“La regina, l’amore e la forza” di Elena Maneo

La regina, l’amore e la forza di Elena Maneo

Kimerik Edizioni, 2011, pp. 94

ISBN: 9788860967046 

Recensione di Lorenzo Spurio

Elena Maneo, scrittrice veneziana già autrice di Piccoli racconti (2006), Il mondo di Melì e altri racconti (2008) e Una leggenda, una storia e un sogno (2010) si contraddistingue ancora una volta, con la sua recente opera La regina, l’amore e la forza, per la sua abilità nel gestire il genere del racconto breve. Le tre storie contenute in questa silloge, pur partendo da idee diverse e avendo un retroterra letterario distinto, coinvolgono direttamente il lettore sia per la semplicità del linguaggio adottato che per la capacità della scrittrice di farci sognare ad occhi aperti e viaggiare in spazi immaginari.

A mio avviso notevole è “La rosa nera”, terzo ed ultimo racconto che compone la silloge. Si tratta del racconto più breve che, pur partendo da una cornice di tipo favolistica, inserisce temi e motivi d’indagine sociale particolarmente attuali. La Maneo, ricorrendo all’utilizzo di una narrativa breve e condensata, riesce a dire molto di più e proprio per la fascinazione che ho sentito verso questo pezzo ho deciso di scrivere una prima recensione solo su questo racconto.

Il primo racconto, invece, intitolato “La regina di Picche”, ci trasporta completamente in un viaggio nel mondo fantastico tra mostri, presenze fantastiche, spazi minacciosi e labirintici e un vero e proprio stravolgimento della logica del mondo al quale appartiamo. Difficile non respirare degli echi di Alice nel Paese delle Meraviglie leggendo questo racconto: Mattia, il protagonista, è una sapiente rivisitazione del personaggio di Alice che, al pari di lei, trovandosi in uno spazio che non conosce e abitato da presenze minacciose, finisce per provare paura, smarrimento e preoccupazione. La regina di Picche, poi, ricorda la regina di Cuori in Alice nel Paese delle Meraviglie, sebbene il temperamento delle due donne sia completamente diverso: la Regina di Picche si sacrifica per dare vita al personaggio mentre la regina di Cuori è principalmente dipinta come spietata e crudele, sempre pronta a mandare alla forca. In questo universo alogico, disordinato e caotico Mattia cerca di far mente locale per poter aggrapparsi alle poche certezze che gli rimangono, proprio come cerca di fare Alice quando tenta di fare dei conti, impiegando le regole della matematica, o di ricordare basilari nozioni geografiche. Ma in entrambe le storie la logica è ormai perduta, la ragione viene di continuo minacciata e messa sotto scacco. Non c’è da meravigliarsi né da preoccuparsi perché in entrambi i casi gli autori ci danno la spiegazione che tutto ciò che è accaduto non è stato altro che un sogno. E allora sì che presenze fatate, mostriciattoli, fatti astrusi possono accadere, nell’universo onirico tutto è possibile!

Il secondo racconto, intitolato “La porta rossa”, sviluppa una sorta di thriller story che sembra esser stata adattata a uno dei tanti film horror del momento. Ma anche in questo caso la Maneo risolve la storia ricorrendo ai temi del sogno e dell’amore per fornire un finale, forse un po’ conciliatorio e avventato, ma che non stona con l’intero tenore del racconto.

La Maneo maneggia una materia che da sempre è stata ampiamente impiegata in letteratura, quella fantastica-onirica, inserendo molti elementi che fanno riferimento alla tradizione folklorica di trasmissione orale: le fate, i mostriciattoli, la presenza di reali, i continui riferimenti ai colori (tinte, sfumature) e ai materiali di costruzione degli oggetti. La scrittrice si auto-consacra come una narratrice dal gusto fauvista con particolare predilezione per le tinte forti: si ricordi che due dei tre racconti contenuti nella silloge hanno già nel titolo un termine che si riferisce ad un colore e si pensi alla serie particolareggiata delle tinte del rosso (fulvo, carminio, scarlatto, rubino, rame) in “La porta rossa” che ci fanno pensare ad esempio alla meticolosa descrizione della red room in Jane Eyre della Brontë o, comunque, a numerose altre narrazioni colte che hanno impiegato le tinte del rosso con modi e finalità diverse (La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, Il segno rosso del coraggio di Stephen Crane,…). La narrativa cromatica della Maneo è un modo efficace per rapportarsi al mondo e per trasmettere nel lettore una vivissima rappresentazione a pennellate veloci e tinte luminose. Complimenti.

a cura di Lorenzo Spurio

18-11-2011

E’ SEVERAMENTE VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Hallò Buda”, un racconto di Franca Berardi

Hallò Buda

racconto di FRANCA BERARDI

Era un locale fumoso, tetro, ma in quel posto tutto sembrava 
perfetto.
I tappeti odoravano di tappeti, le moquette di moquette, e i parquet, fin troppo scuri e consunti, conferivano un aspetto ancor più triste all’ambiente.
Grandi candelabri di cristallo, ornati di gocce e fregi dorati, fin troppo sontuosi, gravavano e troneggiavano in ogni dove…nei saloni circostanti; ed, intorno, quadri, specchi dorati, mobili stile rococò e pesanti tendaggi color bordeaux.
Tutto traboccava di ricchezza e d’abbondanza stilistica ostentata a dismisura in quel sontuoso albergo fine ottocento.
Fuori, il bel Danubio era sempre blu sebbene imperasse ormai l’inquinamento ed, intanto, sulle sue gelide acque, passavano battelli luccicanti di colori, mentre, per strada s’udivano gli schiamazzi di giovani ubriachi.
Urlavano a squarciagola e qualcuno aveva tirato fuori un coltello;
la sua lama scintillava sotto una vivida luna.
Ma lui non ci faceva caso; osservava distratto abituato alla violenza e al caos di quella zona sempre più bazzicata da ubriachi o malfattori.
Di fronte, sul fiume, sostava un barcone sfavillante adibito a ristorante; era stracolmo di gente che ballava, beveva e chiacchierava ad alta voce.
Le loro risate, si mescolavano ai rumori di sedie e bicchieri alzati per brindare.
Si brinda sempre a qualcosa…ogni scusa è buona purché si beva.
Intanto, lo sguardo di quell’uomo, si posò , alfine, su due ragazze; erano sedute ad un tavolino e parlavano di lavoro.
Ridevano in modo sguaiato e si agitavano sculettanti sulle poltroncine; avevano dei seni dispettosi che parevano quasi parlare.
Freschi, sfrontati, quasi uscivano dalle scollature molto abbondanti.
Lui era proprio di fronte a loro sprofondato in un divanetto rococò,; sudato, accaldato alla visione di quelle ragazze fin troppo disinvolte e disinibite.
Le desiderava a tal punto, che le avrebbe possedute lì all’istante per far prevalere la sua supremazia virile.
Le avrebbe amate e riamate ancora espletando tutte le fantasie possibili che la sua mente conteneva… lasciandosi andare ad ogni perversione fino allo sfinimento totale.
Nulla di cui sorprendersi ed indignarsi; tutti gli uomini del resto hanno più o meno le stesse fantasie; ma gli insegnamenti della Chiesa, che aveva subito suo malgrado, lo avevano devastato definitivamente.
E, pertanto, trovò quanto mai disdicevole quello che stava immaginando di fare e così tentò di allontanare quei suoi pensieri peccaminosi da se tentando di concentrarsi il più possibile su suoi progetti futuri.
Ed intanto sorseggiava lentamente un caffé lungo e amaro…fin troppo, ma a lui piaceva così, mentre, ad occhi chiusi, suo malgrado, immaginava donne discinte che ricamavano su pesanti broccati i loro sogni proibiti.
Al posto delle due civettuole, si sedé una donnina bruna, delicata, accollatissima, che appariva fin troppo pudica e morigerata.
Lo sguardo di lui indugiò a lungo ,mentre la osservava ed ammirava il suo profilo stagliato contro la luce di una finestra che aveva accanto a se.
Lui continuò a scrutarla con estrema attenzione: aveva labbra carnose, umide, grandi occhi neri e un nasino all’insù.
Poteva essere d’origine caucasica -pensò- ; ne aveva viste poche in giro e così rimase ancora per un po’ incerto.
Finì il suo caffé e, dopo qualche attimo di esitazione, decise di ritirarsi nella propria camera che soleva prendere in affitto, per qualche giorno, quando si trovava lì a passare.
Lei lo seguì e gli chiese, con gli occhi bassi e una vocina flebile, se poteva dormire con lui.
Lui, quanto mai sorpreso, rispose con un:” perché”.
Lei a sua volta ribatté: con un” non so!”.
La sua voce era sommessa, quanto mai timida ed impacciata, ma una volta a letto, lei si avventò su di lui con la furia di una valchiria.
Poi, quando si esaurì l’atto amoroso, si ricompose, si rivestì e tornò ad essere quella donna composta e riservata che lui aveva conosciuto;anzi assunse un’aria da maestrina seriosa e fece l’atto di uscire.
Lui le fu addosso ancora tremante e confuso e le chiese, trattenendole un braccio:” Ci rivediamo?”.
“Non lo so” –rispose lei-elusiva…
“E perché no?” – insisté lui- sempre più pressante.
“Perché sono sposata”.
“Sei sposata?” –eccepì lui- sorpreso e quasi sconvolto.
“Un po’ si e un po’ no”- a dire il vero- sussurrò lei – “tra me e mio marito non c’è più nulla”.
“Ragione in più , dunque, per stare ancora insieme?” –incalzò lui-.
Ma lei , svanì senza aggiungere altro, sempre più sfuggente, mentre lui si rivestì, si sistemò il cappotto, e si ravvivò i capelli.
Tutto era avvenuto così in fretta quasi in modo surreale, che ancora non ci credeva…non si raccapezzava.
Decise di tornare a casa, ma l’immagine di lei lo tormentava ancora…la vedeva in camera con lui, mentre lo baciava con passione e si dimenava sul suo corpo.
Ormai era buio e Buda offriva il meglio di sé; splendidi palazzi sfavillanti ,illuminati a giorno, trionfavano sui bordi del Danubio.
A casa c’era sua madre e la sorella ad aspettarlo; ma lui era oltremodo seccato e scostante; per un istante, si era sentito, come violentato da quella strana donna che era entrata prepotentemente nella sua vita e lui non ci stava…certe cose non funzionano così –pensava-… 
Voleva averla ancora, ma come diceva lui! Era pur sempre un uomo, santo Cielo!
Entrò in casa, quanto mai nervoso e di pessimo umore.
Non voleva mangiare né scambiare parola alcuna con le due donne che lo osservavano in silenzio abituate ormai ai suoi sbalzi d’umore.
Entrò d’impeto nella sua camera, si buttò sul letto, e cercò nuovamente di immaginarla con gli occhi chiusi.
Non si era nemmeno spogliato, preso com’era da lei.
Ormai quella donna gli era entrata dentro, ma tutto si era consumato così velocemente, che quasi iniziava a pensare che , quella strana creatura, fosse solo il frutto di una sua fantasia.
Ed, invece, a distanza di qualche giorno, la rivide su un treno; era lei senza ombra di dubbio…abbracciata ad un uomo alto, distinto e
brizzolato.
Forse era il marito- pensò- o un amante occasionale.
La osservò ancora mentre lei si stringeva all’altro; poi fu lei a vederlo.
Rimase stupita e il suo visino arrossì di colpo, ma il suo sguardo era profondo, intenso, acuto come un dardo , come un invito, una promessa.
Lui, decise così di prendere quel treno.
Era affollatissimo, ma riuscì ,comunque sia, a raggiungerla…ormai nulla poteva più fermarlo.
Era sempre più vicino a lei, poteva toccarla, accarezzarla e lo fece spudoratamente ma con estrema delicatezza fin quasi a sfiorarla… mentre l’altro sembrava distratto o intento a tenera a bada la calca di gente che, sempre più incalzante, premeva per cercare posto.
Lui continuò a blandirla teneramente, le sussurrava parole d’amore; lei, intanto, sembrava percorsa da fremiti e sussulti.
Quasi pareva respirasse a fatica.
Alla fine lui scese soddisfatto, eccitato; sentiva con estrema sicurezza, che lei l’avrebbe seguito e così si sarebbero rivisti in quello albergo… come se le avesse ormai strappato una promessa, un consenso.
Tornando a casa, passò da Pest che le appariva ancor più bella, ammiccante e languida come una femme-fatal mollemente adagiata sul Danubio che dolcemente la lambiva.
Il giorno dopo tornò in quell’albergo tetro e fumoso ; affittò la solita camera ed aspettò per giorni e giorni ancora.
Ma lei non si fece viva e così, lui disperato, come in preda ad uno stato di pura esaltazione, si lasciò trascinare da ogni tipo di sentimento che poteva solo nuocere alla sua già precaria salute.
Iniziò a subdorare che forse qualcosa gli era sfuggito: magari un dettaglio, un abbaglio o un maledetto imbroglio…
Alla fine decise di andar via, mentre ancora dentro di sé, malediva quella donna e quello strano incontro che l’aveva inesorabilmente stregato.
Ma, mentre scendeva nella hall, sorpreso, la intravide seduta ad un tavolino con quello stesso uomo incontrato sul treno; anzi fu proprio lui che , con un cenno della mano, lo invitò a sedersi accanto a loro.
Sorridevano e bevevano un lungo caffé.
Dunque lo aspettavano- pensò- tremante…non era un caso!
Ogni ipotesi poteva essere plausibile, così come ogni ragionevole dubbio, ma lui avrebbe accettato qualsiasi cosa…sarebbe sceso a qualsiasi compromesso pur di averla.
Ormai , dunque, tutto poteva accadere, tutto si poteva compiere al di là di ogni possibile previsione in quella città piena di mistero, magia e pathos.

