industriano beatamente da tempo ad uccidere il Bello, ad annientare la Poesia e l’Onestà con versucoli che fanno inorridire. Siamo di fronte al potentato dell’orrido. Come dare torto al Poeta?

Questa antologia ricca di ben 214 pagine è fantasmagorica, plurima, inusitata, rivoluzionaria; è   visionaria, seppur, fatti oggettivi, la popolano dall’inizio alla fine. Mi è sembrato di incontrare nei suoi versi il Figlio del Demo di Peonia, come il grande accusatore, la sua parola è tagliente non fa sconti a nessuno. Maffia interpreta da attore e scrittore di tragedie la parte di “Démosthène s’exercant à la parole”[6], scapigliato, irato col suo mantello squarciato da un vento furioso su una delle falesie del mare di Calabria. Qui urla al suo popolo con la stessa rabbia che mise Demostene nel pronunciare le tre orazioni contro Afobo[7], essendo stato derubato da costui del patrimonio del padre, morto quando egli era solo un fanciullo, così per Dante Maffia, derubato del bene di vivere, si ribella e uccide la malasorte che uncina la vita dei Poveri e quella dei Grandi, egli l’ha crocifissa ad un palo e contro di lui non può più nuocere. È forte, è coraggioso, non vuole l’aiuto di nessuno, feroce incalza i lupi per non lasciargli scampo. Le tensioni che irrigano l’opera vanno man mano crescendo, né trovano approdo in nessun letto di fiume. Crea irripetibili atmosfere con dialoghi tra i carnefici e le vittime: Verso dove è caduta?/Nei fondi dei bicchieri caleidoscopi funesti/il ruotante ruinare assassino/ delle foglie che ansimano/ sul cuscino/ i feti prodotti dalla polvere/le beatitudini delle ferite/le coltellate infinite della lussuria/ e quel colare della luce che s’attorciglia/m’avverte di arrivi nuovi/di fili spinati per recintare le emozioni.[8] Plana egli stesso come uno sparviero sul male per estirparlo, per urlare al mondo che si è raggiunto ogni villania. Se dovessi paragonare quest’opera d’arte ad un capolavoro della pittura, che ancora più sinteticamente della poesia, possa esprimere la catastrofe raccontata, mi viene da pensare a Guernica.

Quest’opera di Maffia si offre tutta per un grande spettacolo di drammaturgia, per rappresentarla nella sua visionarietà, adotterei l’opera del grande Picasso per le scenografie e lì farei troneggiare i Suoi versi. Come questa immensa opera d’arte pittorica, così le parole visionarie e furenti irromperebbero con tutta la loro ferocia, come un bombardamento, contro la perversione di questo tempo. I suoi frammentari ottagoni di ossari denunziano come la guerra immane dell’indifferenza, dell’odio e dell’invidia ha debordato gli argini, invadendo le nostre vite e il nostro secolo sfortunato. L’immagine ultima del piego di copertina del libro rappresenta il viso di Maffia come una maschera tragica del teatro greco-romano (ci sono, invece, nel libro altre fotografie bellissime che lo ritraggono con i più grandi del nostro tempo); sono stata attratta da questa immagine; mi sono chiesta perché Maffia a conclusione di questo capolavoro ha voluto trasformare il suo volto in una maschera? Cosa vuole dirci? Dove vuole arrivare? Quali armature nuove sta creando per la sua vita e per la sua Poesia? Sconvolge questa maschera di dolore. E viene ancora da domandarsi quanto è duro per il Poeta generoso e onesto vivere in una società di mascalzoni. Quanto è grande nella sua coscienza e sapienza “convivere” con quanto ci sta accadendo, sopportare nel dolore e nella solitudine quello che succede alla stessa Poesia, lordata da poetucoli padroni delle pagine dei giornali, della televisione e dei luoghi, che ignorano che Dio è molto avaro, concede solo ai suoi prescelti il dono della Poesia.

Si srotola l’Opera di Maffia, come il rotolo di “Pittura industriale” di 74 metri di Pinot Gallizio[9] e lo sguardo e le lacrime cadono anche sull’altro capolavoro di Gallizio de “L’anticamera della morte”[10].

