N.E. 02/2024 – “La religiosità spirituale nelle opere delle poete lucane: da Isabella Morra ad Anna Santoliquido”, saggio di Francesca Amendola

L’opera di un poeta è fusione totale tra parole e immagine, che origina quello che Bachelard chiama retentissement, ossia  la capacità della poesia di creare una sorta di “vicinanza”  tra poeta e lettore, che mette in moto l’attività di comprensione e interpretazione. Petrarca scriveva che «la poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura» poiché nasce da una commistione tra ispirazione e sentimento del divino. Anche quando il poeta non tratta esplicitamente il tema religioso (qualsiasi sia la sua confessione) vi è sempre una fortissima tensione spirituale, non a caso «nel tempo della notte del mondo i poeti, cantando, insegnano il sacro» (Heidegger). Proprio Heidegger parlava della funzione della poesia come forma di conoscenza. Infatti nell’antica Grecia il poeta era l’hermeneutès, ossia l’intermediario tra gli uomini e l’Olimpo ed era l’interprete dei presagi degli Dei. La poesia perciò era parte integrante della religione e della vita spirituale.  Nasce dal “fondo profondo” (E. Montale) e nel silenzio interiore il poeta coglie il senso del mondo e lo porta in superficie attraverso la parola. Ma «i poeti non accendono che lampade essi poi spariscono» (Emily Dickinson) nel senso che il poeta non parla per sé ma per gli altri. Ne segue che l’attività poetica dà volto alle cose e rende libera la mente, aprendola alla conoscenza del mondo e alla verità dell’Essere Supremo, che è Dio, inizio e fine di ogni cosa creata.

La vita è amore e se «l’amore è movimento», secondo il pittore E. Tomiolo, verso gli altri, verso se stessi, verso la natura, verso Dio, è proprio l’amore negato che spinge la lucana Isabella Morra[1](vissuta nel Cinquecento) ad alzare un grido straziante contro l’universo per il padre lontano,[2] contro il «Torbido Siri»,[3] contro i «fieri assalti di crudel Fortuna».[4] Crollati tutti i miti: il desiderio di trovare un amore o una ragione per vivere nelle lande solitarie e ostili di Valsinni, trovò conforto in Cristo e nella Vergine. Non a caso Il Canzoniere di Isabella Morra, come quello di Petrarca, si conclude con la canzone alla Vergine. Isabella delusa e ormai libera dalla zavorra della vita, abbraccia il mistero di Cristo e in Lui proietta i suoi desideri identificandosi nella peccatrice Maddalena, redenta e pentita e con «la mente rivolta «a la Reina del Ciel, / con vera altissima umiltade»[5], l’anima si porge alla contemplazione di Dio. L’incontro con la dimensione religiosa, metafisica, le dà certezza che esiste un mondo alternativo a quello nel quale vive.  La sua poesia è parte integrante del suo breve percorso di vita, che la guida e la sostiene nella solitudine sia nel dialogo con la natura aspra e selvaggia, sia con l’unica amica: Antonia Caracciolo, moglie di Diego Sandoval De Castro, ritenuto a torto dai fratelli, suo amante.

Ben diversa è la poesia di Aurora Sanseverino[6] (vissuta nel Settecento), una delle poche donne, che fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Coritesia. Le sue poesie non vanno al di là di una pura esercitazione letteraria; in esse la spiritualità e la religiosità sono improntate dall’esteriorità. Non analizza l’angoscia e la ricerca della pace contro «gli aspri martiri»[7] non nasce dal senso vertiginoso di vuoto, che distende la sua poesia fino al grido, allo spasimo, al pianto. Non c’è vera sofferenza e il “male di vivere” è una finzione, espressa in moduli leggeri, musicali appena increspati di malinconia. Il sentimento è distaccato e astratto e si apre a un gioco di parole secondo i modelli dell’Arcadia. Le lande sconfinate dell’entroterra lucano, che fanno da sfondo ai suoi sonetti e canzoni, appaiono irreali e artificiosi; uno scenario perfetto per una narrazione idilliaca di un mondo fiabesco, e il concetto di solitudine è ben lontano da quello straziato di Isabella Morra.  Le poesie utilizzano un linguaggio semplice, musicale a tratti lezioso, in obbedienza al tòpos classico del «luogo ameno». Figlia del secolo e della cultura dei Lumi, Aurora non sente la tematica del trascendente e Dio è inteso semplicemente come un Essere Supremo, secondo il dettame del sensismo. Gran parte della sua produzione di liriche, ballate, melodrammi è andata perduta e i pochi sonetti conosciuti hanno portato la critica letteraria a dire che il suo lavoro è «non godibile e sostanzialmente artefatto».

L’isolamento e l’essere “figlia di una regione derelitta” qual era la Basilicata, dominio per secoli di “ignominioso servaggio”, porta la potentina Laura Battista[8] (Ottocento) a una consapevolezza dei problemi politici, sociali e storici della sua regione. Colta e raffinata al pari del Leopardi, del quale fu seguace, ebbe per opera del padre uno studio «matto e disperatissimo», che la portarono giovanissima a scrivere di greco, di latino, di tedesco e di francese. I Canti[9], ottanta componimenti in tutto, si muovono dalla sfera pubblica a quella privata. La passione politica spingeva la Battista a partecipare agli avvenimenti della nazione, dall’altro premeva il suo disagio esistenziale, soprattutto per la sua relegatio a Tricarico. La sua è una poesia d’occasione, legata agli avvenimenti, espressi spesso con un linguaggio religioso e enfatico, infatti usa per Garibaldi i termini «Redentore dei popoli», «Divino». I sonetti, ben costruiti tra retorica celebrativa e patriottica nell’esaltazione del momento, si spiegano come un brindisi e perciò risentono di una certa monotonia. Diventa la sua spiritualità autentica nelle liriche soggettive e private, che toccano i sentimenti di donna e di madre, che vive una condizione di solitudine in una casa senza amore e in un paese senza prospettive.

Poche son le donne che assurgono agli onori della gloria letteraria, come scrive in una lettera Laura Battista, ma «la donna o villipesa o trascurata presso le nazioni rozze di qualsivoglia età […]  non poteva[…] rimanere addietro, quasi non fosse anch’essa creatura di Dio».[10]

Poete e scrittrici da ogni parte del mondo e, dalla Basilicata, terra negletta e isolata, faranno sentire nel Novecento, la loro voce a cominciare dalla compianta Giuliana Brescia[11] definita la “Saffo lucana”. La sua poesia altalenante tra male di vivere, angoscia e senso ineluttabile della morte, abbraccia temi che la collocano molto vicina a Isabella Morra per il senso profondo d’inquietudine. In una poesia pubblicata postuma vi è tutta il dolore del male di vivere, che nasce da una sorta di prigionia psicologica, manifestatasi fin dall’adolescenza. Scriveva: «Passata la vita per me / finito il domani / le porte son chiuse / serrate / mi resta soltanto nel fianco / lo spasimo acuto di un male che è ancora / la vita». Una religiosità laica e mai confessionale contraddistingue le sue poesie, che nascono dai sogni che si scontrano con una realtà dura e problematica. Il linguaggio è semplice ma musicale e armonico fin dalle poesie giovanili. Si chiude nella sua “tela di vagheggiamenti” nei silenzi assordanti, nelle illusioni del vivere quotidiano, dove i «sogni si son persi / nel deserto desolato della realtà». Le liriche (Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti) delicate e ricche di forza interiore, diventano a tratti tenere proprio quando si chiude nell’intimismo, che riverbera su una natura umanizzata alla Pavese, al quale è accomunata dalla scelta del tragico destino. Nell’angoscia esistenziale àncora è la parola poetica, adulata, blandita, ricercata, che accende la speranza; ma essa è illusoria e non riempie quel vuoto straziante, che la porterà a porre fine alla sua breve vita.

