“L’ “io introspettivo” di Eugenio Montale nell’indagine del Mistero”, saggio del prof. Domenico Pisana

Saggio del prof. Domenico Pisana

Non oserei parlare di mito nella mia poesia, ma c’è il desiderio di interrogare la vita”. Così si espresse Montale in un’intervista di Medeleine Graff-Santschi, pubblicata  nel 1965 sulla Gazette de Lusanne, che ci fornisce una linea di movimento della poetica montaliana nella sua fase iniziale.

Montale è alla ricerca di una definizione precisa e assoluta della vita, ricerca  che, sotto l’influsso delle sue letture filosofiche di impronta  contingestista, trova il suo approdo nel  dubbio, nello scetticismo e nel nichilismo. Egli ritiene che non sia possibile indicare una verità esistenziale come prospettiva verso la quale orientare il cammino della vita: non esistono mete né certezze universali. Il poeta elabora, allora, una sorta di “teologia negativa”, che trova la sua espressione più emblematica  nella lirica “Non chiederci la parola”, composta nel 1921, che costituisce quasi una norma normans da rispettare in tutte le circostanze della vita.

eugenio-montale

La struttura della lirica poggia su un “io introspettivo” tutto al negativo, come si evince dall’uso frequente della negazione “non” (“Non chiederci”….”Non domandarci..” “non siamo…” “non vogliamo..”). Il poeta dialoga con un interlocutore indeterminato, al quale mette davanti il percorso incerto, difficile, pieno di pericoli della vita; ricorre ad un registro stilistico e lessicale pienamente aderente alla sua visione desolata e negativa dell’esistenza. “L’animo informe”, il “polveroso prato”, lo “scalcinato muro”, la “storta sillaba e secca come un ramo” costituiscono la metafora di una condizione umana precaria, drammatica, amara ed incerta, messa in contrapposizione alla sicurezza di chi non avverte questa precarietà e questo grigiore della realtà. (“Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico”).

Questo pessimismo non può essere letto, però, esclusivamente come  chiusura nel buio, perché  include, dentro l’io più profondo di Montale, anche il desiderio di infinito e di assoluto, l’apertura ad un Essere che non può farsi presente nei concetti e che non ha una collocazione nella storia; il Montale che interroga il mistero della vita, come già Leopardi, dimostra di tendere verso un Orizzonte nel quale possa essere contenuta la risposta alle tante domande che nascono nel cuore dell’uomo: “Chi può dire di vivere soddisfatto  – afferma il poeta ligure – nel mondo dei fenomeni, delle cose finite, senza farsi domande, chiedersi il perché? Paradossalmente la poesia di Montale è un canto mistico che si perde nel vuoto, un interrogare la vita per tentare di raggiungere quei risultati che il poeta cerca e che, però,  è pienamente consapevole di non potersi attendere dal mondo fenomenico. L’unica certezza della sua indagine sull’esistenza è che l’uomo deve finire: “Sappiamo che dobbiamo finire: questa certezza ci rimanda all’Essere, all’eternità”.  

L’eternità per Montale rappresenta la fine dell’inquietudine umana, la terrestrità costituisce il luogo della solitudine, dell’inganno, del malessere e della precarietà. È all’interno di questo interrogare la vita che la ratio montaliana aspira dunque a qualcosa che non riesce ad afferrare e spiegare; la sua è una  ratio che non decifra il Mistero, ma che  rivela il segno della sua Presenza in ogni esperienza umana:

Sotto l’azzurro fitto

del cielo qualche uccello di mare se ne va;

né sosta mai: perché tutte le immagini portano

scritto: ‘più in là”.

 Quel “più in là!” paradossalmente rivela l’Orizzonte verso cui tende il poetare montaliano; egli non lo vede ma lo percepisce, così come l’uomo ode il grido che c’è dentro le cose, anche se non sente la voce.  L’ “io noumenico” montaliano, pur muovendosi all’interno dei parametri propri della poetica italiana della modernità, che lanciava l’interpretazione della realtà come nichilismo, in fondo non risulta anti-religioso; anzi, si può ritenere che è connotato da una “passione religiosa”, cioè da una  espressa passione della ricerca e della eventuale affermazione di un senso alla vita, ossia di un Mistero che dia il senso delle cose, della realtà e dell’esistenza.

Quando Montale in alcuni suoi versi afferma – “Forse un mattino andando in un’aria di vetro/arida, rivolgendomi, vedrà compirsi il miracolo:/il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/di me, con un terreno ubriaco” – , egli, in fondo, non fa altro che rappresentare l’effimero delle cose che oggi ci sono e domani non più, ribadire la vanità e la nullità di ciò che esiste. Questa sua esperienza rappresentativa della realtà è sostanzialmente identica a quella del mistico religioso cristiano, il quale mentre contempla il cielo e la terra, così grandi ed evidenti nel loro spazio, sa che domani non ci saranno più, per cui capisce che la realtà è tutta segno della parola di un Altro, cioè il Mistero che sta dietro. Questo indagare il Mistero che sta dietro alle cose, agli oggetti, alla vita stessa  fa di Montale un uomo religioso senza religione, ed è la premessa alla fede come campo immediato in cui la ragione cede all’ inconoscibilità e all’ inafferabilità della “Realtà Altra”.

Se nello scavo dell’io interiore di Montale,  l’elemento religioso e l’influsso della fede sono stati poco osservati, è per un errore di approccio critico; molti hanno cercato e cercano la religiosità di Montale attraverso le sue pagine, attraverso riferimenti espliciti ad una esperienza secondo la tradizione religiosa. In questa prospettiva è facilmente intuibile che il religioso in Montale è davvero argomento difficile e controverso, non solo perché poche volte la parola “Dio” compare nei suoi versi, ma anche perché il poeta ligure rigetta ogni collocazione confessionale e ideologica.

L’approccio che occorre tentare non è quello di proiettarsi verso  la “religiosità del testo”, ma quello di verificare se il testo letterario in sé , pur non collocandosi in un espresso orizzonte teologico, sacrale e religioso, contenga “dati-testimonianza” di una specifica rilevanza religiosa.

I due moduli tematici e stilistici utilizzati da Montale nelle prime raccolte di versi, Ossi di seppia e Le occasioni, vale a dire la poetica degli oggetti da un lato e il simbolismo ermetico-metafisico dall’altro, trovano nel terzo Montale, quella di Bufera e altro, un esplicito appoggio ai termini del linguaggio simbolico e religioso. Mentre negli Ossi di seppia  è presente una cauta e generica metafora del divino, racchiusa ora nell’ombra umana, la “disturbata Divinità” dei Limoni , ora nella presenza del mare, il “divino amico” di Esterina in Falsetto, ora nella voce paterna e immensa che “afferma una legge severa” di Mediterraneo, in Bufera e altro viene,  per la prima volta, pronunciata, la parola “Dio” e l’io interiore ed intropsettivo di Montale intraprende la direzione di un lessico tratteggiato da insistenti simboli e richiami religiosi.

Entrando nella tessitura della silloge, il linguaggio lirico montaliano dà spazio ad una presenza, ambigua e per certi versi contorta, che spiega il suo affaccio inquieto al Divino in modo più esplicito rispetto alla  prima esperienza poetica. Ecco alcuni testi:   

su noi come Giona sepolti

nel ventre della balena…..