Ma ciò che rende ancora più grande questo contenuto è l’uso di una parola d’ardesia, parola d’ardore, parola del silenzio, della condanna. Quando anche il mito rischia di essere distrutto da forze insensate, dalla selce che non smette di colpire, allora il Poeta non vede più la strada per salvare il mondo, tutto si confonde e la mestizia del silenzio ha il sopravvento; la pietra del cuore che ha battiti di parola s’innalza sull’altare del deserto. La rottura col mondo non lascia speranza al domani, la fenditura è grande e la ricerca dell’anima è un calvario simile a quello di Cristo. È un’opera insolita questa del grande Maffia, ha innestato una lotta senza fine, una sfida sanguinaria contro la corruttela, la volgarità, le scritture approssimative e vaghe, contro i soggetti mitizzati oggi che ben poco hanno da dire, poiché la loro anima si è spenta da millenni nei burroni, nei valloni, nella melma dell’ipocrisia e del nulla. L’opera ha tracciati molto chiari, non c’è niente di enigmatico, anche la fosforescenza dell’allucinazione si pone oggettivamente potente. Emerge in qualche punto, come un fiore nel deserto, il suo candore, la sua purezza di Poeta che si commuove di fronte a una foglia, pronto ad amarla ancora e a proteggerla fino alla morte. Né si può negare il magnetismo della sua scrittura, si legge e si rilegge e ogni volta il verso appare nuovo, ancora più incisivo; la parola che ci racconta l’obbrobrio di questo mondo, la sentiamo viva dentro di noi, scava analisi profonde sulle strade che stiamo seguendo, proteggendoci  dall’arroganza di questo tempo più oscuro: la sua  è voce di vita; Il rifiuto del male, il coraggio di allontanarlo da Sé, non lo ha mai fermato:  andare avanti da solo con i suoi furiosi vessilli, mossi dal vento di Calabria, per  poter essere altro dalla lordura; non lasciarsi convincere mai da prebende ed onori. Si rigenera in quest’opera il grande fascino della Poesia di Dante Maffia, ha fatto compiere alla cometa del verso una sterzata, un desiderio di cambiamento, affinché tutto il male venga abbandonato; non l’ha portato al Capo di Buona Speranza, ma ci ha regalato un libro per riflettere e forse salvarci. L’ “Inferno” di Maffia non ha niente da invidiare alla Prima Cantica della Divina Commedia.

CARMEN MOSCARIELLO

Dante Maffia, Il suicidio, Lo stupro e altre notizie, WHITEFLY PRESS- The Raven, Roma, 2020, pp. 214.


[1]  Dante Maffia, Il suicidio, lo stupro e altre notizie, Dalla mano di Dante Maffia… la poesia pp. 209-211.

[2] Pensieri e parole di Gabriella Montanari, p. 7.

[3] Opera citata, p. 120.

[4] Plauto, Asinaria, (495).

[5] Michele Sgro, Cacocrazia, malapolitica italiana e legge di prevalenza dei peggiori, formato Kindle

[6] Opera di Lecomte du Nouy del 1870.

[7] Fu citato in giudizio da Demostene, poiché lo aveva derubato dell’enorme patrimonio che il padre gli aveva lasciato, quando il grande oratore era ancora bambino.

[8] Opera citata, p.21, prima parte dell’opera: Il suicidio, spartito n.3.

[9] La dipinse nel 1958, esposta ad Alba per la prima volta nel giugno 2012.

[10] Installazione permanente ad Alba del 1964.

L’autrice della recensione ha acconsentito e autorizzato alla pubblicazione del testo su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. Si rappresenta, inoltre, che la diffusione del presente testo su altri spazi, in forma integrale o parziale, non è consentita senza il consenso scritto da parte dell’autrice.