Per  la poesia di Lorenza Colicigno[12]sono appropriate le parole di Montale «ogni volta che trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è dentro di me come un abisso», perché le sue  liriche nascono da un profondo silenzio interiore, dove trova il senso religioso del mondo. La poesia si dispiega come preghiera perché indaga nel fondo delle cose e porta a galla l’inesprimibile.  Ma il poeta è colui che più degli altri porta nell’anima la propria terra. Si parla di poeta come del cantore di una geografia umana. Egli erige modelli, mappature, carte del proprio luogo per affermarne l’appartenenza, creando una sorta di «paesologia» (Franco Arminio) che è una forma di etnologia del paesaggio, di cui il poeta ne dà espressione. Il bello è che la paesologia non studia un paese, l’annusa, l’ascolta proprio come fa Lorenza con la sua città, Potenza: ne rende l’energia della case arroccate sulle montagne; s’immerge nella vita della città, nelle scale mobili, che salgono quasi fino al cielo; canta la «debolezza / dei vecchi e la baldanza degli adolescenti» (in Ritorno); si chiude, solitaria spettatrice, dietro una finestra o un terrazzo a scrutare l’orizzonte, che si allarga sulla valle dove il «Basento insegue albe e tramonti / e ascolta il brusio della città che lo stringe / nell’abbraccio schiumoso della sua / modernità di ciottoli e lattine»[13] e scorre sonnolento e acquitrinoso. Contempla la città da un cantuccio solitario, dove l’«aria natia», per dirla con Saba, o la «matria»[14] è pregna di gioia e dolore insieme.

Anche per Amalia Marmo[15] il compito della poesia è scavare nel profondo dell’anima ed enunciare attraverso la parola la verità. «Vedere il mondo in un granello di sabbia» per dirla con William Blake, è questo il senso dell’estro creativo. La ricerca del ‘meraviglioso’, tanto caro a Novalis»[16] che porta a Dio, così presente nell’universo, è la missione del poeta. Le sue liriche nascono dal «sapore della terra» e dal «la salsedine del mare»[17]. La parola poetica c’immette nel ‘mistero’, che è simile all’”Inconoscibile” di Spencer: una realtà assoluta che la ratio umana non può raggiungere. Il genio creativo ci fa immergere nelle acque del subconscio e riemergere “illuminati” di una verità da divulgare. La poesia per la Marmo «altro non è / che ignara ispirazione. / Un eterno aiutante / un profeta o un indovino / senza mete o ragione».[18]  La poeta sarà sempre «sentinella costante» della «memoria lirica»[19]. Filtra la ragione con il cuore, intessendo una poesia che è «distillato di vita, quasi peccato / d’intelletto tolto al tempo / per stupire se stesso e l’universo /e chiuderlo in un pugno di mistero»[20]. Il mistero non è quello religioso ma qualcosa che supera l’umano intendimento. Crede in Dio e nell’immortalità dell’anima. Ha certezza in una vita futura. Il mondo, la natura, gli accadimenti sono aspetti diversi dell’universale mistero.

L’acuta sensibilità e lo scavo interiore di Rosalba Griesi[21] danno origine a quell’inquietudine esistenziale, ordita su interrogativi ontologici, che si mescolano ai sogni quasi invisibili, alle luci lievi della speranza. L’atmosfera spirituale si riverbera sullo spettacolo della natura, sui suoi colori cangianti: dagli «spruzzi di giallo»[22] delle mimose al «bianco immacolato» delle zagare; dall’arancione delle margherite al verde dei campi, simili al mare. Il dettato lirico fluisce a volte delicato e sinuoso, altre prorompente e impetuoso nello scandagliare gli oscuri anfratti o gli abissi o i campi brulli per comprendere la sofferenza e riemergere rinnovato e dispiegare «parole taciuta / parole serrate / parole nel cuore posate / […] parole donate»[23]. Rosalba si eleva dal paesaggio naturale della terra a una riflessione escatologica, che richiama il senso della vita e la tensione dell’uomo verso l’Assoluto, che è Dio-Provvidenza di manzoniana memoria. La sua religiosità è priva di fronzoli e si distende in note scarne, quasi epigrammatiche.

Le liriche di Rosa Pugliese[24] s’inseriscono nella poesia civile, poiché sono denunzia, accusa contro l’umanità “liquida” e l’io lirico sembra arrestarsi fiaccato dagli avvenimenti della storia, dal tempo, che vorrebbe fermare nelle scatole di latta, dove trovare «una carezza materna»[25]. Le poesie nascono dall’incanto e il superamento e il dominio del dolore lo trova nella contemplazione di armonie cosmiche e naturali. La letizia travalica il vortice dell’angoscia nella magia dell’infanzia o dei luoghi amicali; nel gioco della vita; nello scorrere del tempo in stagioni e in ore, e nella Bellezza, che ancora una volta salverà il mondo. Scriveva Pablo Neruda «La poesia è un atto di pace / Di pace è fatto il poeta come di farina il pane» e la poesia per Rosa Pugliese è un atto di pace, poiché prende tutto il dolore del mondo e lo placa proprio come il fiume che s’infratta tra dirupi e forre per sfociare lento e placido nel mare. La Nostra trae dalla sofferenza l’energia creativa e la elabora superando lo stretto orizzonte provinciale per cantare il dolore della gente costretta a emigrare nei barconi. La poesia è voce dell’anima e noi diventiamo «tratturi di campagna / solcati dalla terra che li ha generati», o fiori di malva, germinati nella terra, crepata dal gelo.