………………………….

L’iddio taurino non era

Il nostro, ma il Dio che colora

di fuoco i gigli del fosso…….

(Da “Ballata scritta in clinica”)

 

L’uomo che predicava sul Crescente

mi chiese “Sai dov’è Dio?” Lo sapevo

e glielo dissi. Scosse il capo….

(Da “Vento di Mezzaluna”)

 

Dovrà posarsi lassù

il Cristo giustiziere

per dire la sua parola…

(Da “Sulla colonna più alta”)

Dicevano gli antichi che la poesia

è scala a Dio. Forse non è così

se mi leggi……

(Da “Siria”)

 

Intorno il mondo stringe; incandescente,

nella lava che porta in Galilea,

il tuo amore profano, attendi, l’ora

di scoprire quel velo, che t’ha un giorno

fidanzata al tuo Dio …

(Da “Incantesimo”)

 

Io non so, messaggera

che scendi, prediletta

del mio Dio(del tuo forse)….

…………………………….

Il dì dell’Ira che più volte il gallo

annunciò agli spergiuri…..

(Da “L’Orto”)

I versi citati offrono indicazioni circa la presenza di un “io religioso” nella poetica montaliana a diversi livelli. C’è, anzitutto, un primo livello nel quale si configura un tratto antinomico della presenza del divino: da un lato l’ “iddio taurino”, dal quale Montale prende le distanze(“non era il nostro”) perché simbolo della violenza e del trionfo,  e che la “razza idiota degli eletti” adora, dall’altra il “Dio che colora/di fuoco i gigli del fosso”, che simboleggia l’amore sacrificato, il dono incontaminato del sacrificio destinato a perdurare nel tempo e che  riecheggia il “Dio dei fiori” della lirica  thanatos athanatos di Quasimodo.

Il secondo livello supera la precedente antinomia per dare rilievo ad una “visione relazionale e comunionale” tipica del Dio della Bibbia. Il verso montaliano sembra assumere il linguaggio personalistico della fede (il “tuo Dio”, il “mio Dio”); gli aggettivi possessivi, peraltro, non solo riecheggiano il linguaggio di Dio verso Israele (“ Io sono il tuo Dio, colui che ti ha fatto uscire dall’Egitto” ) ma sembrano accorciare la distanza tra il poeta e Dio, non più percepito come realtà distante e nascosta o potenza arcana e trionfante, ma come presenza vicina e solidale all’esperienza umana. E, tuttavia, si tratta sempre un approccio titubante e timido, come si evince da quel “forse”( “del tuo forse”), che evidenzia l’ambivalenza della problematica religiosa nel poeta ligure.

In altri testi, ancora, l’accostamento al Divino si esprime ora sotto forma di domanda, ora con l’attestazione dell’attesa della parola del giudice supremo, il “Cristo giustiziere”, ora come riconoscimento dell’ontologia religiosa del verso” che, stando a quanto – scrive Montale –  “dicevano gli antichi”,  eleva verso Dio”.

Eugenio_Montale-1

In Bufera e altro l’io poetico montaliano non esclude dunque la possibilità della salvezza dell’uomo; Montale, che nella sua formazione ha visto l’accostamento a letture di ispirazione cristiana, quali i Padri apologeti, Sant’Agostino, Pascal, Dostoevskii, utilizza le categorie teologiche per inserire sul suo cammino poetico l’orizzonte sotereologico. E difatti, come  nella teologia cristiana la salvezza passa dalla donna, tant’è che l’incarnazione del Verbo si è realizzata grazie al “fiat” di una donna, Maria, divenuta corredentrice di Cristo, così vediamo che in Bufera e altro Montale riprende, sull’onda di influenze dantesche, di convergenze stilnovistiche e di echi petrarcheschi, il tema della donna-angelo, della donna salvifica.

La struttura sintattica delle liriche appare infatti dominata da quel “Tu” rivolto quasi sempre alla donna, sotto immagini e nomi diversi, la donna del  Giglio rosso, Iride, Clizia, Volpe; l’apparizione della presenza femminile ruota, al di là dell’ordine fisico e sentimentale, che pur sono compresi, all’interno di un’allegoria che ripropone temi della tradizione cristiana e figurale.    

Tillich diceva: “quello che determina il nostro essere o il nostro non essere, è il nostro interesse ultimo”. L’uomo, in altre parole, non rinuncia mai, se si cala dentro il suo io più profondo con una azione introspettiva vera e sincera, alla ricerca della conoscenza del senso ultimo delle cose e dell’esistenza; egli guarda ad un fine ultimo, che per molti è Dio, per altri un archetipo, un assoluto, una causa; in ogni caso, Dio, anche se negato, rimane l’ultimo interlocutore dell’uomo.

Se il primo Montale ha sostenuto che l’inganno e l’illusione costituiscono  i fondamenti su cui poggiano i falsi equilibri della vita quotidiana, se ha teorizzato la condanna dell’uomo ad una esistenza fortemente segnata dalla solitudine, e di tutto ciò ne ha manifestato il  rammarico, con  Bufera e altro egli  comincia a testimoniare, pur se indirettamente, l’ammissione del suo bisogno di superamento del “male di vivere”, bisogno, che proprio a partire dalla raccolta Bufera e altro, egli proietta in quel “Tu” raffigurato come emblema e portatore di salvezza. 

DOMENICO PISANA

L’autore del saggio ha acconsentito e autorizzato alla pubblicazione del testo su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. Si rappresenta, inoltre, che la diffusione del presente saggiosu altri spazi, in forma integrale o parziale, non è consentita senza il consenso scritto da parte dell’autore.

 

 

“Tu, io e Montale a cena”: la silloge di Gabriella Sica dedicata al poeta romano Valentino Zeichen – recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

 

“Corre con il fiume scorre

[…] il suo essere si estenderà ancora” (25)

 

Tu io e Montale metà copertinaUn libro agile e intenso in versi, quasi un canzoniere, che rievoca un amico poeta nel momento della sua scomparsa e nei mesi successivi al lutto.

La poetessa Gabriella Sica[1] ha da poco dedicato a Zeichen, “un neoclassico beffardo”[2], un volume di quarantaquattro poesie con due prose in chiusura che muovono interamente da una volontà di commemorazione del poeta amico. Non un pianto né un elogio, che sarebbero forse ben poca cosa nel mare magnum della poesia indifferenziata e tumultuosa d’oggi – soprattutto quella dal contenuto annebbiato da un sentimento di pura malinconia – ma un vero compendio atto a ripercorrerne alcuni tratti della sua esistenza, gli aspetti distintivi del carattere fiero e sicuro, le convenzioni della sua vita underground, la ricchezza dei contenuti del suo dettato lirico.

Scrive il poeta Guido Zavanone, recentemente scomparso, in una delle sue ultime poesie “Piace ai poeti/ divagando fantasticare/ liberi come sono/ da ogni vincolo/ di contenuto o formale”[3] e tale verità può ben desumersi dalla poesia argomentativa e icastica di Valentino Zeichen, una delle voci poetiche più curiose della scena romana degli ultimi decenni, saltato alle cronache per le sue frequentazioni mondane al tempo della giovinezza.