A Bologna e Gaeta due eventi dedicati alla poesia del poeta Dante Maffia

Due eventi culturali che coinvolgono il poeta calabrese Dante Maffia (candidato al Premio Nobel per la letteratura) si terranno nelle prossime settimane in alcune città del centro Italia.

matera-e-una-donna.jpgMartedì 26 novembre alle ore 16:45 presso la Sala Risorgimento del Museo Civico Archeologico di Bologna (Via dell´Archiginnasio 2) le Associazioni Culturali “EstroVersi” e “Amici delle Muse” incontreranno il poeta per presentare il suo libro Matera e una donna (Terra d’Ulivi Edizioni, 2017) con presentazione delle foto dedicate alla città lucana di Elio Scarciglia. Si terranno interventi di Cinzia Demi e Marco Onofri. Come ha osservato lo stesso Onofri questa opera fa parte di un cosiddetto “ciclo materano, un work in progress con cui Maffia cerca di rincorrere l’essenza delle proprie origini, nelle vene di una città che vive in lui come un mito profondo”.

Mercoledì 11 dicembre alle ore 9:30 al Grand Hotel Ninfeo di Gaeta (Latina) in Via Flacca Km 22.700 (Tel. 0771-742291) la poetessa Carmen Moscariello assieme al poeta e critico Marco Onofrio presenteranno un altro libro di Maffia, La felicità del disordine (Luigi Pellegrino Editore).

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Giuseppe Lorin esce con un approfondito saggio su Isabella Morra. Contributi di Dacia Maraini, Corrado Calabrò e Dante Maffia

dossier morra.jpgDall’11 aprile in libreria Il ritratto vero, appassionato, commovente e lancinante di una delle penne poetiche più intense del XVI secolo

Dopo il successo di “Transtiberim. Trastevere, il mondo dell’oltretomba” Giuseppe Lorin torna in libreria da aprile con “Dossier Isabella Morra” edito da Bibliotheka Edizioni, il ritratto di una delle penne poetiche più intense del XVI secolo. Gli scritti di Isabella Morra, riflettono il valore mediatico della Poesia stessa, che entra a far parte della linfa appartenente ad una natura troppo ricca, tanto da essere predestinata a causa del suo eccesso intatto e virginale, allo stupro e al saccheggio della sua essenza. Isabella confida che i posteri non la ricordino soltanto come fanciulla uccisa, pregandoli invece di non dimenticare i suoi lavori, le sue poesie scritte nella sofferenza di adolescente privata del padre, unico punto di riferimento in una terra amara. È nel primo sonetto, più che in altri, che si avverte la necessità di essere ricordata come poetessa, poiché, come sostiene, è la Poesia a mantenere in vita il poeta stesso. E, come sempre sostengo, si tratta di un riscatto di notorietà in forza della scrittura, ovvero della poesia, unico “ponte” tra il poeta e il lettore. Hanno contribuito per questo saggio storico di Giuseppe Lorin con loro poesie originali dedicate ad Isabella Morra: Dacia Maraini, Dante Maffia, Michela Zanarella, Corrado Calabrò, Marcella Continanza, Vittorio Pavoncello e Antonella Radogna.

Giuseppe Lorin è attore, poeta, regista, critico letterario, conduttore e giornalista, ha studiato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Ha pubblicato: Manuale di dizione; Da Monteverde al mare; Tra le argille del tempo; Roma, i segreti degli antichi luoghi; Roma la verità violata; Transtiberim, Trastevere il mondo dell’oltretomba.

 

“La cognizione del colore”, Antologia poetica a cura di Laura De Luca. Recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

La mappatura di qualcosa di sconfinato è sempre impossibile.Andare a indagare dove termina un colore e inizia l’altro, intravedendo una possibile gradazione intermedia e dando ad essa un termine, è un qualcosa di difficile o forse semplicemente illusorio. I colori sono una delle prime realtà con la quale il bambino entra a contatto una volta partorito, per questo l’importanza delle tinte nei giocattoli e, poi, nei giornalini da colorare opportunamente seguendo le indicazioni. Il colore, proprio come l’universo più ostico dei numeri, rappresenta una costante che, sin dalla scuola primaria, permette all’individuo l’adozione di un metro che poi è quello dell’organizzazione e dell’individuazione in categorie logiche e strutturali.

