Il banco sopra la cattedra, di Luigi Polito

Il banco sopra la cattedra di Luigi Polito

Edizioni Altravista, 2011

Recensione a cura di Monica Fantaci

Marco, studente dell’ultimo anno del corso di Laurea in Pedagogia, è un ragazzo con forti ideali, perciò decide di affrontare, per la sua tesi di laurea, un argomento che racconta la realtà dei giovani, attraverso interviste e questionari che documentano cosa accade quotidianamente negli ambienti scolastici, specificatamente dentro le aule.
Durante l’esposizione della tesi, Marco si rivolge alla commissione in tono sarcastico, accusando il sistema universitario di utilizzare il potere per incutere paure e trasmettere una cultura finalizzata a favorire gli interessi personali dei baroni.
Il libro, mediante l’analisi della tesi sperimentale di Marco, descrive le idee, le aspettative, i sentimenti, le speranze che gli alunni hanno in merito al mondo dell’istruzione, permettendo ai lettori di scoprire i loro pensieri nascosti, incatenati da una scuola che sta solo attenta alle “etichette”, senza preoccuparsi della diversità, della voglia di partecipazione e di dialogo dei ragazzi.
Le narrazioni degli studenti svelano che, nonostante la maggioranza dei professori ricorra ad un metodo d’insegnamento tradizionale, alcuni docenti hanno voglia di trascinare i ragazzi verso la libertà di pensiero e d’azione, realmente credendo che il confronto sia la base per abolire le forti disuguaglianze che vivono dentro l’istituzione scolastica. 
La scuola non è soltanto un luogo dove acquisire argomenti per affrontare le interrogazioni e superare l’anno scolastico, ma deve assolutamente essere anche un luogo dove competenza affettiva e d’apprendimento si mescolano per rendere gli allievi protagonisti del loro sapere, scaturito non solo dai libri di testo, ma anche dalle loro esperienze quotidiane. 
Da sempre l’istruzione è legata al potere politico, che lo utilizza per affermare la sua ideologia, erodendo un settore che potrebbe dare avvio ad un cambiamento positivo del Paese, proprio perché forma gli adulti del futuro. Leggendo il testo si evince quanto gli studenti urlano il loro disagio, rimanendo delusi del mondo anti-democratico della scuola, incapace di dare certezze, avvertito come ambiente di pregiudizi, di indifferenza, capace di incatenare le potenzialità.
Questo romanzo-documentario, dove parlano i ragazzi, mira a risvegliare le coscienze, poiché i giovani, con le loro aspirazioni, con la loro tenacia, con la loro volontà, con la loro capacità creativa, con la loro voglia di giustizia, possono migliorare la società. 
Fatevi catturare da questo testo attraverso i suoi momenti d’ironia, di tensione, di desiderio di riscossa.

Recensione di Monica Fantaci

RECENSIONE PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE. E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE  SENZA IL PERMESSO DELL’AUTRICE

Bambina e la fatina computerina di Virginia Defendi

Bambina e la fatina computerina di Virginia Defendi

Onirica Edizioni, Milano, 2010

Recensione di Lorenzo Spurio

La Defendi esordisce nel mondo letterario con questo racconto-romanzo breve per l’infanzia. Già dal titolo, ricco di diminutivi, si capisce che nella lettura verremo catapultati in universo da sogno. Curioso il nome della protagonista, Bambina, un nome metatestuale che si riferisce doppiamente al personaggio che come si scoprirà è condannato a rimanere bambino e a non proseguire il suo percorso di crescita.

La storia è uno dei numerosi canovacci preferiti dai narratori per l’infanzia e dai favolisti: quella di una bambina in un palazzo imperiale, di una sorta di principessa potremmo dire. Ma l’originalità della Defendi prende subito piede nella narrazione e così veniamo a sapere che il palazzo nel quale vive Bambina e l’impero che erediterà hanno costitutivamente qualcosa di triste: tutto è grigio e monocromatico. Grigiolandia si configura così come uno spazio tristemente magico, fisso, infelice e monotono. Così come in molte favole, anche qui si passa da una situazione iniziale di tristezza e turbamento a una situazione finale dominata da pace e felicità, evidenziate in questo racconto dal nome che viene dato all’impero proprio in base al fattore umorale: la tetra e mesta Grigionaldia nella prima parte e poi la melodica e variopinta Arcobalenandia nel finale.

A mio parere la Defendi, rifacendosi alla tradizione folklorica popolare, inserisce troppo materiale in maniera condensata, finendo per connettere fate e maghi, personaggi quanto mai diversi e che appartengono a tradizioni tra loro separate. Dobbiamo però tenere presente che questo libro è un testo fantastico e dunque simili libertà e “concessioni poetiche” sono sicuramente da rispettare.

Una serie di elementi curiosi come Palazzo Maliardo, il Libro Incantato, la polvere riformina e soprattutto la fatina computerina, una rivisitazione tutta postmoderna del personaggio della fata, ci accompagnano attraverso questo viaggio a Grigiolandia e al procedimento fatato che permetterà di ristabilire vitalità e colore in questo impero. Con questo curioso esperimento la Defendi ci mostra come neppure il mondo fantastico e magico delle fiabe ormai non sia più immune alla computerizzazione smodata di cui siamo attori ed agenti nella società contemporanea.

VIRGINIA DEFENDI è nata a Bollate (Mi) nel 1974 ma vive ad Arese. Nel 2005 ha conseguito la Laurea in Scienze dell’Educazione presso l’Università del Sacro Cuore di Milano. Ama scrivere. Attualmente sta ultimando un romanzo dal titolo Vita, storie e pensieri di un’aliena.

LORENZO SPURIO

15 Luglio 2011

E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE  SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Saffo, Intervista a Gianluca Paolisso

INTERVISTA A GIANLUCA PAOLISSO

Autore di Saffo

Albatros Editore, Milano, 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Com’è nata l’idea di scrivere questo libro? C’è stata una particolare genesi?

GP: L’idea o, per utilizzare un termine forse più appropriato, l’ispirazione di un qualsiasi tipo di storia nasce quasi sempre dalla vita quotidiana, dalle emozioni che giornalmente viviamo grazie alla nostra particolare sensibilità, o grazie agli altri: Saffo, nonostante sia un’opera prima, è stata accompagnata fin dalla sua nascita dalla sofferenza, dalla consapevolezza di un amore rifiutato, da ciò che inevitabilmente si perde sulla strada della vita. Questi temi ricorrono nel romanzo, e spesso caratterizzano la stessa personalità dei personaggi. Credo che sia impossibile “eclissarsi” completamente dalla narrazione, secondo metodi “verghiani”: una storia, benché nata dalla fantasia, affonda le sue radici nel presente o nel passato che sempre si è vissuto, nel bene o nel male.

LS: E’ interessante come hai utilizzato un personaggio realmente vissuto, sebbene mancano attendibili riferimenti biografici, come personaggio principale del tuo romanzo, adattandone temi e caratterizzazioni che fuoriescono dalle sue liriche. E’ stato difficile il processo di scrittura? Se sì, perché?

GP: Le uniche fonti storiche rimaste sulla straordinaria poetessa di Lesbo sono una produzione frammentaria di liriche, e alcune leggende narrate dal lessico Suda e dal Marmor Parium (Saffo si sarebbe gettata dalla rupe di Leucade perché rifiutata dall’amore di Faone ). Tutto ciò mi avrebbe permesso di “inventare” episodi, situazioni, dialoghi, eppure fin dall’inizio volevo che questa storia mantenesse un substrato storico quanto più possibile reale, tralasciando influenze fantastiche o mitologiche. Volevo raccontare un personaggio vero all’interno di un contesto storico vero: per far questo non sono mancati gli approfondimenti storici (d’altronde in un romanzo del genere sarebbe sacrilego non farli!) e studi riguardo il “modus vivendi” di uno dei popoli all’epoca più ricchi del Mar Egeo (VII – VI sec. A.C.). Fatto questo potevo concedermi una piccola interpretazione su ciò che mai la storia ci ha tramandato (la quotidianità del Tiaso, i rapporti familiari), e con ciò ricostruire la storia di una donna e di una poetessa meravigliosa. Nonostante la mancanza di fonti, non è stato un lavoro nato dal nulla, dalla pura e semplice fantasia e interpretazione narrativa, ma da uno studio scrupoloso, attento, privo di condizionamenti.

LS: Quali autori italiani e stranieri ti piacciono di più e perché?

GP: Sarebbe scontato affermare che adoro le letture classiche (Euripide, Marco Aurelio, Epicuro, Cicerone, Seneca). Queste pagine immortali rappresentano il tipico “rumore di fondo”, per dirla alla Calvino, che sempre risuonerà melodiosamente nella mia vita. Tra gli autori contemporanei ho molto ammirato Giulia Avallone (Acciaio), libro in cui l’autrice ha tratteggiata realisticamente una realtà troppo spesso dimenticata; Murièl Barbery (L’eleganza del riccio), libro di profonde riflessioni filosofiche e poetiche; ma soprattutto i libro di un grande autore e amico, Adriano Petta: in “Ipazia”, vita e sogni di una scienziata del IV sec.”, “Assiotea”, la donna che sfidò Platone e l’Accademia”, e “Roghi Fatui”, oscurantismo e crimini dai Catari a Giordano Bruno, ho trovato alcuni spunti interessanti per la mia Saffo. Lo ringrazio tantissimo per i suoi consigli e la sua sincera amicizia umana e letteraria.