Il testamento letterario e umano di Anna Santoliquido[26] è tutto racchiuso nelle sue numerose raccolte: da I figli della terra del 1981, nella quale la poesia nasce dalle vallate di ginestre e malvarose, dai campi biondi di grano e rossi di papaveri della sua Forenza, fino a Profetesha / La Profetessa, pubblicata in Albania nel 2017, dove sperimenta la dolcezza e la generosità della gente, che le riportano alla memoria i luoghi e le donne della sua infanzia. I versi limpidissimi e rigorosi aprono al lettore una nuova percezione dell’uomo, che sente l’altro non più nemico ma fratello. È questo il grande dono della poesia. «Che cosa può dare / agli altri un poeta?» si chiede la Santoliquido. Egli dona il cuore per amare, gli occhi per vedere, gli sguardi sereni, un pugno di pace.  Ed è la speranza che non l’abbandona, impegnata in una continua analisi e ricerca interiore. Sa che oltre le esperienze e le prove della vita, in fondo c’è sempre un raggio di luce, che illumina e dà forza.  Ricompone il conflitto che è alla base dello smarrimento spirituale della nostra società, alla quale manca quel “sapere dell’anima”, che oltrepassa e fonde umano e soprannaturale, sapere scientifico e visione poetica. È sorretta nel cammino elegiaco dalla fede, è questo il varco (Montale), che cancella la distanza dalla trascendenza e immanentizza l’ebbrezza ontologica e, come Sant’Agostino, supera la lacerazione tra materia e spirito. Il poeta attinge all’Assoluto e «offre parole / parole incarnate». È simile al Demiurgo platonico, creatore della realtà, che ci porta fuori dal “caos primordiale”. Diventa divulgatore di pace nel mondo e nell’anima, ma è anche colui che «muore da solo». È la forza eternatrice della poesia, di foscoliana memoria, che lo ferma «al limitar di Dite», ad afferrare la luce e liberare il canto. Il suo lavoro è simile a quello della Sibilla, il mito di cui ci parla Virgilio nell’Eneide. La profeta ispirata da Apollo, trascrive le profezie del Dio sulle foglie, che il vento disperde. Il rito rivela la missione di intermediario del vates, spesso inascoltato, tra il mondo della verità e quello degli uomini. Egli è il porto sepolto, come diceva Ungaretti, e nel profondo scopre l’inesauribile segreto, i misteri inenarrabili che il soffio del vento disperde anche se le parole sono portate dall’angelo. Anna è poeta sempre, sotto il cielo di Puglia e della Lucania, ma anche «a Belgrado e a Zagabria». I versi scaturiscono dalla sua capacità di andare dal vicino al lontano, dal microcosmo al macrocosmo. L’ispirazione nasce perché, «è l’angelo a portarmi le parole / le lascia nei vasi rotti / il vento le disperde […]»[27] e lei come una sacerdotessa vaticinante le raccoglie in «una forma di preghiera» (Kafka). Ci introduce in un mondo d’incanti quando scrive «Com’erano / piene / le mani / nodose / di mio nonno / quando / con voce roca / ma gentile / mi donava /un pugno / di noci / o di castagne»[28] o quando tratteggia in un distico toccante il ritratto della madre «Se solo potessi catturare / il sorriso delle sue rughe!»[29]. La poesia della Nostra colpisce per la forte empatia con il lettore, poiché è sempre aperta alla speranza, all’adesione con il mondo in cui vive, a nutrire attese per il futuro sulla rievocazione delle bellezze di un passato vissuto e assaporato. Il ruolo del poeta nella società è di pace perché come lei stessa scrive «è colui che porta in tasca l’universo». Egli parla una lingua nuova, toccante, rivelatrice: quella dell’anima. Per la Santoliquido valgono le parole del poeta dell’invisibile, Rilke, «Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile»[30].


[1] Isabella di Morra, conosciuta come Isabella Morra, nata a Favale nel 1520. Visse in solitudine sotto la prepotenza dei fratelli e segregata nel proprio castello, dove scrisse l’opera letteraria, Il Canzoniere, formato da dieci sonetti e tre canzoni. La sua breve vita si concluse con il suo assassinio, nell’inverno del 1545 o 1546, da parte dei suoi fratelli a causa di una presunta relazione clandestina con il barone Diego Sandoval de Castro, poeta di origine spagnola e barone della vicina Nova Siri, anch’egli qualche mese dopo subì la stessa fine. Quasi sconosciuta in vita, Isabella di Morra acquistò una certa fama dopo la morte, grazie agli studi di Benedetto Croce, e divenne nota sia per la sua tragica biografia sia per la sua poetica, tanto da essere considerata una delle voci più autentiche della poesia italiana del XVI secolo, nonché una pioniera del Romanticismo. Non si conoscono notizie inerenti alla sua vita precedente e alla biografia della famiglia Morra, dal titolo Familiae nobilissimae de Morra historia, pubblicata nel 1629 da Marcantonio, figlio del fratello minore Camillo.

[2] Giovan Michele di Morra riparò a Parigi, accusato di una congiura contro la corona, affidando la moglie, Luisa Brancaccio, e i cinque figli, Decio, Cesare, Fabio, Porzia e Isabella, a Marcantonio il fratello maggiore, uomo violento e rissoso.

[3]  I. Morra, Torbido Siri, in Isabella di Adele Cambria, edizione Osanna, Venosa 1996, pp. 65/64.

[4]  Ivi, I fieri assalti, pp. 45/46.

[5]  Ivi, XIII Quel che gli giorni a dietro, pp. 87/92.

[6] Aurora Sanseverino nacque a Saponaria nel principato di Citra (l’odierna Grumento Nuova, in Basilicata) nel 1669 e morì a Napoli nel 1726, da Carlo Maria principe di Bisignano e conte di Saponaria e Chiaromonte e Maria Fardella contessa di Paco.  All’età di 11 anni, sposò il conte Girolamo Acquaviva di Conversano, ma il matrimonio durò solo pochi anni per la morte prematura del marito. Ritornò a Saponaria per un breve periodo e compì diversi viaggi con il padre, a Palermo e Napoli. Un secondo matrimonio avvenne il 28 aprile 1686 con Nicola Gaetani dell’Aquila d’Aragona, conte di Alife, duca di Laurenzana e principe di Piedimonte. Dopo il matrimonio, si trasferì nella dimora del marito a Napoli, città all’epoca caratterizzata da un’intensa vita culturale. Nella sua casa napoletana ospitò vari poeti, musicisti e pittori, dando così vita a un noto salotto letterario. Oltre alla letteratura, fu un’abile cacciatrice, partecipando a battute di caccia al cinghiale sui monti del Matese. Fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Corinesia.

[7] Aurora Sanseverino, Ben son lungi da te, vago mio nume, in Scrittori lucani, Consiglio Regionale della Basilicata.

[8] Laura Battista nacque a Potenza nel 1845, figlia di Raffaele Battista di Agrigento e di Caterina Atella da Matera. Il padre fu un insegnante di lettere e segretario perpetuo della Società Economica di Basilicata e consigliere provinciale di Matera. Raffaele insegnò Latino e Greco presso il Real Collegio di Basilicata a Potenza, dal quale fu espulso a causa del suo orientamento Liberale, poiché l’istituto fu affidato alla direzione dei Gesuiti. Egli poté riprendere a insegnare solo dopo l’Unità d’Italia e, quindi, dopo la scomparsa del regime borbonico. Nel 1871, in seguito la famiglia si trasferisce a Matera, per le persecuzioni di cui fu oggetto il padre per le sue posizioni politiche, divenne consigliere provinciale della Basilicata. Autore di studi e inchieste sullo stato dell’economia agraria della provincia, era un fine latinista e autore di traduzioni e fu il primo e, per molto tempo, l’unico maestro di Laura. Ella insegnò per breve tempo nel convitto femminile di Potenza. Ben presto abbandonò l’insegnamento sia per la salute cagionevole sia per aver sposato il conte Luigi Lizzadri di Tricarico, dove si trasferì.

[9]  G. Caserta, Laura Battista, Canti, per i  tipi di Conti, Matera 1879.

[10]  G. Caserta, cit. L. Battista, Potenza 22 marzo 1875 Direzione Della Scuola Normale Femminile di Basilicata, p. 153.

[11]  Giuliana Brescia nacque a Rionero in Vulture nel 1945 e morì suicida a Bari dove viveva con il marito e la figlia, nel 1973. Nel 1962 le fu assegnato a Napoli il premio La maschera d’oro. Le sillogi sono state pubblicate postume: Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti.

[12]  Lorenza Colicigno nasce a Pesaro nel 1943 e vive a Potenza. Insegnante di Lingua e Letteratura Italiana, ha lavorato in radio e televisione a Roma e Potenza. Ha pubblicato: Questio de silentio (1992) Canzone lunga e difficile (2004), Matrie (2017), Cotidie (2021). I suoi scritti si trovano in antologie e pubblicazioni.