Sono poesie che ci parlano di incontri, di dialoghi, di idee e contenuti esposti da Zeichen nel corso di tante occasioni, spesso di cene con amici, che evidenziano la complessità del poeta, la versatilità dei suoi codici e, sempre, comunque, la sua occhiata critica e avvolgente verso la realtà di fuori con timbri d’ironia e d’invettiva.

La Sica riesce in maniera egregia a presentarci, tramite la sua conoscenza diretta dell’uomo, la stima e l’amicizia intessute e coltivate con Zeichen, uno dei ritratti più completi e meno sfocati di questa figura complessa, criticata, non del tutto compresa e in un percorso di latente dimenticanza contro cui il volume stesso della Sica s’infrange. Ne emerge un dialogo ininterrotto tra due amici sullo sfondo di una Roma vivace e ricca, e di un mondo letterario disgregato.

Il giornalista Camillo Langone de Il Foglio ha titolato un breve articolo con “Vorrei anch’io una poetessa come Gabriella Sica a commemorarmi”[4] e questo è indicativo del fatto di quanto amore, sapienza e desiderio di condividere con gli altri, ci sia nelle pagine della Sica, tra ricordi e circostanze curiose, tra inviti a cena (“La poesia mi ha aiutato a procurarmi pranzi e cene”[5], rivelò Zeichen in un’intervista) e passeggiate per Roma.

Il volume della Sica, Tu io e Montale a cena, apre a un contenuto al contempo privato e pubblico di Zeichen da lei definito “poeta bellicoso/ bell’uomo alto scattante” (21), con un “sarcasmo glaciale” (62), narrandoci com’era, come si comportava, come si relazionava agli altri e all’ambiente: “Scriveva poesie nitide e precise/ […] rovistava con la lima nella storia.// [con] ironia intelligente/ l’abbellimento logico pungente// […] indomito sagace alla Szymborska” (57).  La Sica non risparmia di affrescarcelo anche negli aspetti più spigolosi come quando osserva: “Valentino coriaceo al vetriolo/ stai nella tua area di rigore/ gelida area di esodo corrusco/ di esilio da persone e cose/ […] impertinente/ […] nel tuo veemente duello mentale” (9).

Ci sono tutti gli aspetti chiave della vita di Zeichen: dalle liriche che alludono più spesso al tema dell’esodo, alla figura della madre, all’istituto di correzione dove venne collocato giovanissimo, all’ossessione per gli orologi, e poi la dimensione abitativa da lui scelta (“una casa/ vera lui non la vuole” (18), la nota “baracca del poeta” alla quale la poetessa dedica una lirica dove si può leggere:  “È una leggenda la baracca a Roma/ sta in un vicolo cieco sulla Flaminia/ […] nel centro della città eterna/ è una misera fragile frontiera” (17) ricordando il poeta in uno dei loro incontri: “su una logora sedia di legno/ siede pensoso sul da farsi il poeta/ lì coltiva una coppia di piante/ un fico e una vite americana” (17). Quel “fico generoso” (27) vicino al glicine massacrato a colpi d’ascia dopo la sua morte di cui la Sica parla in una lirica di commiato che chiude il volume: “L’hanno tagliato acidi con l’accetta/ nel giardino del poeta/ dove c’era anche un fico ospitale/ che triste s’è seccato” (87).

E poi la condivisione del cibo e dell’ospitalità della Sica (come di tante altre persone sue amiche, poeti e non) verso Zeichen: “Vorrei più spesso invitarti a cena/ come a te tanto piaceva/ […]/ conversare/ in casa e fuori” (53). C’è il sentimento destabilizzante di paura dinanzi alla recente malattia dell’amico, il timore  che presto possa andarsene ad abitare altri spazi (“prometto lo inviterò di più a cena”, 15, pronuncia come sottovoce, a motivo di un fioretto, di un impegno tra lei e se stessa) fino alla lirica che dà il titolo al volume, “Tu io e Montale a cena” dove la poetessa ipotizza           un’improbabile cena a tre, tra cui il grande poeta genovese (“certo è che noi e il convitato immortale/ incallito scanzonatore/ ci siamo rallegrati oltremodo/ banchettando ilari noi tre insieme/ al secolo nuovo brindando/ come un niente lo snodo al Novecento”, 44) e, ancora, la rievocazione di una cena col padre dell’avanguardia, Pagliarani: “la dolce cena noi tre insieme/ la cambiamo questa morte in vita/ […] tu io e Pagliarani come un tempo” (49).

Nel breve periodo di malattia di Zeichen, dopo l’ictus che lo costrinse all’ospedale, una poesia-preghiera forte e sentita perché il suo amico possa rimettersi e ritornare nel suo universo sociale: “fallo tornare tra noi/ Valentino è in un letto d’ospedale/ […]/ non so se ci sei madremadonnina/ se ci sei salvalo salvalo tu che mi ascolti/ […]/ fallo combattere ancora” (15). Ci sono poi le poesie scritte dopo la scomparsa di Zeichen, “ultimo degli irregolari del nostro tempo”[6], che attestano una dolorosa assenza nell’animo della poetessa come ben si evidenzia nella lunga lirica “Il lento congedo” dalla quale cito alcuni estratti significativi: “Così te ne sei andato d’un colpo/ quel terribile diciassette aprile/ l’ictus il trauma il dolore/ ma per un po’ sei tornato indietro/ sul letto di una camera ospedaliera/ […] nei lunghi ottanta giorni/ per fare ancora festa con gli amici/ […] come in un lauto gran banchetto/ […] per poco così sei tornato in vita/ […] cantavi perfino le canzoncine/ lento nel distacco lento” (55-56). La poetessa è evidentemente costernata e affranta dalla dolorosa assenza del poeta-amico al punto tale che cerca una qualsiasi forma di possibile comunicazione con lui, alla ricerca impellente di una relazione: “Potresti con Dio darti un po’ da fare/ e attivare un filo teso e diretto/ tra te e me tra i morti e i vivi/ inviami un segno fammi un fischio” (26).

“Riquadro 67 Gruppo 2 Terza fila n. 7” (35) è l’espressione in codice della localizzazione fisica sullo spazio terrestre, “nel nome del luogo dove stai ora” (35)…, sempre Roma, è vero, ma in una dimensione diversa, qui dove il “cielo [è] a pezzi e i cipressi [stanno] invano” (35). Sempre dedicata alla sua lapide al Verano è un’altra lirica: “ti intrattieni con i nuovi amici/ vicini di casa affini/ Ungaretti e Moravia lì anche loro/ […] ve ne andate/ giù fino all’imbrunire/ piacevolmente in tre a conversare” (85).

Il poeta, andandosene, ha lasciato sola l’amica confidente, la poetessa Gabriella Sica, chiusa in una sensazione d’assenza e di vera e propria malinconia dei tanti momenti vissuti, a “scrutare la geografia di nuvole estrose” (31) come lui spesso faceva, interrogando il tempo: “il poeta agguanta nuvole/ (non ragionammo di questo insieme?/ non era questo il nostro diletto?)” (32), un gioco che ha introiettato e fatto suo, più triste ora che non potrà che condurlo da solista. Se è vero che nel giardino del poeta il glicine è stato ucciso e il fico, solo e impoverito, s’è lasciato morire, c’è ancora un virgulto di speranza che testimonia la vita che mai si frena e che perversa, proprio come le nuvole indecifrabili che sfilano e che affascinavano Zeichen. La Sica, al termine di questo viaggio poetico che ha segnato profondamente la sua esperienza, annota infatti che “spuntano dal tronco le foglie/ più del solito tremolanti/ sta nascendo ancora qualche bel fiore” (87).

