INTERVISTA A MARIA ROSARIA PUGLIESE
Autrice di Pazienti smarriti
Robin Edizioni, Roma, 2011
Intervista a cura di Lorenzo Spurio
LS: Complimenti per il tuo romanzo. Narri una storia tragica ma lo fai in maniera dolce, sottolineandone dettagli, ricordi passati ed emozioni presenti. Com’è nato questo romanzo? C’è alle sue spalle una genesi particolare?
MRP: Il romanzo è nato da una storia dolorosa e, purtroppo, vera: la malattia di mio fratello. Nelle tante ore passate in ospedale pensavo di scrivere dell’esperienza così dura che stavamo vivendo, e l’intenzione era di parlare soprattutto della sanità, di un certo tipo di sanità con la quale ci stavamo angosciosamente confrontando. Scrissi, per primo, un racconto, che titolai Pazienti Smarriti. Uno scrittore amico lo lesse, gli piacque molto e m’invitò a continuare. Così dal racconto, a poco a poco venne fuori il romanzo. Scrivendo, i ricordi mi presero sempre più la mano, per cui il libro, che in origine volevo fosse di mera denuncia, divenne una storia di sentimenti.
LS: Ho letto nella tua breve scheda di presentazione del libro che c’è qualcosa di autobiografico nel romanzo. Ovviamente non ti chiedo cosa perché questa intervista non ha nessun fine di ledere la tua privacy. Quella dei riferimenti autobiografici in un testo è una domanda che mi faccio spesso e che mi aiuta a capire ancor meglio il testo in questione. Quanto hai tratto da esperienze personali nella stesura di questo libro? I pensieri e le emozioni che sono della protagonista, della sorella del malato, sono in qualche modo un riflesso di un tuo stato d’animo per una persona malata alla quale sei stata accanto?
MRP: In Pazienti Smarriti c’è tanto di autobiografico. Gli episodi evocativi dell’infanzia, i flash-back racchiusi nei box, per intenderci. E anche quanto attiene al quartiere, i riferimenti geografici, la storia familiare. Riguardo il penoso viaggio nel pianeta-sanità, tutto ciò che è raccontato nel romanzo è realmente accaduto, mentre non tutto ciò che il protagonista ha vissuto, è stato possibile riportare: in qualche caso per rispetto della memoria di Ettore, talvolta perché veramente inenarrabile. Comunque, a mio parere, anche quando si scrive di cose inventate, la scrittura è in qualche modo autobiografica, perché chi scrive “mette” sempre se stesso.
LS: La prima parte del romanzo si intitola “Ground Zero” cioè ‘livello zero’, ‘spianata’ e ci fa pensare immediatamente alla tragedia delle Twin Towers dell’11 settembre del 2001 a cui in effetti si fa riferimento nel romanzo. La mia interpretazione che si rifà alle considerazioni della giornalista Oriana Fallaci quando scriveva della sua malattia è quella di mettere in relazione la potenza distruttiva del terrorismo che annulla la società con quella di un cancro che annulla la persona. Una malattia che lascia aridità, secchezza, desolazione. E’ in certo modo corretta questa interpretazione? Se non lo è a che cosa volevi riferirti con questo titolo?
MRP: Ad accomunare i due tragici fatti, l’uno di risonanza planetaria e, l’altro, molto più intimo, evidentemente non è stata solo la concomitanza temporale. Il protagonista di Pazienti Smarriti era un punto di riferimento fondamentale per la moglie, le figlie, la sorella, che non ipotizzavano neppure il vacillamento del loro sostegno, della loro Torre, figuriamoci il cedimento! Quando il male aggredisce Ettore, per le sue donne che, nonostante tutto caparbiamente spereranno fino alla fine, l’evento è destabilizzante, la catastrofe totale e, per loro, paragonabile solo a Ground Zero.
LS: Nel romanzo utilizzi una metafora molto intensa e penetrante: il malato come guerriero ormai condannato e l’esercito della salvezza al suo fianco. E’ un’immagine molto bella e che rende magistralmente l’idea di questo clima solidale e comprensivo nei confronti del personaggio di Ettore. La guerra che il guerriero e l’esercito combattono ovviamente è la malattia. In che modo si è originata nella tua mente questa metafora che poi hai utilizzato sapientemente nel corso del romanzo?