LS: Credo che nei Sonetti di Shakespeare si ritrovino molti dei temi che Saffo tratteggiò nelle sue liriche. Ad esempio il tema del destino ineluttabile, il tempo che rovina e che passa velocemente, il tema dell’amore verso una persona dello stesso sesso.. Che cosa ne pensi?

GP: Saffo fu la prima a gettare le basi della poesia nel senso moderno del termine: in un passato molto lontano il leggendario Omero aveva cantato le gesta eroiche di grandi personaggi quali Ettore, Achille, Ulisse; eppure nell’Iliade e nell’Odissea scorgiamo versi poetici privi di partecipazione emotiva da parte dall’autore, e una mancata descrizione dei sentimenti che inevitabilmente costituivano la psicologia dei vari personaggi. «Con Saffo nasce nella poesia del mondo l’interiorità» affermò anni fa il grecista Enzo Mandruzzato. Ed è proprio l’interiorità la grande rivoluzione delle liriche di Saffo: la poesia non come racconto oggettivo, ma come proiezione dell’anima di chi la compone. Se non fosse esistita Saffo, probabilmente non sarebbero nate le grandi opere poetiche successive (La Divina Commedia, Il Decameron, le tragedie di Shakespeare, i meravigliosi versi di Foscolo e Leopardi ), proprio perché sarebbero mancate le basi da cui partire per sviluppare un pensiero o una semplice emozione. Sia lode a Saffo per questo!!!

LS: E’ affascinante il riferimento al Tiaso, questo universo di sole donne pensato da Saffo come momento culturale e di apprendimento volto ad istruire le giovani donne al matrimonio. Non è curioso il fatto che sia proprio lei, che ama le donne, a istruire quest’ultime al matrimonio, a una celebrazione della vita che riguarda l’unione della donna con l’uomo?

GP: Il Tiaso nasce in opposizione all’Eteria di Alceo, circolo ad esclusiva composizione maschile, ed è facile poterne intuire le ragioni: in un mondo in cui l’uomo la faceva da padrone, la donna cercava un suo spazio, ma soprattutto una propria valenza a livello sociale. Il Tiaso permetteva alle donne di conoscersi, di scoprirsi nelle loro molteplici attitudini e capacità, ma soprattutto di imparare tutte le arti richieste dal matrimonio. Finito questo apprendistato, le ragazze tornavano al mondo esterno, pronte ad affrontare la vita al fianco di un uomo, nella speranza di divenire buone custodi del patrimonio familiare. Negli anni di formazione la Signora del Tiaso spesso si concedeva alle sue allieve, ma non per un puro e semplice appagamento sessuale, ma per educarle all’amore che un giorno avrebbero dovuto esercitare nei confronti di un uomo. Il rapporto omoerotico inteso come vera e propria educazione al futuro.

LS: Secondo te l’aggettivo ‘saffico’ che oggigiorno viene utilizzato come sinonimo di ‘lesbico’ e che fa riferimento alla grande poetessa di Lesbo è in un certo senso troppo limitativo e fuorviante se si tiene conto della persona di Saffo? Ad esempio aggettivi come ‘manzoniano’, ‘leopardiano’, ‘shakespeariano’ non hanno una connotazione prettamente sessuale né negativa. Perché con Saffo è stato utilizzato questo procedimento?

GP: Credo sia estremamente riduttivo definire la personalità di Saffo all’interno di una misera classificazione sessuale: tutto ciò non poteva esistere in una società come quella greca, nella quale non solo il rapporto omosessuale era permesso, ma addirittura costituiva un privilegio! Solone affermava nelle sue Leggi che agli schiavi tutto ciò doveva essere proibito, perché l’amore disinteressato (Platone, Simposio) avrebbe elevato il loro spirito al livello dei loro padroni. Tutto ciò non poteva essere permesso! Poi, con l’avvento e l’ascesa del Cristianesimo, furono introdotti principi falsamente moralistici che imbrigliano ancora oggi l’umanità nella paura della morte, del peccato, e conseguentemente di tutto ciò che è “fuori natura” (omosessualità). Non solo: nel 391 a.C., il vescovo Teofilo e i suoi monaci paraboloni distrussero la Biblioteca figlia di Alessandria, e bruciarono oltre 700.000 volumi, tra i quali erano annoverate opere scientifiche di grandi atomisti quali Democrito e Leucippo, ma anche opere poetiche, tra le quali spiccavano gli Epitalami (canti nuziali) di Saffo. In poche ore andarono persi oltre 1.200 anni di progresso e cultura. Forse aveva ragione Nietzsche quando affermava che «Tutto il lavoro del mondo antico per prepararci a una civiltà scientifica e libera ci è stato defraudato dal Cristianesimo». Naturalmente la figura rivoluzionari di Gesù Cristo non può essere annoverato in questo scempio.

LS: Potremmo considerare Saffo, così come la descrivi, un’eroina d’altri tempi, una precursore ante litteram del femminismo: non solo propugna l’amore per la donna ma verso l’umanità tutta. E’ espressione di un sentimento rivoluzionario e innovativo per i tempi che si scontra con la società patriarcale e sessista incarnata ad esempio dalle leggi di Solone o nello spregevole Cleone. E’ così? Che ne pensi a riguardo?

GP: Assolutamente: Saffo rappresenta l’amore nei confronti della donna, nostra unica speranza per un futuro migliore, ma soprattutto un personaggio rivoluzionario che non accetta i limiti e gli ostacoli imposti dalla società e dalla cultura greca, una donna che lotta per la libertà, per l’uguaglianza dei sessi, per una giustizia che sia dura e non crudele nei confronti dei condannati, per una vita imperniata sull’amore e non sul cinico dispotismo tipicamente maschile. Forse se alle donne fosse permesso di salire alle più alte soglie del potere politico, il mondo sarebbe, per dirla alla Eduardo “ un po’ meno tondo, ma un poco più quadrato!”.

LS: Leggendo l’intero romanzo ho trovato che le parti più belle e affascinanti fossero localizzate proprio all’inizio e alla fine. Il passare del tempo, la presenza ossessiva e imperscrutabile delle Moire e l’avvicinarsi dei riti di Thanatos ci immettono direttamente nel clima da tragedia greca. Diversamente, non c’è niente di tragico in quanto scrivi, anche la morte di Saffo non trasmette nessun dolore ma, anzi, è per il lettore un elemento di rassicurazione per il ricongiungimento con Attis. Quando hai iniziato questa storia già sapevi come l’avresti conclusa? Perché hai deciso di concluderla con la morte di Saffo?

GP: La struttura ad anello adottata in Saffo aveva un preciso intento: far comprendere come una vita può rinascere in un’altra vita, come il passato a volte ritorna nell’eterna unicità di un sorriso, come l’amore sia inspiegabile e non classificabile. Saffo, al termine del romanzo, sa che le sue certezze radicate sull’amore sono crollate da tempo; sa bene che la sua vita è arrivata al termine, eppure vive negli occhi di un nuovo personaggio che poco prima aveva donato nuova luce al suo cuore. Guardando l’orizzonte, spera di ritrovare ciò che un giorno ha perduto, ma questa è solo una speranza … Mi piace pensare ad un finale che lasci spazio all’immaginazione di chi legge. E’ come voler dire:” Ho raccontato fin qui, ora tocca a voi!” Sono certo che i miei lettori sapranno trovare finali migliori di quanto avrei potuto fare io. Non avevo ben presente la modalità di conclusione del romanzo: non amo stabilire ogni minimo particolare della narrazione: nella maggior parte dei casi le idee vengono scrivendo!

LS: La visione patriarcale, di dominio dell’uomo nei confronti della donna fuoriesce a due livelli: a livello politico (leggi di Solone, Cleone) ma anche a livello familiare (Carasso, fratello di Saffo). A queste figure maschili però fa eccezione Scamandro, il padre di Saffo. Come mai hai deciso di tratteggiare il personaggio di Scamandro in questa maniera in un universo di patriarchi?

GP:  Volevo che in questo romanzo ci fossero dei contrasti dal punto di vista sociale e culturale: da una parte Cleone, uomo crudele e assetato di sangue innocente, dall’altra Scamandro, uomo saggio appartenente alla vecchia generazione che però non disdegna il presente nelle sue molteplici manifestazioni. Il padre di Saffo rappresenta la comprensione paterna, l’amore filiale, ma soprattutto l’umanità che non cede di fronte alle ingiustizie; l’umanità che volontariamente lascia tutto ciò che ha per riappropriarsi di ciò che giustamente le appartiene. Oggi dovrebbero esserci molti Scamandro, eppure vediamo sempre più Cleoni in giro!!!

LS: Hai in mente un nuovo lavoro? Stai scrivendo qualcos’altro? Puoi anticiparci qualcosa a riguardo?

GP: Il mio prossimo romanzo, che a breve inizierò a scrivere, tornerà nella società greca, questa volta nel V sec. A. C.: racconterò il declino di Atene e della civiltà d’oro di Pericle vista dagli occhi di un grande tragediografo, le cui opere ancora oggi commuovono e fanno riflettere. Sarà una storia più lunga, elaborata, ma certamente ricca delle stesse emozioni che hanno accompagnato la straordinaria figura di Saffo!!!

Ringrazio Gianluca Paolisso per avermi dato la possibilità di fare questa interessantissima lettura e per avermi concesso questa intervista.