Lorenzo Spurio

Jesi, 14/03/2020

 

 

E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. 

 

[1] Gabriella Sica, originaria della Tuscia e romana d’adozione, scrive in versi e in prosa fin da quando negli anni Ottanta ha ideato e diretto “Prato pagano”, ha pubblicato le Poesie per le oche, con prefazione di Giovanni Raboni (Almanacco dello Specchio, Mondadori, 1983) e La famosa vita, nel 1986.  A più di dieci anni di distanza dal suo ultimo libro in versi, Le lacrime delle cose, a fine 2019 è uscito Tu io e Montale a cena per Interno Poesia. Ha ricevuto vari riconoscimenti tra cui, nel 2014, il Premio Internazionale del “Lerici Pea” per l’Opera poetica. Tra i libri in prosa Sia dato credito all’invisibile. Prose e saggi (2000), Emily e le Altre. Con 56 poesie di Emily Dickinson (2010) e Cara Europa che ci guardi. 1915-2015 (2015).  Nel sito ufficiale, www.gabriellasica.com, si possono trovare sue poesie, traduzioni in varie lingue, notizie sui video da lei realizzati per la Rai dedicati ai poeti del Novecento.

[2] Leone D’Ambrosio, “Valentino Zeichen: Sono un poeta mondano e so fare i dialoghi”, Patria Letteratura, 13/03/2015.

[3] Guido Zavanone, Foto ricordo, Manni, Lecce, 2019, p. 69.

[4] Camillo Langone, “Vorrei anch’io una poetessa come Gabriella Sica a commemorarmi”, Il Foglio, 26/10/2019.

[5] Antonio Gnoli, “Valentino Zeichen: sono un poeta grazie alla mia matrigna, essa era una musa crudele e involontaria”, La Repubblica, 16/02/2014.

[6] Giuseppe Rizzo, “La poesia di Valentino Zeichen ci regala un po’ di libertà”, L’Internazionale, 18/05/2016.

Codici d’accesso al sistema lirico contemporaneo: “Com’è la poesia” di P.V. Mengaldo – a cura di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini 

31i346KMvvL._SX297_BO1,204,203,200_.jpgNon definire “cos’è” la poesia, questione di natura filosofica probabilmente assai più complessa, ma illustrare “come” questa si struttura e configura in un codificato sistema di postulati e tecniche è lo scopo confesso che il filologo P.V. Mengaldo, come pochi sensibile agli esiti della lirica italiana novecentesca, si prefigge in un denso saggio che, anteponendo al discorso meramente teorico una ricchissima campionatura di riferimenti e citazioni, tenta di delinearne alcuni “aspetti nodali del funzionamento”.[1] E se di specifico, autonomo linguaggio si tratta (a percentuale variabile, ma sostanzialmente connaturata di oscurità) il discorso del critico non poteva che esordire dalle sue peculiarità fondanti, capaci di renderlo programmaticamente (ambiziosamente/suggestivamente) anomalo rispetto alla comunicazione in prosa. Che la lingua poetica costituisca uno scarto sistematico rispetto a quella comune gli appare discutibile e citando, in Lingua/lingue,[2] Coleridge ed Eliot[3] sottolinea la propensione di quest’ultima a farsi prosa nel “secolo breve”, comunque non ne accetta la coincidenza tout court con la linea analogica di Mallarmé e Valéry: questione aperta (quanti straordinari poeti della tendenza anti-novecentesca – colloquiale e discorsiva – non sarebbero ammessi, ma è pur vero che di “gloria nel non essere compresi” parlava già Baudelaire, Montale sosteneva che “nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire” e rime impervie/“petrose” risalgono a Dante), salvo poi ammettere che questo non vale proprio per la lirica italiana, connotata – per la sua nascita tardiva, frutto di una unificazione letteraria e non politica – dai toni arcaizzanti e alti di modelli quali Petrarca che le conferiscono accenti elitari decisamente alternativi all’espressività quotidiana. Che, d’altro canto, la Metrica – “anteriore com’è al verso stesso” (O. Brik) – ne costituisca la naturale partitura è assodato e dettagliatamente analizzato nel relativo capitolo in cui vengono messi in evidenza, fra l’altro, la centralità dell’endecasillabo e la sua funzionalità/interazione con la rima che – sdrucciola, ritmica o “al mezzo” (insigne succedaneo, insieme a quella interna e alle “imperfette” assonanza e consonanza, di quella perfetta esterna in Metastasio, Leopardi, Montale…sorprende l’omissione di Gozzano) – risponde ai bisogni di “monotonia, simmetria, sorpresa” (Baudelaire), del sonetto, dell’enjambement, della ritmica destrutturata e libera avviata dal Vocianesimo la quale, tuttavia (sottolineatura questa particolarmente interessante) ricorre non di rado a rime (o strofe con ugual numero di versi). In particolare Montale – il poeta più citato nelle diverse sezioni – conferma in questo senso lo stretto legame con la tradizione e se è vero che “comunque quando in un suo componimento le rime divengono parziali acquisiscono uno specifico valore di espressività e messa in rilievo concettuale”,[4] è altrettanto frequente il contrario: in uno schema rimico sequenziale montaliano può accadere che solo un termine “scarti”, assumendo proprio per questo valenza pregnante e simbolica sul piano tematico, come si verifica nella strofa finale di Meriggiare, tutta in rima perfetta –glia ad eccezione di quella irrelata di “travaglio”[5] o nella terza strofa a schema rimico incrociato (imperfetto) ABCBA dell’osso In limine, in cui il termine C che “scarta” è, non casualmente, “salva”, spia semantica della auspicata fuga di Lei attraverso “l’anello che non tiene” di una rete (forse) smagliatasi per un inatteso/miracoloso “sbaglio di natura”.