 

di FRANCA BERARDI

 

E’ SEVERAMENTE VIETATA LA PUBBLICAZIONE DI STRALCI O DELL’INTERO RACCONTO SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.

“Julia” di Luisa Galano, alcuni commenti

Julia di LUISA GALANO
Albatros Editore, 2011, pp. 69
ISBN: 978-88-567-3521-5

Alcuni commenti dei lettori di questo libro:
“TI CONFESSO CHE OGNI TANTO RILEGGO QUALCHE PAGINA,COSI A CASO, PERCHE’,SONO CONVINTO CHE IL TUO LAVORO E’ TANTO INTERESSANTE CHE OGNI SINGOLO CAPITOLO, OGNI PAGINA, BASTA ED AVANZA PER PORSI DOMANDE E RIFLESSIONI CHE RESTANO DENTRO AL LETTORE”.

“ Il tuo non è un libro da leggere tutto in un fiato, ma da centellinare, come un vino pregiato.
Leggo qualche pagina, poi torno indietro e colgo nuove sfumature nelle righe già lette.
Dire bello è banale. E’ un’analisi amara, a volte spietata, molto profonda, espressa con tinte forti e potenti che a volte sfumano nel pastello. Ma la cosa più bella è il messaggio che colgo: nonostante tutto rialzati! non fare l’errore più grande di rinunciare alla vita, a te stessa, a tutto l’amore che hai ancora da dare e da prendere”.

“Julia è irretita nella condizione soffocante della violenza psicologica, soffre ma, la presa di coscienza della realtà in cui si lascia vivere, le offre la spinta a credere in un mondo diverso dove ritrova la sua dignità e si apre ad una vita nuova dove finalmente sente di essere protagonista. Romanzare una condizione tanto sofferta quanto quella riferita all’abuso psicologico sembra una sfida al dolore. Il carattere trascinante della narrazione, in Julia, permette al lettore di cogliere sentimenti ed agiti che rimandano a situazioni di vita che attanagliano. Vivendo con Julia la sua storia si innesca un circuito reattivo nel lettore stimolandolo ad intravedere uno sbocco a situazioni angoscianti”.

“Julia è la storia di una donna che si snoda tra sofferte condizioni di vita e la passione per la vita stessa. Non è permesso all’angoscia dei suoi giorni di annerirle l’anima; Julia avanza con occhi decisi e fronteggia quanto continua a consumare la linfa vitale dei suoi sorrisi. Una vita che non ha scelto ma che impara a volere come determinante per una sicura rinascita. Soprusi, denigrazioni e abusi psicologici rappresentano il trampolino di lancio per un futuro felice. Il futuro a cui ora può guardare, ora che ha ben chiaro quanto ci si possa ritrovare liberi da una condizione che schiavizza. Julia crede alla sua vita nuova e in tutto quanto sappia rendere significativo il dono ineguagliabile di poter essere al mondo”.

“La rosa nera”, racconto di Elena Maneo – commento critico

“La rosa nera”

racconto di Elena Maneo

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

Nella nostra cultura la rosa nera viene considerata come una variante floreale rara e introvabile, un fiore che spesso (tranne quelli che offrono invece un’operazione di tintura dei petali) nessuno ha mai visto in forma originale.  Porta dunque con sé un senso di mistero e segretezza, oltre ad evocare un fascino distinto, una cerimoniosità austera ma elegante.  Tutto ciò si respira leggendo il breve e omonimo racconto di Elena Maneo contenuto nella silloge La regina, l’amore e la forza (Kimerik Edizioni, 2011, ISBN: 9788860967046).  La storia che ci viene presentata è semplice e propone un tema sociale importante:  quello della sofferenza, dello stato di incompletezza di una donna a seguito della consapevolezza di non poter avere figli. Il tema è comune ma la Maneo è abile nel maneggiarlo, inserendolo in una storia breve che ha tutte le caratteristiche di una fiaba. Di una di quelle storie che fanno sognare i bambini, in cui i personaggi sono re e regine, gli spazi regge e parchi fantastici e in cui si inizia con un avvenimento doloroso per poi passare a un veloce happy ending. La formula è efficace e attuale per questo tipo di storia. La contessa Angelina, pur vivendo in una sontuosa reggia e disponendo di tutte le ricchezze che desidera, è infelice e fortemente turbata a causa dell’impossibilità di avere un erede. Alla sterilità biologica della donna (o forse del marito?) si unisce un’ulteriore sterilità che è quella dei buoni sentimenti, soprattutto nel coniuge della donna, il conte Oscar Odd. Il racconto si incentra sul tema della difficoltà nel raggiungere la felicità che niente ha a che vedere con il possesso di ricchezze.  Il problema è sentito molto profondamente dalla donna tanto che la sua salute arriva a risultare gravemente minacciata dal suo stato di depressione e di crisi emotiva. L’immagine che ci facciamo del conte Oscar è quello di un uomo poco attento ai sentimenti che, stranamente, neppure è preoccupato per la sua discendenza nobiliare.

La storia prende una piega diversa quando il conte, pensando di far un gradito omaggio alla moglie che riesca a risollevare il suo stato, le regala una bambina nera come serva personale. L’episodio fa pensare direttamente all’antica pratica della tratta degli schiavi basata sulla compra-vendita di schiavi e il loro impiego coatto all’interno dell’universo domestico del signore.  Ma quella che per il conte è semplicemente una “bambina negra” (notare l’utilizzo di “negra” al posto di “nera”, che porta con sé una connotazione esplicitamente razzista) per la contessa diviene il motivo di gioia e di abbandono delle sofferenze. La donna, infatti, finisce per provare sentimenti per la bambina e la adotta, liberandola dai vincoli lavorativi e di subordinazione che il marito aveva previsto per lei.

