N.E. 02/2024 – “La religiosità spirituale nelle opere delle poete lucane: da Isabella Morra ad Anna Santoliquido”, saggio di Francesca Amendola

L’opera di un poeta è fusione totale tra parole e immagine, che origina quello che Bachelard chiama retentissement, ossia  la capacità della poesia di creare una sorta di “vicinanza”  tra poeta e lettore, che mette in moto l’attività di comprensione e interpretazione. Petrarca scriveva che «la poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura» poiché nasce da una commistione tra ispirazione e sentimento del divino. Anche quando il poeta non tratta esplicitamente il tema religioso (qualsiasi sia la sua confessione) vi è sempre una fortissima tensione spirituale, non a caso «nel tempo della notte del mondo i poeti, cantando, insegnano il sacro» (Heidegger). Proprio Heidegger parlava della funzione della poesia come forma di conoscenza. Infatti nell’antica Grecia il poeta era l’hermeneutès, ossia l’intermediario tra gli uomini e l’Olimpo ed era l’interprete dei presagi degli Dei. La poesia perciò era parte integrante della religione e della vita spirituale.  Nasce dal “fondo profondo” (E. Montale) e nel silenzio interiore il poeta coglie il senso del mondo e lo porta in superficie attraverso la parola. Ma «i poeti non accendono che lampade essi poi spariscono» (Emily Dickinson) nel senso che il poeta non parla per sé ma per gli altri. Ne segue che l’attività poetica dà volto alle cose e rende libera la mente, aprendola alla conoscenza del mondo e alla verità dell’Essere Supremo, che è Dio, inizio e fine di ogni cosa creata.

La vita è amore e se «l’amore è movimento», secondo il pittore E. Tomiolo, verso gli altri, verso se stessi, verso la natura, verso Dio, è proprio l’amore negato che spinge la lucana Isabella Morra[1](vissuta nel Cinquecento) ad alzare un grido straziante contro l’universo per il padre lontano,[2] contro il «Torbido Siri»,[3] contro i «fieri assalti di crudel Fortuna».[4] Crollati tutti i miti: il desiderio di trovare un amore o una ragione per vivere nelle lande solitarie e ostili di Valsinni, trovò conforto in Cristo e nella Vergine. Non a caso Il Canzoniere di Isabella Morra, come quello di Petrarca, si conclude con la canzone alla Vergine. Isabella delusa e ormai libera dalla zavorra della vita, abbraccia il mistero di Cristo e in Lui proietta i suoi desideri identificandosi nella peccatrice Maddalena, redenta e pentita e con «la mente rivolta «a la Reina del Ciel, / con vera altissima umiltade»[5], l’anima si porge alla contemplazione di Dio. L’incontro con la dimensione religiosa, metafisica, le dà certezza che esiste un mondo alternativo a quello nel quale vive.  La sua poesia è parte integrante del suo breve percorso di vita, che la guida e la sostiene nella solitudine sia nel dialogo con la natura aspra e selvaggia, sia con l’unica amica: Antonia Caracciolo, moglie di Diego Sandoval De Castro, ritenuto a torto dai fratelli, suo amante.

Ben diversa è la poesia di Aurora Sanseverino[6] (vissuta nel Settecento), una delle poche donne, che fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Coritesia. Le sue poesie non vanno al di là di una pura esercitazione letteraria; in esse la spiritualità e la religiosità sono improntate dall’esteriorità. Non analizza l’angoscia e la ricerca della pace contro «gli aspri martiri»[7] non nasce dal senso vertiginoso di vuoto, che distende la sua poesia fino al grido, allo spasimo, al pianto. Non c’è vera sofferenza e il “male di vivere” è una finzione, espressa in moduli leggeri, musicali appena increspati di malinconia. Il sentimento è distaccato e astratto e si apre a un gioco di parole secondo i modelli dell’Arcadia. Le lande sconfinate dell’entroterra lucano, che fanno da sfondo ai suoi sonetti e canzoni, appaiono irreali e artificiosi; uno scenario perfetto per una narrazione idilliaca di un mondo fiabesco, e il concetto di solitudine è ben lontano da quello straziato di Isabella Morra.  Le poesie utilizzano un linguaggio semplice, musicale a tratti lezioso, in obbedienza al tòpos classico del «luogo ameno». Figlia del secolo e della cultura dei Lumi, Aurora non sente la tematica del trascendente e Dio è inteso semplicemente come un Essere Supremo, secondo il dettame del sensismo. Gran parte della sua produzione di liriche, ballate, melodrammi è andata perduta e i pochi sonetti conosciuti hanno portato la critica letteraria a dire che il suo lavoro è «non godibile e sostanzialmente artefatto».