MRP: L’etimo del nome Ettore deriva dal greco e significa colui che tiene saldo, che protegge. Identifica il difensore valoroso, che lotta per la sua gente, la sua famiglia, così nell’Iliade, ci viene raccontato Ettore, principe di Troia, guerriero nobile ben diverso da Achille l’eroe suo antagonista che, invece, combatte per la gloria, per l’affermazione di stesso. Rileggendo il poema omerico scoprii alcune analogie tra Ettore, guerriero troiano e il mio protagonista. Innanzitutto entrambi difendono a spada tratta i valori in cui credono fermamente. Poi, la solitudine del guerriero. La solitudine del malato. Ettore, eroe epico, sarà solo sotto le mura di Troia, e dovrà cavarsela senza l’aiuto divino, perché non è protetto dagli dei. Egli è mortale, a differenza di Achille, che è invulnerabile. Anche il malato è solo di fronte alla malattia nonostante la vicinanza affettiva dei parenti e degli amici. L’epilogo, poi, è lo stesso per entrambi i personaggi: dopo aver combattuto da leoni, soccombono al loro destino.
LS: Nella prima parte dell’opera c’è una lunga descrizione che rievoca il prezioso momento dell’allestimento del presepe. E’ una descrizione suggestiva e quanto mai affascinante. Il pensiero di Ettore, che torna a casa proprio pochi giorni prima del Natale, è quello che dovrà fare in fretta a metter su il presepe, come ha fatto ogni anno. E’ un dato di fatto che nella tradizione napoletana il presepe ricopra un gran valore. Quanto è importante per te personalmente? Credi che la mania presepiale dei napoletani derivi da un ferma credenza nella religione o piuttosto nell’abilità partenopea di creazione di maschere, travestimenti e riproduzioni in scala di altrettante identità?
MRP: Non parlerei di “mania” presepiale, piuttosto di passione. Una passione complessa, e difficile da spiegare: nel presepe c’è la tradizione, il mito, l’arte, il folklore, la simbologia – ogni personaggio deve essere perfino collocato in un posto ben preciso. Il presepe popolare, come diceva Matilde Serao, è Napoli, la glorificazione di Napoli, della sua antica quotidianità, della sua esuberanza, della sua schiettezza, anche delle sue contraddizioni. Il presepe o lo si ama oppure no, non esistono mezze misure. A questo punto, Lorenzo, avrai capito che sono Presepista, per dirla alla De Crescenzo che divide i napoletani in Presepisti e Alberisti. Anche Ettore era Presepista.
LS: Sono interessantissimi i riferimenti alla cultura (dialetto, arte) napoletana ed è affascinante questo stretto legame che tu evochi tra la famiglia, la terra e il passato. Ci sono autori napoletani che ti piacciono in maniera particolare? E quali scrittori italiani e stranieri ti piacciono di più?
MRP: Nel mio romanzo numerosi sono i termini dialettali e le espressioni gergali, tradotti o spiegati, poi, con note a piè di pagina. Credo sia stato più efficace e funzionale alla narrazione, riportarli senza italianizzarli o sostituirli con sinonimi, anche perché la storia che racconto è ambientata in un determinato contesto e geografico e storico. Negli anni 50/60 a Napoli si diceva la bella mbriana, non la fata buona della casa. Nessun dubbio riguardo i miei autori preferiti: Marquez e la Allende, di cui ho letto tutto. E poi tutta la letteratura di matrice ispanica. Tra gli italiani mi piacciono molto Alessandro Baricco, Marco Lodoli e Stefano Benni.
LS: Nel romanzo, ad eccezione di Ettore, non ci sono personaggi maschili tratteggiati con attenzione. E’ un universo di donne di età e sensibilità diverse a dispiegarsi all’interno del romanzo. L’idea che ci facciamo è che si tratti di un romanzo quasi “matriarcale”. E’ sbagliata questa interpretazione?
MRP: In Pazienti smarriti la presenza femminile è sicuramente forte, la si tocca con mano. Già l’Esercito della Salvezza, la milizia nella quale idealmente la moglie, le figlie, la sorella di Ettore, si arruolano volontarie per la salvezza del loro uomo rende l’idea di quanto le donne siano combattive, risolute, pronte, se necessario, perfino ad impugnare le armi per contrastare il nemico subdolo che si accanisce contro il loro caro. In situazioni estreme, come una grave malattia, oppure durante terribili emergenze, quali la guerra, si tira fuori una grinta, un’energia, che forse neppure si sa di avere. L’abbondanza di figure femminili poi, nel romanzo, è dovuta al fatto che ci sono esperienze devolute storicamente più alle donne che agli uomini, appunto l’assistenza degli ammalati, ed anche alla circostanza che numericamente vi sono più donne che uomini, come nella mia famiglia. Tra i personaggi maschili, vorrei sottolineare Genny, il giovane parrucchiere che viveva alla giornata e che ebbe un destino simile. La storia di quel ragazzo scanzonato e poetico mi emozionò al punto che decisi di ricordarlo nel romanzo.