La-cognizione-del-colore.jpgCiò che è nero non può essere al contempo bianco eppure, sempre alle elementari, veniva proposto un modello logico fondato su un procedimento forse di difficile persuasione sulle giovani menti secondo il quale un colore non ha effettivamente mai un contrario. Cioè, se proprio dovessimo strutturare un discorso per antipodi, per ambiti in sé opposti e contrastanti, allora veniva dato d’intendere ‒ increspando in maniera sensibile il giovane cervello del ragazzino ‒ che il contrario di bianco è semplicemente (o forse troppo tecnicamente) “non bianco”. Vale a dire che ciò che non ha a che fare con il bianco non è per forza di cose individuabile nell’annullamento totale del bianco e che, se proprio si volesse pensare alla negazione del bianco, allora si potrebbe anche proporre un incarnato, un rosso fiammante o, ancora un blu cobalto. Sta di fatto che il colore ha sempre affascinato il bambino e, più in generale, l’uomo curioso, colui che ravvisa nella composizione fisica degli oggetti e degli ambienti che abita significati non solo pratici e patenti ma anche evocativi, simbolici e altro ancora. Ciò avviene non solo con il colore ma anche, ad esempio, con la forma. Sono ambiti che vengono appunto utilizzati nelle primissime classi in varie maniere: di utilizzo di colori a pastello o pennarello a significare i topos di quelle determinate sfere cromatiche e le strutture di definizione, i perimetri di forme regolari che vengono proposte semplicemente o in maniera allungata, sovrapposte e in prospettiva o in situazioni ad incastro. […]  Laura De Luca, radiogiornalista e autrice radiofonica e teatrale, ha elaborato un progetto che reputo significativo e riuscito attorno all’universo dei colori visti, letti e interpretati emotivamente da una serie di poeti contemporanei. Le loro composizioni fanno parte di quest’opera, “La cognizione del colore” pubblicata recentemente per i tipi di fuorilinea di Monterotondo (Roma).

 

L’intera recensione è stata pubblicata su “Oubliette Magazine” in data 19/12/2018 e può essere raggiunta cliccando qui. 

 

“Il coraggio delle donne: profili ed esperienze femminili nella letteratura, storia e arte”, è uscito “Euterpe” n°27

E’ uscito il nuovo numero della rivista di letteratura “Euterpe”, il n°27 che proponeva quale tematica di riferimento “Il coraggio delle donne: profili ed esperienze femminili nella letteratura, storia e arte”.

A questo numero hanno collaborato: ALIPRANDI Mario, AMARAL Ana Luísa, APA Livia, ASPREA Pasquale, BALDI Massimo, BARDI Stefano, BARENDSON Samantha, BENASSI Luca, BERGNA Anna, BIOLCATI Cristina, BOLLA Giorgio, BISUTTI Donatella, BONANNI Lucia, BONFIGLIO Anna Maria, BUFFONI Franco, CALDIROLA Stefano, CARDILLO Lucia, CARMINA Luigi Pio, CASTAGNOLI Elisabetta, CASUSCELLI Francesco, CASULA Carla Maria, CECCARELLI Liviana, CHIARELLO Maria Salvatrice, CHIARELLO Rosa Maria, CIMARELLI Marinella, CIMINO Tommaso, COPPARI Elena, CORIGLIANO Maddalena, COSSU Marisa, CUPERTINO Lucia, CURZI Valtero, D’AMICO Maria Luisa, DALL’OLIO Anna Maria, DAMIANI Claudio, DAVINIO Caterina, DE GIOVANNI Neria, DE MAGLIE Assunta, DEL MORO Francesca,  DE ROSA Mario, DE STASIO Carmen, DEMI Cinzia, DI IANNI Ida, DI IORIO Rosanna, DI PALMA Claudia, DI SALVATORE Rosa Maria, DI SORA Amedeo, DOMBURG-SANCRISTOFORO Anna Maria, DOMENIGHINI Luciano, FABBRI Angela, FERAZZOLI Andrea, FERRARIS Maria Grazia, FERRERI TIBERIO Tina, FOIS Massimiliano, FOLLACCHIO Diletta, FRESU Grazia, FUSCO Loretta, GABBANELLI Alessandra, GIANGOIA Rosa Elisa, GRECO Angela, GRIFFO Eufemia, GRILLO Emma Giuliana, GUIDOLIN Giuseppe, INNOCENZI Francesca, KEMENY Tomaso, LANDI Chiara, LANIA Cristina, LEONE Ivana, LEALI Maddalena, LINGUAGLOSSA Giorgio, LOSITO Antonietta, LUZZIO Francesca, MAFFIA Dante, MAGGIO Gabriella, MANGIAMELI Antonio, MANNA Anna, MARCUCCIO Emanuele, MARELLI Dario, MARTILLOTTO Francesco, MASSARI Raffaella, MELILLO ANTONIO, MELONI Valentina, MESSINA Raffaele, MONGARDI Gabriella, MONTALI Alessandra, MOREAL Liliana, MOSCE’ Alessandro, MUSICCO Mirella, NARDI Lucia, NICOLOSI Ada, OPPIO Danila, PACILIO Rita, PARDINI Nazario, PAVANELLO Lenny, PELLEGRINI Stefania, PERRONE Cinzia, PIETROPAOLI Alessandro, PISANA Domenico, PITORRI Paolo, PIZZALA Gabriella, PORSTER Brenda, PREDILETTO Vincenzo, PROSPERO Alessandra, RAMPINI Nazarena, RUGGIU Mariangela, SABIA Mara, SANTARELLI Anna, SANTINELLI Franca, SARTARELLI Vittorio, SCAVOLINI Tania, SIROTTI Andrea, SOLDINI Maurizio, SPURIO Lorenzo, STANZIONE Rita, TOFFOLI Davide, VALENTE Maria Laura, VALERI Walter, VALLI Donato, VARGIU Laura, VENEZIA Paola, VESCHI Michele, VITALE Carlos,VIVINETTO Giovanna Cristina, ZANARELLA Michela, ZAVANONE Guido.