L’isolamento e l’essere “figlia di una regione derelitta” qual era la Basilicata, dominio per secoli di “ignominioso servaggio”, porta la potentina Laura Battista[8] (Ottocento) a una consapevolezza dei problemi politici, sociali e storici della sua regione. Colta e raffinata al pari del Leopardi, del quale fu seguace, ebbe per opera del padre uno studio «matto e disperatissimo», che la portarono giovanissima a scrivere di greco, di latino, di tedesco e di francese. I Canti[9], ottanta componimenti in tutto, si muovono dalla sfera pubblica a quella privata. La passione politica spingeva la Battista a partecipare agli avvenimenti della nazione, dall’altro premeva il suo disagio esistenziale, soprattutto per la sua relegatio a Tricarico. La sua è una poesia d’occasione, legata agli avvenimenti, espressi spesso con un linguaggio religioso e enfatico, infatti usa per Garibaldi i termini «Redentore dei popoli», «Divino». I sonetti, ben costruiti tra retorica celebrativa e patriottica nell’esaltazione del momento, si spiegano come un brindisi e perciò risentono di una certa monotonia. Diventa la sua spiritualità autentica nelle liriche soggettive e private, che toccano i sentimenti di donna e di madre, che vive una condizione di solitudine in una casa senza amore e in un paese senza prospettive.

Poche son le donne che assurgono agli onori della gloria letteraria, come scrive in una lettera Laura Battista, ma «la donna o villipesa o trascurata presso le nazioni rozze di qualsivoglia età […]  non poteva[…] rimanere addietro, quasi non fosse anch’essa creatura di Dio».[10]

Poete e scrittrici da ogni parte del mondo e, dalla Basilicata, terra negletta e isolata, faranno sentire nel Novecento, la loro voce a cominciare dalla compianta Giuliana Brescia[11] definita la “Saffo lucana”. La sua poesia altalenante tra male di vivere, angoscia e senso ineluttabile della morte, abbraccia temi che la collocano molto vicina a Isabella Morra per il senso profondo d’inquietudine. In una poesia pubblicata postuma vi è tutta il dolore del male di vivere, che nasce da una sorta di prigionia psicologica, manifestatasi fin dall’adolescenza. Scriveva: «Passata la vita per me / finito il domani / le porte son chiuse / serrate / mi resta soltanto nel fianco / lo spasimo acuto di un male che è ancora / la vita». Una religiosità laica e mai confessionale contraddistingue le sue poesie, che nascono dai sogni che si scontrano con una realtà dura e problematica. Il linguaggio è semplice ma musicale e armonico fin dalle poesie giovanili. Si chiude nella sua “tela di vagheggiamenti” nei silenzi assordanti, nelle illusioni del vivere quotidiano, dove i «sogni si son persi / nel deserto desolato della realtà». Le liriche (Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti) delicate e ricche di forza interiore, diventano a tratti tenere proprio quando si chiude nell’intimismo, che riverbera su una natura umanizzata alla Pavese, al quale è accomunata dalla scelta del tragico destino. Nell’angoscia esistenziale àncora è la parola poetica, adulata, blandita, ricercata, che accende la speranza; ma essa è illusoria e non riempie quel vuoto straziante, che la porterà a porre fine alla sua breve vita.

Per  la poesia di Lorenza Colicigno[12]sono appropriate le parole di Montale «ogni volta che trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è dentro di me come un abisso», perché le sue  liriche nascono da un profondo silenzio interiore, dove trova il senso religioso del mondo. La poesia si dispiega come preghiera perché indaga nel fondo delle cose e porta a galla l’inesprimibile.  Ma il poeta è colui che più degli altri porta nell’anima la propria terra. Si parla di poeta come del cantore di una geografia umana. Egli erige modelli, mappature, carte del proprio luogo per affermarne l’appartenenza, creando una sorta di «paesologia» (Franco Arminio) che è una forma di etnologia del paesaggio, di cui il poeta ne dà espressione. Il bello è che la paesologia non studia un paese, l’annusa, l’ascolta proprio come fa Lorenza con la sua città, Potenza: ne rende l’energia della case arroccate sulle montagne; s’immerge nella vita della città, nelle scale mobili, che salgono quasi fino al cielo; canta la «debolezza / dei vecchi e la baldanza degli adolescenti» (in Ritorno); si chiude, solitaria spettatrice, dietro una finestra o un terrazzo a scrutare l’orizzonte, che si allarga sulla valle dove il «Basento insegue albe e tramonti / e ascolta il brusio della città che lo stringe / nell’abbraccio schiumoso della sua / modernità di ciottoli e lattine»[13] e scorre sonnolento e acquitrinoso. Contempla la città da un cantuccio solitario, dove l’«aria natia», per dirla con Saba, o la «matria»[14] è pregna di gioia e dolore insieme.