Quella che era una schiava (un’orfana, senza identità né casa) finisce così per essere considerata dalla contessa come “la rosa nera” a cui il titolo del racconto fa riferimento, come un’entità rarissima, insolita, preziosa. Non esiste in natura una varietà di rosa nera e, quella che più le rassomiglia, la Baccara, non è altro che una rosa color rosso scuro tendente al nero. La contessa, avendo con sé una rosa nera, unica ragione del suo rinsavimento, di fatto ha qualcosa che non esiste se non nella forma di un surrogato. Come la felicità stessa, appunto.

Lorenzo Spurio 

E’ SEVERAMENTE VIETATA LA RIPRODUZIONI DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE

“Incanto” di Pietro Grossi

INCANTO di Pietro Grossi

“Fino a non molto tempo prima, a chi me ne avesse chiesto, avrei confessato con una punta di ingenua superbia che le mura di ciò che mi ostinavo a chiamare ‘la mia vita’ – e che avevo tanto faticato a costruire – erano piuttosto solide. Da un giorno all’altro invece mi era parso di scorgere qua e là delle crepe poco divertenti e mi era pian piano venuto il dubbio che qualcuno avesse miscelato la malta nelle proporzioni sbagliate. Mentre tutto prendeva a tremare e iniziavo mio malgrado a vedere pezzi di intonaco che si staccavano dalle pareti, fui travolto dall’angosciante necessità di scovare l’istante esatto in cui tutto era cominciato.” (da Incanto di P. Grossi)

Un borgo tra i colli toscani, un’estate di sole e cicale, tre ragazzi diversissimi ma legati dall’amicizia tacita e rovente di chi vuole crescere in fretta: Greg, solitario erede della famiglia più ricca del circondario; Jacopo, genitori borghesi ai limiti della noia; e Biagio, povero, libero e strambo come Huckleberry Finn. Nel volgere di quell’estate, una vecchia motocicletta rimessa a nuovo e una pista d’asfalto comparsa magicamente nella campagna, nera e lucida come un serpente indiano, segneranno l’inizio di un’avventura destinata a portarli lontano.

Pochi mesi dopo, Biagio inizia la sua folgorante, eccentrica carriera di campione internazionale delle due ruote. E Jacopo, compilando una cartolina trovata in un libro di scuola, vince una borsa di studio che lo condurrà a misurarsi con i misteri e le sfide della fisica in una delle più prestigiose università britanniche, e poi negli Stati Uniti. Le tracce di Greg, invece, paiono perdersi nelle ragnatele luminose dell’alta finanza mondiale. Eppure, proprio nel momento in cui sono più lontani, a chissà quante migliaia di chilometri l’uno dall’altro, i tre amici sembrano non essere mai stati più vicini, uniti come sono – per chissà quale destino o invisibile forza cosmica – dalla quasi simultanea scoperta del sesso e dell’amore, il magnete più potente e il mistero più insondabile ed esaltante, qualcosa che “ha a che fare più con l’universo che con il mondo”.

Amore, successo, felicità: di tutte le promesse che si rincorrevano nell’adolescenza veloce lungo la “Stradaccia”, almeno una è stata mantenuta? Quale illusione ha sedotto ciascuno dei ragazzi ora diventati uomini, inducendoli a spezzare quell’incanto, quella quiete fatta di piccole cose e grandi sogni?

Vent’anni dopo, spinto da un sospetto assurdo, Jacopo vola a New York per incontrare Greg. Inattesa e liberatoria come un temporale estivo, necessaria e abbacinante come una dimostrazione matematica, è la resa dei conti di un’amicizia: tre vite in un cono di luce che ha provato a sfidare il buio tutto intorno.

Pietro Grossi torna al romanzo, e lo fa muovendo dal momento palpitante del coming of age che già era al centro della sua prima prova narrativa: ma qui il respiro si fa più ampio, il passo ambizioso, la scrittura matura e forte. Il frutto è una narrazione ampia, cesellata e insieme epica, che ci consegna la traiettoria di un destino con la sua perentoria, umanissima verità.

 

Pietro Grossi è nato a Firenze nel 1978. Ha pubblicato con Sellerio la raccolta di racconti Pugni (2006, premio Cocito Montà d’Alba, premio Chiara, premio Fiesole, finalista premio Strega, premio Campiello Europa 2010 e premio Viareggio) e i romanziL’acchito (2007) e Martini (2010). 

Intervista a Gianni Mauro, a cura di Emanuele Marcuccio

Intervista Gianni Mauro

a cura del Direttore Editoriale Emanuele Marcuccio

EM: Innanzitutto, io, tutto lo staff di Vetrina delle Emozioni e soprattutto la nostra cara presidente, Gioia Lomasti, ti ringraziamo per aver accettato di rilasciare questa intervista, in esclusiva per il nostro blog. Da quanto tempo scrivi, come è nato in te il desiderio di scrivere, quando hai scritto la tua prima poesia?

GM: Ho iniziato da ragazzo. Erano dei semplici esperimenti di come utilizzare le parole per dare immagini. Arthur Rimbaud diceva: «Le vocali sono colori, ed io disegnavo con le parole».

EM: Cos’è per te la poesia, cosa non deve mai mancare in una poesia in generale e nella tua in particolare?

GM: La poesia è musica. E l’elemento fondamentale della poesia è appunto il ritmo e la musicalità.

EM: Cosa non deve mai mancare nello scritto di uno scrittore?

GM: Non deve mai mancare l’anima. 

EM: Dal punto di vista strettamente stilistico com’è il tuo poetare? Utilizzi la metrica o solo la rima, o nessuna delle due e perché?

GM: Utilizzo entrambe le forme per fare versi. Ma ritorno al discorso di prima, ci vuole emozione, musicalità, armonia.

EM: Quanto tempo impieghi per scrivere una poesia?

GM: Da un minuto ad un anno. 

EM: Perché, secondo te, la poesia ha minor pubblico rispetto alla narrativa, tanto da esser considerata di nicchia? E perché uno scrittore sceglie di scrivere poesie?

GM: Diceva William Faulkner che la poesia è la forma più elevata, ma nel contempo più complicata per esprimere sensazioni, emozioni. Condensare in pochi o parecchi versi il senso della vita è difficilissimo. Il romanzo lascia più possibilità di dire e forse di farsi capire. Il pubblico non vuole sforzarsi molto ad approfondire per capire. La poesia ti costringe a fare sforzi interpretativi non semplici. Uno scrittore non scrive poesie, ci prova! Il che è completamente diverso. Scrivere una poesia non vuol dire mettere insieme delle parole. Vuol dire mettere su un foglio con forza e autenticità la disperazione o l’allegra nostalgia della propria anima.

EM: Preferisci scrivere a penna o al PC?

GM: Io da sempre scrivo tutto prima a penna e poi man mano trasferisco sul computer.

EM: Quali esperienze sono state per te più significative per la tua attività artistica e letteraria?

GM: Ho un background spaventoso di collaborazioni e confronti con i massimi artisti italiani, sia a livello teatrale che musicale. Ho fatto con loro (Rascel, Bramieri, Gabriella Ferri, Oreste Lionello, Pippo Franco, Gigi Proietti, Detto Mariano, Franco Migliacci, Piero Pintucci, Dino Verde e tanti altri) palestre estreme ed avendo già innato in me il senso dell’arte, mi hanno dato il valore aggiunto. Per quanto riguarda la letteratura, io sono un lettore attentissimo da circa 40 anni. A 16 anni leggevo Pirandello, Kafka, Pavese, Sartre. Leggo tutti i giorni almeno ottanta pagine. Vado da Schopenhauer a Faulkner, da Dino Campana a Gaudapada, da Dostoevskij ad Esenin.

EM: Come nasce in te l’ispirazione? Come organizzi il tuo scrivere, ci sono delle fasi?

GM: Chiesero a Pirandello come avesse fatto a scrivere tanti straordinari capolavori. Il maestro rispose: «Io? I capolavori? Non ne so nulla. Io mi siedo alla scrivania, e mi limito ad appoggiare la penna su un foglio bianco, poi mi estraneo».

EM: Sei autore di due raccolte di poesie, ce ne vuoi parlare?

GM: Sono dei Divertissement. Io in realtà sono da trenta anni un autore di canzoni malinconiche od ironiche. Collaboro spesso come autore con Proietti, Arbore e tanti altri. Avevo nel cassetto tante cose scritte e mi hanno proposto di pubblicarle. Erano tante emozioni in versi. Le case editrici sanno che sono ritenuto un bravo autore e quindi sono contenti di mostrare una faccia più o meno inedita di me.

EM: Cosa ti ha spinto la prima volta a voler pubblicare?

GM: Lavoro con la discografia e quindi con gli editori discografici da una vita. Ho venduto milioni di canzoni nel mondo. Ho scritto e scrivo per il teatro. Mi hanno proposto di pubblicare romanzi, poesie, saggi. L’idea mi divertiva e l’ho fatto. Tutto qui.

EM: Ci parli della tua nascita come artista? Com’è iniziata la tua carriera di cantautore e attore teatrale?

Negli anni settanta studiavo Giurisprudenza a Napoli e mi dilettavo a suonare la chitarra e ad eseguire cover di De André, Guccini, Claudio Lolli. A volte scrivevo io delle canzoni, ma senza nessun tipo di velleità. Lo facevo per dire qualcosa di malinconico o di dissacrante sul momento storico che stavo vivendo, sui miei amori o non-amori e così via. Un giorno per caso conobbi un mio coetaneo di una ventina di anni, come me, che aveva suonato (era un musicista) e suonava come turnista (il turnista è un musicista che suona in sala discografica) alla R.C.A. di Roma (all’epoca la major della discografia mondiale, in America aveva Elvis Presley, Paul Anka e tanti altri grandissimi; in Italia aveva Battisti, Cocciante, Patty Pravo, Mia Martini e, i debuttanti, all’epoca, De Gregori, Rino Gaetano, Venditti, Baglioni e tanti altri). Ascoltò i miei brani, mi chiese una cassettina e la portò ad ascoltare ad alcuni dirigenti ed editori della R.C.A. Tempo due mesi (era il 1975), fui contattato dalla R.C.A. che mi fece firmare un contratto in esclusiva come autore e cantautore. L’anno dopo uscì Il 45 giri Lunedì. Gabriella Ferri se ne innamorò e lo inserì in un suo LP. E così iniziò il mio percorso di autore, che mi porta oggi ad aver scritto e pubblicato in Italia e nel mondo tantissime canzoni, e ad essere uno degli autori di Proietti. Il lavoro di attore teatrale iniziò in quegli anni. Fu notata la mia forte presenza di palco, la gestualità, la mimica e, nel 1978 lavorai con Proietti, poi con Rascel, poi con Bramieri, Pippo Franco, Oreste Lionello e tanti altri. Oggi continuo a farlo, con divertimento, anche se per poco tempo, perché le mie priorità sono il lavoro di autore e di scrittore e innanzi a tutto, la lettura, lo studio e la ricerca.

