Nota al testo *
Saggio di Antonio Sacco
un nuovo autunno –
nascono altri colori
da foglie morte
(Antonio Sacco)
Questo articolo nasce da una domanda che mi sono posto tempo fa: che differenze sussistono fra il modo di approcciare alla morte attraverso la poesia in Oriente e in Occidente? Senza dubbio riflettere profondamente sul tema della morte mediante la poesia può essere un modo per rendere più piene e pregnanti le nostre vite: domandarsi, negli ultimi istanti di vita, il senso della nostra venuta al mondo, fare un bilancio delle nostre esistenze e delle nostre esperienze che abbiamo vissuto esprimendole in forma di poesia, dire una nostra personalissima “ultima parola” sul mondo può facilitare la serena accettazione della morte. In questo senso è sicuramente utile la funzione catartica e consolatoria della poesia una volta giunti al termine dell’esistenza.

Particolare della tomba del poeta romantico John Keats al Cimitero Aconfessionale di Roma
Studiando questi tipi di poesia (trasversalmente da Occidente ad Oriente) mi è stato chiaro che possono prevalere i più disparati sentimenti connessi all’addio al mondo: dall’accettazione alla rassegnazione, dalla rabbia al crudo realismo, dalla paura al tentativo ultimo di pacificazione e così via. Questo perché l’essere umano è mosso dagli stessi moti interiori e dalle stesse passioni di fronte alla morte indipendentemente da che punto del globo si trovi. Lasciare (attraverso la poesia) un ricordo o una traccia di sé, di quel che si è stato e, quindi, un segno di un particolare modo di essere-nel-mondo è indubbiamente un bisogno intimo e ancestrale dell’essere umano. La morte, in quanto parte della vita, necessita di essere affrontata, interiorizzata, riconosciuta come un evento naturale necessario e ineluttabile e, infine, accolta e accettata.
Può la poesia avere un ruolo in questo processo? Secondo me sì, sicuramente. Almeno per chi di poesia ha vissuto e non ha mai smesso di ricercare l’unicità e l’irripetibilità di ogni cosa, guardando ad esse con occhio nuovo come un primo uomo vede per la prima volta le cose del mondo cercando di darle un nome. Per chi, per tutta la vita, ha cercato lo straordinario nell’ordinarietà delle cose, per il vero Poeta intendo, la poesia è un potente mezzo per pacificarsi con il mondo e prepararsi a riposare in pace.
Jisei o death poems
Nelle culture estremo-orientali troviamo dei tipi di componimenti, chiamati jisei, in cui il poeta si congeda, con le sue ultime parole, dal mondo. In realtà questi tipi di poesie non sono classificabili esattamente né come haiku né come senryu ma meritano una categoria a parte. Possiamo dire che i jisei che ricalcano la forma degli haiku vengono chiamati jisei no ku, mentre i componimenti sul calco del tanka (più frequenti) vengono chiamati jisei no uta. Nei jisei in generale, di solito la Natura diviene metafora del fine vita. È singolare notare come negli haiku, quasi sempre, abbiamo un rifiuto delle figure retoriche eccezion fatta per la metonimia. Il kigo di uno haiku infatti, è quella parola che con un alto grado di specificità metonimicamente, appunto, suggerisce la stagione nel quale lo haiku è composto o alla quale si riferisce. Nei jisei no ku, invece, tutto l’impianto poetico è imperniato sulla metafora che diverse immagini in giustapposizione (toriawase) in uno stesso componimento danno della vita e della morte. Per questo ricorrenti, nei jisei no ku, sono le immagini della neve che si scioglie in allusione alla vita che si dissolve per diventare altro da sé, come in questo componimento di Bokusai morto nel 1914:
una parola di addio?