[13]  Lorenza Colicigno, Potenza e velo, in Cotidie, Manni Editore, Bari, 2021, p. 5.

[14]  Il termine è tratto dal latino mater matris, terra madre, termine utilizzato per la prima raccolta.

[15]  Amalia Marmo nata a Miglionico (MT) nel 1948, vive a Marconia di Pisticci (MT). Laureata a Napoli in Lettere classiche. Ha avuto molti riconoscimenti letterari. Ha pubblicato raccolte di poesie e romanzi.

[16]  Novalis affermava «La nostra vita non è ancora un sogno, ma sempre più deve diventar tale».

[17]  Amalia Marmo, Indenne paradiso perduto,  in Il vento leggerà Gradita Sinfonia, Edizioni Setac, Pisticci, 2015, p. 30,

[18]  Ivi, Visione furtiva, p. 27.

[19]  Ivi, Sentinella, p. 25.

[20]  Ivi, un pugno di mistero, p. 34,

[21]  Rosalba Griesi nasce a Palazzo San Gervasio, dove vive e lavora, nel 1958. Ha pubblicato: Il viaggio (2004), Nel mare del tempo (2011), Natale e dintorni (2014), Nicol ali di farfalla (2015), I racconti di nonna Peppa (2017). Le sue liriche e racconti sono stati inseriti in diverse antologie.

[22]  Rosalba Griesi, Mimose, in Nicol ali di farfalla, LuogInteriori, Città di Castello (PG), 2015, p. 39.

[23]  Ivi, p. Le mie parole, p.79.

[24]  Rosa Pugliese nasce a Zurigo nel 1965 e vive a Venosa (PZ). Si laurea in Lingue Straniere. Ha pubblicato due raccolte di poesie: La strategia della formica (2019) e La tana del riccio (2022). I suoi lavori sono pubblicati in varie antologie.

[25] Rosa Pugliese, Colleziono scatole di latta, in La strategia della formica, scatole parlanti edizioni, Reggio Calabria, 2019, p. 21.

[26]  Anna Santoliquido, nata nel 1948 a Forenza (Potenza), vive a Bari. Ha pubblicato le raccolte di poesia: I figli della terra (1981 – Premio Città di Napoli), Decodificazione (1986), Ofiura (1987), Trasfigurazione (1992), Nei veli di settembre (1996), Rea confessa (1996), Il feudo (1998), Confessioni di fine Millennio (2000), Bucarest (2001), Ed è per questo che erro (2007), Città fucilata (2010), Med vrsticami/Tra le righe (2011), Quattro passi per l’Europa (2011), Casa de piatrǎ/La casa di pietra (2014), Nei cristalli del tempo – poesie per Genzano (2015), Versi a Teocrito (2015), I have gone too far (2016). Ha pubblicato anche un volume di racconti e ha curato diverse antologie, tra le quali Zgodbe z juga – Antologija južnoitalijanske kratke proze (2005). È autrice dell’opera teatrale “Il Battista”, rappresentata nel 1999. Ha fondato e presiede il Movimento Internazionale “Donne e Poesia

[27] Anna Santoliquido, Incontri, in  Ed è per questo che erro, Smederevo, 2007, p. 9.

[28]  Anna Santoliquido, Mani nodose, in Figli della terra, Fratelli Laterza editore, Bari, 1981, p. 27.

[29]  Ivi, Mia madre,p.38.

[30] R. M. Rilke, dalla lettera al suo traduttore polacco Vitold von Hulevicz del 13 novembre 1925


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – Due aforismi di Emanuele Marcuccio

La poesia deve avere sempre un senso universale e utilizzare volgarità, turpiloquio e simili “amenità” in una poesia, prima di tutto è illogico perché è quanto di più particolare e ordinario possa esserci, poi è di cattivo gusto e denota poca creatività per esprimere rabbia e quant’altro. Diverso è il caso della prosa, dove l’utilizzo di parole volgari può essere giustificabile per una maggiore caratterizzazione dei personaggi.

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Il dono della poesia è inestimabile, è dono di Dio per consolare il poeta del dolore del proprio sentire.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “L’antica tradizione e l’origine del Presepe”, articolo di Giovanni Teresi

Le prime testimonianze storiche del presepe risalgono al III-IV secolo, quando i cristiani raffiguravano nei loro luoghi di ritrovo, come ad esempio le catacombe romane, le immagini di Maria con il piccolo Gesù in grembo. Quando il Cristianesimo uscì dalla clandestinità, le immagini della natività cominciarono ad arricchire le pareti delle prime chiese; mentre nel 1200 si iniziarono a vedere le prime statue.

Dal Quattrocento e per tutto il Medioevo, esempi di presepe possono essere considerate le numerose raffigurazioni sulla natività di Cristo, eseguite da pittori come Botticelli, Giotto, Piero della Francesca e il Correggio, molte delle quali esposte nelle chiese per mostrare alla popolazione le scene della vita di Gesù.

Il primo presepe nel senso moderno del termine, però, si fa comunemente risalire a quello inscenato da San Francesco d’Assisi durante il giorno di Natale del 1223, nel piccolo paese di Greccio (vicino Rieti). Nel 1220 San Francesco aveva compiuto un pellegrinaggio in Terra Santa (Palestina) per visitare i luoghi della nascita di Gesù Cristo, ed era rimasto talmente colpito da Betlemme che, tornato in Italia, chiese a Papa Onorio III di poter uscire dal convento di Greccio per inscenare la rappresentazione della natività.

Il primo presepe della storia venne allestito nei pressi del bosco vicino al paese, in una grotta. Francesco portò in una grotta la mangiatoia con la paglia e vi condusse il bue e l’asino (non c’erano la Vergine Maria, Giuseppe e il bambinello). La popolazione accorse numerosa e così il santo poté narrare a tutti i presenti, che non sapevano leggere, la storia della nascita di Gesù.

“Il presepe di Greggio”, particolare dell’affresco di Giotto all’interno della Basilica Superiore di Assisi (PG)

La particolarità di questo presepe, oltre a quella di essere stato il primo nella storia, risiede nel fatto di essere stato anche il primo presepe vivente del mondo, sebbene non ancora rappresentato nella forma completa. Furono la grandezza di San Francesco e l’interesse per le sue gesta a costituire lo sponsor ideale per la diffusione del presepe. Seguendo il suo esempio, le prime rappresentazioni della natività con tanto di scenografia e statuine scolpite fecero la loro comparsa nelle chiese, al fianco dei dipinti che trattavano lo stesso argomento. Partendo da Greccio, il presepe divenne così una tradizione popolare che si allargò in maniera capillare in tutta l’Italia centrale e in Emilia. Nel corso del XV secolo il presepe raggiunse la città di Napoli e nelle decadi successive, soprattutto in seguito all’invito che Papa Paolo III rivolse ai fedeli attraverso il Concilio di Trento (1545-1563), conquistò un posto anche nelle case nobiliari, sotto forma di soprammobile o nelle vesti di cappella in miniatura.

Il primo presepe con tutti i personaggi risale al 1283, per opera di Arnolfo di Cambio, scultore di otto statuine lignee che rappresentavano la natività e i Magi. Questo presepio è conservato nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Inizialmente, come detto, la raffigurazione sulla natività di Gesù si svolse in Toscana e subito si diffuse nel Regno di Napoli, dove ancora si detiene il primato italiano in termini di tradizione, curiosità e innovazione.