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Particolarmente pregevoli i contributi per le rubriche articoli/critica letteraria, segnaliamo i contenuti della rubrica “Ermeneusi”:

ARTICOLI

MARIA LUISA D’AMICO – “Ritratto di una donna coraggiosa: Frida Kahlo”

AMEDEO DI SORA – “Eleonora Duse: il teatro come vita” 

CINZIA DEMI – “Il rumore del pennino: Petronilla Paolini Massimi (1663-1726)”

GRAZIA FRESU – “Le madri coi fazzoletti bianchi”

ALESSANDRA GABBANELLI – “Una poetessa del 1500: Gaspara Stampa”                

ANNA MANNA – “Il grande affresco barocco nelle inquietudini regali di Cristina di Svezia”

ANNA MARIA BONFIGLIO – “Selma Lagerlof, la prima donna Premio Nobel per la letteratura”                                                           

CINZIA PERRONE – “Artemisia Gentileschi: una femminista ante-litteram” 

MARISA COSSU – “Grazia Deledda”   

ELENA COPPARI – “Anaïs Nin: il coraggio di esprimere la propria sensualità”  

FRANCA SANTINELLI – “Stamira, l’eroe di Ancona”         

FRANCO BUFFONI – “Emily Dickinson”              

LENNY PAVANELLO – “Louisa May Alcott, Margaret Mitchell e Jane Austen: la voce delle donne”                                                                                       

ALESSANDRO PIETROPAOLI – “Jane Austen e l’idea di romanzo al femminile”

TINA FERRERI TIBERIO – “Maria Montessori, donna coraggiosa e anticonformista”  

LORETTA FUSCO – “Tina Modotti, tra genio e passione”                         

FRANCESCA LUZZIO – “Profili da spolverare: la siciliana Maria Alaimo”                    

LORENZO SPURIO – “Ricordo minimo della poetessa Renata Sellani”                         

MADDALENA LEALI – “Ritratto di Christine de Pizan (1365-1431)”           

 

CRITICA LETTERARIA 

MARA SABIA – “Di poesia e resilienza: ritratto di Alda Merini”  

DILETTA FOLLACCHIO – “Le Novelle orientali di Marguerite Yourcenar e il Genji Monogatari di Murasaki Shikibu”                                                              

NERIA DE GIOVANNI – “Grazia Deledda: il coraggio di credere al proprio destino”     

VALTERO CURZI – “Ipazia, Eloisa e Frieda Kahlo: il coraggio di vivere al femminile”    

DAVIDE TOFFOLI – “Il fascino, sempre rinnovato e indelebile, delle bulbare.  Sull’opera antologica della poetessa Biancamaria Frabotta”                      