La neve che si scioglie
non ha odore
O anche quest’altro jisei no ku di Fusen deceduto nel 1777 all’età di cinquantasette anni:
oggi, quindi, è il giorno
in cui il pupazzo di neve che si scioglie
è un uomo vero
Fusen morì in pieno inverno, e l’immagine di un uomo che si scioglie come un pupazzo di neve è un calzante riferimento stagionale (kigo); c’è da dire che l’immagine data non si ferma solo alla stagionalità ma è molto pregnante anche per dare l’idea della transitorietà e caducità della vita umana. Oppure altra ricorrente metafora sono le foglie che cadono in autunno, presupposto per creare nuova vita come in questo jisei no ku di Gohei, morto nel 1819:
una foglia solitaria di paulonia
cade attraverso
la pura aria autunnale
In questo jisei no ku è interessante notare come il kigo (aria autunnale) rimanda ad un hon’i (i.e. “sentimento originale” collegato ad un kigo) particolarmente evocativo e calzante per il fine vita. È proprio per la presenza dello hon’i che si supera l’immagine naturale espressa per arrivare alle emozioni che dipendono da tali immagini naturali normalmente non espresse direttamente in uno haiku. La paulonia (kiri), poi, è nota per lasciare cadere le proprie foglie anche quando nessun soffio di vento la sta agitando; lo hon’i al quale rimanda questo kigo è il senso di solitudine, di caducità (il “mono no aware”) collegato alla caduta delle foglie autunnali, al non-attaccamento alla vita poiché tutto è soggetto alla transitorietà e alla precarietà del divenire.
Ancora un altro esempio di jisei no ku in cui si riferisce alle foglie d’autunno è questo di Ryokan, morto all’età di settantaquattro anni nel 1831:
ora rivela il suo lato nascosto
e ora l’altro –
una foglia d’autunno
È il ciclo continuo della vita, nei jisei emerge con forza la concezione orientale rispetto alla morte che non è opposta e contrapposta alla vita bensì parte integrante di essa: è un destino ineluttabile da affrontare con dignità e consapevolezza, non senza paura, prendendolo come un dato naturale, come una “Legge di Natura”. L’Oriente, influenzato dal buddhismo Zen, fa propri i concetti di impermanenza e non-attaccamento alle cose e alla vita dato, del resto, evidente in alcuni canoni estetici giapponesi, presenti anche in letteratura, quali il wabi-sabi e il mono no aware. Emblematico, in questo senso, il jisei no ku di Senryu (1827), il quale era il fratello più giovane del poeta che diede origine alla scuola di componimenti chiamati, appunto, senryu:
come gocce di rugiada
su una foglia di loto
io svanisco
L’epitaffio
Per certi versi, analogo al jisei no ku, in Occidente troviamo il genere letterario dell’epitaffio il quale è un’iscrizione funebre avente come scopo quello di onorare e ricordare un defunto (epitaphion, dal greco: “ciò che sta sopra al sepolcro”). Molte volte l’epitaffio è costituito da uno o più versi di una poesia: non a caso, in analogia con i jisei, molti poeti hanno scritto di proprio pugno, in punto di morte, i loro epitaffi. Va da sé che un buon epitaffio, come, del resto, un buon jisei deve possedere qualcosa che resti impresso nella mente del lettore o che faccia riflettere. Un esempio può essere l’epitaffio inciso sulla tomba del poeta romantico John Keats, il quale non volle scritti né il nome, né la data di morte ma semplicemente: “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”.
La forte carica simbolica di un particolare significativo della Natura che ritroviamo nei jisei lo accomuna anche ad alcune poesie in versi liberi di autori occidentali come, ad esempio, questa poesia di Aleksandr Blok (1880 – 1921) il quale era solito scrivere poesie cariche di un grande significato simbolico:
Tutto muore al mondo
Tutto muore al mondo, madre e giovinezza
la donna tradisce e l’amico scompare.
Impara ad assaporare una nuova dolcezza
contemplando il freddo circolo polare.Prendi la tua barca, salpa verso il polo
tra mura di ghiaccio e in silenzio oblia
come l’uomo ama, lotta e muore solo:
dimentica il paese dell’umana follia.Ed all’anima stanca insegna, mentre lento
s’impossessa del sangue il brivido del gelo,
che non le serve a nulla questo pianeta spento
perché i raggi vengono dal cielo.