Il libro si svolge, quindi, toccando i nuclei stilistico-formali del discorso lirico, cui non possiamo che accennare: dalla Elaborazione di un testo (“bisogna guardarsi dal giudicare le stesure primitive/intermedie come semplici ponti di passaggio imperfetti verso la forma definitiva e migliore”)[6] che tanto deve agli “scartafacci” di G. Contini, particolarmente all’analisi delle varianti leopardiane sul lessema-topos del ricordo (il “sovvienti>rammenti>rimembri” che introduce felicemente un aspetto durativo e più intimo”)[7] o delle lezioni più familiari sostituite a quelle erudite (“soma>fascio” nel Canto notturno, “piagge>rive” nella Ginestra), alla Brevità/concisione, conseguite attraverso la reticenza, il non detto e il silenzio ma anche, aggiungiamo, con i puntini sospensivo-espressivi della “falsa reticenza” e l’incipit in congiunzione o domanda – giustamente vengono citati i sonetti foscoliani e il Gelsomino notturno – i quali determinano un avvio in medias res che colloca in un ideale spazio-tempo anteriore al testo l’esordio della riflessione dell’io lirico,[8] dalle Immagini (dirette o analogiche “impossibile che un testo poetico non le sprigioni, se si escludono testi brevissimi di carattere epigrammatico/aforistico”)[9] alle Traduzioni. Queste ultime, sovvertendo un diffuso luogo comune, assumono per l’autore piena autonomia estetica e possono risultare, in linea con i dettami dell’Estetica hegeliana per cui un’opera di poesia può essere tradotta in un’altra lingua senza che ne venga diminuito il valore, “belle e infedeli”, proprio per le specifiche peculiarità della traduzione italiana che mal tollera, a tutto vantaggio dell’originalità creativa, la linearità – rifiutando la ripetizione a favore della “variatio sinonimica” e, soprattutto, il verso/frase concluso con il ricorso sistematico alle forme dell’inversione e all’intoccabile, istituzionale inarcatura, – e sconta la cifra colta del suo stile che “non si fonda su modelli decisivi per quelli di altre nazioni come il dettato biblico e la poesia popolare.[10] Per arrivare, omettendo anche minimi riferimenti ad altri stimolanti capitoli, [11] all’Intertestualità: agisca “trasversalmente” senza intenzionalità (assoluta, in tal senso, la dittatura verbale/situazionale esercitata in Italia da Petrarca, certo attraverso la mediazione dei lirici del ‘500) o risulti, all’opposto, intenzionale, nelle forme della citazione – che garantisce assoluta fedeltà al citato – e dell’allusione – per cui non si comprende il testo in questione senza ricorrere alla fonte – si connette strettamente alla materia suggestiva e nodale dei Tòpoi. Puntuali e doverosi qui i rimandi alla comparazione foglie/caducità umana, diffusissima da Mimnerno sino a Leopardi, Verlaine, Ungaretti (manca, ci pare, il riferimento al “cader fragile” delle foglie pascoliane di Novembre) e al locus amoenus…o inamoenus, esemplificato già da Dante nel XIII dell’Inferno con la descrizione dell’allucinata, contorta selva dei suicidi scandita dal triplice anaforico “non” avversativo della seconda terzina. Due, in conclusione, i capitoli sui quali vogliamo soffermarci, probabilmente i più interessanti dell’intero contributo. “Posto che con Libri di poesia si intendono libri unitari, caratterizzati da coesione e coerenza interne, rapporti fra testi, ciclicità e presenza di segnali di inizio e fine”,[12] è lecito domandarsi, per Mengaldo, se tale organicità costituisca o meno un valore aggiunto: non necessariamente e, in ogni caso, si dovrebbero fare i conti con ”disomogeneità” illustri, prima fra tutte quella dei Canti leopardiani. Piuttosto risulta preziosa per il lettore la rassegna di sillogi fondamentali ispirate a tale parametro, dai Fiori del male, strutturati con un sola poesia introduttiva seguita da gruppi di testi dedicati a temi unitari e sezioni incentrate su nuclei concettuali ricorrenti,[13] alle Myricae, la cui solida unità risulta non solo contenutistica ma metrica (tutte le sezioni presentano liriche di egual metro tranne una), dalle Soledades di Machado, legate dal nesso della fuente, chiarità/frescura, agli insospettabili, rigorosi equilibri di Saba in Trieste e una donna (nella I sezione tutto si svolge non solo secondo il consueto assetto “d’epoca” passeggiata/scoperta della città ma anche rispettando un identico impianto formale tripartito),[14] per giungere al Pianissimo di Sbarbaro in cui “taci” e “talor(a)” fungono da ricorrente connettivo lessicale alle comuni tematiche dell’astenia/rassegnazione/sonnambulismo del soggetto poetante. Abbiamo avuto modo di dimostrare, con specifica attenzione all’Allegria ungarettiana, che i Titoli novecenteschi, sui quali H. Friederich ha scritto pagine illuminanti e definitive,[15] raramente sono in rapporto diretto e logico con lo svolgimento/contenuto del testo, ma divengono elementi originali ed autonomi, di fatto versi aggiunti iniziali.[16] Dopo aver esaminato quelli dotti (spesso di natura musicale come in Verlaine, Mallarmé, Guillén e nei Mottetti montaliani) e i didascalico/circostanziali, il critico sembra condividere tale ipotesi quando si sofferma sui titoli “sintatticamente e semanticamente sospesi, il cui enunciato si prosegue e compie con l’inizio del testo stesso”,[17]sostenendo poi, però, che raramente questi offrono informazioni sui relativi versi mentre ci pare che proprio tali titoli “aperti” divengano, spesso, indispensabili alla comprensione del nucleo concettuale chiave: così avviene in Soldati di Ungaretti (classificato fra le importanti eccezioni dei “didascalici”, è il titolo a chiarire come le caduche foglie autunnali siano i soldati, non genericamente l’uomo nella sua precarietà) e, clamorosamente, in Mattina: che la notissima, aforistica illuminazione d’immenso si verifichi in questo preciso, non casuale momento della giornata e assuma i toni laici e immanenti di un rigenerante inno al Sole – evitando così possibili derive interpretative metafisico-religiose – lo sappiamo esclusivamente grazie al titolo.

Com’è la poesia è un raffinato, aggiornato e indispensabile prontuario per accedere al suo codice, o tentare di farlo. Necessario più che mai oggi, in un presente drammaticamente complesso nel quale ci sembra vivissima, nonostante troppi si affrettino a negarlo…certamente non i giovani che ne avvertono, siamo convinti, un assoluto, sincero, malcelato bisogno.

 

Marco Camerini

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità

 

[1] P.V. MENGALDO, Com’è la poesia, Carocci, Roma 2018, p. 127.

[2] Si riportano in grassetto i capitoli del libro.

[3] “Alcune tra le parti più interessanti della poesia risulteranno scritte in una lingua corrispondente a quella della pros, quando si tratti di buona prosa” (Coleridge). “La poesia non può discostarsi troppo dalla lingua quotidiana” (Eliot). P.V. MENGALDO, op. cit., pp. 8-9.

[4] Ivi, p. 27.

[5] Cfr. in proposito M. CAMERINI, Elementi di retorica e stilistica, Graphisoft, Roma 2016, pp. 22-24.

[6] P.V. MENGALDO, Com’è la poesia, cit., p. 42.

[7] Ivi, p. 40

[8] Per la differenza fra reticenza e sospensione espressiva in Pascoli e l’incipit in medias res si rinvia a M. CAMERINI, Elementi di retorica, cit., p. 46, 54 ss. e 67 ss.

[9] P.V. MENGALDO, Com’è la poesia, cit., p. 49.

[10] Ivi, p. 89.

[11] Lirica e narrativa, Poesia e arti figurative, Poesia e musica fra tutti.

[12] P.V. MENGALDO, op. cit., p. 77.

[13] “La poesia di Baudelaire fa apparire il nuovo nel sempre uguale e il sempre uguale nel nuovo, secondo Benjamin”, Ivi, p. 77.

[14] “Strofa breve che annuncia il tema + strofa lunga che lo svolge + strofa che ne riassume, anche aforisticamente, il senso”, Ivi, p. 79.

[15] H. FRIEDERICH, Le strutture della lirica moderna, Garzanti, Milano 2002 [1971].

[16] Cfr., anche per le affermazioni seguenti, M. CAMERINI, “Il titolo come verso aggiunto nell’Allegria” in Elementi di retorica e stilistica, cit., pp. 79-80.