MASSIMILIANO FOIS – “Rina De Liguoro, diva fulgente del cinema silenzioso”      

LUCIA BONANNI – “Vita interiore, immaginario e creatività nelle opere di Lauren Simonutti e Anne Sexton”                                                                                     

EUFEMIA GRIFFO – “Jane Austen e quella sottile seducente ironia”               

STEFANO BARDI – “Scritture “spirituali”. Note a margine sulle esperienze

letterarie di Patrizia Valduga, Francesca Duranti e Marguerite Yourcenar”          

PAOLO PITORRI – “Chi era Sylvia Plath? La campana di vetro e la sua costellazione”   

GIORGIO LINGUAGLOSSA – “Una ermeneutica sopra una poesia inedita di Donatella Costantina Giancaspero”                                                                        

MARIA GRAZIA FERRARIS – “Cristina, ovvero la ricerca della felicità”         

LORENZO SPURIO – “Nella casa di Maria Costa. La poetessa messinese attraverso l’universo oggettuale che ha lasciato e il ricordo commosso dell’artista Pippo Crea”    

CARMEN DE STASIO – “Virginia Woolf – leggère impressioni: breve viaggio in Le Onde

MARIA LAURA VALENTE – “Joryū nikki bungaku. Un approfondimento sulla letteratura   diaristica femminile di epoca Heian”                                                   

 

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Come da editoriale si ricorda che:

  • Il vecchio sito della rivista non sarà più raggiungibile perché verrà soppresso. Tutti i materiali in esso contenuti sono stati caricati in una sezione dedicata del sito dell’Associazione Culturale Euterpe dove potranno essere consultati e raggiunti a partire da questo link.
  • A partire da questo numero dedicheremo ogni qual volta un evento pubblico per presentare i contenuti della rivista dove gli autori saranno invitati a partecipare intervenendo con una breve esposizione dei loro testi o lettura di stralci. La presentazione di questo 27esimo numero si terrà a Senigallia (AN) il 8 settembre 2018 presso il Palazzetto Baviera alle ore 17:30. Nella pagina che segue è possibile prendere visione della locandina dell’evento con tutte le informazioni logistiche. Gli autori che vorranno partecipare sono invitati a darne comunicazione a mezzo mail, confermando la loro presenza, almeno 5 giorni prima, di modo da poter organizzare adeguatamente la scaletta.
  • Il prossimo numero della rivista avrà come tema al quale sarà possibile ispirarsi “Musica e letteratura: influenza e contaminazioni”. L’invio dei materiali dovrà avvenire entro il 20-12-2018. Il relativo evento del prossimo numero su FB è presente a questo link.

In arrivo “L’esigenza del silenzio”, opera poetica di Michela Zanarella e Fabio Strinati

E’ in uscita sabato 10 febbraio 2018 “L’esigenza del silenzio”, il nuovo libro di Michela Zanarella e Fabio Strinati, edito da Le Mezzelane Casa Editrice. Una raccolta di poesie a quattro mani, che è da considerarsi un’esplorazione condivisa dell’anima. I due autori hanno scelto di unire le loro voci e di compiere un percorso di analisi interiore, consapevoli che la scrittura in versi libera emozioni e sentimenti a volte inaspettati.

Dante Maffia, che ha curato la prefazione del volume, scrive: “Michela e Fabio compiono un viaggio insieme e ne danno un resoconto non attendibile, fuori dalla verità comune. Perché nelle loro parole c’è la verità di un cielo che si è specchiato senza cercare la deflagrazione. La metafora per fare intendere la catena di metafore sottese in ogni pagina, il fluire limpido e a volte magmatico dei pensieri e delle emozioni, lo sforzo per poter entrare nell’invisibile e trarne ragioni ineluttabili. Non è questo del resto il compito dei poeti? Non è quello di squarciare veli e di entrare nella magia di insondabili chimere per offrire poi la dovizia di nuovi cammini?”

E’ un dialogo intimo, riflessivo ed avvolgente dove ogni percezione, ogni elemento della natura si adegua al ritmo di scrittura dei due poeti, che ad un certo punto fondono i loro i stili, fino a diventare unico canto. Il silenzio è il luogo ideale, dove mente e cuore trovano riparo dalle ombre della realtà.  