Anche per Amalia Marmo[15] il compito della poesia è scavare nel profondo dell’anima ed enunciare attraverso la parola la verità. «Vedere il mondo in un granello di sabbia» per dirla con William Blake, è questo il senso dell’estro creativo. La ricerca del ‘meraviglioso’, tanto caro a Novalis»[16] che porta a Dio, così presente nell’universo, è la missione del poeta. Le sue liriche nascono dal «sapore della terra» e dal «la salsedine del mare»[17]. La parola poetica c’immette nel ‘mistero’, che è simile all’”Inconoscibile” di Spencer: una realtà assoluta che la ratio umana non può raggiungere. Il genio creativo ci fa immergere nelle acque del subconscio e riemergere “illuminati” di una verità da divulgare. La poesia per la Marmo «altro non è / che ignara ispirazione. / Un eterno aiutante / un profeta o un indovino / senza mete o ragione».[18]  La poeta sarà sempre «sentinella costante» della «memoria lirica»[19]. Filtra la ragione con il cuore, intessendo una poesia che è «distillato di vita, quasi peccato / d’intelletto tolto al tempo / per stupire se stesso e l’universo /e chiuderlo in un pugno di mistero»[20]. Il mistero non è quello religioso ma qualcosa che supera l’umano intendimento. Crede in Dio e nell’immortalità dell’anima. Ha certezza in una vita futura. Il mondo, la natura, gli accadimenti sono aspetti diversi dell’universale mistero.

L’acuta sensibilità e lo scavo interiore di Rosalba Griesi[21] danno origine a quell’inquietudine esistenziale, ordita su interrogativi ontologici, che si mescolano ai sogni quasi invisibili, alle luci lievi della speranza. L’atmosfera spirituale si riverbera sullo spettacolo della natura, sui suoi colori cangianti: dagli «spruzzi di giallo»[22] delle mimose al «bianco immacolato» delle zagare; dall’arancione delle margherite al verde dei campi, simili al mare. Il dettato lirico fluisce a volte delicato e sinuoso, altre prorompente e impetuoso nello scandagliare gli oscuri anfratti o gli abissi o i campi brulli per comprendere la sofferenza e riemergere rinnovato e dispiegare «parole taciuta / parole serrate / parole nel cuore posate / […] parole donate»[23]. Rosalba si eleva dal paesaggio naturale della terra a una riflessione escatologica, che richiama il senso della vita e la tensione dell’uomo verso l’Assoluto, che è Dio-Provvidenza di manzoniana memoria. La sua religiosità è priva di fronzoli e si distende in note scarne, quasi epigrammatiche.

Le liriche di Rosa Pugliese[24] s’inseriscono nella poesia civile, poiché sono denunzia, accusa contro l’umanità “liquida” e l’io lirico sembra arrestarsi fiaccato dagli avvenimenti della storia, dal tempo, che vorrebbe fermare nelle scatole di latta, dove trovare «una carezza materna»[25]. Le poesie nascono dall’incanto e il superamento e il dominio del dolore lo trova nella contemplazione di armonie cosmiche e naturali. La letizia travalica il vortice dell’angoscia nella magia dell’infanzia o dei luoghi amicali; nel gioco della vita; nello scorrere del tempo in stagioni e in ore, e nella Bellezza, che ancora una volta salverà il mondo. Scriveva Pablo Neruda «La poesia è un atto di pace / Di pace è fatto il poeta come di farina il pane» e la poesia per Rosa Pugliese è un atto di pace, poiché prende tutto il dolore del mondo e lo placa proprio come il fiume che s’infratta tra dirupi e forre per sfociare lento e placido nel mare. La Nostra trae dalla sofferenza l’energia creativa e la elabora superando lo stretto orizzonte provinciale per cantare il dolore della gente costretta a emigrare nei barconi. La poesia è voce dell’anima e noi diventiamo «tratturi di campagna / solcati dalla terra che li ha generati», o fiori di malva, germinati nella terra, crepata dal gelo.