Chiedersi in punto di morte se questo mondo è reale, e se lo è, è realtà di che cosa diviene un tema ricorrente nei jisei no uta (jisei in forma di tanka) come viene espresso dal poeta Ki no Tsurayuki:
come la luna
che si compone sull’acqua
nella conca delle mani,
questo mondo non sappiamo
se sia o se non sia
Mero riflesso di luna sull’acqua (in turco “yakamoz”), realtà o illusione, l’Io poetante si colloca in una dimensione “altra” facendo irradiare dai suoi versi un alone di mistero e fascino (yugen – shiori). Del resto è evidente il fatto che, in Oriente, la morte è vista come un passaggio più che una vera e propria fine. Emblematico, in tal senso, questo aneddoto che troviamo nel Zhuāngzǐ in cui il trapasso è visto come ritorno al Qi (soffio vitale dell’Universo). Comprendere questo ha come diretta conseguenza la pacificazione e l’accettazione da parte di Zhuāngzǐ della morte dell’amata moglie:
La morte della moglie di Zhuangzi
Un amico vuole andare a visitare Zhuangzi e porgergli il cordoglio per la morte di sua moglie. Quando arriva dentro la casa di Zhuangzi, lo trova sul pavimento intento a suonare un tamburo e cantare. L’amico, fervente confuciano, rimane scandalizzato perché non rispetta il rito del lutto e chiede a Zhuangzi perché si stia comportando così. Risponde che anche lui aveva avuto un periodo di lutto in cui era stato distrutto dal pianto, ma poi aveva compreso una cosa: c’era stato un periodo in cui la moglie non era nata ed era sotto forma di Qi (soffio vitale in circolo nell’universo), poi ha preso forma, ha vissuto la sua vita come moglie di Zhuangzi, è morta ed è ridiventata qi. Zhuangzi quindi ha smesso di piangere, ha capito che non è una perdita definitiva, non perché abbia fatto un ragionamento logico o razionale, ma perché non ha sublimato le sue emozioni, è arrivato al culmine dell’angoscia ed esso ha generato il suo contrario: la calma, l’accettazione.
In questo jisei no ku di Bairju (1863) troviamo un concetto simile espresso in forma di poesia:
ortensia[1]
tu cambi e cambiando torni
al tuo colore originario
Ancora, è innegabile che in questa poesia in versi liberi del poeta russo Fëdor Tjutčev (1803 – 1873) la poesia non riesca a compiere il “miracolo” agendo come catalizzatore portando il poeta a una serena accettazione della morte:
Pacificazione primaverile
Oh non mettetemi
nella terra umida!
Nascondetemi, seppellitemi
nella folta erba!
Che il respiro del vento
faccia ondeggiare l’erba,
che di lontano un flauto canti,
che luminose e placide le nubi
fluttuino sopra di me!…
I sijo
Fra i death poems nelle culture estremo-orientali troviamo anche le poesie coreane chiamate sijo le quali vennero utilizzati anche per congedarsi dal mondo fra i tanti temi trattati. Tali poesie hanno un impianto poetico basato su un metro prestabilito: di solito nella forma di 3 versi ciascuno con 14-16 sillabe, presentano una cesura, una pausa interna al verso che lo divide in due emistichi. Per questo motivo, a volte, nelle traduzioni i sijo vengono divisi in 6 versi invece dei 3 originali, ogni mezzo verso contiene, quindi, 6-9 sillabe e spesso l’ultimo verso viene accorciato di proposito.
Esempi di sijo come mezzo per salutare il mondo attraverso la poesia:
Come il suono del tamburo chiama la mia vita,
giro la testa lì dove sta per tramontare il sole.
Non c’è nessuna locanda sulla strada per gli inferi.
A casa di chi dovrei dormire stanotte?
Soeng Sam- mun (1418 – 1456)
*
Se questo corpo muore e muore di nuovo centinaia di volte,
ossa bianche che diventano polvere, con o senza traccia di anima,
il mio fermo cuore verso il Signore, potrebbe mai svanire?