LORENZO SPURIO

16 Luglio 2011


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Pazienti smarriti di Maria Rosaria Pugliese finalista al Premio Domenica Rea

Il meraviglioso romanzo di Maria Rosaria Pugliese dal titolo Pazienti smarriti, edito da Robin Edizioni è stato incluso tra i finalisti per il Premio Domenico Rea – XVII Edizione – Sezione Narrativa.

Tra gli altri finalisti alla sezione narrativa ci sono Franco Matteucci con Lo show della farfalla (Newton Compton Editori), Francesco Recami con La casa di ringhiera (Sellerio Editore), Marcello Fasolino con Napoli ultima chiamata (Iuppiter Edizioni) e Geo Nocchetti con Saldi di fine emozioni (Tullio Pironti Editore). La giuria della XVII Edizione sarà composta da: Presidente: Gennaro Sangiuliano (vice-direttore TG1); Giurati: Alberto Bevilacqua (scrittore), Gigi Marzullo (conduttore RAI), Alessandro Gnocchi (capo-redattore Cultura de Il Giornale), Massimo Lojacono (docente), Annella Prisco Saggiomo (operatrice culturale).

Il premio Rea è stato istituito nel 1995 per ricordare Domenico Rea, scrittore napoletano che ha narrato in maniera attenta e realistica squarci di vita partenopea come nei famosi Racconti di Spaccanapoli (1947). Rea è inoltre stato vincitore del Premio Strega nel 1993 con Ninfa plebea.

Il romanzo di Maria Rosaria Pugliese è una vivida storia d’amore che si snoda su piani temporali diversi, l’infanzia felice che viene revocata in una miriadi di ricordi e la difficile realtà del presente al fianco di un parente gravemente malato che, giorno dopo giorno, combatte la sua battaglia con il Maligno. E’ un’affascinante storia che ha chiari riferimenti autobiografici e che ci rende partecipi di un dolore familiare che potrebbe essere quello di ciascuno di noi, facendoci vivere sulla pelle un miscuglio di sentimenti molto forti.

Al romanzo ho dedicato una recensione, pubblicata su questo stesso blog, che potete trovare qui: http://tinyurl.com/3sjhcvn

Ho inoltre avuto il piacere di intervistare, a distanza, l’autrice del romanzo. L’intervista si può trovare qui: http://tinyurl.com/4ydmwef/  

La premiazione del vincitore è prevista per il 7-8 Ottobre 2011, sull’isola di Ischia (Napoli).

Per aggiornamenti visitare il sito internet www.premiodomenicorea.org o contattare Livius@Ischianet.com  

Faccio i miei più sentiti e sinceri auguri a Maria Rosaria Pugliese per la sua opera finalista al premio!

 Lorenzo Spurio

 27 Luglio 2011

Pazienti smarriti, intervista a Maria Rosaria Pugliese

INTERVISTA A MARIA ROSARIA PUGLIESE

Autrice di Pazienti smarriti

Robin Edizioni, Roma, 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Complimenti per il tuo romanzo. Narri una storia tragica ma lo fai in maniera dolce, sottolineandone dettagli, ricordi passati ed emozioni presenti. Com’è nato questo romanzo? C’è alle sue spalle una genesi particolare?

MRP: Il romanzo è nato da una storia dolorosa e, purtroppo, vera: la malattia di mio fratello. Nelle tante ore passate in ospedale pensavo di scrivere dell’esperienza così dura che stavamo vivendo, e l’intenzione era di  parlare soprattutto della sanità, di un certo tipo di sanità con la  quale ci stavamo angosciosamente confrontando. Scrissi, per primo, un racconto, che titolai Pazienti Smarriti. Uno scrittore amico lo lesse, gli piacque molto e m’invitò a continuare. Così dal racconto, a poco a poco venne fuori il romanzo. Scrivendo, i ricordi mi presero sempre più la mano, per cui il libro, che in origine volevo fosse di  mera denuncia, divenne una storia di sentimenti.

LS: Ho letto nella tua breve scheda di presentazione del libro che c’è qualcosa di autobiografico nel romanzo. Ovviamente non ti chiedo cosa perché questa intervista non ha nessun fine di ledere la tua privacy. Quella dei riferimenti autobiografici in un testo è una domanda che mi faccio spesso e che mi aiuta a capire ancor meglio il testo in questione. Quanto hai tratto da esperienze personali nella stesura di questo libro? I pensieri e le emozioni che sono della protagonista, della sorella del malato, sono in qualche modo un riflesso di un tuo stato d’animo per una persona malata alla quale sei stata accanto?

MRP: In Pazienti Smarriti c’è tanto di autobiografico. Gli episodi evocativi dell’infanzia, i flash-back racchiusi nei box, per intenderci. E anche quanto attiene al quartiere, i riferimenti geografici, la storia familiare. Riguardo il penoso viaggio nel pianeta-sanità,  tutto ciò che è raccontato nel romanzo è realmente accaduto, mentre non tutto ciò che il protagonista  ha vissuto, è stato possibile riportare: in qualche caso per rispetto della memoria di Ettore, talvolta perché veramente inenarrabile. Comunque, a mio parere, anche quando si scrive di cose inventate, la scrittura è  in qualche modo autobiografica, perché chi  scrive “mette” sempre se stesso. 

LS: La prima parte del romanzo si intitola “Ground Zero” cioè ‘livello zero’, ‘spianata’ e ci fa pensare immediatamente alla tragedia delle Twin Towers dell’11 settembre del 2001 a cui in effetti si fa riferimento nel romanzo. La mia interpretazione che si rifà alle considerazioni della giornalista Oriana Fallaci quando scriveva della sua malattia è quella di mettere in relazione la potenza distruttiva del terrorismo che annulla la società con quella di un cancro che annulla la persona. Una malattia che lascia aridità, secchezza, desolazione. E’ in certo modo corretta questa interpretazione? Se non lo è a che cosa volevi riferirti con questo titolo?

MRP: Ad  accomunare i  due tragici fatti, l’uno di risonanza planetaria e, l’altro, molto più intimo, evidentemente non è stata solo la concomitanza temporale. Il protagonista di Pazienti Smarriti era un punto di riferimento fondamentale per la moglie,  le figlie,  la sorella,  che non  ipotizzavano neppure il  vacillamento del loro sostegno, della  loro Torre,  figuriamoci il cedimento! Quando il male aggredisce Ettore, per le  sue donne che,  nonostante tutto caparbiamente spereranno  fino alla fine,   l’evento è destabilizzante, la catastrofe totale e, per loro, paragonabile solo a Ground Zero.

LS: Nel romanzo utilizzi una metafora molto intensa e penetrante: il malato come guerriero ormai condannato e l’esercito della salvezza al suo fianco. E’ un’immagine molto bella e che rende magistralmente l’idea di questo clima solidale e comprensivo nei confronti del personaggio di Ettore. La guerra che il guerriero e l’esercito combattono ovviamente è la malattia. In che modo si è originata nella tua mente questa metafora che poi hai utilizzato sapientemente nel corso del romanzo?

MRP:  L’etimo del nome Ettore deriva dal greco e significa colui che tiene saldo, che protegge. Identifica il difensore valoroso,  che lotta per la sua gente, la sua famiglia, così nell’Iliade, ci viene raccontato  Ettore, principe di Troia, guerriero nobile ben diverso da Achille l’eroe suo antagonista che, invece, combatte per la gloria, per l’affermazione di stesso. Rileggendo il poema omerico scoprii alcune analogie tra  Ettore, guerriero troiano e il mio protagonista. Innanzitutto entrambi difendono a spada tratta  i valori in cui credono fermamente. Poi,  la solitudine del guerriero. La solitudine del malato. Ettore,  eroe epico,  sarà solo sotto le mura di Troia, e  dovrà cavarsela senza l’aiuto divino, perché non è protetto dagli dei. Egli è mortale, a differenza di Achille, che è invulnerabile. Anche il malato è solo di fronte alla malattia nonostante  la vicinanza affettiva dei parenti e degli  amici. L’epilogo, poi,  è lo stesso  per entrambi i personaggi: dopo aver combattuto da leoni, soccombono al loro destino.

LS: Nella prima parte dell’opera c’è una lunga descrizione che rievoca il prezioso momento dell’allestimento del presepe. E’ una descrizione suggestiva e quanto mai affascinante. Il pensiero di Ettore, che torna a casa proprio pochi giorni prima del Natale, è quello che dovrà fare in fretta a metter su il presepe, come ha fatto ogni anno. E’ un dato di fatto che nella tradizione napoletana il presepe ricopra un gran valore. Quanto è importante per te personalmente? Credi che la mania presepiale dei napoletani derivi da un ferma credenza nella religione o piuttosto nell’abilità partenopea di creazione di maschere, travestimenti e riproduzioni in scala di altrettante identità?

MRP: Non parlerei di “mania” presepiale, piuttosto di passione. Una passione complessa, e difficile da spiegare: nel  presepe c’è la tradizione, il mito,  l’arte, il folklore,   la simbologia  – ogni personaggio deve  essere  perfino collocato in un posto ben preciso. Il presepe popolare, come diceva Matilde Serao, è Napoli, la glorificazione di Napoli, della sua  antica quotidianità, della sua esuberanza, della sua  schiettezza, anche delle sue contraddizioni.  Il presepe o  lo si ama oppure no, non esistono mezze misure. A questo punto, Lorenzo, avrai  capito che sono Presepista, per dirla alla De Crescenzo che divide i napoletani in Presepisti  e Alberisti. Anche Ettore era Presepista.