Il testamento letterario e umano di Anna Santoliquido[26] è tutto racchiuso nelle sue numerose raccolte: da I figli della terra del 1981, nella quale la poesia nasce dalle vallate di ginestre e malvarose, dai campi biondi di grano e rossi di papaveri della sua Forenza, fino a Profetesha / La Profetessa, pubblicata in Albania nel 2017, dove sperimenta la dolcezza e la generosità della gente, che le riportano alla memoria i luoghi e le donne della sua infanzia. I versi limpidissimi e rigorosi aprono al lettore una nuova percezione dell’uomo, che sente l’altro non più nemico ma fratello. È questo il grande dono della poesia. «Che cosa può dare / agli altri un poeta?» si chiede la Santoliquido. Egli dona il cuore per amare, gli occhi per vedere, gli sguardi sereni, un pugno di pace.  Ed è la speranza che non l’abbandona, impegnata in una continua analisi e ricerca interiore. Sa che oltre le esperienze e le prove della vita, in fondo c’è sempre un raggio di luce, che illumina e dà forza.  Ricompone il conflitto che è alla base dello smarrimento spirituale della nostra società, alla quale manca quel “sapere dell’anima”, che oltrepassa e fonde umano e soprannaturale, sapere scientifico e visione poetica. È sorretta nel cammino elegiaco dalla fede, è questo il varco (Montale), che cancella la distanza dalla trascendenza e immanentizza l’ebbrezza ontologica e, come Sant’Agostino, supera la lacerazione tra materia e spirito. Il poeta attinge all’Assoluto e «offre parole / parole incarnate». È simile al Demiurgo platonico, creatore della realtà, che ci porta fuori dal “caos primordiale”. Diventa divulgatore di pace nel mondo e nell’anima, ma è anche colui che «muore da solo». È la forza eternatrice della poesia, di foscoliana memoria, che lo ferma «al limitar di Dite», ad afferrare la luce e liberare il canto. Il suo lavoro è simile a quello della Sibilla, il mito di cui ci parla Virgilio nell’Eneide. La profeta ispirata da Apollo, trascrive le profezie del Dio sulle foglie, che il vento disperde. Il rito rivela la missione di intermediario del vates, spesso inascoltato, tra il mondo della verità e quello degli uomini. Egli è il porto sepolto, come diceva Ungaretti, e nel profondo scopre l’inesauribile segreto, i misteri inenarrabili che il soffio del vento disperde anche se le parole sono portate dall’angelo. Anna è poeta sempre, sotto il cielo di Puglia e della Lucania, ma anche «a Belgrado e a Zagabria». I versi scaturiscono dalla sua capacità di andare dal vicino al lontano, dal microcosmo al macrocosmo. L’ispirazione nasce perché, «è l’angelo a portarmi le parole / le lascia nei vasi rotti / il vento le disperde […]»[27] e lei come una sacerdotessa vaticinante le raccoglie in «una forma di preghiera» (Kafka). Ci introduce in un mondo d’incanti quando scrive «Com’erano / piene / le mani / nodose / di mio nonno / quando / con voce roca / ma gentile / mi donava /un pugno / di noci / o di castagne»[28] o quando tratteggia in un distico toccante il ritratto della madre «Se solo potessi catturare / il sorriso delle sue rughe!»[29]. La poesia della Nostra colpisce per la forte empatia con il lettore, poiché è sempre aperta alla speranza, all’adesione con il mondo in cui vive, a nutrire attese per il futuro sulla rievocazione delle bellezze di un passato vissuto e assaporato. Il ruolo del poeta nella società è di pace perché come lei stessa scrive «è colui che porta in tasca l’universo». Egli parla una lingua nuova, toccante, rivelatrice: quella dell’anima. Per la Santoliquido valgono le parole del poeta dell’invisibile, Rilke, «Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile»[30].


[1] Isabella di Morra, conosciuta come Isabella Morra, nata a Favale nel 1520. Visse in solitudine sotto la prepotenza dei fratelli e segregata nel proprio castello, dove scrisse l’opera letteraria, Il Canzoniere, formato da dieci sonetti e tre canzoni. La sua breve vita si concluse con il suo assassinio, nell’inverno del 1545 o 1546, da parte dei suoi fratelli a causa di una presunta relazione clandestina con il barone Diego Sandoval de Castro, poeta di origine spagnola e barone della vicina Nova Siri, anch’egli qualche mese dopo subì la stessa fine. Quasi sconosciuta in vita, Isabella di Morra acquistò una certa fama dopo la morte, grazie agli studi di Benedetto Croce, e divenne nota sia per la sua tragica biografia sia per la sua poetica, tanto da essere considerata una delle voci più autentiche della poesia italiana del XVI secolo, nonché una pioniera del Romanticismo. Non si conoscono notizie inerenti alla sua vita precedente e alla biografia della famiglia Morra, dal titolo Familiae nobilissimae de Morra historia, pubblicata nel 1629 da Marcantonio, figlio del fratello minore Camillo.