Poesia 1
(di Michela Zanarella)
Non so cosa proverai
vedendo il cielo accanto a me
e cosa ti dirà l’orizzonte
dall’incontro dei nostri sguardi.
La luce ci salverà entrambi
dall’imbarazzo e dalle ombre del passato.
Ci sentiremo figli di un tempo
mai spento negli inganni della vita.
Prenderemo dal sole
una pioggia calda di segreti
e al vuoto degli occhi faremo spazio
allo stupore che diventeremo.
Ci alzeremo tra i giorni
come confini che si esplorano
tolto il buio dal cuore
e la fatica degli amori spinti
troppo in alto.
Ci capiremo credo
senza troppe parole
solo ad istinto
respirando il mondo
con lo stesso colore
nella corrente che soffia
aquiloni rossi
addosso al tramonto.
Cover L'esigenza del silenzio.jpg
Poesia 2
(di Fabio Strinati)
Ho imparato presto a camminare
sulla scacchiera di un’epoca
a me contraria.
Ho visto nella folta spirale
l’imbarazzo per un’avventura
chiamata vita
che ormai per dissimmetria
ho presto dimenticato.
Ho visto te come nutrice di astri,
e in me, la moltiplicazione
di speranze indomabili
come sospiro ad ogni patimento.
Ho imparato la parola,
rarissima perla contro il pianto
e la tristezza carica d’aroma.

 

Gli autori

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Michela Zanarella durante la premiazione della VI edizione del Premio “L’arte in versi” a Jesi nel novembre 2017 dove era membro di giuria.

Michela Zanarella è nata a Cittadella (PD) nel 1980. Dal 2007 vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Credo (2006), Risvegli (2008), Vita, infinito, paradisi (2009), Sensualità (2011), Meditazioni al femminile (2012), L’estetica dell’oltre, 2013), Le identità del cielo (2013) Tragicamente rosso (2015) Le parole accanto (2017). In Romania è uscita in edizione bilingue la raccolta Imensele coincidente (2015). È inclusa nell’antologia Diramazioni urbane (2016), a cura di Anna Maria Curci. Autrice di libri di narrativa e testi per il teatro, è redattrice di Periodico italiano Magazine e Laici.it. Le sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, arabo, spagnolo, rumeno, serbo, greco, portoghese, hindi e giapponese. Ha ottenuto il Creativity Prize al Premio Internazionale Naji Naaman’ 2016. È ambasciatrice per la cultura e rappresenta l’Italia in Libano per la Fondazione Naji Naaman. E’ speaker di Radio Doppio Zero. Socio corrispondente dell’Accademia Cosentina, fondata nel 1511 da Aulo Giano Parrasio. Si occupa di relazioni internazionali per EMUI EuroMed University.

 

dddFabio Strinati (poeta, scrittore, compositore) nasce a San Severino Marche il 19 gennaio 1983 e vive ad Esanatoglia, un paesino della provincia di Macerata nelle Marche. Molto importante per la sua formazione, l’incontro con il pianista Fabrizio Ottaviucci. Ottaviucci è conosciuto soprattutto per la sua attività di interprete della musica contemporanea, per le sue prestigiose e durature collaborazioni con maestri del calibro di Markus Stockhausen e Stefano Scodanibbio, per le sue interpretazioni di Scelsi, Stockhausen, Cage, Riley e molti altri ancora. Partecipa a diverse edizioni di “Itinerari D’Ascolto”, manifestazione di musica contemporanea organizzata da Fabrizio Ottaviucci, come interprete e compositore. Strinati è presente in diverse riviste ed antologie letterarie. Da ricordare Il Segnale, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini. La rivista culturale Odissea, diretta da Angelo Gaccione, Il giornale indipendente della letteratura e della cultura nazionale ed Internazionale Contemporary Literary Horizon, la rivista di scrittura d’arte Pioggia Obliqua, la rivista “La Presenza Di Èrato”, la revista Philos de Literatura da Unia Latina, L’EstroVerso, Fucine Letterarie, La Rivista Intelligente, aminAMundi, EreticaMente, Il Filorosso, Diacritica, la rivista Euterpe, Il Foglio Letterario, Versante Ripido.