LS: Sono interessantissimi i riferimenti alla cultura (dialetto, arte) napoletana ed è affascinante questo stretto legame che tu evochi tra la famiglia, la terra e il passato. Ci sono autori napoletani che ti piacciono in maniera particolare? E quali scrittori italiani e stranieri ti piacciono di più?

MRP: Nel mio romanzo numerosi sono i  termini dialettali  e le espressioni gergali, tradotti o spiegati, poi, con note a piè di pagina.  Credo sia stato più efficace e funzionale alla narrazione, riportarli senza italianizzarli o sostituirli con sinonimi, anche perché la storia che racconto  è ambientata in un determinato contesto e geografico e storico. Negli anni 50/60 a Napoli si diceva la bella mbriana, non la fata buona della casa. Nessun dubbio riguardo i miei autori preferiti: Marquez e la Allende, di cui ho letto tutto. E poi tutta  la letteratura di matrice ispanica. Tra gli italiani mi piacciono molto Alessandro Baricco, Marco Lodoli e Stefano Benni.

LS: Nel romanzo, ad eccezione di Ettore, non ci sono personaggi maschili tratteggiati con attenzione. E’ un universo di donne di età e sensibilità diverse a dispiegarsi all’interno del romanzo. L’idea che ci facciamo è che si tratti di un romanzo quasi “matriarcale”. E’ sbagliata questa interpretazione?

MRP:  In Pazienti smarriti la presenza femminile è sicuramente forte, la si tocca con mano. Già l’Esercito della Salvezza, la milizia nella quale idealmente  la moglie, le figlie, la sorella di Ettore, si arruolano volontarie per la salvezza  del loro uomo rende l’idea di quanto le donne  siano combattive, risolute, pronte, se necessario, perfino  ad impugnare le armi per contrastare il nemico subdolo che si accanisce contro il loro caro. In situazioni estreme, come una grave malattia, oppure durante terribili  emergenze, quali la guerra, si tira  fuori una grinta, un’energia, che  forse neppure si sa di avere. L’abbondanza di figure femminili poi, nel romanzo, è dovuta al fatto che ci sono esperienze devolute storicamente più alle donne che agli uomini, appunto  l’assistenza degli ammalati,  ed anche alla circostanza che numericamente vi sono più donne che uomini,  come nella mia famiglia. Tra i personaggi maschili, vorrei  sottolineare Genny, il giovane parrucchiere che viveva alla giornata e che ebbe un destino simile. La storia di quel ragazzo scanzonato e poetico mi emozionò al punto che decisi di ricordarlo nel romanzo.

LS: Di pari passo alle varie operazioni e all’aggravarsi delle condizioni di salute di Ettore nel romanzo sottolinei in più punti una certa deferenza, una freddezza e distanza di rapporti tra il personale medico ed i parenti. I dottori e i chirurghi operano e danno responsi solo perché quello è il loro lavoro. Manca, sotto questo punto di vista, il lato umano che una professione come questa dovrebbe manifestarsi in maniera di supporto emotivo non solo per l’ammalato ma anche per i suoi parenti. Ci sono delle suore che un po’ si dedicano a questo aspetto. Perché hai voluto sottolineare questo elemento?

MRP: Come ho detto all’inizio di quest’intervista  e come sempre ripeto nelle presentazioni,  Pazienti smarriti non è un libro sulla malasanità, ma una storia  di sentimenti. La malattia di Ettore è stata un percorso durante il quale si è avuto l’incontro con operatori  sanitari capaci e disponibili  ed altri venali o boriosi, con persone meravigliose – buoni samaritani, –   e con chi,  invece,  non si sarebbe mai voluto incontrare. Si è sperimentata la solidarietà, autentica, commovente, tra gli ammalati, tra le famiglie degli ammalati.  Abbiamo percepito, nel  momento più critico della malattia, nel passaggio alle cure palliative,  un distacco, da parte dei medici proprio quando vi era maggiore necessità della loro presenza. Un atteggiamento difensivo,  un “ritirarsi”  forse  dovuto all’idea dell’impotenza, della sconfitta, personale e della medicina. A mio  parere, la malasanità, non è solo l’ inadeguatezza dei servizi, ma soprattutto la scarsa attenzione al paziente,  l’incapacità di rispondere anche al bisogno d’umanità di chi vive l’esperienza della malattia.

LS: E’ singolare che entrambi i sogni-visioni che la protagonista fa ricalcano una serie di elementi che la concernono nella realtà: la frequentazione dell’ospedale, la malattia del fratello, l’unione con gli altri membri della famiglia. Nel secondo sogno mentre i parenti stanno aspettando Ettore che esca dalla sala Tac, si rendono conto che è scomparso e tutti si mettono a cercarlo. Siamo nel sogno. Si fa riferimento così ai “pazienti smarriti” da cui deriva il titolo del romanzo. In che senso i pazienti sono smarriti? E’ la malattia a privarli di sicurezze e del riconoscimento degli spazi? Perché la protagonista fa questo sogno?

MRP: Il titolo del romanzo deriva proprio dall’episodio dello smarrimento del paziente in ospedale. Dopo una Tac, Ettore fu “realmente” smarrito. Come una valigia. E l’Esercito della Salvezza a cercarlo  dappertutto… Non fu un sogno. Tutt’altro! In quale chiave dovevo riportare un fatto del genere? Sono ricorsa all’espediente onirico, calcandovi  la mano, arrivando al surreale. Solo nei sogni-incubo dovrebbero verificarsi certi fatti. Il titolo potrebbe essere letto anche come metafora dello smarrimento, dello spaesamento che prende  chi, all’improvviso,  si trova  sradicato dal proprio ambiente, in un contesto sconosciuto, e con l’incognita della malattia. Naturalmente lo smarrimento è una richiesta d’aiuto.

LS: Hai altri lavori in cantiere? Stai scrivendo qualcosa o hai in mente un nuovo progetto? Se sì, puoi anticiparci qualcosa?

MRP: La lettura e la scrittura fanno parte del mio quotidiano. Sono napoletana e quindi superstiziosa per cui preferisco non aggiungere altro. Però, Lorenzo, di sicuro  c’è una storia che mi piacerebbe moltissimo scrivere, una storia che avesse questo incipit: c’era una volta, c’era una volta, una bruttissima malattia e adesso non c’è più.

Ringrazio Maria Rosaria Pugliese per avermi concesso questa intervista.

LORENZO SPURIO

11 Luglio2011


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After the Sun, di Angela Grillo (2011)

After the Sun di Angela Grillo

Lampi di Stampa, Milano, 2011

Recensione di Lorenzo Spurio

L’esordio letterario di Angela Grillo con After the Sun la immette a piè pari in quella categoria di scrittori dei nostri giorni che narrano con attenzione della contemporaneità, della vita e delle cose comuni, dei piccoli eventi che accadono a tutti ogni giorno. E’ un romanzo attuale, vivo, immagine dei nostri tempi, in cui è evidente il riferimento a Moccia o, più in generale, a quegli scrittori che articolano le loro storie attorno all’amore che nasce spesso da un evento fortuito.

E’ forse proprio nelle prime pagine che va ricercato il significato del titolo, After the Sun… infatti qui si fa riferimento al giovane che con il suo cellulare fotografa il sole, la bellezza naturale, cosa quanto mai singolare se si tiene presente la frenesia della vita di tutti i giorni. Ma Sun, come scopriremo leggendo, è il nome della casa discografica per la quale Stella finirà per lavorare. E’ un romanzo dolce, lieve, romantico, aggraziato nelle descrizioni, ricco di elementi che ci permettono di viverlo sulla nostra pelle: le varie tecnologie a cui si fa riferimento, i talent-show che, purtroppo o per fortuna, a seconda della nostra prospettiva, abbondano sui teleschermi.

Così la protagonista finisce per incarnare molti atteggiamenti e pensieri che potrebbero essere di ciascuno di noi; Stella osserva: «Sono una ragazza più matura delle ragazze della mia età» (pag.13), tuttavia, in realtà, si evince il contrario. A mio modo di vedere Stella è infatti un po’ troppo esaltata per tutto, eccitata, narcisista e credo che questi comportamenti siano classificabili nettamente all’interno di una fase adolescenziale. Ma non c’è niente di strano in tutto ciò come la poetessa Alda Merini scrisse: «Ci sono adolescenze che si innescano a novanta anni».

Ma il romanzo non è solo ricerca di amore è anche il racconto di un sogno, di un desiderio che si realizza. E così Stella, la protagonista, un po’ per caso un po’ per fortuna, da cameriera nel locale della zia passa a lavorare in una casa discografica, come promettente cantante. E’ un mondo nuovo, affascinante e agognato che la rende la donna più felice del mondo. E’ forse in questo aspetto, nei talent-show, nei cantanti esordienti, nelle agenzie che fanno firmare veloci contratti a autori giovanissimi promettendo spesso cose che poi mai arrivano, che si respira un’aria altamente attuale e realistica. La Grillo è attenta a non sottolinearne solo gli aspetti positivi: la felicità di Stella, la disponibilità dei suoi agenti, l’affascinante mondo dello spettacolo, intravedendo anche gli aspetti meno edificanti: il narcisismo patologico, il successo che da alla testa, la perdita degli affetti.

La narrazione non si fa mai noiosa perché la Grillo interviene spesso con nuovi elementi, nuove storie, delle svolte che consentono ogni volta di incrementare l’attenzione del lettore e questa sensazione si enfatizza in prossimità delle ultime pagine del libro in cui Stella si rende conto di aver sbagliato, di essersi illusa, di aver frainteso il vero senso della vita sostituendo affetti e sentimenti con fama e successo. E così in una storia che era pensata tutta volta alla felicità e alla consacrazione di una ragazza che diventa popstar si insinua il disturbo psichiatrico e la devianza (professor Bassani) e la malattia tumorale degenerativa della zia di Stella, sua unica parente.

