“Munnu crudili” di E. Marcuccio con un commento di L. Bonanni

MUNNU CRUDILI[1]

POESIA IN PALERMITANO DI EMANUELE MARCUCCIO

Arrusbigghiati munnu,

arrusbigghiati ventu;

lu ventu si scatina,

lu ventu è tirannu

e dintr’i casi trasi.

Lu munnu è crudili

lu munnu è malignu

e scampu nun lassa:

purtusu ppi ricoviru

d’a povira genti.

17 novembre 2010

MONDO CRUDELE

TRADUZIONE IN ITALIANO A CURA DELL’AUTORE

Svegliati mondo,

svegliati vento;

il vento si scatena,

il vento è tiranno

ed entr’addentro le case.[1]

Il mondo è crudele,

il mondo è maligno

e scampo non lascia:

pertugio per rifugio

della povera gente.

17 novembre 2010

NOTE

[1] Con il verso “ed entr’addentro le case.” ho cercato di creare un corrispettivo sonoro del quinto verso della versione originale in siciliano, quel “e dintr’i casi trasi.” che, letteralmente si sarebbe dovuto tradurre con “e dentro le case entra” ma, se ne sarebbe perso un corrispettivo sonoro. Non ho voluto fare una semplice traduzione letterale, che è sempre un tradimento della versione originale. [N.d.A.]

[1] Entrambe le versioni sono pubblicate a pag. 25, nell’antologia di autori vari, La biblioteca d’oro. Poesie in siciliano, Unibook, 2011.

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COMMENTO DI LUCIA BONANNI

Poesia molto concisa nella stesura, ma molto ampia nel significato. La parola chiave è “Ventu” (vento) che può essere inteso nella sua valenza plurima di figura retorica. Le anafore rafforzano molto il discorso, il verbo “arrusbigghiati” ripetuto nella sua forma di imperativo fa da introduzione esortativa e annunciativa al componimento; anche lʼarticolo “Lu” ripetuto in anafora per ben quattro volte rafforza lʼidea madre che ha dato vita alla lirica.

Lʼesortazione al mondo di svegliarsi sta a significare che è giunto il momento che il mondo inizi a guardarsi veramente intorno, che si dia finalmente una svegliata perché sono tanti e di diversa natura i mali che lo affliggono; il comando che non offre alternative, rivolto al vento è una specie di condanna per il mondo perché se non si deciderà a far cessare le brutture che lo investono, sarà il vento con la sua forza immane a portarlo lontano, avvolgendolo in un turbine di distruzione. Il vento è tiranno perché, girando per le strade, raccoglie tante brutture e, entrando dentro le case vi deposita sacchi di disagi. Questa personificazione del vento fa vedere di quante sofferenze sono investite le persone a causa di questo mondo tiranno che per la sua indole maligna obbliga alla sofferenza e non lascia scampo alcuno: ma il mondo con tutte le sue iniquità è soltanto un piccolo, minuscolo, microscopico nascondiglio dove può ripararsi la povera gente, la stessa povera gente che è costretta a subire la tirannide del mondo, esso stesso soggetto alla furia distruttrice del vento, assimilabile anche con la giustizia Divina.

Lucia Bonanni

San Piero a Sieve (FI), 27 settembre 2015

“Chi mi ha ucciso?” di Giancarlo Trapanese

Chi mi ha ucciso  di Giancarlo Trapanese, PeQuod, Ancona, 2015.

copertina.jpgDiciannove personaggi, uomini e donne, di età e provenienza diverse, si ritrovano in una misteriosa villa settecentesca, situata in un luogo indefinito; sono stati invitati a trascorrervi un breve soggiorno da un chimerico personaggio: “L’Autore”. Nessuno di loro è riuscito a rifiutare l’invito, pur non conoscendone il motivo. Ma prima della cena rivelatrice di verità annunciate, in un clima ai confini della realtà, un delitto oscuro sconvolge le esistenze di tutti e provoca drammatici interrogativi. Saranno il maresciallo Luigi Braschi  e il suo amico giornalista Giorgio Catanese a condurre le indagini, mentre gli altri personaggi intrecciano trame d’amore e di risentimento: una lotta per la verità, che porta alla consapevolezza dell’inconsistenza e della mancanza di senso di ogni rigida distinzione tra realtà e irrealtà, e in generale tra piani dimensionali diversi (la villa stessa sembra essere una sorta di “stargate” tra universi paralleli).