L’arte presepiale si diffuse nelle case delle famiglie più insigni delle città di Napoli eraggiunse livelli espressivi originali e ricercatissimi, divenendo motivo di vanto per le famiglie che facevano a gara per avere il presepe più sfarzoso. A questo scopo, i nobili non badavano a spese e commissionavano ai loro scultori di fiducia lavori imponenti, realizzati con materiali sempre più preziosi, e ai presepi dedicavano intere stanze delle loro residenze per farne sfoggio durante i ricevimenti e le feste private.

 Il presepe, nato come strumento di comunicazione con la popolazione, entrò nelle case popolari solo dopo aver trovato posto nelle chiese e nelle residenze nobiliari. Nel corso del XVIII e del XIX secolo, infatti, la tradizione del presepe guadagnò nelle abitazioni delle persone comuni il posto centrale che ancora oggi occupa nelle festività natalizie.

Tra il ‘600 e il ‘700 gli artisti napoletani decisero di introdurre nella scena della Natività personaggi immortalati nella vita di tutti i giorni, soprattutto durante il loro lavoro. Questa tradizione è ancora molto viva, come dimostrano le popolari bancarelle piene di personaggi lungo la via San Gregorio Armeno. Sempre agli artisti napoletani si deve l’aver dotato i personaggi di arti in fil di ferro e l’averli abbigliati di abiti delle più preziose stoffe e soprattutto di aver realizzato le statuette di vip, politici e personalità note.

Nella simbologia del presepe il bue e l’asinello sono i simboli del popolo ebreo e dei pagani. 

I Magi sono considerati come la rappresentazione delle tre età dell’uomo: gioventù, maturità e vecchiaia. Oppure come le tre razze in cui, secondo il racconto biblico, si divide l’umanità: la semita, la giapetica, e la camita. I doni dei re Magi hanno il duplice riferimento alla natura umana di Gesù e alla sua regalità: la mirra per il suo essere uomo, l’incenso per la sua divinità, l’oro perché dono riservato ai re. I pastori rappresentano l’umanità da redimere e l’atteggiamento adorante di Maria e Giuseppe serve a sottolineare la regalità del nascituro.

Tra i libri del Nuovo Testamento, gli unici a descrivere la nascita di Gesù sono il Vangelo secondo Matteo e il Vangelo secondo Luca. Nel racconto dei Vangeli non vengono menzionati gli animali: questo particolare fu inserito successivamente dalla tradizione popolare. Si pensò, infatti, che per riparare il Bambino dal freddo, i genitori lo avessero coperto dalla paglia e che fosse stato messo vicino i musi degli animali presenti dentro la stalla.

Ma, nella etimologia della parola che significato ha Presepe? Con la parola presepe ci si riferisce ad una rappresentazione (realizzata con diversi materiali) della nascita di Gesù che si fa nelle chiese e nelle case, nelle festività natalizie e dell’Epifania, riproducendo scenicamente, con figure formate di materiali vari e in un ambiente ricostruito più o meno realisticamente (talora anche anacronistico), le scene della Natività e dell’Adorazione dei Magi. In senso più generico, presepe significa “ogni rappresentazione iconografica della nascita di Cristo”.

Il termine deriva dal latino praesaepe, che significa mangiatoia, greppia, ma anche recinto chiuso dove venivano tenuti al sicuro e sotto controllo animali come capre e pecore. Secondo l’ipotesi più diffusa, le parti che compongono la parola latina ossia prae (davanti) e saepe (recinto) indicherebbero letteralmente “luogo che ha davanti un recinto”. Secondo altri, invece, il termine presepe deriverebbe direttamente dal verbo praesapire (recingere). Se ai giorni nostri esistono due versioni della stessa parola, presepe o presepio, lo dobbiamo proprio alla lingua latina, nella quale troviamo, nel corso degli anni: praesaepe, -is (sostantivo neutro della terza declinazione) usato da Virgilio; praesaepes, -is (sostantivo femminile della terza declinazione) usato da Plauto; praesaepium, -ii (neutro della seconda presepe) utilizzato da Plinio nel I sec. d. C. e ricostruito sul plurale praesaepia

È stato grazie alla sua presenza all’interno delle prime versioni della Bibbia, inclusa quella successiva adottata dalla Chiesa, che l’ultima forma “praesaepium, -ii”  è sopravvissuta alle altre. Nei secoli a seguire ritroviamo, nelle testimonianze di letteratura italiana, i termini presepe e presepio, utilizzati con significato diverso da alcuni autori: “presepio” viene usato in senso sacro, per riferirsi alla natività del Cristo, mentre “presepe”, usato in senso laico, indica esattamente la mangiatoia. Questa distinzione, già non troppo marcata, si è poi affievolita nel corso degli anni, tant’è che già nell’800 Alessandro Manzoni, uno dei padri della lingua italiana, fa uso di entrambi i termini all’interno dello stesso componimento:

La mira Madre in poveri
panni il Figliol compose,
e nell’umil presepio
soavemente il pose;
e l’adorò: beata!
innanzi al Dio prostrata,
che il puro sen le aprì.
Senza indugiar, cercarono
l’albergo poveretto
que’ fortunati, e videro,
siccome a lor fu detto,
videro in panni avvolto,
in un presepe accolto,
vagire il Re del Ciel.

(“Il Natale”, vv. 64-70 e 92-98)

Tale duplice forma, sopravvissuta sino ai giorni nostri, si ricongiunge però nel plurale, che per entrambi i termini è “presepi”.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“Un urlo incompreso: la poesia di Claudia Ruggeri”, saggio di Stefano Bardi sulla poetessa salentina

A cura di Stefano Bardi  

Un dolore, quello spirituale, che ti uccide dentro, ti fa sentire vacuo, ti allontana dagli altri, ti mostra la Fede come una cura psico-carnale e ti fa intravedere il suicidio come possibile commiato dalle universali dolcezze. Dolore, questo, che, fu patito dalla poetessa Claudia Ruggeri nata a Napoli il 30 agosto 1967 e morta suicida, lanciandosi dal balcone della sua casa di Lecce, il 27 ottobre 1996.

Il 1996, oltre all’anno del suo decesso, è quello della pubblicazione della raccolta Inferno minore, che sarà poi ristampata nel 2006 con l’aggiunta dell’opera incompleta ed erroneamente chiamata Pagine del travaso, per poi essere ristampata recentemente, nel 2018, nell’opera Poesie. inferno minore. )e pagine del travaso, della giovane ricercatrice Annalucia Cudazzo. Quest´ultima si configura come un´opera critica che, attraverso il titolo in minuscolo, rispetta le ultime volontà della poetessa leccese.