Complimenti all’autrice di questo libro per il suo linguaggio semplice ma corretto, fresco e scorrevole e per la storia da commedia rosa dai toni quasi favolistici, calata nella nostra contemporaneità di tutti i giorni capace però di affascinare schiere di giovani, adolescenti alle prese con amori e sogni. Il filo rosso dell’intera narrazione è questa giovinezza frizzante sempre volta a cercare un possibile fidanzato, inseguendo il sogno del principe azzurro, intenzionata a formare una coppia e sentirsi amata sulla falsariga di Moccia o di Melissa P. “100 Colpi di spazzola” perennemente alla ricerca di amore (seppur un’altra forma d’amore). C’è da augurarsi che la Grillo segua questa strada in future narrazioni, dipingendo altrettanti spaccati di vita quotidiana con la stessa maestria.

 

ANGELA GRILLO è nata a Milano nel 1969. Ha conseguito un diploma di perito aziendale e corrispondente in lingue estere. Attualmente vive a Condino (Trento) dove lavora nel negozio di telefonia del marito seguendo la componente amministrativa e commerciale. Il suo libro d’esordio, After the Sun, edito da Lampi di Stampa, è stato pubblicato a fine giugno del 2011.

 

LORENZO SPURIO

17 Luglio 2011

 

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Confine d’ombra, di Marco Belatti

Confine d’ombra di Marco Belatti

Edizione Rupe Mutevole, 2011 

Recensione a cura di Alessandro D’Angelo

Scorrendo le pagine del libro di Marco Belatti , Confine d’ombra, (Edizione Rupe Mutevole 2011), non è facile scegliere i versi più significativi poiché da quasi tutti emerge una sensibilità che dimostra come l’artista riesca a percepire e vivere ogni forma di realtà in modo particolare: teso a sottolineare l’essenza della manifestazione della realtà tutta.
Nella poesia di Marco Belatti, si comprende, sin dai primi versi, la sua profondità di pensiero, presente dietro una brillante forma lirica. L’essenza del suo messaggio si perde nei meandri delle fuggenti apparizioni di sentimenti ora espressi, ora celati ora rivelati attraverso l’espressione di sentimenti prorompenti come fuochi d’artificio.
Lo scrittore nella presentazione del proprio testo Confine d’Ombra scrive : “Non tutte le stelle cantano alla luna, non tutte le nubi offuscano il sole… ma come ogni albero attende la rinascita della vita, il domani troverà nell’amore la propria via infinita”.
Da queste rime è facile ricordare gli immortali versi della Divina Commedia dove emerge prorompente quell’amore Celeste che recita Dante Alighieri nel XXXIII Canto del Paradiso al v.147): “amor che move il sole e l’altre stelle”.
Fra i numerosi scritti dove emergono i sentimenti amorosi, mi è rimasto impresso il testo presente nella sua autobiografia dove il poeta è riuscito a dimostrare come c’è sempre il successo dell’amore sulla ragione: “l’amore che distrugge e crea che vive e muore in un sentiero lungo la mutevole sostanza di un tempo oscuro ma colmo di speranze per la rinascita di una nuova era… il trionfo dell’amore sulla stanca ombra della ragione.”
Lo scrittore ci insegna come l’amore non ha limiti né di tempo, né di spazio, né di forma né di colore; questo viene espresso in modo magnifico nella poesia “Dimensioni interrotte”, dove il poeta riporta sentimenti legati fra Libertà ed Amore: “Musica di tragici eroi//libertà e voli di avvoltoi…//silenzio che cinge il timore,//destabilizzante essenza d’amore.//”. In queste rime emerge una comunione fra libertà ed amore. Il tema dell’amore è riportato più volte nel libro dove, nella poesia a rima baciata “Dodici Bambole”, si legge: “E pensare che l’Amore//si scioglie fra i raggi del sole…//con la gioia bambina che non muore,//di chi crescere non vuole//”.
Dagli scritti emerge come l’essenza dell’arte sia figlia della forma più segreta; e come al di là della realtà fenomenica apparentemente viva, si manifesti una realtà carica di energia irreale o di sogno, pronta a venire alla ribalta attraverso i “Portatori di Luce”, cioè i veri artisti. Infatti è proprio fra queste pedine scintillanti che Marco Belatti s’inserisce per illuminare gli occhi e l’animo dei ciechi.
Dalla lettura del testo, si EVIDENZIA come lo scrittore abbia operato in un modo atipico PERMETTENDOGLI di attuare messaggi capaci di elevare l’umano essere.

ALESSANDRO D’ANGELO 

www.marcobelatti.eu 
www.poesiaevita.com


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Per una strada di Emanuele Marcuccio

Per una strada di Emanuele Marcuccio

SBC Edizioni, Ravenna, 2009.

Recensione a cura di Alessandro d’Angelo

La vera Poesia nasce da un’alchimia interiore, da trasmutazioni che, se estrinsecate in maniera veramente sentita, “… divengono sublimi creazioni o invenzioni nell’Essere della Creazione”, come scriveva il filosofo Immanuel Kant, uno fra i più importanti esponenti dell’illuminismo tedesco, e anticipatore degli elementi fondanti della filosofia idealistica.

Kant scriveva: «Il poeta osa rendere sensibili idee razionali di esseri invisibili, il regno dei beati, il regno infernale, l’eternità, la creazione, e simili; o anche trasporta ciò di cui trova i modelli nell’esperienza, come per esempio la morte, l’invidia e tutti i vizi, l’amore, la gloria, al di là dei limiti dell’esperienza, con un’immaginazione che gareggia con la ragione nel conseguimento di un massimo, rappresentando tutto ciò ai sensi con una perfezione di cui la natura non dà nessun esempio; ed è propriamente nella poesia che la facoltà delle idee estetiche può mostrarsi in tutto il suo potere».

Ho voluto riportare queste riflessioni kantiane poiché sin dai primi versi della poesia di Emanuele Marcuccio emerge, come un sole all’alba, la sua profondità di pensiero, nascosta dietro un brillante poetare. L’essenza del suo messaggio si nasconde fra i meandri delle veloci comparizioni di pensieri espressi e taciuti, ora rimasti nascosti, ora rivelati attraverso l’espressione di sentimenti esplosivi come la luce creata dalle stelle in una limpida notte d’estate.

Nella presentazione del testo, Emanuele Marcuccio riporta fra l’altro: «La poesia è la forma verbale più profonda che possa esistere, per esprimere i più reconditi sentimenti umani». Il suo dire è sentito in modo particolarmente profondo poiché il poeta è un grande appassionato dell’arte musicale dove si diletta con soddisfazione esprimendo il meglio di sé. Infatti, così riporta sempre nella sua introduzione al libro: «Se, invece, vogliamo parlare di espressione umana in senso generale, la musica per me supera tutte le arti […]». Una lirica dedicata all’arte musicale ha il titolo: “Alla musica classica (13/1/1991)”: “ Dolce, carezzevole armonia//dell’alte sfere, //eletta ad ammansir l’ira, //a ricrear l’animo;//com’io ti rinovello, //dolce armoniosa, //ritrovo in me la pace, //e quel tremulo suono, //dolce mi viene all’anima, //cantando. //Così, tra il vivere e il morire, //flebile vien dal cielo//un’armonia antica, //pacata e rallegrata//da quella dolce pace e armonia//cadenzatamente velata//”.

Da alcune poesie emerge come il compito del poeta, non è soltanto quello di scuotere o risvegliare gli animi altrui per portare alla luce una certa “Realtà”, per lo più nuova, ma è anche quello di trasmettere messaggi utili per far conoscere in modo chiaro alcune verità che rimarrebbero ottenebrate e piene di ombre e di ambiguità.

Anche il tema del tempo ricorre spesso nelle piacevoli rime; ricordo la poesia: “Soave armonia (23/7/1999)” che così recita: “Soave armonia//che spazi e che t’innalzi, //senza spazio, //senza tempo: //tu che il mondo abbracci, //oltre le colline dell’ineffabile, //oltre gli eccelsi allori, //ai cori angelici, //a eteree armonie. //”. Dalla lettura di questa poesia si percepisce come il tempo, pur passando, rimanga fermo lì, a voler dimostrare che l’eterna vibrazione micro-macrocosmica del Basso rapportata all’Alto, rimane inalterata in modo aspaziale ed atemporale.

Poiché ogni modo di esporre poesia ha un suo ritmo e una sua musicalità ed ogni espressione, anche nel discorso non versificato, può essere pregno di una concreta forma di vita spirituale, si può affermare con certezza che anche le liriche del giovane Emanuele Macuccio sono pregne di serenità ed armonia, ma andrebbe ricordato che in molte trasuda l’amore: quell’amore che ci ricorda Giacomo Leopardi nella poesia “Il Primo Amore”: “Tornami a mente il dì che la battaglia// D’amor sentii la prima volta, e dissi: //Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!//”.