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Gli autori delle poesie qui pubblicate hanno acconsentito alla loro pubblicazione su Blog Letteratura e Cultura senza nulla avere a pretendere né ora né in futuro al gestore del blog. 

Dante Maffia su “Lamento dell’emigrante” di Guido Miano, lo storico editore milanese col sangue siciliano

Miano Guido - Lamento dell'emigrante (.JPGa cura di Dante Maffia

Il giudizio espresso da Maurizio Cucchi mi pare che sintetizzi il lavoro di Guido Miano (Lamento dell’emigrante, Milano, Miano, 2017): “…il tuo lavoro è notevole per originalità e forza espressiva, per la febbrile quasi ferocia della parola…”.

Una parola che seppure accesa da lampi e da una fede totale dei suoi effetti benefici, non si è mai incrinata e non è mai scesa a patti con le interferenze che assiduamente Miano ha dovuto scansare per evitare d’essere preso nei virgulti intricati delle sperimentazioni per lo più gratuite. Prova ne è anche l’amicizia con Mario Luzi e con Davide Maria Turoldo.

Non è stato facile lasciare la Sicilia e arrivare a Milano dove il mondo dell’editoria era prepotente e ben asserragliato nei progetti che vedevano le problematiche del Meridione come un’intrusione anomala e assurda. Miano però ha una sua idea precisa che si connota immediatamente: fare emergere la poesia dai significati densi, con una forte carica etica, con una eleganza tutta derivata dai classici e senza concessioni alle stravaganze e alla gratuità.

Questa forza, ovviamente, gli veniva dall’essere lui stesso poeta che seguiva questi principi senza deroghe e li difendeva a spada tratta.

Infatti basti leggere con attenzione e con partecipazione Lamento dell’emigrante per rendersene conto. Non c’è una sola punta di retorica e nemmeno di tendenziosità politica; non si sentono lamenti nel senso tradizionale in cui si intendono quando c’è di mezzo l’emigrazione. Non so, come è accaduto, per fare qualche esempio, con Rocco Scotellaro o con Franco Costabile. In Miano tutto è limpidamente fuori dalle convenzioni  e credo che sia un merito da sottolineare, perché, come diceva Rilke, se si vuole attrarre l’attenzione su un argomento bisogna trattarlo con leggerezza, fermo restando il come, la parola appunto, per ricordare ancora il giudizio di Cucchi, “febbrile quasi ferocia”.

E’ un vezzo dei lettori cercare sempre chi sta alle spalle del poeta, consapevolmente o soltanto per affinità, io vi ho scorto la leggerezza ariosa di Arturo Onofri, quel passo felpato che rende le immagini sinfonie, passi di musica orchestrata con sapienza e con esperienza. Infatti non è casuale il rapporto stretto di Guido Miano con la musica, così bene messo in evidenza dallo scritto introduttivo di Franco Lanza. Un rapporto che andrebbe approfondito e studiato e che ci riporta ai bei tempi,in questo senso, di Arrigo Boito ed Emilio Praga.

Ma va dato merito anche allo studio di Gualtiero de Santi che sa accompagnarci, con una profonda analisi, in questa poesia che io trovo accattivante, e direi addirittura lievitante. I versi di Guido Miano hanno qualcosa di dolcemente attraente e riescono a far emergere le emozioni più profonde nel lettore, perché non coprono mai il dettato limpido che scaturisce dall’animo. Leggiamo Il VERSO: “Nel rifugio della verde foglia / la favola si sgrana, / disperde il ritmo arcano / del richiamo fidente. / E’ ora monolitico il verbo, / struggente la voce del deserto / tra pigmei assorti sulla sabbia. / Ma la mia fede al verso, al musicale / ancora mi conforta / con la sua nota trepida, sovrana, / quasi litania perenne”.

DANTE MAFFIA

 

L’autore della presente recensione dichiara, sotto la sua unica responsabilità, di essere il naturale e unico proprietaria dei diritti sul testo. La pubblicazione del testo è consentita su questo spazio dietro autorizzazione dell’autore senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

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