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La poetessa salentina Claudia Ruggeri

inferno minore è divisa in tre sezioni: il Matto (prosette), interludio e inferno minore. Nella prima sezione viene liricizzato il tema della vacuità, intesa come un’assenza spirituale compresa e ossequiata dall’Uomo che, pur di non adirarla, la osanna con immagini nauseabonde e decorazioni kitsch. Ciò significò per Claudia Ruggeri il bianco esistenziale da riempire. Tema quello della prima sezione che è rappresentato dalla figura del Folle, che, con la sua psichedelica grammatica, riesce a esprimere i principali crucci degli Uomini, ovvero il male di vivere montaliano e le esistenziali vacuità. Grammatica, ma anche Vita, concepita dalla poetessa leccese come un foglio di carta bianco da riempire con parole in grado di portarci in universi luminosi, di contemplare la nostra carnalità, di farci amare le nostre resurrezioni, ma soprattutto in grado di farci convivere insieme alle nostre sconfitte psico-esistenziali[1]. Un Folle, infine, come metafora dello scrittore che, al pari del matto, usa la sua “lucida follia”, per creare gioie nelle tenebre più profonde e diffonderle nei cuori altrui.[2]

Nella seconda sezione, come mostra la Cudazzo, ci imbattiamo in due componimenti che omaggiano l´opera dannunziana La figlia di Iorio fino a diventarne in parte, una nuova reinterpretazione. A mio vedere tutto ciò ha maggiormente a che vedere con la “pagina incenerita”, ovvero quella della scrittura priva di messaggi profondi, parole senza scopi educativi. Il tutto grazie all’utilizzo delle parentesi lasciate volutamente aperte, per rimandare a un discorso incompleto e chissà con quanto ancora da dire.[3]

Nella terza sezione leggiamo poesie allo loro massima potenza poetico-letteraria che poetizzano i dolori spirituali e le alienazioni socio-esistenziali vissute dalla poetessa leccese. Esperienze, queste, che sono rappresentate graficamente da somiglianze ritmiche e lessematiche, sillabe omofone ripetute e da lessemi dialogativi, neologistici, slang, vernacolari e tanto altro ancora. Esperienze, infine, che la Ruggeri cercherà di superare percorrendo un cammino nel più buio e totale esilio spirituale da lei concepito come la ricerca della autentica luminosità.[4]

Passiamo ora a )e pagine del travaso. Qui per riudire la pazzesca evenienza del dattilo o più semplicemente )e pagine del travaso dove la Cudazzo ci mostra un cammino verso Dio dalla Ruggeri concepito come l’unico Padre in grado di liberarla dalle assenze spirituali e di ridarle la quiete da essa intensamente ricercata. Cammino, questo, che sarà compiuto attraverso lo studio della Sacra Bibbia, dei Vangeli e in particolar modo del Cantico dei Cantici cercando di crearne una versione moderna. Salmo moderno quello della Ruggieri, dove la libertà e la quiete vengono ulteriormente ricercate con la confessione di fede rivolta al Padre Celeste nel farla addormentare per l’eternità, in modo così da salvarla da ogni fastidioso brusio e ogni insopportabile musica esistenziale. Tema, questo, che l´avvicina al poeta magliese Salvatore Toma: in entrambi la Morte è un osannazione della Vita, una linfa che diluisce e stilla la Vita all’interno della quotidiana esistenza. Una preghiera, quella della poetessa leccese, che non vuole conquistare solo l’eterno riposo, ma trasformarla in una creatura dallo sguardo limitatamente vuoto e dallo spirito in grado di saper fondere le assenze esistenziali con la Fede.[5] Un Salmo alla ricerca di Dio, ma anche inteso come uno specchio che ci mostra la poetessa come una creatura senza memoria, emozioni, fastidiosamente trasparente e socialmente esiliata dai vivi.[6] Il tutto attraverso un linguaggio dai toni modernamente marinettiani fatto di parole minuscole alla fine e all’inizio di frase, di parole minuscole interfrasali, dall’uso del corsivo e dalle maiuscole usate non per i nomi di persona. Linguaggio che vuole mostrare le assenze spirituali e il disagio esistenziale come cose assolutamente normali, all’interno di una estrema società come quella dei giorni nostri.

61Tghx8V8iL.jpgVa ricordata anche la raccolta postuma Canto senza voce (Terra d’ulivi, 2013), un canto eseguito con voce colma di compassione, autoritarismo, follia psico-sociale, tirannica passionalità amorosa e libertà esistenziale. Opera questa divisa in cinque sezioni: I veri poeti…, Era prima la musica…, Ulivi della mia terra…, Amore… e Paesaggi.  Nella prima la Poesia è concepita come una lingua che nasce dalle più oscure profondità dell’animo umano.[7] Vita che lasciò nello spirito della poetessa leccese ansimanti aneliti di passione e paterne reminiscenze. Un padre che è ricordato come un creatore di luminose gioie esistenziali, un notturno Caronte vegliante sui riposi della figlia e infine, come il più bel fiore che sia stato raccolto dalla figlia nella sua Vita. Reminiscenze esistenziali, queste, che costituiscono la gran parte della seconda sezione. La terza, invece, è dedicata al suo Salento di cui si sottolineano il contrasto paesaggistico fra le aspre campagne e il dolce vento, che accarezza le dolci esistenze[8], la pioggia estiva che purifica le strade sotto il plenilunio[9], gli ulivi, intesi come giganti dal luminoso spirito, dagli aspri singhiozzi. C´è spazio anche per la città di Lecce. Sempre in questa sezione leggiamo liriche sull’Amore, ovvero, quell’universo dove la poetessa leccese doveva essere la regina assoluta. Un amore dai toni aspri, primitivi, trasgressivi, intimi e in particolar modo funerei.[10] Nella quinta e ultima sezione leggiamo poesie dedicate ai viaggi psico-spirituali della poetessa colmi di dolori e amori flagellati. In particolar modo due sono le città amate dalla poetessa: Parigi e Napoli. La seconda è vista come un luogo in cui l’esistenza è immortale, ovvero ancora, come un luogo che vivrà per l’eterno anche senza nessun uomo e nessuna donna sul suo suolo[11].

Vanno anche spese delle parole sull’opera critica della ricercatrice Annalucia Cudazzo. Ha ridato onore e dignità a una delle più grandi poetesse italiane che, oggi come allora, purtroppo non è ricordata da critici nazionali, considerata da molti come una poetessa scomoda e poeticamente incomprensibile. Uno studio quello della Cudazzo che ha anche uno scopo sociale nel mostrarci le donne salentine non solo come contadine e madri di famiglia, ma anche delle poetesse, andando così contro la vetusta concezione che le concepisce come creature inferiormente subordinate al marito e al padre. Opera, questa della Cudazzo, dal profondo rispetto umano, dimostrato dai titoli minuscoli delle due opere inferno minore e )e pagine del travaso rispettando così, le ultime volontà della Ruggeri. Tale volume, dal taglio adatto agli studenti, ai ricercatori universitari e agli specialisti di poesia presenta una serie di commenti a tutte le poesie riportate. Commenti che sono affiancati dalla biografia di Claudia Ruggeri e da precise note testuali che ben illustrano il percorso editoriale delle due opere. Il linguaggio è chiaro, lineare e scorrevole.

STEFANO BARDI

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

Bibliografia di Riferimento:       

RUGGERI CLAUDIA, Canto senza voce, Terra d’ulivi, Lecce, 2013.

RUGGERI CLAUDIA, Poesie. inferno minore. )e pagine del travaso, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos Editore, Neviano, 2018.          

              

[1] CLAUDIA RUGGERI, Poesie. inferno minore. )e pagine del travaso, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos Editore, Neviano, 2018, p. 9. (“ormai la carta si fa tutta parlare, / ora che è senza meta e pare un caso / la sacca così premuta e fra i colori / così per forza dèsta, bianca; bianca / da respirare profondo in tanta fissazione / di contorni ò spensierato ò grande / inaugurato, amo la festa che porti lontano / amo la tua continua consegna mondana amo / l’idem perduto, la tua destinazione / umana; amo le tue cadute / ben che siano finte, passeggere“).

[2] Ivi, p. 15 (“ma chi nega che in tanta sepoltura / sia avvenuto al pendio un biancore vero / o lo strano brillio che ti destina se la passi”).

[3] Ivi, p. 20.