Il tema dell’amore è più volte ripreso dallo scrittore il quale permea i suoi scritti con questa importante vibrazione. Infatti inizia a scrivere sull’amore nella dedica al libro “Per una strada”: “Ai miei genitori, che sempre mi hanno sostenuto con il loro aiuto e il loro amore”. Inoltre, nella poesia “Amor (8-9/7/1994)” Emanuele Marcuccio usa un modo di scrivere insolito usando una metodologia analoga a quella usata dal Sommo Dante: “Imitar Dante non si puote, //ineffabil arte ‘l nostro pensier sarìa//sì come telo a incerto segno, vote.//Grande ‘l rimirar lo core e ‘l potrìa//com’al mio disiar serbato attendo, //al subitano error, al soave, disparìa. //. È per questo motivo che terminerei la disamina della poesia di Emanuele Marcuccio riportando l’ultima quartina del canto XXXIII del Paradiso, dalla Divina Commedia: “A l’alta fantasia qui mancò possa; //ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, // sì come rota ch’igualmente è mossa, //l’amor che move il sole e l’altre stelle. //”.

Alessandro D’Angelo


EMANUELE MARCUCCIO
è nato nel 1974 a Palermo. Ha conseguito la maturità classica nel 1994 e scrive poesie dal 1990. Alcune di esse sono state pubblicate nell’antologia di poesie e racconti brevi Spiragli ’47 (Editrice Nuovi Autori, Milano, 2000). Alcune delle poesie sono state tradotte in lingua inglese su consiglio di una poetessa esordiente britannica. Del 2009 è l’ampia silloge che raccoglie tutte le liriche scritte dal 1990 al 2006 dal titolo Per una strada. Sta inoltre lavorando da anni ad un poema drammatico che ha come tema la colonizzazione dell’Islanda.

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Premio “Vivarium”, riconoscimento alla poetessa Gioia Lomasti

A cura di Alessandro D’Angelo

Sin da bambina  Gioia Lomasti (foto a destra) ha riversato nella scrittura la sua più grande passione, attraverso la composizione di opere sia in poesia che in prosa,  riscuotendo  numerosi riconoscimenti . Scrittrice di diverse Opere tra le quali  “Passaggio”  edizioni il Filo 2008 , “Dolce al Soffio di de Andrè”  2009 edizioni Rupe Mutevole e coautrice della pubblicazione “Mixando la mia vita”, Fabrizio  Fattori, 2010 a cura del giornalista Alessandro Spadoni, Gioia Lomasti e Marcello Lombardo edita dalla stessa casa editrice. E’ alla direzione di sezioni e collane  editoriali quale promotrice di scrittura, e cura un laboratorio creativo per Radio Sonora web nella sezione poesia e vita come volontaria per la promozione di autori e cantautori emergenti, la cui radio e’ gestita dai comuni della bassa Romagna.Si è distinta lo scorso anno  per il premio Merini con attestato di merito e targa d’argento per la prima edizione dell’antologia “Cara Alda ti scrivo” edita da Ursini ed indetta dall’Accademia dei Bronzi di Catanzaro con l’inserimento della sua opera dal titolo “Verso Compianto”, dedicata alla grande poetessa Alda Merini. Nel 2011 per la “3ª edizione del Premio “Vivarium”, edizioni Ursini, dedicato alla poesia e a Giovanni Paolo II si e’ classificata tra i posti d’onore con la poesia “Santità”. La premiazione si terrà nella sala del Benny Hotel di Catanzaro, giovedì 28 luglio, a partire dalle ore 17,30.

“Per la suddetta Sezione riservata alle poesie inedite sulla figura e l’opera di Giovanni Paolo II, il 1° premio (medaglia del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) è stato assegnato alla poetessa Maria Pia Furina, per la lirica “Donaci la mano ancora, Padre Santo” nella quale la poetessa “respira l’alito della speranza e della fede attraverso un intimo conversare con Karol Wojtyla”. Ai posti d’onore si sono classificati: Maria Bertilla Franchetti con la lirica “Cometa dell’Amore”, Gioia Lomasti con la lirica “Santità”, Rocco Pedatella (secondo lo scorso anno nella sezione narrativa inedita con il romanzo “Puzzle”) con la lirica “Tre immagini” e Ilaria Celestini con la lirica “A Te”.”Anche con questo premio, Gioia Lomasti si pone fra quelle pedine scintillanti capaci di continuare a dar vita alla poesia dell’anima.

A cura di Alessandro D’Angelo

link utili per visitare i siti dell’autrice

New Yorker’s Breaths, Intervista a Maurizio Alberto Molinari

INTERVISTA A MAURIZIO ALBERTO MOLINARI

Autore di New Yorker’s Breaths

LietoColle,  Faloppio (Co), 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Qual è stata la genesi di questa silloge di poesia? Com’è nata l’idea?

MAM: L’idea è nata per caso lungo le strade di New York… Viaggiavo con la mia Canon digitale tascabile e nel frattempo, senza accorgermene, al secondo giorno avevo già scritto 6 o 7 poesie sul mio fedele Moleskyne. Mi rendevo conto però che ad ogni momento della giornata rischiavo di perdermi qualcosa… Allora ho avuto l’idea di cominciare a “rubare” fotografie in ogni luogo, decidendo che al mio ritorno in Italia avrei completato il lavoro scrivendo direttamente le mie emozioni già fissate nelle immagini.

LS: Hai dovuto fare una cernita del materiale da pubblicare oppure hai incluso nella tua raccolta di poesie tutte le liriche che avevi scritto e che riguardassero New York?

MAM: La cernita in realtà l’ho fatta ma sulle foto (ed è stata dura sceglierle…), tuttavia non volevo che la quantità delle immagini e delle relative poesie fosse troppo alta. Sono convinto che il taglio migliore per un volume di poesie debba aggirarsi  intorno ai 50/60 pezzi. Nel mio caso, con la presenza delle poesie visive, sintetizzate attraverso una parola in lingua inglese per ogni rappresentazione, richiedeva a mio avviso, non più di 25 sezioni abbinate. La difficoltà maggiore era rappresenta dal fatto trovare un Editore, di esclusivo taglio editoriale poetico, disposto a pubblicare un volume così diversamente sinergico.

LS: Come mai hai scelto New York come sfondo delle tue liriche? Hai fatto un viaggio in questa città e ne sei rimasto particolarmente affascinato? Quanto di autobiografico c’è in questa raccolta?

MAM: Il libro, come anticipato nella prefazione, è nato appunto dal mio primo viaggio in questa fantastica metropoli. Questo viaggio presenta tra le altre cose un retroscena piuttosto particolare. Il 12 di settembre del 2001 mi accingevo a confermare la prenotazione per la mia vacanza di 5 giorni nella Grande Mela, sfruttando e allungano il previsto ponte di novembre. Ho rinunciato con la morte nel cuore e negli occhi, tuttavia, in quel preciso istante, decisi che sarebbe stato solo rimandato, cosa avvenuta infatti nel Giugno del 2009. New Yorker’s Breahts non è da considerarsi una silloge autobiografica, semmai va scandagliata in ogni sua “parentesi” che si apre in esso e, nel contempo, dentro la città di New York. La silloge nasce con la precisa volontà di trattare temi importanti e quotidiani, troppo spesso defilati nel rapporto dell’idea di un viaggio, in particolare all’interno di una metropoli così vasta e unica nel suo genere.

LS: Hai scelto un titolo in lingua inglese che in un certo senso abbracciasse la tua intera collezione di poesie. Perché hai utilizzato la parola “breaths” (respiri) nel titolo e qual è il senso giusto che dobbiamo attribuire a questo titolo?

MAM: La scelta è avvenuta in maniera naturale, semplicemente. Nel momento stesso in cui ho avuto l’ispirazione avevo già deciso i contenuti, la struttura e la proiezione (perché nei sogni il libro non finisce in questo modo). La genesi di NYB è stata pensata per essere ambivalente, in un percorso che associasse la lingua italiana e quella inglese/americana, come pure il contrario (ma questo per il momento è ancora un sogno nel cassetto… ). Per quanto concerne “Breaths” rappresenta lo spirito stesso del libro, è il respiro di quelle persone, viaggiatori anche di soli pochi giorni, che entrano in contatto “fisico” con questa incredibile megalopoli, che toccano con mano le pulsioni quotidiane di questa città, del suo incredibile crocevia di emozioni e di culture interrazziali. E’ per questo motivo che quando mi è stato offerto di fare un’intervista in video Milano-New York, in diretta via Skype, ho accettato con entusiasmo e con la certezza che avrei potuto in parte raccontare con il mio viso e le mie parole, questa superba emozione e vicinanza.

LS: C’è una lirica che mi ha creato alcuni problemi di interpretazione. In parte è compito dello scrittore, e in questo caso del poeta, di insinuare il dubbio, di far nascere quesiti che consentano al lettore di interrogarsi sul significato che l’autore vuole trasmettere. La lirica in questione è “Riccioli in attesa” corredata, per altro, da una bellissima fotografia. Ho circoscritto alla parola ‘attesa’ il senso centrale della lirica ed ho immaginato che stessi parlando di una prostituta magari della periferia newyorkese. La mia interpretazione è sbagliata o può essere una delle tante possibili in base a quanto hai scritto?

MAM: Hai centrato la mia intenzione, ma solo in parte. Lo scopo predominante era quello di “fotografare” l’attesa di questa afroamericana, che in quel momento rappresentava un certo tipo di origine e ceto sociale, bellamente seduta in Times Square a rimescolare nella sua borsetta, rigorosamente taroccata, come se fosse in attesa non solo di un incontro. Sembrava stesse aspettando NY… e forse quello che la città avrebbe deciso di regalarle nell’immediato futuro. Mi aveva anche colpito il fatto che avesse un tattoo sulla spalla (sul retro non visibile sulla foto), che io avevo inspiegabilmente associato a un nome che mi era frullato nella testa: Rose. Da questa sensazione è nata la sintesi testuale di Rose’s Tattoo, che pone in evidenza anche questa pratica dei segni sul proprio corpo, ormai diventata linguaggio e parte integrante di un certo tipo di generazione.