LS: Di pari passo alle varie operazioni e all’aggravarsi delle condizioni di salute di Ettore nel romanzo sottolinei in più punti una certa deferenza, una freddezza e distanza di rapporti tra il personale medico ed i parenti. I dottori e i chirurghi operano e danno responsi solo perché quello è il loro lavoro. Manca, sotto questo punto di vista, il lato umano che una professione come questa dovrebbe manifestarsi in maniera di supporto emotivo non solo per l’ammalato ma anche per i suoi parenti. Ci sono delle suore che un po’ si dedicano a questo aspetto. Perché hai voluto sottolineare questo elemento?
MRP: Come ho detto all’inizio di quest’intervista e come sempre ripeto nelle presentazioni, Pazienti smarriti non è un libro sulla malasanità, ma una storia di sentimenti. La malattia di Ettore è stata un percorso durante il quale si è avuto l’incontro con operatori sanitari capaci e disponibili ed altri venali o boriosi, con persone meravigliose – buoni samaritani, – e con chi, invece, non si sarebbe mai voluto incontrare. Si è sperimentata la solidarietà, autentica, commovente, tra gli ammalati, tra le famiglie degli ammalati. Abbiamo percepito, nel momento più critico della malattia, nel passaggio alle cure palliative, un distacco, da parte dei medici proprio quando vi era maggiore necessità della loro presenza. Un atteggiamento difensivo, un “ritirarsi” forse dovuto all’idea dell’impotenza, della sconfitta, personale e della medicina. A mio parere, la malasanità, non è solo l’ inadeguatezza dei servizi, ma soprattutto la scarsa attenzione al paziente, l’incapacità di rispondere anche al bisogno d’umanità di chi vive l’esperienza della malattia.
LS: E’ singolare che entrambi i sogni-visioni che la protagonista fa ricalcano una serie di elementi che la concernono nella realtà: la frequentazione dell’ospedale, la malattia del fratello, l’unione con gli altri membri della famiglia. Nel secondo sogno mentre i parenti stanno aspettando Ettore che esca dalla sala Tac, si rendono conto che è scomparso e tutti si mettono a cercarlo. Siamo nel sogno. Si fa riferimento così ai “pazienti smarriti” da cui deriva il titolo del romanzo. In che senso i pazienti sono smarriti? E’ la malattia a privarli di sicurezze e del riconoscimento degli spazi? Perché la protagonista fa questo sogno?
MRP: Il titolo del romanzo deriva proprio dall’episodio dello smarrimento del paziente in ospedale. Dopo una Tac, Ettore fu “realmente” smarrito. Come una valigia. E l’Esercito della Salvezza a cercarlo dappertutto… Non fu un sogno. Tutt’altro! In quale chiave dovevo riportare un fatto del genere? Sono ricorsa all’espediente onirico, calcandovi la mano, arrivando al surreale. Solo nei sogni-incubo dovrebbero verificarsi certi fatti. Il titolo potrebbe essere letto anche come metafora dello smarrimento, dello spaesamento che prende chi, all’improvviso, si trova sradicato dal proprio ambiente, in un contesto sconosciuto, e con l’incognita della malattia. Naturalmente lo smarrimento è una richiesta d’aiuto.
LS: Hai altri lavori in cantiere? Stai scrivendo qualcosa o hai in mente un nuovo progetto? Se sì, puoi anticiparci qualcosa?
MRP: La lettura e la scrittura fanno parte del mio quotidiano. Sono napoletana e quindi superstiziosa per cui preferisco non aggiungere altro. Però, Lorenzo, di sicuro c’è una storia che mi piacerebbe moltissimo scrivere, una storia che avesse questo incipit: c’era una volta, c’era una volta, una bruttissima malattia e adesso non c’è più.
Ringrazio Maria Rosaria Pugliese per avermi concesso questa intervista.
LORENZO SPURIO
11 Luglio2011
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