[17] P.V. MENGALDO, Com’è la poesia, cit., p.31

“Duecento anni di “Infinito””. Articolo di Marco Camerini

Articolo di Marco Camerini

infinito

Non è scopo di questo articolo, in occasione dei duecento anni dalla sua composizione (1819-2019), proporre un’analisi critica di un testo fra i più esaminati e discussi dalla critica post-romantica e maggiormente radicati (probabilmente Silvia perde il confronto) nell’immaginario collettivo sino a farne, discutibilmente, un veicolo mediatico e, apprezzabilmente, una delle sequenze più intense della pellicola che Martone, regista “leopardiano”, ha dedicato al poeta nel 2014. Tanto meno si intende approntare un “bilancio provvisorio” delle tendenze esegetiche successive alla fondamentale, ancorché limitativa, lettura desanctisiana[1] e sommariamente riconducibili all’interpretazione dell’Infinito come “momento di evasione sentimentale e fantastica culminante nel dolce naufragio, da intendersi come oblio del reale, distruzione voluta dei limiti che si impongono alla coscienza adulta, dolcezza dell’abbandono”[2] o, in antitesi, lucida operazione intellettuale di ordine altamente conoscitivo, condotta alla luce di una consapevole razionalità che si riflette nella “struttura rigorosamente geometrica del componimento”[3], prospettiva aperta nel II dopoguerra, in funzione anti-crociana, da Walter Binni le cui basilari acquisizioni verranno ribadite da S. Timpanaro e – con taluni correttivi – accolte e sviluppate dalla Paolini Giachery. Al contributo di quest’ultima rinviamo anche per l’esaustivo repertorio critico-bibliografico sugli ultimi studi dedicati al poeta recanatese, che non esclude riferimenti all’inaccettabile deriva metafisico-religiosa di certi sondaggi (avviata dal Figurelli) tendenti a cogliere nella lirica una sorta di mistico abbandono ad un “oltre” teologico, ben evidenziati e discussi da M.A. Rigoni, cui aggiungiamo gli eccessi di talune analisi semiotico-strutturaliste moltiplicatesi dopo l’ormai definitiva disamina dei deittici “questo” e “quello” da parte di un critico finissimo come Angelo Marchese. In fondo celebrare l’anniversario dell’Infinito significa, soprattutto, interrogarsi sulla sua modernità, magari sulle interferenze con gli esiti della lirica italiana contemporanea, su quanto riesca a comunicare non tanto al contesto scolastico e accademico ma alla sensibilità del lettore comune che, a dispetto di apocalittiche statistiche sociologiche, sembra coltivare una inconscia, tenace curiosità, se non propensione, per la parola poetica. Certamente molto. L’attuale produzione italiana in versi (senza far nomi) ci sembra in bilico fra prosastica, cruda, talora sciatta e gratuita referenzialità (attenzione esclusiva al vissuto quotidiano del soggetto poetante come attestazione di sincerità e fruibilità del discorso lirico) ed ermetica allusività che, all’esatto opposto, tende a trasfigurare il dato intimo in trame simboliche – (troppo) spesso oscure – che ambirebbero a conferirgli valenza universale depurandolo di ogni immediato, prosaico rispecchiamento. Nessuna delle due tendenze annovera maestri, la miracolosa sintesi l’ha raggiunta, per tutti e irripetibilmente, Montale, unico in grado di elevare le proprie cartelle esattoriali, il colpo di tosse della donna amata chiusa in un manichino di gesso, una coincidenza ferroviaria perduta ad emblemi del comune disordine quotidiano; desideriamo, invece, ricordare l’ultima, splendida raccolta di Elio Pecora, Rifrazioni, in cui la componente autobiografica si trasfigura nel respiro vivo della precaria, presente stagione di ognuno e, non a caso, evidenzia significativi punti di contatto tematico-lessicali – il topos del “silenzio” contrapposto al fragoroso esistere e quello del “vento”, assai frequente[4] – proprio con l’Infinito.

Nel sorvegliato impianto logico-riflessivo e calibrato alternarsi di sorprendente colloquialità e raffinata aulicità lessicale (culminante nell’immediato giustapporsi di sedendo e mirando), con le costanti arcature che impongono una misura melodica spezzata e, violando sistematicamente la struttura metrica dell’endecasillabo, traducono sul piano ritmico la dialettica finito/infinito, nel conclusivo, ossimorico naufragio (riecheggiato dall’ungarettiana Allegria di naufragi, da non leggersi, in ogni caso, come annullamento della propria identità pensante), l’idillio risulta “paradossalmente” intellegibile e capace di fondere, con naturalezza, testimonianza personale e allusione ad un sovrasenso cosmico (l’eterno, le morte stagioni), cifre caratteristiche delle due linee cui abbiamo accennato. Non solo, ci pare estremamente attuale nel dar voce alla (in)confessabile, latente esigenza di valicare i circoscritti confini di un’esistenza ristretta e sommamente impoetica,[5] “liquida”, eticamente alla deriva e drammaticamente incapace di fingere, con la forza dirompente e creativa dell’immaginazione, spazi più vasti e gratificanti che anima particolarmente i “favolosi” millennials (Leopardi amava la vita, questo lo intuì già De Sanctis e ad un giovane del XX sec. era indirizzato lo scritto incompiuto dell’ultimo periodo napoletano): quanti magari si sono incontrati, nell’ottobre 2018, in occasione del Sinodo dei Vescovi loro dedicato e quanti sono ancora alla ricerca di miti valoriali da sentire propri, seguire ed imitare.

Senza, evidentemente, cedere alle insidie di spericolati sondaggi testuali – alla fine, lo ribadiamo, sterili e autoreferenziali se non ricondotti al contesto della poetica complessiva dell’autore – concludiamo sottolineando come il fonema “a”, in grado di attribuire una sonorità ricca di echi interiori al singolo termine che ne dilata il potenziale espressivo, compare ben 34 volte in tutti i quindici versi del componimento ad eccezione del settimo, sorta di raccordo statico fra il dinamismo visivo/auditivo della prima parte e quello raziocinante della seconda (vv. 8-15). Tale vocale chiave, che si moltiplica significativamente nell’aforistica chiusa dei vv. 13-15, infonde al componimento un suggestivo tono di apertura ed ampiezza che divengono elementi tematici – non più solo stilistici – costitutivi del messaggio poetico: ansia, aspirazione, attesa, anelito all’assoluto. Una arricchente, provocatoria scommessa da accettare, oggi.

Marco Camerini

Alla memoria indelebile ed al magistero altissimo di Walter Binni,  che ha letto ed amato Leopardi per tutti noi. M.C.

 

 NOTE:

 [1] In questa prospettiva non compariranno i riferimenti relativi ai critici nominati, ad eccezione del ricco ed esaustivo saggio di NOEMI PAOLINI GIACHERY, “Il paradosso dell’Infinito”, in L’autore si nasconde nel particolare, Aracne, Roma 2015.

[2] N.P.GIACHERY, “Il paradosso dell’Infinito”, cit., p.25. Nel passo l’autrice riporta, non condividendola, la nota tesi del Sapegno.

[3] N.P.GIACHERY, op. cit., p.27.

[4] E. PECORA, Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018. Per il lessema “silenzio” cfr. pp.75, 80, 81 e 23 (in sorprendente unione con l’aggettivo, tutto leopardiano “smisurato”). Per “vento” cfr. pp.69, 82, 110, 111, 114, 123 e 141.