LS: La decisione di corredare ciascuna lirica con una foto è sicuramente molto azzeccata perché le poesie si caratterizzano per essere molto evocative dal punto di vista descrittivo e per avere quindi un’altissima carica visuale. La scelta del bianco/nero delle foto credo che, più che derivare da scelte tipografiche ed editoriali, derivi da una tua esplicita volontà. E’ così? Perché?

MAM: In questo devo contraddirti, mio malgrado, perché il suggerimento mi è stato fornito da Diana Battaggia, Direttrice Editoriale di LietoColle, con cui ho discusso verbalmente di questa particolare struttura e che mi ha risposto con un semplice: perché no? Fammi vedere qualcosa… L’idea di rielaborare tutte le immagini al computer, attraverso l’utilizzo di filtri e di una serie di passaggi, è stata mia e necessaria. Il motivo principe è stato quello di poter trattare temi importanti, con immagini a volte “rubate”, che rapidamente potessero introdurre e trattare l’argomento, senza il rischio di ledere l’altrui sensibilità. Il lavoro più duro è stato proprio quello di selezionare, rielaborare e preparare la sintesi testuale all’interno dell’immagine. Quest’ultima parte è stata realizzata con il prezioso aiuto del mio collega di lavoro Mattia Ferrari, che ovviamente ringrazio. La scelta del bianco e nero si tagliava particolarmente bene con il profilo della silloge. Sentivo infatti che questa opera doveva rimanere all’interno del contesto poetico (ho richiesto e ottenuto che potesse essere inserita nella collana Erato di poesia di LietoColle).

LS: In un libro in cui si parla di New York ci si aspetterebbe di leggere della statua della Libertà, di Wall Street o di Central Park, tutti spazi che possono essere considerati come dei grandi assenti. Come mai non figurano in nessuna lirica?

MAM: Come credo di averti già accennato, mi sono trovato di fronte ad una scelta personale. Trattare la metropoli come l’avrebbero presentata tutti o scandagliarla e renderla viva di nuove sfumature, in parte solo nascoste? La decisione finale, con grande mia soddisfazione, è stata NYB, esattamente la seconda opzione. Ho preferito aprire finestre su vari temi, sull’arte (rubata, come con il carro etrusco al Metropolitan Museum, ne “Il Carro riemerso”), sulla Musica e il Teatro (in “Carnegie Hall”), sulla condizione disagiata di alcuni involontari e disperati spettatori di eventi (“NYC Homeless” – che tuttavia tratta anche il tema della solidarietà), sul dolore e sul ricordo (“The Sound of Silence”, “Fire’s men hearts still living”, “Walking on pain”), sul tema dell’amore (nella secondo me bellissima “Simply Lovers” – un amore in Times Square) e molti altri ancora. Alcuni di quei simboli che sono stati non selezionati, si ritrovano in parte in altre Poesie ed immagini, sia pure non in forma diretta e, siccome è mia ferma intenzione tornare a New York, non escludo di creare un seguito a questa silloge con una trama e una forma magari diversa. Why not?

LS: Le liriche che aprono la raccolta fanno riferimento alle stragi dell’11 settembre 2001 ma lo fanno in una maniera attenta, moderata, evitando di dare nomi o di indicare date, colpevoli o ad esempio cifre. Per qualsiasi lettore sarà facile intravedere l’ombra minacciosa di quei gravosi incidenti che, oltre a provocare un gran numero di vittime, rese evidente quanto l’uomo contemporaneo è esposto alla violenza e quanto è perennemente in pericolo. L’11 Settembre ha, in un certo senso, marcato due età distinte: quella dell’America da tutti vista come forte e imbattibile e quella dominata dalla paura, dal dubbio, dal terrore, tutti sentimenti circoscrivibili in una parola, ‘paranoia’. Qual’è stata la tua esperienza personale quando sei venuto a conoscenza degli attentati e in che maniera, in che cosa, hai percepito negli americani, in New York, il marchio di questa indelebile offesa all’umanità?

MAM: Come scritto all’inizio dell’intervista, il giorno successivo all’11 di settembre 2001 avrei confermato il mio primo viaggio a New York, previsto per il ponte di novembre. Gli attentati ci hanno trovato semplicemente al lavoro… Abbiamo ricevuto le prime informazioni via radio e immediatamente ci siamo collegati via web ai telegiornali e abbiamo visto quasi in diretta quello che stava succedendo, lasciando aperte anche le informazioni che giungevano via etere. In agenzia abbiamo smesso di lavorare, non sapevamo cosa dire, ci guardavamo increduli e nel frattempo ci raggiungeva la notizia di un aereo caduto sul Pentagono, un altro diretto sulla Casa Bianca, un altro caduto non si sapeva bene come e dove, abbiamo avuto la netta sensazione di essere di fronte al Terzo conflitto mondiale. Nel frattempo le immagini delle Twin Towers cominciavano a diventare il nuovo sangue della democrazia. Il momento delle implosioni lo abbiamo vissuto in diretta e le lacrime miste alla rabbia hanno colorato il nostro pomeriggio. Oltre ad annullare il mio previsto viaggio, l’attentato ha posto in evidenza un fatto basilare per la nuova società: l’America non aveva mai fatto guerre sul proprio territorio, per la prima volta altri portavano “la guerra” sul suolo americano. E’ una differenza fondamentale se ci pensate, è quello che ha generato la sorpresa, è quello che in un istante ha sconfitto una potenza mondiale, quella che si sentiva talmente al sicuro da non pensare a conflitti vissuti in casa propria. Questa credo sia stata la cosa più sconvolgente per il popolo americano. Per quanto mi riguarda, rinnego con forza qualsiasi tipo di violenza, tuttavia, le immagini che in quei giorni mi hanno portato più dolore, oltre ai morti in diretta delle Twin Towers, è stato vedere ciò che faceva The USA President mentre i suoi figli (e anche i nostri) cadevano come martiri della democrazia affidata a mani sbagliate.

LS: In varie poesie fai riferimenti al melting pot, a quest’attitudine tutta americana (forse anche londinese) che si basa sulla pacifica convivenza e solidarietà tra persone di etnie, razze e religioni diversi. La componente razziale nera in America e nella stessa New York è molto importante. Hai potuto constatare direttamente quando sei stato a New York questa “amalgama riuscita” oppure nella realtà dei fatti non è poi così tale?  Può dunque New York essere preso come modello compiuto di società plurietnica?

MAM: Sono un amante dei viaggi da sempre e durante questi anni ho visitato diverse “capitali del mondo” ma in nessuna di queste ho avuto la stessa netta sensazione che ho sentito a NY, un luogo in cui le razze sono realmente parte dell’essenza stessa della città. Anche a Londra e a Parigi le etnie si mescolano in quantità, sia pure per motivi diversi (coloniali in particolare), ma in queste ultime rimane saldo il sapore indigeno delle popolazioni. Vorrei però sottolineare un dato che in parte viene ancora poco evidenziato. E’ la presenza della colonia cinese presente ormai in tutto il mondo, New York compresa, che possiede una capacità di estensione da tenere in grande considerazione, poichè esporta la propria presenza senza troppi clamori, confinandosi abilmente tra le pieghe della società.

LS: Complimenti per la tua silloge. E’ un’opera davvero prelibata. Hai altri progetti di scrittura in cantiere? Stai lavorando a un nuovo libro? Se sì, puoi anticiparci qualcosa a riguardo?

MAM: Ti ringrazio Lorenzo, è stato un piacere essere tuo ospite in questa intervista, ho particolarmente apprezzato la tua recensione e i commenti che hanno dato il giusto rilievo a questo progetto articolato e particolare. La scrittura è la mia grande passione per cui ti posso garantire che non sono mai fermo. Al momento ho in mente altre cose, una in particolare che potrebbe svilupparsi con lo stesso profilo di NYB ma dedicato alla natura e con fotografie non mie. Ma altro ho in cantiere non solo in poesia, magari scritto a quattro mani e, dal momento che non disdegno la narrativa, un progetto di romanzo breve (che possiede già una sua bene definita struttura), ma questo solo quando troverò tutto il tempo necessario, evitando operazioni di editing non richieste…

Ringrazio Maurizio Alberto Molinari per avermi concesso questa intervista.

LORENZO SPURIO

14 Luglio 2011


E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO-INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Saffo di Gianluca Paolisso (2011)

Saffo di Gianluca Paolisso

Albatros Editore, Roma, 2011

Recensione di Lorenzo Spurio

Quando il giovanissimo Gianluca Paolisso mi ha gentilmente inviato una copia del suo romanzo d’esordio, Saffo, con tanto di dedica che ho molto apprezzato, mi sono chiesto se sarei stato capace di recensire un’opera che nasce da un substrato di  mitologia greca e letteratura classica. Così ho snocciolato la lettura delle prime pagine con un grande dubbio, con la convinzione che non ne sarei stato all’altezza o che, forse, avrei finito per scrivere cose banali. Ringrazio Paolisso per avermi dato l’occasione di fare questa interessantissima lettura che ha stimolato in me il desiderio di approfondimento di alcuni elementi. 