Dopo molte pubblicazioni e importanti riconoscimenti, Giancarlo Trapanese torna sulla scena letteraria con il suo nuovo, insolito e seducente romanzo, Chi mi ha ucciso?,  un thriller metafisico,  sospeso tra reale e fantastico, che muove entro confini incerti e un tempo adimensionale, privo di schemi ordinari e punti di riferimento. Forse.

Chi è l’autore?

Giancarlo Trapanese (Ancona 22.7.1954) giornalista, scrittore, ha presentato sue pubblicazioni alla Buchmesse di Francoforte e al Salone del Libro di Torino. Ha pubblicato, tra gli altri: Se son fiori (2005), Luna traversa (2006), Da quanto tempo (2007), Sirena senza coda (2009), Quella volta che… (2010), Ascoltami (2010), Madre vendetta (2012), La giusta scelta (2013).

www.giancarlotrapanese.it

 

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Lorenzo Spurio intervista Idolo Hoxhvogli, autore di “Introduzione al mondo”

Lorenzo Spurio intervista Idolo Hoxhvogli, autore del libro Introduzione al mondo (2015) 

 

Come dobbiamo interpretare il titolo che hai scelto per la tua opera?

Il titolo Introduzione al mondo non indica la volontà di descrivere il mondo in tutte le sue componenti o nelle sue strutture essenziali. Esaurire il mondo in un libro è un compito impossibile e perciò utopico. Il compito dell’autore e dell’arte è trascendere il fatto bruto per elevarlo a una dimensione superiore rispetto al puro resoconto. Il titolo indica l’esperienza che ognuno di noi fa di alcuni aspetti della realtà. Fare esperienza è questo: introdursi al mondo e alle sue dinamiche. Il libro è suddiviso in tre parti: La città dell’allegria, Civiltà della conversazione, Fiaba per adulti. Queste tre parti sviluppano una forma di introduzione al mondo. La città dell’allegria introduce ad alcune patologie della società contemporanea. Civiltà della conversazione introduce alle contraddizioni della vuota conversazione che opprime i nostri giorni. Fiaba per adulti è l’ingresso tragico di una bambina al mondo attraverso l’orribile esperienza della pedofilia. Il percorso dell’introduzione è questo: società, cittadini, individuo.

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L’opera

Quanto c’è di autobiografico nel tuo libro? La letteratura è un modo efficace per raccontare la Storia?

Nego riferimenti diretti alla mia vita, ma in ogni libro c’è anche il suo autore. Quantificare l’elemento autobiografico non è utile, ed è arduo. La vita dell’autore non conta. Quello che conta, nell’opera d’arte, è che il messaggio superi le vicende personali per raggiungere una dimensione collettiva. La letteratura – l’arte in generale – non è solo un modo per raccontare la storia degli altri e di sé: è l’unico modo. Non ci sono alternative, l’arte trasforma una vicenda personale in una vicenda universale, mostra nel volto di un personaggio i volti di un popolo, di una civiltà, di un’epoca: estrae l’universale dal particolare, ricava la Storia dalle storie.

Il processo di scrittura, oltre a inglobare motivi autobiografici, si configura come la ripresa di temi e tecniche utilizzate precedentemente da altri scrittori. Ci sono, dietro ad alcune immagini di Introduzione al mondo, riferimenti alla letteratura colta. Alcune prose – La legge in città, Rovesciando, L’impianto del porco – riprendono un materiale letterario del passato, lo rivisitano e manipolano secondo diverse prospettive e intendimenti.

In Introduzione al mondo la componente ipertestuale è presente. I testi che compongono il libro si citano l’un l’altro, hanno un filo conduttore (allegria, conversazione, pedofilia), sono collegati come i nodi di una rete. Come indicato nella Nota, tre testi sono frutto di una riscrittura attualizzante. Ho utilizzato materiali differenti, è presente – tra i vari piani di cui si compone il testo – anche un pastiche stilistico e concettuale. Pensa a Introduzione al mondo come a una strada. In una strada sono possibili i più svariati incontri e convivono le più marcate differenze. Da qui la coesistenza di testi tra loro diversissimi, ma accomunati dal fatto di essere parte di un intero.