[2] Giovan Michele di Morra riparò a Parigi, accusato di una congiura contro la corona, affidando la moglie, Luisa Brancaccio, e i cinque figli, Decio, Cesare, Fabio, Porzia e Isabella, a Marcantonio il fratello maggiore, uomo violento e rissoso.

[3]  I. Morra, Torbido Siri, in Isabella di Adele Cambria, edizione Osanna, Venosa 1996, pp. 65/64.

[4]  Ivi, I fieri assalti, pp. 45/46.

[5]  Ivi, XIII Quel che gli giorni a dietro, pp. 87/92.

[6] Aurora Sanseverino nacque a Saponaria nel principato di Citra (l’odierna Grumento Nuova, in Basilicata) nel 1669 e morì a Napoli nel 1726, da Carlo Maria principe di Bisignano e conte di Saponaria e Chiaromonte e Maria Fardella contessa di Paco.  All’età di 11 anni, sposò il conte Girolamo Acquaviva di Conversano, ma il matrimonio durò solo pochi anni per la morte prematura del marito. Ritornò a Saponaria per un breve periodo e compì diversi viaggi con il padre, a Palermo e Napoli. Un secondo matrimonio avvenne il 28 aprile 1686 con Nicola Gaetani dell’Aquila d’Aragona, conte di Alife, duca di Laurenzana e principe di Piedimonte. Dopo il matrimonio, si trasferì nella dimora del marito a Napoli, città all’epoca caratterizzata da un’intensa vita culturale. Nella sua casa napoletana ospitò vari poeti, musicisti e pittori, dando così vita a un noto salotto letterario. Oltre alla letteratura, fu un’abile cacciatrice, partecipando a battute di caccia al cinghiale sui monti del Matese. Fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Corinesia.

[7] Aurora Sanseverino, Ben son lungi da te, vago mio nume, in Scrittori lucani, Consiglio Regionale della Basilicata.

[8] Laura Battista nacque a Potenza nel 1845, figlia di Raffaele Battista di Agrigento e di Caterina Atella da Matera. Il padre fu un insegnante di lettere e segretario perpetuo della Società Economica di Basilicata e consigliere provinciale di Matera. Raffaele insegnò Latino e Greco presso il Real Collegio di Basilicata a Potenza, dal quale fu espulso a causa del suo orientamento Liberale, poiché l’istituto fu affidato alla direzione dei Gesuiti. Egli poté riprendere a insegnare solo dopo l’Unità d’Italia e, quindi, dopo la scomparsa del regime borbonico. Nel 1871, in seguito la famiglia si trasferisce a Matera, per le persecuzioni di cui fu oggetto il padre per le sue posizioni politiche, divenne consigliere provinciale della Basilicata. Autore di studi e inchieste sullo stato dell’economia agraria della provincia, era un fine latinista e autore di traduzioni e fu il primo e, per molto tempo, l’unico maestro di Laura. Ella insegnò per breve tempo nel convitto femminile di Potenza. Ben presto abbandonò l’insegnamento sia per la salute cagionevole sia per aver sposato il conte Luigi Lizzadri di Tricarico, dove si trasferì.

[9]  G. Caserta, Laura Battista, Canti, per i  tipi di Conti, Matera 1879.

[10]  G. Caserta, cit. L. Battista, Potenza 22 marzo 1875 Direzione Della Scuola Normale Femminile di Basilicata, p. 153.

[11]  Giuliana Brescia nacque a Rionero in Vulture nel 1945 e morì suicida a Bari dove viveva con il marito e la figlia, nel 1973. Nel 1962 le fu assegnato a Napoli il premio La maschera d’oro. Le sillogi sono state pubblicate postume: Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti.

[12]  Lorenza Colicigno nasce a Pesaro nel 1943 e vive a Potenza. Insegnante di Lingua e Letteratura Italiana, ha lavorato in radio e televisione a Roma e Potenza. Ha pubblicato: Questio de silentio (1992) Canzone lunga e difficile (2004), Matrie (2017), Cotidie (2021). I suoi scritti si trovano in antologie e pubblicazioni.