[4] Ivi, p. 25 (“ed un giorno mi diedi a distinguere / da quistu, quiddu; ma la conversazione / non dà alloggio, non rivela dov’è / la vera Serratura, se esista un dio Contrasto / che scentra qui l’Uguale / litoraneo e del vedere l’angelo”).

[5] Ivi, p. 45 (“vorrei una faccia bestia, laterale. un muso / inesplicabile di sogliola a sguardo come dire / intero sufficiente. un’anima da travaso / un’anima che risiede che sotto il gran sabbione / alleva la deessa, Macchia pulcherrima / in questa densa sinistra: giunchi falaschi guazza / neutri e coesi Ordine innanzi”).

[6] Ivi, p. 47 (“il nido del discorso nascosto, le isoipse salienti / delle rose rinviate, per rimanere immobile / senza notizie, classica, battuta chiaro / chiaro messa nella memoria e perduta di vista / per non fissare lo spazio per non sembrare una Frase”).

[7] Claudia Ruggeri, Canto senza voce, Terra d’ulivi, Lecce, 2013, p. 28 (“Si farà picchio e scaverà, / tornerà spina e strapperà / poi rabbia e coprirà. / Completerà l’eutanasia / mutando in sasso / la mia ragione / e la mia fede. / Quella di vivere.”)

[8] Ivi, p. 46 (“Braccia contorte / di dannati / da queste rosse zolle partorite / nel più azzurro dei cieli […]-[…] eppure il vento / ira i raggi nudi / fa ondeggiare un fiore.”)

[9] Ivi, p. 50 (“quando gli ultimi favori / di pioggia / rischiano / il luogo / d’erba / e d’ombra / felice a una falce di luna / tu ridi”)

[10] Ivi, p. 74 (“Ma tu non lo saprai, / fin quando un verme / non roderà la tua carcassa / dentro, / ma proprio dentro / fino al fondo. / Forse, / non troverà / che una conchiglia / vuota.”)

[11] Ivi, p. 107 (“Giocherai così nell’universo / anche dopo il ritiro delle truppe / quando l’uomo non vivrà / neppure alla tua ombra / nel tuo calco / nel mare / nell’aria / nei cubi di roccia galleggianti / dove di te, certo, / dopo il giudizio / riconoscerà l’odore.”)

“Via Crucis” di Francesco Terrone, recensione di Lorenzo Spurio

Francesco Terrone, Via Crucis, Presentazione di Mons. Giuseppe Agostino, Ep. Em. Diocesi Cosenza-Bisignano, Disegni originali di Liana Calzavara Bottiglieri, I.R.I.S., Mercato San Severino, 2015.

Recensione di Lorenzo Spurio 

copertinaviacrucisIl poeta salernitano Ing. Francesco Terrone (Mercato San Severino, 1963) ha raccolto nel pregevole volume in sontuosa veste grafica Via crucis un numero consistente di liriche d’argomento religioso nelle quali si percepisce in maniera vivida il suo afflato emotivo, lo spessore della fede e la necessità di un colloquio accorato con la Divinità. La prima parte del volume –dopo una sostanziosa e pregnante nota d’apertura del Vescovo Emerito della Diocesi di Cosenza-Bisignano, Mons. Giuseppe Agostino- è dedicata al percorso cristiano più doloroso, quello della Via Crucis che Terrone affronta, tappa per tappa, dedicando una poesia ad ogni stazione del martirio di Gesù Cristo. Ciascuna lirica è accompagnata, nella pagina di sinistra, da immagini a colori forti e dall’espressività lancinante di pose del Cristo sofferente e morente, opere di valore prodotte da Liliana Calzavara Bottiglieri. Immagini che non solo arricchiscono il volume, già di per sé importante e per la fattura e per i densi contenuti, ma che lo completa rendendolo ancor più fruibile ed interessante nel lettore. Le liriche di dolore che descrivono i passi di Nostro Signore verso la denigrazione, le becere offese, la caduta, la crocifissione e la morte sono visivamente descritte, come in una fulminea foto, dai disegni della Calzavara Bottiglieri i cui tratti del viso del Cristo addolorato emergono con una nettezza sorprendente e una visività toccante.

Terrone impiega una poetica che rifugge da particolari schematismi metrici o retorici prediligendo un linguaggio basico e lineare dove sono la descrizione attenta, la raffigurazione degli spazi e del gruppo umano che contorna a quelle scene a dominare. Come dei sunti o delle sinossi quanto mai influenzate da un approccio fortemente empatico e vissuto, le poesie si susseguono cadenzate dal breve tempo dell’assurdo sacrificio imposto al Nazareno. Le vessazioni, l’indebolimento del corpo, le cadute e le ingiurie, l’offesa corporale sono fatti di inaudibile odio che il Nostro inanella nelle varie liriche che seguono descrivendoci, con i vari versi, con una grande forza espressiva e compartecipazione gli accadimenti più infausti dell’esistenza di Gesù.

Ci troviamo distanti mille miglia, o ancor di più, da manifestazioni ridondanti e spettacolari, farsesche e improbabili che spesso vengono fatte per celebrare gli ultimi istanti della vita di Cristo: non si ha un effetto di ribrezzo o di dolore rabbioso dinanzi al suo sacrificio come può avvenire dinanzi alla criticata pellicola di Mel Gibson, The Passion, dove la centralità del messaggio sembra ruotare attorno all’apologia della violenza piuttosto che sul martirio. Ci troviamo altresì distanti anche dalle celebrazioni folkloriche della Spagna andalusa che commemora la settimana Santa in colorate e carnevalesche processioni con rappresentazioni sceniche degli istanti mortali di Cristo. Terrone, pur servendosi delle immagini che corredano l’opera, impiega la parola, lo scritto, il verso, per cantare il dolore, per sconfessare la violenza, per far librare la sofferenza. Sofferenza che, pur con un procedimento di mimesi non sarà mai quella di Cristo ma che, comunque, le si avvicina molto essendo un dolore dinanzi alla violenza gratuita, all’ingiustizia, che si amplifica ancor più per la propria condizione di essere inerme.

A completare il tragitto della passione è un ampio apparato finale dove il Nostro ha raccolto una serie di poesie, anch’esse di matrice religiosa, che possono essere considerate delle vere e proprie preghiere, delle lamentazioni, dei canti accorati d’angoscia, delle riflessioni sul senso di finitudine e testi contemplativi sulla presenza di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio. Tra di esse, mi piace citare alcuni versi da una lirica dedicata alla figura paterna dove, seppur non è richiamata direttamente la dimensione cristologico-religiosa, il padre venuto a mancare, il genitore assente, l’uomo che vive nel ricordo, sembra assumere i caratteri di un amorevole Dio che sovrasta la sua esistenza, vivendo nel mondo incorporeo dove tutto perdura e non ha limiti: “Quel volto,/ reliquia sacra della mia vita,/ […]/ Il volto di mio padre…/ volto rapito da Dio, donatomi da Dio/ nella vita,/ nei frammenti di sogni,/ nell’immaginario” (80).

Lorenzo Spurio

Jesi, 09-06-2016

“Fare poesia oggi è una fede” – articolo di Ninnj Di Stefano Busà

“Fare poesia oggi è una fede”

a cura di Ninnj Di Stefano Busà

Fare Poesia oggi è essenzialmente una <fede>; qualcosa che rasenta la religiosità e la continuità di un misterioso cammino che inavvertitamente allo stato inconscio portiamo dentro, senza sapercene spiegare il perché, senza saper trovare una ragione plausibile.