EM: Per il nostro blog è un grande onore che tu abbia accettato, con tutti gli impegni che avrai, di rilasciarmi questa intervista, a me che non sono un giornalista e, capirai, quasi non mi sembra vero! Ci parli del tuo sodalizio artistico col grande e compianto Rino Gaetano?

GM: Emanuele caro, è per me un grande piacere ed  un onore aver potuto parlarti di frammenti della mia vita, dei miei pensieri,dei miei vissuti, dei miei presenti, dei miei futuri progetti. Sei un bravissimo poeta ed un uomo squisito, intelligente, colto, attento. Ed io ho sempre amato comunicare con le belle menti, ormai, purtroppo, rarissime. Parlerò brevemente di Rino, perché ricordarlo è comunque il riaprire un’antica ferita, difficile da rimarginare. Il 2 Giugno di quest’anno la sorella Anna ed il nipote Alessandro mi hanno invitato a portare una mia testimonianza in occasione dei trenta anni dalla scomparsa di questo caro amico, giovane artista riservato e sensibile. È stato fatto un evento a Piazza Sempione(zona Montesacro) a Roma, a pochi metri da dove avvenne la terribile tragedia. C’erano parecchi artisti italiani. È stato molto toccante l’incontro con Claudio Santamaria (Il bravissimo attore che interpretava Rino, nel film televisivo). Per me perché è stato un po’ come rivedere Rino da ragazzo, per Claudio, perché ha incontrato me e cioè un amico reale e collega di Rino, che oltretutto è rimasto nella storia della musica anche per aver cantato con Rino la canzone Gianna nel ‘78 al Festival di Sanremo, nel coretto demenziale: “Ma dove vai vieni qua…il dottore non c’e’ mai…”. Con Rino siamo stati amici e colleghi alla R.C.A. italiana per anni. Stavamo spesso insieme. Conoscevo bene anche la dolce Amelia che sarebbe dovuta diventare la moglie. Quando convinsero Rino a partecipare a Sanremo(non era granché d’accordo), lui impose alla R.C.A. di portare un minigruppo di amici  sul palco a cantare con lui. E così scelse me, che ero molto vicino a lui per empatie di anima e di arte, Angelo perché ricordava un po’ Ninetto Davoli e due belle ragazze, Angela e Monica. Rino era un ragazzo straordinario, gentile, generoso ed un geniale artista. Rino vivrà per sempre grazie alla sua estrema sensibilità artistica ed umana.

EM: Caro Gianni, sono commosso, l’onore è anche mio ed è un grande piacere anche per me, commosso dalle tue parole e da questo ricordo del grande e indimenticabile Rino! Tra tutte le poesie che hai scritto finora ce n’è una che ti è più cara o che ritieni più significativa?

GM: Io sono un uomo di grande solidarietà, un uomo di compassione (com-patire o meglio patire con, che vuol dire appunto essere presente nella sofferenza, nel dolore, vicino agli emarginati, agli umili, ai violati e violentati dall’esistere). La poesia che mi è molto cara è questa:

Le carezze

Amica mia,

se le mie carezze

riuscissero a lenire

le tue pene,

anche quelle dell’anima,

io carezzerei

il tuo viso delicato

fino a farmi sanguinare

le mie stupide mani.

E se ogni lacrima

del mio sangue

divenisse per te

linfa vitale

io continuerei

a carezzarti

fino a stracciarmele,

a dilaniarmele…

E se pure ne morissi,

morrei contento,

perché avrei comunque

trasfuso in te

un miracolo di resurrezione.

 

EM: Sei autore di una raccolta di racconti, ce ne vuoi parlare?

GM: Sono affascinato dal futurismo, dalla scrittura evocativa, dal simbolismo dal surreale. Ho raccolto ciò in Storie Disordinate di Straordinaria Ordinarietà.

EM: Ci parli del tuo romanzo Vite diverse?

GM: Vite Diverse è nato da una riflessione sul vuoto, come lo concepiva Kerouac e prima di lui Schopenhauer e molti altri filosofi. In realtà il vuoto è quel momento sublime, in cui rendendo la tua mente libera da sovrastrutture (tabula rasa), riesci a far entrare nell’anima, nel cuore il pieno riuscendo così a cogliere l’essenza del vivere.  

EM: A marzo 2011 hai presentato il tuo secondo romanzo Meno di niente Emilia alla storica Saletta rossa della Libreria Guida di Port’Alba a Napoli, sin dagli anni sessanta storico ritrovo di molti poeti e scrittori famosi, come Giuseppe Ungaretti, Alberto Moravia, Umberto Eco, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, autori stranieri come Kerouac, Ginsberg, Klossowski. Ci parli di questo romanzo e di questa importante esperienza?

GM: Meno di niente Emilia è un romanzo sul disagio dell’esistere. Dalla sceneggiatura, che sto finendo di scrivere, verrà tratto un film. La Storia è incentrata sull’enigmatica Emilia. A chi mi chiede (giornalisti, critici) “Chi è Emilia?” io dico di ricordare la scena finale del Così è se vi pare di Pirandello. Quando si chiede alla Signora Ponza: “Ma lei in realtà chi è?”, la Signora risponde, “Per me nessuna, nessuna! Per gli altri, quello che credono che io sia!”. Ebbi occasione di farlo leggere a Mary Attento, editore da anni della storica casa editrice Guida. Ne fu entusiasta e mi propose di pubblicarlo, appunto, con Guida. Ne fui molto lieto perché Guida è un editore famoso, in Italia e nel mondo, anche perché ha pubblicato letterati o drammaturghi del livello di Salvatore Di Giacomo, Eduardo De Filippo, Raffaele Viviani. Anche il mio prossimo romanzo sarà pubblicato da Guida. Alfredo Guida è il capostipite di questa importante casa editrice. A lui va inoltre il merito di essersi inventato, negli anni cinquanta, il più importante salotto letterario internazionale: La saletta rossa. Qui si incontravano Hemingway, Kerouac, Moravia, Ungaretti e tanti altri. Quando ho presentato il libro lì ero felice, ma molto inquieto ed emozionato. È stata una meravigliosa esperienza, che fra non molto ripeterò.

EM: Sei autore di testi teatrali, ce ne vuoi parlare?

GM: Ho scritto molti testi teatrali, soprattutto per I Pandemonium. In genere sono testi recitati e cantati. Quello di maggior successo è stato la parodia di Notre Dame de Paris di Cocciante. Il mio titolo in parodia è Il gobbo delle nostre dame.

EM: Quali sono i tuoi poeti e i tuoi scrittori preferiti?

GM: La lista sarebbe lunghissima. Escludo gli autori italiani viventi, non mi interessano, per i poeti il discorso è uguale. Sono molto attento e selettivo. Di quelli che amo dico qualche nome: Baudelaire, Rimbaud, Sandro Penna, Puskin, Majakovskij, Montale, Merini, Ungaretti. Per gli scrittori: Henry James, Jane Austin, Faulkner, Kerouac, Böll, Camus, Sandor Marai, Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj.

EM: E qual è la tua poesia preferita?

GM: Un viaggio a Citera, di Charles Baudelaire:

Come un uccello, gioioso, volteggiava il mio cuore, /

planando liberamente attorno al cordame; /

sotto un cielo limpido la nave scivolava, /

simile a un angelo inebriato da un sole radioso. /

Che isola è mai quella, così nera e triste? È Citera, /

qualcuno risponde, terra famosa nelle canzoni, /

banale Eldorado dei vecchi diversi. /

Ma guardata dappresso, è una ben povera terra. /

– Isola dei dolci segreti e delle feste del cuore! /

Dell’antica Venere il superbo fantasma /

si libra sui tuoi mari come un aroma, /

riempiendo gli animi d’amore e di languore. /

Bella isola di verdi mirti, ricca di fiori schiusi, /

venerata in eterno da tutte le nazioni, /

e in cui i sospiri dei cuori adoranti /

errano come l’incenso su un roseto /

O come il tubare infinito del colombo! /

– Citera non era più che una magra terra, /

un deserto roccioso turbato da stridule grida. /

Ma vi scorgevo un oggetto singolare! /

Oh, non un tempio dalle ombre silvestri, /

dove la giovane sacerdotessa, innamorata dei fiori, /

andava, il corpo bruciato da segreti ardori, /

dischiudendo la tunica alle brezze fuggitive… /

Ma ecco che, rasentando da vicino la costa, /

così da intimorire gli uccelli con le nostre bianche vele, /

ci apparve una forca a tre bracci, /

nera contro il cielo come un cipresso. /

Appollaiati sulla loro pastura feroci uccelli /

distruggevano rabbiosamente un impiccato, già sfatto: /

ciascuno piantando, come un attrezzo, il becco impuro /

in ogni angolo sanguinante di quel marciume, /

gli occhi due buchi, e dal ventre sfondato /

i grevi intestini colavano lungo le cosce; /

quei carnefici, satolli di orribili delizie, /

l’avevano, a colpi di becco, castrato completamente. /

Ai piedi, un branco di invidiosi quadrupedi, /

muso alzato, giravano e rigiravano: /

in mezzo s’agitava una bestia più grande, /

come un boia circondato dai suoi aiutanti. /

Abitatore di Citera, figlio d’un cielo così bello, /

in silenzio sopportavi tutti questi oltraggi /

in espiazione degli infami culti /

e dei peccati che t’hanno negato una tomba. /

Grottesco impiccato, i tuoi sono anche i miei dolori! /

Alla vista delle tue membra penzolanti sentivo, /

come un vomito, risalire ai miei denti /

il lungo fiume di fiele degli antichi dolori; /

Dinanzi a te, povero cristo così caro al ricordo, /

ho provato tutti i becchi e tutte le mascelle /

dei corvi lancinanti e delle nere pantere /

che un tempo amavano triturare la mia carne. /

– Il cielo era incantevole, il mare calmo; /

ma per me tutto era tenebre e sangue, ormai, /

e avevo, ahimè! come in uno spesso sudario /

il cuore sepolto in questa allegoria. /

Nella tua isola, o Venere! non ho trovato che una forca /

da cui pendeva la mia immagine… /
– Ah! Signore, dammi la forza e il coraggio /

di contemplare senza disgusto il mio corpo e il mio cuore! /

 

EM: Quali sono i tuoi libri preferiti, c’è un libro del cuore?