[13]  Lorenza Colicigno, Potenza e velo, in Cotidie, Manni Editore, Bari, 2021, p. 5.

[14]  Il termine è tratto dal latino mater matris, terra madre, termine utilizzato per la prima raccolta.

[15]  Amalia Marmo nata a Miglionico (MT) nel 1948, vive a Marconia di Pisticci (MT). Laureata a Napoli in Lettere classiche. Ha avuto molti riconoscimenti letterari. Ha pubblicato raccolte di poesie e romanzi.

[16]  Novalis affermava «La nostra vita non è ancora un sogno, ma sempre più deve diventar tale».

[17]  Amalia Marmo, Indenne paradiso perduto,  in Il vento leggerà Gradita Sinfonia, Edizioni Setac, Pisticci, 2015, p. 30,

[18]  Ivi, Visione furtiva, p. 27.

[19]  Ivi, Sentinella, p. 25.

[20]  Ivi, un pugno di mistero, p. 34,

[21]  Rosalba Griesi nasce a Palazzo San Gervasio, dove vive e lavora, nel 1958. Ha pubblicato: Il viaggio (2004), Nel mare del tempo (2011), Natale e dintorni (2014), Nicol ali di farfalla (2015), I racconti di nonna Peppa (2017). Le sue liriche e racconti sono stati inseriti in diverse antologie.

[22]  Rosalba Griesi, Mimose, in Nicol ali di farfalla, LuogInteriori, Città di Castello (PG), 2015, p. 39.

[23]  Ivi, p. Le mie parole, p.79.

[24]  Rosa Pugliese nasce a Zurigo nel 1965 e vive a Venosa (PZ). Si laurea in Lingue Straniere. Ha pubblicato due raccolte di poesie: La strategia della formica (2019) e La tana del riccio (2022). I suoi lavori sono pubblicati in varie antologie.

[25] Rosa Pugliese, Colleziono scatole di latta, in La strategia della formica, scatole parlanti edizioni, Reggio Calabria, 2019, p. 21.

[26]  Anna Santoliquido, nata nel 1948 a Forenza (Potenza), vive a Bari. Ha pubblicato le raccolte di poesia: I figli della terra (1981 – Premio Città di Napoli), Decodificazione (1986), Ofiura (1987), Trasfigurazione (1992), Nei veli di settembre (1996), Rea confessa (1996), Il feudo (1998), Confessioni di fine Millennio (2000), Bucarest (2001), Ed è per questo che erro (2007), Città fucilata (2010), Med vrsticami/Tra le righe (2011), Quattro passi per l’Europa (2011), Casa de piatrǎ/La casa di pietra (2014), Nei cristalli del tempo – poesie per Genzano (2015), Versi a Teocrito (2015), I have gone too far (2016). Ha pubblicato anche un volume di racconti e ha curato diverse antologie, tra le quali Zgodbe z juga – Antologija južnoitalijanske kratke proze (2005). È autrice dell’opera teatrale “Il Battista”, rappresentata nel 1999. Ha fondato e presiede il Movimento Internazionale “Donne e Poesia

[27] Anna Santoliquido, Incontri, in  Ed è per questo che erro, Smederevo, 2007, p. 9.

[28]  Anna Santoliquido, Mani nodose, in Figli della terra, Fratelli Laterza editore, Bari, 1981, p. 27.

[29]  Ivi, Mia madre,p.38.

[30] R. M. Rilke, dalla lettera al suo traduttore polacco Vitold von Hulevicz del 13 novembre 1925


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

3 risposte a "N.E. 02/2024 – “La religiosità spirituale nelle opere delle poete lucane: da Isabella Morra ad Anna Santoliquido”, saggio di Francesca Amendola"

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  1. Lavoro egregio di studio e di ricerca molto valido che evidenzia la grande sensibilità, la solida preparazione e il variegato interesse poetico di Franca Amendola che ha sempre fatto dello studio etnografico e dello studio per la sua regione il perno della sua vita.

    Brava Franca e complimenti di cuore.            (Franca Luisa Bibbo)

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  2. Lavoro egregio che evidenzia la grande sensibilità di Franca e la maestrale disinvoltura letteraria mettendo in evidenza la sua instancabile ricerca, al pari di una pioniera, e il suo grande interessamento e attaccamento a tutto quello che è Lucania.

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