E’ evidente il grande interesse e la pronunciata fascinazione dell’autore del libro verso la cultura classica ed è completamente originale l’idea di un romanzo di questo tipo. Le divisioni in capitoletti, a mio modo di vedere, sono molto utili e consentono di individuare vari nuclei tematici che dipartono tutti dalla figura centrale di Saffo a cui l’intero libro è ispirato. La poetessa di Lesbo, di cui abbiamo poche notizie biografiche attendibili, resta famosa per una serie di liriche d’amore e per alcuni frammenti il cui linguaggio condensato e analogico è altamente evocativo e affascinante. Di Saffo si tende però a sottolineare principalmente il suo amore lesbico che, proprio in virtù di una serie di liriche con questo tema, ha permesso di coniare il termine ‘saffico’ come sinonimo appunto di ‘omosessuale’. Analizzata solo sotto questa luce però si rischia di perdere irrimediabilmente la complessità dei temi e dei pensieri che la poetessa ci ha trasmesso, come lo stesso Paolisso ci fa capire nel suo testo. L’autore ci accompagna così in questo affascinante mondo greco dominato da una “repubblica di sole donne” che è però da intendere come narrazione romanzata e non come commento storico-critico. Così l’autore ci rende partecipi di un’assemblea del Tìaso, ossia una sorta di conferenza di sole donne nella quale la poetessa interroga le astanti sulla loro concezione dell’eros e poi, in virtù della sua condizione privilegiata di figlia di un Membro Anziano dell’Agorà e della sua dialettica, riesce a salvare una schiava che sta per essere massacrata.

Se Paolisso fa riferimento all’omosessualità di Saffo non lo fa in maniera denigratoria o moralistica, ma semplicemente per sottolineare una delle varie forme dell’amore. La bellezza dell’amore sta nell’amare, qualsiasi sia l’oggetto di questa azione. Così il messaggio è abbastanza esplicito ma, se teniamo in considerazione la società nella quale viviamo, nella pratica trova poca applicazione.

In questo universo di sole donne, di assemblee tutte femminili, ginecei, sentimenti d’uguaglianza, visioni anti-patriarcali, fuoriesce il pensiero femminista di Saffo, allora troppo rivoluzionario e fastidioso, che possiamo immaginare abbia anche qualche relazione con l’idea della donna dell’autore stesso del libro: «La donna è quanto di più bello Madre Natura abbia mai creato! Una perla circondata da inutili sassolini! La donna rappresenta la più alta manifestazione della bellezza primigenia!  Nessuna donna, di qualunque strato sociale, merita di essere punita o addirittura uccisa per aver amato!» (31).

Ma dell’antica Grecia Paolisso ricostruisce fedelmente l’atmosfera dominata dal destino imperscrutabile, già scritto e dal quale non ci si può salvare, spesso personificato dalle Moire, le tre dee della tessitura. Ma è l’interpretazione filosofica, quasi esistenzialista, che fuoriesce dal personaggio di Saffo uno degli aspetti più interessanti dell’intero libro, che pure le permette di disquisire sull’illusorietà del presente e sulla transitorietà del genere umano: «La cosa più difficile è sapersi accettare in tutta la caducità che caratterizza il nostro essere» (52). Un viaggio affascinante attraverso i pensieri, le ossessioni e l’amore di Saffo verso la donna e la libertà, quanto mai lungimirante nel pensiero femminista. Complimenti all’autore.

GIANLUCA PAOLISSO è nato a Formia (Latina) nel 1992, dove risiede. Frequenta l’ultimo anno del Liceo Classico “Vitruvio Pollone”.


LORENZO SPURIO

16 Luglio 2011


E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Pazienti smarriti di Maria Rosaria Pugliese (2010)

Pazienti smarriti di Maria Rosaria Pugliese

Robin Edizioni, Roma,2010

Recensione di Lorenzo Spurio

Maria Rosaria Pugliese, scrittrice napoletana, con Pazienti smarriti propone una storia tragicamente realistica descritta in maniera vivida, e che non cade mai nel banale, inserendo un vissuto familiare all’interno di una più ampia cornice storica e sociale. Quando una malattia molto grave affligge una persona, a soffrirne, come sostengono i medici,  non è solo il malato ma, secondo un processo di osmosi o di diffusione capillare, l’intera famiglia. E’ ciò che avviene in questo interessante romanzo che, in una certa misura, mi ha fatto pensare a un film con Meryl Streep di qualche anno fa, One True Thing, tradotto in Italia La voce dell’amore. Ovviamente non vuole essere un parallelismo: le due storie sono molto diverse ma, leggendo il romanzo, questa è l’immagine che nella mia mente è stata evocata.

Nella prima parte l’autrice gioca con un interessante ossimoro: il giardino fresco e variopinto della casa del Cilento, descritto come una sorta di Eden e ricco di vita, contrasta infatti con la malattia del fratello che angoscia anche gli altri membri della famiglia, come fosse una pianta di edera che si aggrappa alle altre piante strozzandole e soffocandole. La narratrice osserva infatti: «Tu stai male e io penso alle piante» (6).

La Pugliese però è un’attenta compagna di viaggio nel fornirci anche le coordinate storiche attorno alle quali la storia si dipana: il maledetto 11 settembre 2001 (il terrorismo islamico metafora, secondo Oriana Fallaci, del cancro che minava il suo corpo), riferimenti alla seconda guerra mondiale (il bombardamento di Pescara, nel 1943), il boom economico (1958-1963), quando possedere un frigorifero era prezioso come possedere una reliquia, il periodo in cui «si votava Democrazia Cristiana» (59), il terremoto dell’Irpinia del 1980 e la strage di Nassiriya del 2003.

Ma la storia è molto di più. La malattia è investigata e studiata attentamente nelle sue varie fasi sia sotto un punto di vista medico-clinico che affettivo. La narratrice disquisisce sul valore della vita, la sua importanza. La buona salute è per noi un dato di fatto, un qualcosa che è presente in maniera scontata ma ci è stato sempre insegnato che non c’è mai niente di scontato quando si parla del corpo umano. E così il pensiero tragico ma altamente realista della scrittrice si condensa in queste frasi: «La buona salute è qualcosa che, fino a quando c’è, si dà per scontato così come è scontato il fatto che, girando la chiave nel rubinetto, sbocca acqua corrente o che, non appena sfioriamo l’interruttore, veniamo investiti dalla luce. Se però improvvisamente si rimane a secco o al buio e il consueto tran tran si blocca, allora, solo allora ci si rende conto dell’importanza di cose considerate ovvie (8-9).

E così viene narrata  la metamorfosi di una famiglia qualsiasi che potrebbe essere quella di ciascuno di noi, una volta che uno dei suoi esponenti scopre un grave  malattia, che rivela ben presto la fallimentarietà di ogni tipo di cura. Perché il Male a volte è più forte del Bene. Quello fisico però, non quello interiore come mostra il romanzo. E così in queste condizioni Ettore ritorna a casa ma la malattia non è stata debellata, attorno a lui la moglie, le sue due figlie e la sorella, attente e premurose, sofferenti di nascosto che lui definisce “l’esercito della salvezza”.

E’ affascinante la rievocazione di pillole di ricordi che la protagonista fa, della sua infanzia vissuta assieme al fratello sempre amato, alla società di allora, ai loro giochi e a quell’età felice e spensierata oramai persa. La scrittrice mescola il presente difficile dominato dalla traumatica malattia del fratello e il passato felice, spensierato. Questo mix di epoche temporali diverse ci fornisce, in maniera dolce, informazioni precise sul substrato e l’origine di quella famiglia, di quei due fratelli tanto uniti.

La seconda parte del romanzo porta il titolo “Pazienti smarriti” che poi è il titolo dell’intero romanzo e sottolinea come, di pari passo all’irreversibilità delle gravi condizioni di Ettore, ci sia un velato disinteresse della equipe medica, pronta ad assolvere ai suoi doveri ma distante e fredda dal punto di vista umano. La terza ed ultima parte è intitolata “Al mio paziente più paziente” e segue gli ultimi mesi di vita di Ettore.

Quello che più colpisce di questa narrazione è la grande espressività delle scene, la vivezza delle sensazioni che la Pugliese riesce a farci sentire sottopelle, facendoci immedesimare non solo  con il protagonista ma con i suoi congiunti che si consumano giorno dopo giorno assieme ad Ettore. Sono tutti personaggi forti: Ettore è sempre in grado di dispensare agli altri dei sorrisi nonostante le sofferenze, gli altri sono risoluti, compatti e fiduciosi, sperano sempre in una guarigione. I personaggi non piangono, non si lasciano andare a comportamenti distruttivi né vittimistici ma combattono coesi questa battaglia spietata. Ma come la vita insegna non è sempre il Bene a vincere. I miei più vivi complimenti vanno alla Pugliese per la sua grande capacità narrativa di rappresentare scene drammatiche e desolanti dominate dalla minaccia di una malattia inguaribile, proponendo un fedele riflesso di dolorosi squarci di vita familiare.

MARIA ROSARIA PUGLIESE è laureata in Economia e Commercio e per trent’anni ha lavorato in un istituto bancario. Come autrice ha collaborato all’antologia La gola (Giulio Perrone Editore, 2008) e alla Enciclopedia degli scrittori inesistenti (Boopen LED, 2009). Alcuni dei suoi racconti sono stati pubblicati sul quotidiano Roma e sul portale web http://www.viaggi.corriere.it. Pazienti Smarriti è stato semifinalista al concorso What Women Write indetto dalla Mondadori nel 2009.

LORENZO SPURIO

11 Luglio 2011

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