[5] Zibaldone, [171], 12-13 luglio 1820.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“Non chiederci la parola” Atti del convegno su Sbarbaro, Montale e Gozzano

In eBook “Non chiederci la parola… Gozzano, Sbarbaro, Montale”

Esce con Matisklo la raccolta di saggi sulla triade poetica

nonchiedercilaparola“Non chiederci la parola… Gozzano, Sbarbaro, Montale” è l’eBook, disponibile da oggi in tutte le librerie on-line, che raccoglie gli atti dell’omonimo convegno tenutosi a Cengio (SV) nel maggio 2015.

Dedicato alla maggior triade poetica ligure-piemontese del ‘900, l’opera fa da complemento alla precedente “Pavese, Fenoglio, Calvino. Il mestiere di vivere, il mestiere di scrivere” pubblicata nel 2014 e dedicata invece alla maggior triade narrativa.

Curato da Giannino Balbis, il libro raccoglie saggi e interventi di Arnaldo Di Benedetto (Università di Torino), Mariarosa Masoero (Università di Torino), Fabio Barricalla (Università di Genova), Marino Boaglio (Liceo “G.F. Porporato”, Pinerolo), Valter Boggione (Università di Torino), Giangiacomo Amoretti (Università di Genova) e Stefano Casarino (Liceo “G.B. Beccaria” di Mondovì).

Per approfondire: www.matiskloedizioni.com/nonchiedercilaparola

La poesia: forma espressiva sottovalutata ed esautorata – articolo di Ninnj Di Stefano Busà

La poesia: forma espressiva sottovalutata ed esautorata

di Ninnj Di Stefano Busà

Ebbene, ammettiamolo, la poesia non è per tutti, ma solo per coloro che la amano, è un agglomerato di cellule mnemoniche, che come da struttura sinaptica passano direttamente dal cervello alla pagina bianca, dopo aver congiunto e collegato le cellule deputate all’attività di coordinamento; un’attività pseudocerebrale e linguistica che assolve questo compito, al quale si può aggiungere la predisposizione, il sincretismo della parola, l’attenzione per l’arte del linguaggio, la fantasia, l’estro.

In poesia, <la parola> attende la nuova ipotesi disvelativa che le deriva dall’essere trascritta e trasmessa: l’input le giunge dal subconscio, l’appello della chiamata preposta a formularla origina dall’intelligenza del cuore, che le permette di collocarsi in una sua fisiognomica particolarmente gradita o la respinge, altre volte la rinnega, la contrasta, la svilisce, quante cose si compiono a suo danno! Quanta intolleranza, quanto lesionismo e ignoranza è costretta a subire la poesia!

Mi fa rabbia vederla trattare con quel fare pietoso e umiliante, che recita: a che serve?

Lo dichiarò Montale a chiare lettere, ma mi permetto di dissentire: la poesia è una delle innumerevoli doti umane che non dà fastidio, non scomoda nessuno, non s’impone a viva forza, non pretende nulla, non esige alcunché, si rifiuta di giungere a chi proprio la ignora, non la capisce, non la ama: se ne sta lì, quieta e silenziosa senza scomodare alcuno. Se c’è, si fa sentire, se è amata, riama con la stessa intensità, con grato e sincero altruismo.

Spesso ripaga proiettando il poeta in una territorio sconosciuto che è l’iperuranio della sua ricerca.

La poetessa Ninnj Di Stefano Busà durante un incontro poetico a Milano lo scorso Giugno 2015.

La poetessa Ninnj Di Stefano Busà durante un incontro poetico a Milano lo scorso Giugno 2015.

Lo ripaga delle tristi vicissitudini in cui tutti siamo costretti a vivere, sa donare con gioia quella pagina di armonie o di equivalenze che originano direttamente dal cuore, per riequilibrare contrarietà, sofferenze, dolori, solitudini.

Se la chiami ti accompagna, viceversa se ne sta latente, in un silenzio quasi assoluto.  

La poesia non ha accesso all’utile, non ha predisposizione al vantaggio materiale, non s’intromette nell’economia, né si propone alle moltiplicazioni avariate e contraddittorie di un mondo finanziario losco e invasivo, che guarda alla materialità con avido ingegno, con provocante e pervasivo utilitarismo.

La materia lirica non è viziata mai da diniego alla morale, neppure al più sottile e sofisticato meccanismo di risorse che concorrono alle vita greve dell’individuo.

È solo una forza legittima che vuole venir fuori a sedare gli animi, a placare semmai il loro bisogno spirituale, intellettuale, un richiamo all’autenticità metafisica del singolo uomo, mira all’armonia, alla completezza, all’idealità del mondo, perché l’umanità ha bisogno di capire, di sincronizzarsi col suo essere, con la sua entità interiore.

Ma proprio perché non ha nulla da spartire con l’interesse spicciolo, come si può facilmente supporre, (gli fa d’intralcio); è malvista in questo nostro momento storico così pervasivo, asfittico, sclerotico, fatto di un solo “input”creativo: la necessità di accumulare ricchezza…niente di più naturale che la vanagloria in un mondo così  – (s)poetizzato – così avido, lontano dall’interesse creativo e lirico.

Ma se ci soffermiamo qualche minuto a riflettere, come si può ben vedere, la poesia non ha mai fatto del male a nessuno, siamo noi che l’abbiamo esautorata, esclusa, sottovalutata, posta ai margini, perché priva di quella forza brutale, meschina, invasiva, deputata al benessere materiale: l’uomo di oggi propone se stesso, è ammalato di protagonismo che gli può dare solo la raggiunta ricchezza, il potere, il successo. La poesia non dà nulla di tutto ciò, nessuna delle tre ipotesi è raggiungibile con la poesia, perché essa è l’emanazione della nostra spiritualità, dell’ingegno; la particolarità unica ed esclusiva, generosa e mite della natura umana la richiede, per distinguerla a livello di superiorità dal genere animale.

Nel coacervo esponenziale della menzogna, dell’ipocrisia, della contraddizione, la Poesia assolve il compito di regolatrice ed esploratrice della psiche umana che ha necessità di formulare il suo bene, la sua condizione di ricognitrice, di viaggiatrice in un mondo disorientato e reso succube dal male, la poesia manifesta il suo vigore, rivela il pensiero di esistere al di là del mondo materico e viziato, estrinseca l’implicito significato dell’intelletto “pensante”, la passione, l’atto espressivo del sentimento, che eloquentemente vuole contrastare l’insignificante, l’animo, il banale; lo richiede con impeto e, talvolta vi riesce, di saper dire l’inesprimibile.

NINNJ DI STEFANO BUSA’

Giuseppina Vinci torna con un saggio letterario: “Riflessi letterari”

Nell’opera parlano Leopardi, Montale, Joyce, Woolf e tanti altri autori

 Comunicato stampa

coverTraccePerLaMeta Edizioni ha appena pubblicato “Riflessi letterari” di Giuseppina Vinci: un percorso tra le pieghe della letteratura italiana ed inglese. La scrittrice analizza secondo la propria esegesi dei testi che propone, opere centrali negli studi sulla letteratura, quali ad esempio alcune liriche di Leopardi , focalizzandosi su precisi  ambiti letterari: il simbolismo, l’ermetismo, il modernismo inglese. La scrittura piana e accessibile a tutti e l’esposizione del suo pensiero critico su ciascun opera/autore è breve, preciso e condensato, capace di fornire all’attento lettore nuovi spunti di analisi e ricerca.