GM: Guerra e Pace di Tolstoj.

EM: C’è un genere di libri che non leggeresti mai e perché?

GM: I libri fantasy e quelli di Liala e consimili.

EM: Nella tua vita ti è mai capitato qualcosa che ha rischiato di allontanarti dalla poesia o, che ti ha allontanato per un periodo dalla poesia o dalla scrittura in genere?

GM: Non potrebbe capitarmi. Vivo di poesia e scrittura e per la poesia e la scrittura. È la priorità della mia esistenza. Vivo per questo ed il resto è tutto molto secondario.

 EM: Ami la tua terra, la tua regione o vorresti vivere altrove?

GM: Io sono nato a Salerno, ma sono andato via più di trent’anni fa e mi sono trasferito a Roma. In realtà ho vissuto più a Roma che a Salerno. Di Salerno ho lontani ricordi. Roma è un meraviglioso presente.

EM: Tra poesia e narrativa, cosa scegli e perché?

GM: Amo entrambi i tipi di scrittura. Non scelgo nulla. Evito ciò che non mi emoziona.

EM: Hai un sogno nel cassetto?

GM: Fra due o tre anni andrò a vivere in Thailandia. Devo capire perché Gauguin l’ha amata tantissimo.

EM: Cosa pensi dell’attuale panorama editoriale italiano?

GM: Fanno operazioni squallide, puntando su Barzellette dei calciatori, o sul tale personaggio del Grande Fratello e similari. E la cultura?

EM: Già, cosa pensi dell’attuale panorama culturale italiano?

GM: Idem.

EM: Cosa pensi dei premi letterari, pensi siano importanti e necessari per un autore?

GM: Sono avvilenti operazioni di marketing, in cui si sa già chi ha vinto.

EM: Lo scorso agosto ho letto un articolo di Cesare Segre sul Corriere della Sera, riguardo all’irresistibile declino della critica letteraria agli autori contemporanei, con la conseguente perdita di prestigio della letteratura. Cosa pensi a riguardo, è davvero in declino la critica letteraria?

GM: I critici non sono più obiettivi, scrivono bene per chi paga di più.

EM: Quanto è importante per te il confronto con altri autori?

GM: Tantissimo. È un do ut des.

EM: Ci sono dei consigli che vorresti dare a chi si accosta per la prima volta alla scrittura di poesie o alla scrittura in genere?

GM: Voglio dire che scrivere non è un gioco e se non si ha un background culturale fortissimo è inutile tentare di mettersi in gioco.

EM: Cosa pensi delle scuole di scrittura?

GM: Niente!

EM: E qual è la tua opinione riguardo alla scrittura su commissione?

GM: Pessima!

EM: Vuoi anticiparci qualcosa su quello che stai scrivendo, prossime pubblicazioni?

GM: Nel 2013 con Guida Editore uscirà un nuovo romanzo sul disagio dell’esistere: La quadratura del cerchio.

EM: Grazie infinite per la tua disponibilità e tanti auguri per le tue prossime pubblicazioni e per la tua strabiliante carriera!

 

 A cura di Emanuele Marcuccio                                                  

Intervista a Giuseppe Pompameo

Intervista a Giuseppe Pompameo

Autore di Le strane abitudini del caso

a cura di Lorenzo Spurio

LS: Come dobbiamo interpretare il titolo che hai scelto per la tua opera?              

GP: Il titolo del mio libro, Le strane abitudini del caso, vuole rappresentare con un evidente paradosso verbale, il ruolo, puntuale, e pure bizzarro, che hanno il caso, il destino nelle vicende umane.

LS: Un autore negherà quasi sempre che quanto ha riportato nel suo testo ha un riferimento diretto alla sua esistenza ma, in realtà, la verità è l’opposto. C’è sempre molto di autobiografico in un testo ma, al di la di ciò, il recensionista non deve soffermarsi troppo su un’analisi di questo tipo perché risulterebbe per finire fuorviante e semplicistica. Quanto c’è di autobiografico nel tuo libro? Sei dell’idea che la letteratura sia un modo semplice ed efficace per raccontare storie degli altri e storie di sé stessi?

GP: Nella mia raccolta di racconti, come in ogni opera di ogni autore vi è, secondo me, sempre una traccia autobiografica, anche non necessariamente manifesta, in quanto ciascun scrittore, anche senza volerlo, mette nella sua opera le proprie sensazioni, emozioni, esperienze, i propri ricordi, la propria sensibilità, in una parola il suo vissuto. Insomma, per rispondere anche alla seconda domanda, si potrebbe dire sì, che la letteratura si può, molto spesso considerare per ciascun scrittore un modo semplice ed efficace per raccontare, attraverso le storie degli altri, sé stesso ed il proprio mondo.

LS: Quali sono i tuoi autori preferiti? Quali sono le tendenze, le correnti italiane e straniere e i generi letterari che più ti affascinano? Perché?

GP: Sono sempre stato molto affascinato dalla letteratura latino-americana e da autori come Garcia Marquez, e dal suo realismo magico, Amado, Guimaraes Rosa, Alvaro Mutis, solo per citarne alcuni per il loro modo estremamente suggestivo ed evocativo di rappresentare la realtà trasfigurandola in chiave fantastica. Quanto agli scrittori italiani tra i miei autori di riferimento vi sono certamente Gadda, Calvino, Parise e, tra i contemporanei, Erri De Luca e Marco Lodoli oltre ai grandi poeti ermetici del Novecento.

LS: So che rispondere a questa domanda sarà molto difficile. Qual è il libro che di più ami in assoluto? Perché? Quali sono gli aspetti che ti affascinano?

GP: Non ce n’è uno solo. Comunque, se proprio devo fare una scelta, direi Il libro dell’inquietudine di F. Pessoa, per la straordinaria capacità dell’autore di rivendicare il primato dell’immaginazione nella letteratura come nella vita e La terza sponda del fiume di Guimaraes Rosa, per la cifra stilistica assolutamente originale e fortemente evocativa.

LS: Quali autori hanno contribuito maggiormente a formare il tuo stile? Quali autori ami di più?

GP: Sicuramente, lo ripeto, gli autori sudamericani, tra i quali amo in particolare Garcia Marquez.

LS: Collabori o hai collaborato con qualche persona nel processo di scrittura? Che cosa ne pensi delle scritture a quattro mani?

GP: No, non ho mai collaborato con nessuno nel processo di scrittura anche se penso che per il futuro l’opzione di scrivere un’opera a quattro mani potrebbe essere una prospettiva interessante.

LS: A che tipo di lettori credi sia principalmente adatta la tua opera?

GP: A chi vuole indagare, conoscere meglio la realtà, ma, al tempo stesso, non ne può più della realtà.

LS: Cosa pensi dell’odierno universo dell’editoria italiana? Come ti sei trovato/a con la casa editrice che ha pubblicato il tuo lavoro?

GP: Ritengo che l’editoria italiana, come purtroppo molti altri segmenti culturali del nostro Paese, sia ripiegata su posizioni fin troppo commerciali e di consumo. Quanto, invece, al mio rapporto con la coraggiosa ed indipendente casa editrice napoletana che mi ha pubblicato, “Scrittura & Scritture”, devo dire che mi sono trovato benissimo, avendo condiviso con le due editrici, le sorelle Eliana e Chantal Corrado, oltre che un progetto editoriale, anche una filosofia di lavoro basata sulla passione e la qualità degli intenti.

LS: Pensi che i premi, concorsi letterari e corsi di scrittura creativa siano importanti per la formazione dello scrittore contemporaneo?

GP: Da docente di scrittura creativa credo che i corsi di scrittura servano non a produrre necessariamente autori in serie, ma, soprattutto, ad affinare, se c’è, il talento di chi scrive e a fornirgli un bagaglio tecnico che gli permetta di formarsi, coltivando al meglio e appunto, sublimando, eventualmente, la sua passione per la scrittura. Quanto ai premi ed ai concorsi letterari, quando sono seri, penso che siano un utile vetrina per la consacrazione di autori ed opere di qualità.

LS: Quanto è importante il rapporto e il confronto con gli altri autori?

GP: Lo ritengo importantissimo e fortemente stimolante.

LS: Il processo di scrittura, oltre a inglobare, quasi inconsciamente, motivi autobiografici, si configura come la ripresa di temi e tecniche già utilizzate precedentemente da altri scrittori. C’è spesso, dietro certe scene o certe immagini che vengono evocate, riferimenti alla letteratura colta quasi da far pensare che l’autore abbia impiegato il pastiche riprendendo una materia nota e celebre, rivisitandola, adattandola e riscrivendola secondo la propria prospettiva e i propri intendimenti. Che cosa ne pensi di questa componente intertestuale caratteristica del testo letterario?