Quali sono i tuoi autori preferiti? Quali sono le tendenze, le correnti e i generi letterari che più ti affascinano?

I miei autori preferiti sono l’Universo e l’Uomo. Autori che hanno contribuito a formare il mio stile sono la strada, il viaggio, la solitudine, i ristoranti con un menù inferiore ai venti euro, la prosa scritta sul ring dai pugni di Marvin Hagler. Le tendenze determinanti sono quella verso la vita e quella verso la morte. La corrente che mi ha più influenzato è quella del Golfo, non tollero invece gli spifferi. Il genere letterario per eccellenza è l’incisione paleolitica. Il miglior libro è la vita: non stanca mai, è piena di colpi di scena e possiamo scriverne qualche pagina.

Hai mai collaborato con altri nel processo di scrittura?

Non ho mai collaborato con altri. Ma la scrittura collettiva è un’operazione interessante e con esiti significativi dal punto di vista editoriale e artistico. È un’occasione di confronto, senza il quale la scrittura si atrofizza e si avvita su se stessa.

Cosa pensi dell’editoria italiana?

 Il tema è complesso e la risposta può essere solo abbozzata. Per quanto riguarda l’editoria digitale, credo che l’ebook debba necessariamente essere il futuro per i periodici (non ha senso pubblicare in cartaceo un giornale che il giorno dopo deve essere buttato), per le opere di consultazione (non ha senso pubblicare in cartaceo opere che devono essere continuamente aggiornate) e per i prodotti editoriali che non hanno la necessità di diventare libro. Non credo che il libro possa essere soppiantato in toto, perché il libro e il file rimangono due cose diverse. Per quanto riguarda l’editoria cartacea: l’editoria è un’industria, non solo un’arte, e come tale è regolata dalle leggi del mercato. Tutti gli editori dovrebbero concentrarsi sul catalogo, sviluppando un’offerta editoriale capace di resistere nel tempo.

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L’autore del libro, Idolo Hoxhvogli

Premi, concorsi letterari e corsi di scrittura creativa sono importanti per la formazione dello scrittore?

 I premi non sono utili per la formazione dello scrittore. Contano solo due cose: la vita e la lettura. Senza la vita, i libri non hanno sostanza; senza la lettura, l’autore non ha le parole. I premi sono utili per farsi conoscere dal pubblico. Non amo i corsi di scrittura. Non credo che al mondo vi sia una scuola di scrittura migliore della lettura. Sfido qualunque docente di scrittura creativa ad essere più utile della lettura di Bukowski, Henry Miller, Robert Walser, Flaiano, Calvino, Gadda o Bolaño. Un aspetto deteriore delle scuole di scrittura è l’omologazione stilistica e tematica.

A quali lettori è adatta la tua opera?

 Ai lettori capaci di intendere l’ironia di Antonio Delfini: «Questo autore ignoto che vi si presenta è quasi certamente un imbecille. Però voi non ne siete sicuri. Prendetevi la soddisfazione di dare dell’imbecille a uno sconosciuto con documenti alla mano. Acquistate le mie pubblicazioni». Ai lettori capaci di comprendere le intime ragioni del feroce pessimismo di Emile Cioran: «Se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro sicuramente avrebbe affondato la sua barca». Ai lettori capaci di mantenere la speranza, nonostante la speranza sia, dice Baltasar Gracián, «la più grande falsificatrice della verità».

Idolo Hoxhvogli, Introduzione al mondo, OXP, Napoli 2015.

“Memorie intrusive” di Ilaria Celestini. Prefazione di Lorenzo Spurio

 

Mi hanno strappato le ali

gettandomi in un tugurio

di lacrime e orrore.

 

Brava bambina fai la conta

Più punti a chi non si vergogna

Giochiamo a mosca cieca

Che zio ti porta in montagna.