Cos’è questo segno che si manifesta solo in certe persone e non in altre? e ci differenzia dagli altri esseri umani. È un fuoco che divampa? E’ qualcosa che cova dentro e ci arricchisce? O ci divora e basta, ci tormenta, ci innalza e ci disarma, ci piega e ci investe come una fiamma perenne, demolitrice ma, anche, sostenitrice di un bene, quello dell'”intelletto del cuore” che ci qualifica come essere vivi e <pensanti>.

 È amore per la parola? Per il senso comune dell’umanità imbrigliata in elementi contraddittori, alienanti, difficilmente comprensibili? È un rifugio? Una nicchia dove ripararsi dalle temperie contemporanee? E’ un piano predestinato per dare quel minimo di eternità che disperatamente si va cercando?
È la parola che torna al suo linguismo primigenio, al suo capitale etico/spirituale avendo bisogno di rigenerarsi/rinnovarsi alla luce del pensiero? 

Poiché di Luce si tratta, infine. anche se viene stimata un “optional”, una perdita di tempo, quale appare dal martoriante e assillante battage denigratorio, dal protagonismo sconnesso, esponenziale dei nostri giorni.

È qualcosa che ci accomuna al cielo o alla dannazione? alla nostra solitudine? 

Eppure sembra indurci a progredire, a venir fuori dal buio delle nostre impotenze o inadeguatezze, cui siamo tenacemente aggrappati malgrado tutto.

La poetessa Ninnj Di Stefano Busà
La poetessa Ninnj Di Stefano Busà

Una zattera di salvataggio del movente biologico/culturale che ci allontana dal dolore, allora? È la spirale chiusa delle nostre contraddizioni più eclatanti? oppure è la grande molla, l’unica via che ci resta per dialogare, per camminare a fianco della Storia e dentro di essa con il bagaglio spirituale, morale e intellettuale  al quale essa stessa (storia) ci espone. Nella vita convulsa e avulsa da ogni ragionevole intelligenza e logica, apparentemente depauperata da ogni slancio, da ogni fermento, da ogni  passione, i poeti si mostrano come reperti primitivi; archeologia di un passato analogico che li ha sconfitti. L’informatica e la telematica, il tecnicismo e il meccanicismo imperanti di una società in pieno declino, ci porta a riflettere sulle vere ragioni del far poesia oggi.

Il tempo del poeta si è esaurito, surclassato dal tecnicismo satellitare, dalle rampe telematiche globalizzate, sepolto da un cumulo di macerie fumanti che si porta dietro, fin da quando si è imposto un nuovo modello che sostituisse le vecchie formule classiche del pensiero “poetico”.  L’ultimo ossigeno si sta consumando…

L’Uomo moderno è passato dai disagi delle due guerre, dalla metamorfosi irriducibile di un progresso “sui generis” che lo ha lasciato non proprio indenne da scorie e da  rifiuti  delle neoavanguardie trascorse ma non del tutto obsolete,  fino al minimalismo e al solipsismo di oggi.

Quasi aliena,  la voce della Poesia, se da una parte ha creato la modernità del pensiero e dell’azione, dall’altra ha generato mostruose incongruenze, inquietudini, ha mostrato il volto deturpato della società dei consumi facili e aleatori, delle assenze che sono la caratteristica principale di questo nonsense moderno, di questa esistenza gracile e fragile, senza punti fermi, né certezze. Ogni poeta vero o presunto sa bene che si trova ad un bivio, continuare o abbandonare la trasgressione, (perché tale la definisce l’illecito giudizio della comunità più aliena).

 La libera circolazione della parola che oggi viene superata dai sistemi digitali di trasmissione dell’immagine satellitare, e dunque anche del linguaggio <metainformatico> che non gli riconosce il merito, non gli riserva il benché minimo  rispetto, la benché minima logica di esistere. Verrebbe da dire, cosa ci fa su questa terra diseredata il fantasma di una Poesia che non si ama, che non rende economicamente nulla? continuamente rinnegata, derisa, bistrattata e ignorata?
Che conta oggi essere poeti, se nessuno, dico nessuno, è sicuro di essere annoverato nella pagina Letteraria del secolo? Perché il poeta si dà tanto da fare a sciorinare parole messe in fila, parole in libertà (come dicono i detrattori), parole in disuso, parole…parole che non portano a nessun risultato, se non a quello di un logoramento e, paradossalmente, di un allontanamento dalla società che, gli preferisce qualsiasi altra attività ludica e, consapevolmente ne ignora la presenza?

Sono venuta alla conclusione che la Poesia è davvero una sfida, una <fede> ultima di una deontologia fuori moda, non più avvertita, ma non del tutto stremata, né inquinata, che una missione di trascendenza fa salda nei cuori e nella mente di pochi adepti, di cui non abbiamo consapevolezza alcuna. Vi è dentro di noi un tarlo, o piuttosto un folletto che ci grida e ci prospetta la follia di pochi attimi di luce, che resteranno a trascrivere la nostra storia.

È un atto di coscienza, una proclamazione di innocenza e di disponibilità verso quelle forme di elezione che ci fanno diversi. Vi è un sottofondo masochistico nella produzione di Poesia oggi? Chissà.

Sta di fatto che, malgrado sia bandita dai circoli elitari e dal giro delle grandi Case Editrici Elitarie, essa persiste a voler fornire il segno di una profonda e inalienabile istanza culturale, che è il marchio vero della nostra umanità pregressa: una sorta di vademecum che recita pressappoco così: “Poeta fosti il pazzo di turno? ora vai, invadi i tuoi spazi, i tuoi luoghi/ semina a livelli di fede il tuo linguaggio( e proteggilo, fanne vicenda di Luce/ percorso di un livello spirituale superiore/ non importa se il mondo t’ignora o ti ama/ non è necessario che lo faccia…/Tu, poeta, persegui l’utilizzo della parola alta/ fanne strumento deontologico della tua avventura terrena/ non demordere, insisti…/Questo è un mio personale giudizio. (sono miei i versi) Ecco, come può interagire la poesia col mondo circostante. Il mondo ne può fare a meno, ma egli (poeta) non può desistere dal credere nell’adesione incondizionata al suo microcosmo, che lo porta a creare dal nulla l’elevazione del pensiero.

Perciò, si proietta nella capacità inventiva, nella ricchezza inalienabile del suo virtuale riscatto, e rende fecondo e unico il mistero che lo ha privilegiato. Perché, credetemi, essere poeti non è una sottrazione, è, invece, un’addizione a (ri)creare in un mondo fantastico le condizioni migliori per dire io c’ero. Un progetto un po’ ambizioso di immortalità per chi ci crede. 

Essere un poeta oggi è come  voler redigere e tramandare un attestato di verità conclamata da principi naturalistici, che infiammano il cuore, la mente dell’uomo, il cui  linguaggio diventa un idioma per non morire, per principiare, ancora e ancora, il risultato di una potenzialità amara che, seppure disgiunta, da un suo concatenamento sillogico, come lo può essere l’estremismo minimalista e arido offerto dal panorama degli ultimi decenni, preme e insiste per restare un obiettivo di equilibrio, una forza moderatrice di tanti, di troppi mali e lacerazioni. A fronte di essi si staglia grande, immensa, come un sole d’estate, il principio di una costruzione fantasiosa, bizzarra e irriducibile, quale può essere la pretesa di fare poesia.

NINNJ DI STEFANO BUSA’

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