GP: Credo che ogni scrittore si porti dentro le esperienze di conoscenza e di lettura maturate nel corso degli anni. Perciò è inevitabile che queste, in un modo o nell’altro, possano influenzare, permeare di sé, seppur rivisitate letterariamente alla luce delle singole sensibilità e identità stilistiche l’opera di qualsiasi autore.

LS: Hai in cantiere nuovi lavori e progetti per il futuro? Puoi anticiparci qualcosa?

GP: Sì, in questo momento sto lavorando alla messa a punto del mio secondo romanzo e ad una nuova raccolta di racconti, oltreché ad un testo teatrale

La ringrazio per avermi concesso questa intervista che verrà pubblicata sul mio spazio blog, Blogletteratura e Cultura, sulle riviste on-line Parliamone, Segreti di Pulcinella e Euterpe con tempi e modalità che le verranno in seguito fornite.

 a cura di Lorenzo Spurio                                     

E’ SEVERAMENTE VIETATA LA PUBBLICAZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE. 

Ali di gabbiano, il breve volo di Frida Kahlo

ALI DI GABBIANO

Il breve volo di Frida Kahlo

Articolo a cura di Angela Crucitti 

Probabilmente pensava all’incidente che le cambiò la vita Frida Kahlo, quando dipinse Il bus del 1929. Era il 17 settembre del 1925 quando Frida salì, insieme al suo primo amore Alejandro Gomez Arias, su un autobus. Nei colori caldi e tenui e nelle espressioni dei passeggeri non si legge nulla che prefiguri l’imminente scontro tra l’autobus e un vecchio tram; impatto tragico in cui il corrimano infilzerà la giovane pittrice «come la spada il toro» e la lascerà seminuda, ricoperta di sangue e di polvere d’oro, rovesciata dal sacchetto che l’uomo rossiccio del quadro tiene in mano. Furono mesi incerti quelli dopo la tragedia, in cui la vivace Frida fu costretta a letto per un lungo periodo. Sua madre le costruisce così un letto a baldacchino, con uno specchio che ricopre interamente il tetto del baldacchino. Frida descrive quello specchio come «carnefice dei miei giorni, delle mie notti», lamentandosi di essere obbligata a vedersi continuamente. Impara presto a conviverci e comincia a disegnarsi. Forse deriva proprio dall’imposizione della sua immagine riflessa l’ossessione della Kahlo per gli autoritratti. Si dipinge sempre seria, con la bocca rosso vermiglio dolcemente chiusa e lo sguardo fiero ma dolce, sormontato da due sopracciglia che si uniscono come fossero ali di gabbiano. Sembrano voler spiccare un volo che a Frida non è permesso, a lei che non ha nè ali né piedi ma solo radici che la tengono ancorata saldamente a terra, come si raffigura nel dipinto Le radici.

Inquietante è La colonna spezzata, in cui la pittrice si disegna piangente, a torso nudo e aperto a metà, mostrando nella carne vermiglia, al posto della colonna vertebrale dilaniata dall’incidente, una lunga colonna di marmo scheggiata. Il corpo è puntellato da chiodi, sicuramente simbolo delle enormi sofferenze fisiche e psichiche, ma anche chiodi che la puntellano alla vita, la aiutano a resistere. Non a caso il colore dominante è il bianco, colore della purezza, della rinascita, in contrasto con i colori vivaci, accesi e stridenti della maggior parte dei suoi dipinti, dove a imperare è il rosso sangue. Come in Henry Ford Hospital, che vede una Frida completamente nuda, distesa su un letto macchiato di rosso magenta. Tiene in mano un lungo cordone ombelicale sanguigno che la collega ad un feto, ad un fiore appassito, ad un osso pelvico, simboli della sua impossibilità di procreare, di dare la vita ad un altro essere. Perché oltre all’aborto testimoniato da questo quadro del 1932, la pittrice messicana abortisce altre due volte e sono esperienze che avranno una grande risonanza sulla sua opera.

A segnare il suo modo di dipingere, interviene anche la sua burrascosa relazione col pittore Diego Rivera. I due si sposano il 21 agosto del 1929 e da allora sarà un rapporto costellato di stramberie, viaggi e tradimenti. Tradimenti che uccidono Frida a poco a poco, come testimoniato da Qualche piccola punzecchiatura, ispirato da un fatto di cronaca ma riferito probabilmente alle mille scappatelle di Diego, tra le quali c’è anche Cristina, la sorella minore di Frida. Il dipinto rappresenta una donna nuda cosparsa di sangue, liquido che esce dalla tela e imbratta anche la cornice, a gridare il dolore, la delusione. Ma la coraggiosa artista non si limita a subire; tradisce anche lei ripetutamente il marito con Nickolas Muray, David Alfaro Siqueiros, Isamu Nogochí e Leon Trotzkij, oltre ad avere presunti flirt con donne del calibro di Tina Modotti, Dolores Del Rio e Georgia O’Keefe. I due divorziano nel ‘39 e Frida dipinge il suo quadro dalle dimensioni più grandi, come se volesse estendere il suo rancore e la sua sofferenza su una superficie più vasta. Ne Le due Frida, rappresenta due se stesse che si tengono per mano: una Frida è vestita di bianco al modo europeo e ha il cuore straziato come quello della pittrice che non ha più il suo amore, l’altra indossa l’abito messicano e ha un cuore perfettamente sano e pulsante per Diego. Nonostante i tradimenti e il breve periodo di separazione (conclusosi nel ‘40 con un secondo matrimonio)  i due artisti si completavano, si amavano e si ammiravano. Diego Rivera fu il primo a riconoscere la levatura artistica di quella donnina che gli passava vent’anni e più di venti centimetri..E Frida lo compiaceva, vestendosi alla tehuana, quel modo bizzarro e messicano di agghindarsi che la contraddistinse sempre, e lasciandosi crescere i baffi che a Diego piacevano un sacco. Sapere che anche una donna anticonformista come lei scendesse a compromessi per l’uomo che amava, ce la rende più simpatica, più umana.

Quello che salta all’occhio nei suoi dipinti, oltre al formato piccolo e quindi intimistico, è la raffigurazione dei corpi. Sono corpi molli, pupazzi di gomma, come se la pittrice messicana negando le ossa, negasse anche la fragilità dell’essere umano, che si piega alle circostanze della vita ma non si spezza. Proprio come fa Frida che affronta coraggiosamente la vita, nonostante i suoi ripetuti problemi di salute e di “cuore”, e cerca di ottenerne il meglio. Ma lo scheletro c’è, è sopra il suo letto a baldacchino, dipinto nella sua interezza ne Il sogno: uno scheletro nudo, scarno, atto a rappresentare la morte che sempre incombe su Frida. Ha infatti provato varie volte a suicidarsi, abbandonandosi all’alcool e alle medicine, ma la vita l’ha sempre strappata, l’ha sempre richiesta indietro. Un solo suicidio le è riuscito, nel quadro stupendo che raffigura Il suicidio di Dorothy Hale. Qui vengono descritte le tre fasi della morte violenta dell’attrice americana, attraverso un gioco di prospettiva della figura umana e il bianco sfumato che annulla il tempo e lo spazio. Dal corpo, del tutto vestito di nero, stilla sangue che ancora una volta fuoriesce dalla tela e contamina la cornice.

Frida, nonostante i suoi quadri possano farci pensare il contrario, è sempre stata un’attenta osservatrice della realtà sociale e politica attorno a lei. Per tutta la vita, l’artista messicana lottò in difesa degli oppressi, militò nel partito comunista e undici giorni prima di morire si recò, nonostante il parere contrario dei medici, ad una manifestazione contro la caduta in Guatemala del governo democratico di Jacobo Arbenz Guzman. Nel luglio del 1954, «Frida la fiammeggiante» fu «portata via dalle fiamme», nel crematorio civile di Dolores.

Visse poco quindi la grande pittrice, nata il 6 luglio del 1907. E quando suo padre decise il suo nome, si giustificò spiegando che «Friede, in tedesco, significa pace.» Non sembra un nome adatto ad una donna tenace, combattiva, aggressiva ma dolce nei confronti di quella vita che le riservò sempre sorprese sgradevoli. A noi Frida sa più di libertà, quella libertà che le permise di affermare «che murare viva la propria sofferenza è rischiare di lasciarsi divorare da lei, dall’interno (…), che la forza di ciò che non si esprime è implosiva, devastante, auto-distruttrice. Che esprimere è cominciare a liberarsi.»[1]

a cura di Angela Crucitti

E’  SEVERAMENTE VIETATA LA RIPRODUZIONI DI PARTI O DELL’INTERO ARTICOLO SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.


[1] Tutte le citazioni sono tratte da R. Jamis, Frida Kahlo, Longanesi & C., Milano 1991

“Le strane abitudini del caso” di Giuseppe Pompameo

Le strane abitudini del caso di Giuseppe Pompameo

Scrittura & Scritture, Napoli, 2011, pp. 86

ISBN: 9788889682388

Prezzo:  8,00 Euro

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

E’ indescrivibile la potenza di questo libro di appena ottanta pagine nel far sognare il lettore, accompagnandolo a braccetto in storie suggestive, completamente originali, che si situano a metà tra realtà e fantasia. Se per ‘fantastico’ intendiamo streghe con poteri sovrannaturali, gesta eroiche tecnicamente impossibili, o viaggi nel tempo allora è doveroso dire che non c’è niente di tutto ciò in questa silloge di racconti. L’interesse dell’autore è, infatti, tutta rivolta ad indagare dove termina il sogno, la proiezione delle idee, e dove inizia invece la realtà. Si tratta di un’indagine non di poco conto in cui i vari protagonisti delle storie finiscono per mescolare i due mondi, ribaltarli o per farli contaminare di continuo. E’ ciò che succede a Francesco, detenuto in un carcere dell’isola d’Elba, innamorato della bella Adelina che, però, al momento della sua uscita dal carcere, non trova più e non trova più nessuna traccia di lei, quasi che al lettore venga da pensare che l’intenzione del narratore sia in realtà quella di depistarlo. Ci chiediamo, così, Adelina esiste? E’ mai esistita? Oppure è solo un pensiero ossessivo di Francesco, una sorta di frustrazione del pensiero che si è radicata tanto da non consentirgli di vedere la realtà? L’autore non dà risposte. Ma l’esempio più eclatante e interessante di amore platonico è forse quello contenuto in “Eravamo sogni” in cui lo stesso titolo rinvia a una dimensione onirica e surreale. Ma la realtà e la fantasia, sembra suggerire l’autore, non possono convivere. Dove finisce l’una, inizia l’altra e viceversa. Ludovico P. e Sara G., protagonisti di questo racconto, affiatati e ricambiati amanti della rete, non finiscono neppure per riconoscersi nel loro primo incontro reale. L’idea dell’amore e l’amore in sé sono due cose diverse. L’idea, qualcosa di immateriale, un concetto, è una nostra produzione, personale, mentale, mentre la realtà si caratterizza per la sua oggettività e per la sua fruibilità a tutti.