Jeong Mong-ju (1337 – 1392)
L’elegia latina
Abbiamo già avuto modo di parlare dell’epitaffio come poesia funerea ma in Occidente abbiamo altri esempi di stili e generi letterari usati come espressione di un lutto, fra essi vi è l’elegia latina. Ciò che distingue l’elegia latina rispetto ai pochissimi precedenti nei poeti elegiaci ellenistici è l’impostazione maggiormente soggettiva e autobiografica. L’elegia latina fu molto usata nei lamenti funebri, nell’esprimere un lutto tanto che l’associazione dell’elegia al pianto divenne un topos (Orazio, Ars poetica – Ovidio, Amores). Da un punto di vista dell’impianto metrico l’elegia era costituita in distici detti, appunto, elegiaci strutturati in un esametro e un pentametro. Un esempio di elegia è il carme 101 di Catullo in cui il poeta esprime tutto il suo dolore per la morte del fratello:
Condotto per molte genti e molti mari
sono giunto a queste (tue) tristi spoglie, o fratello,
per renderti l’estrema offerta della morte
e per parlare invano alla (tua) muta cenere,
poiché la sorte mi ha portato via proprio te, ahimé,
infelice fratello ingiustamente strappatomi via!
Ora questi pegni, che secondo l’usanza degli avi
sono stati consegnati come triste omaggio funebre,
accettale, stillanti di molto pianto fraterno,
e per sempre, o fratello, ti saluto e ti dico addio.
I jinsei no ku dei quattro grandi maestri haiku
Malato in viaggio:
i miei sogni vagano
sui campi appassiti
(Basho)
Questa è l’ultima poesia di uno dei più grandi poeti haiku. Basho si era gravemente ammalato in uno dei suoi numerosi viaggi, quando i suoi allievi gli hanno lasciato intendere che avrebbe dovuto lasciare una poesia d’addio, lui rispose che uno dei suoi haiku poteva essere il suo death poem. Tuttavia, l’ottavo giorno del decimo mese, dopo aver raccolto i suoi discepoli attorno al suo capezzale, scrisse questo jisei no ku. Basho morì quattro giorni dopo nel 1694 all’età di cinquantuno anni.
nelle ultime notti
stanno nascendo
fiori di pruno bianchi
(Buson)
La sera della sua morte, Buson chiamò il suo discepolo Gekkei e gli chiese scrivere tre poesie. L’immagine di un usignolo appare nelle prime due poesie, e nella terza (questa) quella di un pruno. Entrambe le immagini sono associate al tardo inverno e all’inizio stagione primaverile. Buson si spense nel 1783 all’età di sessantotto anni.
che importa se vivo?
Una tartaruga vive
cento volte più a lungo
(Issa)
Un antico credo orientale caratterizza la tartaruga come un simbolo di lunga vita, attribuendo a questa una vita di diecimila anni. Se l’uomo dovesse vivere fino a cent’anni, la sua vita sarebbe non più di una centesima parte della vita di questa creatura munita di guscio che trascina la coda nel fango. Perché allora un uomo dovrebbe chiedere un altro anno, un mese o un giorno?
tarai kara
tarai ni utsuru –
chimpunkan
da un bacile
ad un altro –
che stupidità
(Issa)
La parola “tarai” significa “vasca” o “bacile”. Il riferimento è, forse, ai bacili per pulire i neonati e per pulire i morti. La vita di un uomo non è altro che un linguaggio senza senso (“chimpunkan” indica, nel discorso colloquiale, i suoni incomprensibili di una lingua straniera) che inizia nella culla e finisce nella tomba. Il Maestro Issa spirò nel 1827 all’età di sessantacinque anni.
fiorisce la luffa e
io, pieno di catarro,
divento un Buddha
(Shiki)
Shiki scrisse tre death poems, tutti e tre contengono riferimenti alla luffa (hechima), una vite rampicante con vari usi pratici. Linfa di luffa è consigliata come rimedio per la tosse, e veniva data, per questo motivo, ai malati di tubercolosi. Shiki morì a causa di questa patologia nel mese di Settembre del 1902 all’età di trentasei anni.