Dalla prefazione del critico letterario Lorenzo Spurio si legge: «Giuseppina Vinci, docente di materie classiche al Liceo Classico Gorgia di Lentini, dà prova con questo libro di come la letteratura non solo debba essere letta, possibilmente ad alta voce e senza rumori intorno, ma di come essa debba essere interpretata, riletta, vissuta e ri-creata, perché è proprio dall’interazione che si crea tra autore e lettore che si ricavano i variopinti significati e le leggiadre possibilità di indagine dell’uomo nel mondo reale».

 

L’autrice

Giuseppina Vinci è nata a Lentini (SR), città nella quale vive e insegna presso il Liceo Classico “Gorgia”. Ha pubblicato due libri di poesie e racconti: Battito d’ali (Aletti Editore, 2010) e Chiara è la sera (Angelo Parisi Editore, 2012). Oltre alle poesie e ai racconti, ha pubblicato articoli su quotidiani nazionali e locali, tutti contenuti in Chiara è la sera e è presente  in Cento voci verso il cielo, Antologia poetica e in Antologia di poesie “Il Forte”.

 

                       

TITOLO: Riflessi letterari
AUTORE: Giuseppina Vinci
PREFAZIONE: Lorenzo Spurio
EDITORE: TraccePerLaMeta Edizioni
COLLANA: Sabbia – Critica letteraria
PAGINE: 68
ISBN: 978-88-907190-9-7
COSTO:  9 €

Link diretto alla vendita

 

Info:

info@tracceperlameta.orghttp://www.tracceperlameta.org

Ufficio Stampa: Lorenzo Spurio – lorenzo.spurio@alice.it

Introduzione alla poesia, di Emanuele Marcuccio

ARTICOLO DI EMANUELE MARCUCCIO

Il termine “poesia” è una parola che deriva dal verbo greco “ποιέω” (poiéo), che significa “faccio”, “costruisco”, quindi, il poeta è colui che fa, costruisce (con le parole).

Ma come è nata la poesia? Come nasce nell’uomo il bisogno di poesia e quindi di fare poesia?

A mio modesto parere, la poesia nasce per un bisogno intimo di celebrare, di cantare costruendo con le parole, infatti, il primo componimento poetico della letteratura italiana è il Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi (XIII sec. d. C.), in questa poesia, in questo cantico il poverello di Assisi celebra, loda Dio attraverso tutte le sue creature.

Ma, andiamo a monte, come nasce la poesia in genere, almeno la poesia occidentale?

Le prime testimonianze di poesia nella letteratura greca ci arrivano dai poemi omerici (Iliade e Odissea), risalenti a ca. un millennio prima della nascita di Cristo, dapprima tramandati oralmente attraverso gli aedi e i rapsodi, cioè i trovatori, i cantastorie del tempo e, in seguito, trascritti, anzi si pensa che, l’alfabeto greco sia stato inventato proprio per trascrivere i poemi omerici, di questo autore Omero che, è probabile non sia mai esistito ma, sia il risultato di una collezione di autori anonimi e proprio per questo è nata la cosiddetta “questione omerica” che è ancora ben lungi dall’essere risolta.

L’Iliade, con le sue migliaia di versi, vuole celebrare, in particolare, gli ultimi cinquantuno giorni della decennale guerra di Troia e i suoi signori, vuole anche cantare i sentimenti più profondi dei protagonisti.

Mentre, l’Odissea vuole celebrare il periglioso viaggio di ritorno di Odisseo (Ulisse), leggendario re dell’isola di Itaca, dopo la caduta di Troia, in particolare gli ultimi 38-40 giorni escludendo i racconti di flash-back. Nel suo significato profondo, penso voglia celebrare la lotta dell’uomo con se stesso per poter vincere i fantasmi della guerra che lo attanagliano e per poter finalmente ritornare a casa ritrovando la pace dopo un’ultima lotta.

A differenza dell’Iliade, nell’Odissea abbiamo una celebrazione, un canto più intimo, quello del cuore umano, che combatte con se stesso ed è continuamente messo alla prova sopportando tutto con pazienza e agendo con astuzia.

Quindi, l’intento della poesia è sempre quello di celebrare, costruendo un’architettura di parole nei più vari registri, dai più intimistici e introspettivi ai più altisonanti.

Cosicché, se la poesia fa parte del nostro essere, anche noi possiamo celebrare, in questo caso è più corretto dire “cantare”, i più intimi sentimenti, le nostre emozioni; possiamo celebrare anche cose astratte ma che nascondono in sé cose umanissime ricorrendo al concetto poetico del correlativo oggettivo, diffusissimo nella poesia moderna ed elaborato dal poeta statunitense e naturalizzato inglese T. S. Eliot (1888 – 1965) nel 1919, di modo ché, anche i concetti e i sentimenti più astratti vengono correlati in oggetti ben definiti e concreti. Eliot dichiarò che il correlativo oggettivo è “una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che saranno la formula di quella emozione particolare, in modo che, quando siano dati i fatti esterni, che devono condurre ad un’esperienza sensibile, venga immediatamente evocata l’emozione”.

Nella poesia italiana questo concetto troverà la sua più alta espressione nella poetica di Eugenio Montale (1896 – 1981), che utilizzò un correlativo oggettivo per intitolare una sua raccolta Ossi di seppia; infatti, tutti gli elementi della natura possono essere messi in correlazione a condizioni spirituali e morali.

Possiamo celebrare un personaggio storico, un letterato, un accadimento contemporaneo, un personaggio letterario o un suo episodio, in una parola “tutto”. Ogni poesia, però, dovrà scaturire dall’ispirazione, da quella scintilla creativa che ci fa prendere la penna in mano e ci fa scrivere quello che il cuore detta. Perché la poesia sia vera e sincera deve esserci questa scintilla iniziale, dopodiché possiamo scrivere di getto, in maniera spontanea o, fare un lavoro di lima ricercando la rima più adatta o la parola, o il suono e starci tutto il tempo che ci è necessario. In caso contrario, diventerebbe solo qualcosa di artificioso che non è espressione dei nostri sentimenti; come scrivo in un mio aforisma: “La poesia non è puro artificio, non è sterile costruzione ma piacere per gli occhi e per il cuore, qualcosa che ci meraviglia e ci colma d’interesse, che ci spinge a ricercar nuovi lidi, dove far approdare questo nostro inquieto nocchiero che è il nostro cuore”.

E in un altro: “Il poeta sogna, si emoziona, si meraviglia; in caso contrario, tutto sarebbe puro artificio, sterile e fredda creazione, come voler scrivere su di un foglio di vetro”.

Questo, nella sua essenza, è in definitiva la poesia: un canto dell’anima, un canto senza l’ausilio di strumenti musicali, la musica è data dalle parole (con o senza rima) che cercano di esprimere quello che l’anima detta, che è sempre un cercare di esprimere, come ci insegna Ungaretti in una famosa intervista televisiva del 1961, non potremmo mai arrivare all’espressione compiuta della propria anima.

EMANUELE MARCUCCIO

ARTICOLO PUBBLICATO PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTORE. E’ VIETATO PUBBLICARE STRALCI O L’INTERO ARTICOLO SENZA PERMESSO DELL’AUTORE.