Particolarmente avvincente è anche l’illusionista Alfonso Ruiz nel racconto “Le cose che restano”. L’illusionismo, la magia, la fascinazione, la sorpresa e la meraviglia, sono campi dell’ignoto e interessano il nostro inconscio. La madre di Alina, quest’ultima innamorata di Alfonso, la metterà subito in guardia: «[Gli illusionisti] per farti sognare te li rubano,i sogni, e dopo, te li vendono col trucco, senza mai svelarti il segreto» (66-67). Non c’è dunque da fidarsi della nostra componente fantastica, immaginativa, irrazionale perché essa mina quella razionale con inganni, enigmi, segreti e trucchi che la ragione stessa non riesce a spiegare.

In “L’aria del pomeriggio”, un racconto brevissimo che condivide con gli altri lo stile spigliato e il linguaggio condensato, ma in certi tratti quasi elettrico, Pompameo ci mette dinanzi a un’interessante storia costruita sul doppio, sull’alter ego, su quello che è e quello che non è, utilizzando una diffusa credenza popolare sull’esistenza del sosia di ciascuno di noi. Ma è molto probabilmente il primo racconto della silloge, “La città incantata”, il più lungo a rappresentare al meglio le tematiche care all’autore. Leggendolo, vorremmo che non finisse mai e che si prolungasse all’infinito per meglio comprendere le motivazioni di quell’attesa di tutta la cittadinanza di Napoli in un giorno di festa. L’atmosfera è assopita e in uno stato quasi di sonnambulismo; il singolare caldo afoso del dicembre del 1977 rende tutti un po’ più deboli, strani, inspiegabili. In quella giornata si intrecciano due storie, quella dell’attesa della cittadinanza di un cambiamento, di un qualcosa che accada e quello di Antonio Coppa, venditore ambulante di ombrelli, un personaggio quasi pirandelliano e dalla componente visionaria particolarmente sviluppata. Quel giorno, il 7 dicembre 1977, dopo 7 anni rincontrerà la sua amata, ma ben presto il lettore si rende conto che c’è qualcosa che non convince; la “lei” non esiste, è un fantasma, è una sorta di ombra che proviene dal ricordo e che si è pietrificata nel cervello del personaggio. La città partenopea, con il suo Golfo, il suo Lungomare e una serie di altri riferimenti fa da scenario all’intera vicenda dove sempre si sottolineano due cose: l’attesa (che è sinonimo di felicità e preferibile al momento, all’evento in sé) e le alte temperature che rendono tutti scontenti e sofferenti. Il lettore, come gli stessi personaggi della storia, resta fermo nella convinzione che «qualcosa doveva succedere» (23) ma non ci capacitiamo mai cos’è quel qualcosa.

Pompameo è attento al mondo enigmatico della temporalità: da per tutto nel corso della silloge ci sono riferimenti a minuti, ore, giorni, mesi e anni, quasi a voler evidenziare il comportamento umano sempre pronto a ricondurre tutto a schemi, strutture, a misure quantitative. Ma, come ha insegnato Bergson e poi la teoria della relatività, il tempo non può esser relegato alla componente razionale dell’umano perché, in fondo, ha in se stesso qualcosa di ambiguo e di indecifrabile. E’ per questo che l’autore impiega espressioni linguistiche che sottolineano discordanze temporali, anacronismi o semplicemente distorsioni, rallentamenti o accelerazioni come quando dice: «per ogni minuto che mancava, pareva che fosse già troppo tardi» (14). Questa particolare indagine del tema del tempo si allarga però anche al tempo fisico, quello meteorologico, con riferimento a presagi, previsioni etc. In “La città incantata” però, dopo varie settimane di canicola nel mese invernale (altro anacronismo), tutti attendono l’arrivo della pioggia o, almeno di un vento rinfrescante, ma quando nel Golfo, in lontananza si vede passare una nave che solca un mare in tormenta, tutti si augurano che ritorni il bel tempo. C’è qui un riferimento, voluto o no, non saprei dire, alla famosa Ballata del vecchio marinaio di T.S. Coleridge dove l’irragionevole uccisione di un albatros da parte del marinaio porta a un improvviso cambio climatico e poi alla morte di tutta la ciurma, tranne il marinaio.

Pompameo si esprime alla perfezione con il racconto breve, fondendo un linguaggio semplice ed accessibile a tutti con divagazioni  e pensieri che potrebbero ad una prima analisi sembrare quelli di un bambino, ma che, in fondo, celano tematiche più complesse. Lodevole è il modo in cui l’autore è in grado di accompagnarci nel mondo del sogno per poi negarci che quello era un sogno o, al contrario, di offrirci una storia completamente realistica per poi renderci conto che non è altro che una frustrazione o un’ossessione mentale del protagonista. In tutto questo è l’anomalia, la stranezza, l’enigma e l’ambiguità a fare da protagonista come richiama lo stesso titolo della silloge e, ovviamente, è il Tempo a regnare indiscusso su tutte le storie.  S. Agostino scriveva: «Chi oserebbe dirmi che non son tre i tempi, come abbiam imparato da piccoli e insegnato ai piccoli, passato, presente e futuro, ma uno solo, il presente, dal momento che gli altri due non esistono?». Pompameo, con la sua scrittura, ci fa riflettere su questa considerazione del grande mistico, districandosi tra due temi fondanti: il ricordo (il passato) e l’attesa (vigilia del futuro). Congratulazioni per questo gioiello.

GIUSEPPE POMPAMEO vive a Napoli dove svolge attività di editor e di consulente editoriale. Scrive per il teatro e insegna scrittura creativa. Suoi testi saggistici e narrativi sono apparsi sulle riviste letterarie “Quarto Potere” e “L’isola”. Collabora, altresì, con la Fondazione Premio Napoli. Nel 2010 la sua raccolta di racconti Il rumore bianco dell’inverno è stata segnalata dal Comitato di Lettura della XXIII edizione del Premio Letterario “Italo Calvino”.

LORENZO SPURIO

7 Ottobre 2011

E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI PARTI O DELL’INTERA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Jane Eyre, una rilettura contemporanea di Lorenzo Spurio, recensione a cura di Patrizia Poli

Jane Eyre. Una rilettura contemporanea

di LORENZO SPURIO

Lulu Edizioni, 2011, pp. 101

ISBN: 9781447794325

Recensione di Patrizia Poli

Se una caratteristica distingue l’odierna critica letteraria è la multimedialità e l’accostamento della letteratura “alta” a mezzi espressivi non convenzionali e non immediatamente ad essa correlati, dalla narrativa di genere, al cinema, fino ai giochi di ruolo. La smitizzazione del mother text è accompagnata da un’estrema semplificazione del linguaggio critico e da un utilizzo di veicoli non tradizionali quali, ad esempio, le interviste virtuali.

In “Jane Eyre, una rilettura contemporanea”, Lorenzo Spurio si avvicina al testo originale di Charlotte Bronte, per poi  allontanarsene, compiendo un excursus su una serie di rewriting successivi e adattamenti anche cinematografici e televisivi, a partire dal famoso prequel del 1966, “Wide Sargasso Sea”, per finire con la parodia mash up del 2010, “Jane Slayer”, dove la protagonista si trasforma in ammazza vampiri.

Invece di puntare sugli aspetti classici e tipici del romanzo della Bronte, come la travagliata infanzia di Jane a Lowood e l’amore romantico per tenebroso Rochester, Spurio mette in evidenza caratteristiche secondarie, ma interessanti, amplificate dalle riscritture successive.

La prima di queste peculiarità è l’aspetto gotico del testo, con continui richiami a “Northranger Abbey” di Jane Austen.

L’altra è senz’altro l’importanza focale data al personaggio minore di Bertha Mason. Laddove la Bronte non ci spiega le ragioni della pazzia che affligge la prima moglie di Rochester, nei prequel e sequel presi in esame da Spurio, Bertha giganteggia con tutto il suo passato tropicale. Si ha compassione, e c’è addirittura rivalutazione, del personaggio. In ogni versione, Bertha presenta aspetti diversi ma è sempre connessa col riso demoniaco-animalesco e col fuoco, entrambi simboli del male, così come con la natura vampiresca del suo morso.

Nel suo saggio, Spurio prende in esame il colonialismo e si spinge fino a concludere che la Bronte ha inteso punire con la cecità Rochester per il suo razzismo, più che per l’inganno e l’amore adulterino nei confronti dell’ingenua Jane.

Mettendo in risalto la generica benevolenza della Bronte verso gli schiavi e le donne, Spurio tocca temi alternativi e affascinanti. Si parte dal Codice Nero, promulgato nel 1685, a sancire il concetto di schiavo come oggetto, si continua con  “A Vindication of the Rights of Women”, dove Mary Wollstonecraft (Shelley), in polemica con Rousseau, rivendica i diritti delle donne, per finire con la magia nera Obeah, trapiantata in America dall’Africa, e simile al Voodoo di Haiti, patria degli zombie.