Come abbiamo visto, i jisei per forza e pregnanza poetica rappresentano un caso unico nel panorama della letteratura mondiale. Tentativo di pacificazione, di accettazione della morte attraverso un’immagine naturale rappresentano il più alto esempio di lasciare questo mondo in modo “poetico”. Venivano spesso usati anche nel suicidio rituale del seppuku, ad esempio Yukio Mishima nel 1970 compose questo jisei no ku prima di suicidarsi:
a small night storm blows
saying “falling is the essence of a flower”
preceding those who hesitate
soffia una piccola tempesta notturna
dicendo “cadere è l’essenza di un fiore”
precedendo quelli che esitano
Non è neppure mancato chi, con crudo realismo, scrisse:
death poems
are mere delusion –
death is death
le poesie di morte
sono pure illusioni –
la morte è la morte
(Toko, 1710-1795)
Abbiamo anche gettato un occhio sui sijo coreani vedendo che questi tipi di componimenti pur non essendo strettamente legati solo ed esclusivamente al tema della morte, sono stati usati per un ultimo saluto al mondo. Spesso giurando fedeltà e lealtà al proprio Signore anche davanti all’ultimo atto della vita di una persona. In Occidente, pur non avendo nulla che possa avvicinarsi ai jisei giapponesi, abbiamo sondato, seppur brevemente, le caratteristiche dell’epitaffio e dell’elegia latina notando come spesso queste forme letterarie servivano per lasciare una frase ai posteri su chi si è stati in vita (epitaffio) o un lamento funebre in morte di una persona cara o di un parente (elegia). Anche il verso libero è stato molto usato, in parecchi casi, per redigere una sorta di testamento spirituale. Su tutti si veda la poesia di Taras Shevchenko, eroe nazionale ucraino, intitolata “Testamento”, ad esempio. La poesia insegna che si può lasciare questo mondo onorando la propria unicità e irripetibilità, che essa può essere un aiuto persino nel momento del trapasso perché quello che, in fin dei conti, resta negli altri non è quello che abbiamo scritto ma il nostro modo di aver vissuto stupendoci di fronte alla bellezza di un fiore, di una notte di plenilunio e di tutte le meraviglie di cui siamo stati partecipi in questa vita. Questo, credo, soprattutto è quel che conta: esserci sentiti parte del Tutto e il Tutto parte di noi in commistione con ogni creatura vivente e non. La poesia insegna che siamo parte di questo Tutto cosmico.
Bibliografia:
- Poesie dell’addio, O. Civardi; Ed. SE
- Japanise death poems, Yoel Hoffman
- Guthke, K. S. (2003). Epitaph culture in the west. Variations on a theme in cultural history. Lewiston, NY: Mellen.
- Paola Pinotti, L’elegia latina. Storia di una forma poetica, Roma, 2002
- L’ululato del firmamento. 100 sijo. Nicola Perasso; Ed. Phasar Edizioni.
- Zhuang-zi : (Chuang-tzu) traduzione di Carlo Laurenti e Christine Leverd, a cura di Liou Kia-hway, Milano, Adelphi.
[1] Ortensia, in giapponese nanabake o fiore dei “sette cambiamenti” questo perché muta i suoi colori, durante la fioritura estiva, per ben sette volte: da sfumature di verde al giallo, blu, porpora, rosa e, infine ritorna al verde.
(*) Qesto saggio è stato pubblicato sul sito del past president dell’Associazione Italiana Haiku (Dott. Luca Cenisi) in data 13/09/2018 e ripubblicato nel libro di ANTONIO SACCO, Eppure ancora i nespoli – Dissertazioni sullo haiku, Nulla Die Edizioni, Piazza Armerina, 2020, pp. 151-163. Il saggio in oggetto viene pubblicato sul presente blog nella sua forma completa dietro consenso e autorizzazione da parte dell’autore che non avrà nulla a pretendere al gestore del blog all’atto della pubblicazione né in futuro. Eventuali riproduzioni del testo, sia in forma parziale che integrale, su qualsiasi supporto, non sono consentite a meno che l’autore, interrogato, non ne abbia dato espressa autorizzazione.