03-11-2011

a cura di Patrizia Poli

RECENSIONE PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE. E’ VIETATO PUBBLICARE STRALCI O L’INTERA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DELL’AUTRICE.

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Intervista a Cinzia Cavallaro

autrice di Dies Natalis

a cura di Lorenzo Spurio

LS: Come dobbiamo interpretare il titolo che hai scelto per la tua opera?

CC: Il titolo si rifà all’idea cristiana della nascita nella Luce, in Cristo, il giorno della morte; per i santi, ma anche per tutti i credenti che morendo lasciano sulla terra il corpo (con cui si ricongiungerà alla fine dei tempi) mentre l’anima nasce a vita nuova nel Cielo, con Dio. E’ per questo che viene scelto il giorno della morte per ricordare i santi riferiti nel calendario.  In verità, le mie liriche spaziano in modo molto libero sul tema della morte, ma l’idea centrale di essa come resurrezione nella luce è il filo conduttore di tutta la raccolta poetica.

LS: Un autore negherà quasi sempre che quanto ha riportato nel suo testo ha un riferimento diretto alla sua esistenza ma, in realtà, la verità è l’opposto. C’è sempre molto di autobiografico in un testo ma, al di la di ciò, il recensionista non deve soffermarsi troppo su un’analisi di questo tipo perché risulterebbe per finire fuorviante e semplicistica. Quanto c’è di autobiografico nel tuo libro? Sei dell’idea che la letteratura sia un modo semplice ed efficace per raccontare storie degli altri e storie di sé stessi?

CC: Inizio dalla fine, dunque dalla seconda domanda, confermando di essere della tua stessa idea anche perché negherei l’ovvio, nel senso che anche se uno scrittore raccontasse una storia a lui totalmente estranea e completamente inventata metterebbe comunque il suo vissuto inconscio, pertanto autore e storia non si possono mai scindere completamente. In poesia le cose funzionano un po’ diversamente in quanto, non essendo uno scritto lungo e con un impianto narrativo ben preciso, è la totale osmosi con il mondo visto attraverso lo sguardo del poeta che parla, perciò è pleonastico dire che c’è tutto del poeta nei suoi versi. Riguardo a Dies Natalis c’è tutto di autobiografico perché le poesie ricordano persone scomparse a me care oppure i versi parlano totalmente di me.

LS: Quali sono i tuoi autori preferiti? Quali sono le tendenze, le correnti italiane e straniere e i generi letterari che più ti affascinano? Perché?

CC: Sono tanti, svariati ed antichi. Sono cresciuta con gli autori del novecento e la mia prima e fondamentale formazione sì rifà all’adolescenza e alla gioventù, perciò i poeti che ha dato l’imprinting in poesia sono stati gli ermetici Ungaretti e Quasimodo piuttosto che Montale e Cardarelli. Poi ho proseguito con altri generi e spaziato in letterature straniere ma tutto è iniziato da lì. Ho amato Dante come Shakespeare anche perché è stato materia di studio all’università. E negli ultimi anni mi sono sentita molto attratta dai versi di Alda Merini e di Wislawa Szymborska.  Lo stesso in modo speculare vale per la narrativa: ho divorato Cassola, Pavese e Buzzati da quindicenne per poi seguire man mano i maggiori autori dei decenni successivi. Ugualmente ho dovuto e voluto leggere letteratura inglese e qui, a parte Oscar Wilde, David Lawrence e William Golding amo di più la letteratura femminile partendo dalle sorelle Brontë per finire con Doris Lessing, con tutto quello che ci sta in mezzo.

LS: So che rispondere a questa domanda sarà molto difficile. Qual è il libro che di più ami in assoluto? Perché? Quali sono gli aspetti che ti affascinano?

CC: È piuttosto curioso dirti che, quasi come segno del destino, il libro che ho amato di più è Cime tempestose di Emily Brontë che scoprii e divorai a quattordici anni di nascosto dai miei genitori. La copia del libro era in casa ma la scoprii solo a quell’età; i miei genitori non ritenevano che io la potessi ancora leggere ed evidentemente il senso del proibito ha acuito ancor di più la curiosità. Di fatto è stata un’assoluta folgorazione che mi ha fatto capire cos’era un romanzo dalla struttura complessa con una storia così unica. Mi ha affascinato il fatto che i sentimenti descritti fossero così forti e reali tanto che la natura umana è stata completamente eviscerata esattamente così com’è con una narrazione poetica ed intensa; assolutamente realistica sebbene intrisa di sogno e di mistero. Insomma, lo ritengo un capolavoro che ha avuto la capacità di far nascere in me il desiderio di scrivere. Sul versante poetico è un po’ difficile fare una scelta assoluta, ma se proprio lo devo fare opto sicuramente per Alda Merini.

LS: Quali autori hanno contribuito maggiormente a formare il tuo stile? Quali autori ami di più?

CC: Non sei il primo che mi pone questa domanda e posso dirti che essendo una lettrice onnivora e versatile non riesco davvero ad identificare uno o più autori che possono aver contribuito in modo reale a formare il mio stile. Quando scrivo non ho in mente il libro di un altro che ho già letto, ho in mente un lettore ideale al quale voglio raccontare una storia unica narrata con parole completamente mie. Quindi io credo che bisogna distinguere il proprio stile dagli autori più amati: se scrivi veramente gli autori che hai più amato sono presenti nella tua formazione ma non come autori da emulare.

LS: Collabori o hai collaborato con qualche persona nel processo di scrittura? Che cosa ne pensi delle scritture a quattro mani?

CC: Non ho mai collaborato con nessuno ed è un’esperienza che mi manca. Avevo un progetto di questo tipo ma è rimasto in fase embrionale anche perché c’è una distanza fisica piuttosto importante con l’altro autore e poi perché sono molto impegnata con la scrittura di un mio testo che voglio concludere quanto prima. Devo dire che la cosa mi affascina molto ma la lascio tranquilla, almeno per ora.

LS: A che tipo di lettori credi sia principalmente adatta la tua opera?

CC: Penso che le poesie di Dies Natalis siano adatte a tutti i lettori adulti amanti della poesia contemporanea. Diverso è il romanzo che ha avuto maggiori riscontri dalle lettrici, anche se alcuni lettori maschi mi hanno inviato feedback del tutto positivi. 

LS: Cosa pensi dell’odierno universo dell’editoria italiana? Come ti sei trovata con la casa editrice che ha pubblicato il tuo lavoro?

CC: Niente da dire con l’editore che mi ha proposto di pubblicare le poesie nella collana Plaquette diretta da Giulio Maffii. Ricordo ancora la mia felicità mista a stupore quando lessi la sua proposta via mail. Il Foglio Letterario è un editore che, insieme a molti altri sulla stessa linea, non possono che essere considerati una benedizione per gli autori che vogliono dare alle stampe le loro opere.

LS: Pensi che i premi, concorsi letterari e corsi di scrittura creativa siano importanti per la formazione dello scrittore contemporaneo?

CC: Tutto concorre a formare e arricchire il percorso di un autore. Peccato che i premi non siano tutti così trasparenti, le opere concorrenti tante e non tutte forse lette con la dovuta calma e attenzione, le tasse di scrittura quasi sempre richieste e non so quanto realmente necessarie. Sullo stesso binario i corsi di scrittura dei quali esistono molte forme e che bisogna poi scegliere con attenzione. Una base è importante ma, alla fine, è la necessità quasi compulsiva della scrittura e la scoperta della propria personale voce che devono avere la meglio e, in questo senso, non c’è corso di scrittura creativa che tenga.

LS: Quanto è importante il rapporto e il confronto con gli altri autori?

CC: Importantissimo e per me vitale. Mi dispiace che io riesca a gestirli solo in modo virtuale per mancanza di tempo ed anche che, alcune volte, raccolgo deludenti esperienze di infantile invidia che francamente non concepisco. Se si è tranquilli nella propria arte non può che esserci dialettica, scambio e vicendevole arricchimento.

LS: Il processo di scrittura, oltre a inglobare, quasi inconsciamente, motivi autobiografici, si configura come la ripresa di temi e tecniche già utilizzate precedentemente da altri scrittori. C’è spesso, dietro certe scene o certe immagini che vengono evocate, riferimenti alla letteratura colta quasi da far pensare che l’autore abbia impiegato il pastiche riprendendo una materia nota e celebre, rivisitandola, adattandola e riscrivendola secondo la propria prospettiva e i propri intendimenti. Che cosa ne pensi di questa componente intertestuale caratteristica del testo letterario?

CC: È noto che scrivere è sempre un po’ riscrivere, non nel senso che si rimaneggiano testi altrui già noti, ma piuttosto perché tutto quanto è stato letto rimane nella mente e in qualche modo si ricollega a quello che si andrà a scrivere. Questo non è un pensiero nuovo ma che ritengo del tutto condivisibile, tant’è che, per citarne uno solamente, l’amato Cesare Pavese della mia gioventù, ha affermato: “Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma”. Il passo successivo può diventare la nostra scrittura.

LS: Hai in cantiere nuovi lavori e progetti per il futuro? Puoi anticiparci qualcosa?

CC: Sto lavorando al mio nuovo romanzo intervallato da racconti quando sento l’esigenza di scriverne. Nel frattempo mi tiene compagnia la mia quasi quotidiana scrittura poetica che mi piacerebbe proporre per una nuova raccolta. Il tutto non sarà nell’immediato.

La ringrazio per avermi concesso questa intervista che verrà pubblicata sul mio spazio blog, Blogletteratura e Cultura, sulle riviste on-line Parliamone, Segreti di Pulcinella ed Euterpe con tempi e modalità che le verranno in seguito fornite.

a cura di Lorenzo Spurio  

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