(Carmen Consoli, “Mio zio”)

 

Esattamente due anni fa ebbi l’occasione di conoscere la scrittura di Ilaria Celestini che, fresca della sua prima pubblicazione, una raccolta di  poesie dal titolo Parole a mezza voce nella sera (Aletti), mi inviò una copia del suo libro. Quello che potei constatare immergendomi nella lettura di questo testo, e che poi ebbi a verificare in una più approfondita conoscenza dell’autrice-donna, era che Ilaria Celestini fosse per natura, inclinazione e peculiarità personale una donna umanamente molto ricca e per la quale i valori rappresentassero ancora delle pepite d’inestimabile valore da conservare strenuamente nel proprio scrigno. Una persona, cioè, da sempre impegnata con tenacia in campo sociale e portatrice degli ideali in difesa del diverso, dell’emarginato, di quello che comunemente sottovalutiamo. Ma si faccia attenzione che una simile attestazione non deve essere considerata meramente come qualificativa della personalità della poetessa che Ilaria Celestini è, ma caratteristica della sua stessa persona.

119_memorie_intrusive_ilaria_celestini900Già nella prima silloge erano presenti i germi di tematiche (la solitudine, l’alienazione, l’alone di mistero sulla vita) che la poetessa affronta, amplifica e sviscera qui in Memorie intrusive. Il titolo, curioso e incisivo al tempo stesso, è l’eccelsa sintesi degli ambiti concettuali che il libro affronta con un linguaggio asettico, a tratti freddo e dal quale traspare la durezza (spietatezza) degli eventi descritti e rimembrati che hanno prodotto un doloroso trauma nella vita presente. Ma si analizzi il titolo con la debita attenzione che esso merita: le “memorie” di cui Ilaria parla non sono tanto da intendere come memorie di carattere collettivo, legate cioè al passato della sua regione o del suo paese né propriamente a quello della sua famiglia, ma sono frammenti[1] di episodi personali, taciuti, censurati, tenuti a bada dalla vergogna e dall’indifferenza e che ad una prima vista sembrerebbero essersi calcificati e sedimentati continuando a produrre un dolore fluido, inarrestabile, e sempre attuale. Ad aiutare il lettore nella comprensione del titolo è l’aggettivo che segue la parola “memorie”, “intrusive”: questi ricordi, questi eventi accaduti nel passato, non solo sono personali, introspettivi, privati, ma sono intrusivi, cioè sono totalizzanti, potenti, graffianti, onnipresenti, rinnovabili e addirittura coercitivi se teniamo presente che la parola “intruso” (dal latino intrúsus) significa “Che si caccia in affari altrui senza averne il diritto”. Questo libro è la summa di pensieri e ricordi dolorosi che, se anche si vive la consapevolezza che sono legati a un passato ormai lontano cronologicamente e psicologicamente, sono impossibili da annullare, da metterci una pietra sopra e far finta che non siano accaduti, perché la traccia che hanno lasciato nella sensibilità della donna è indelebile.

Centrale nella recente produzione di Ilaria Celestini è l’esplicitazione di due o più piani temporali che si possono sinteticamente analizzare in questa maniera: 1. Il passato (quale sperimentazione del dolore), 2. Il presente (quale distanziazione dal dolore, ma re-vivificazione dello stesso), 3. Il futuro (quale temporalità in cui viene nutrita la speranza che il dolore verrà finalmente risparmiato). Si parta dall’analisi della sperimentazione del dolore, ossia dall’evento in sé traumatico, e si osservi come esso venga prodotto sulla ragazzina, che in virtù della sua giovane età, non è in grado di comprendere le intenzioni dell’altro né è nella condizione di farne parola agli altri. Gli studiosi della materia sono concordi nel sottolineare che la gran parte degli abusi sessuali sui minori rimangano impuniti poiché il bambino che ha un rapporto di fiducia ed amicizia con quello che non sa essere il suo aguzzino, è incapace di rendersi cosciente della gravità dell’accaduto, tace e persiste nell’alone di mutismo nei confronti della realtà sociale sana che, invece, potrebbe aiutarlo sensibilmente. Ed ecco che tra le varie liriche che compongono la raccolta non possiamo non provare vergogna e aberrazione di fronte al trauma di una “bambina inerme/ e disperata”  che ne minerà per sempre l’esistenza proprio perché la sua “innocenza [viene] tradita”. La normale spensieratezza dell’infanzia che dovrebbe lasciar posto alla fase adolescenziale è invece macchiata da un evento irreparabile che, di fatto, obbliga la ragazza a vivere un acceleramento spiacevole e spaventoso nella fase di crescita. Si passa, così, dai leggiadri e beati giochi dell’infanzia al ripiegamento su se stessi, alla desolazione, allo sviluppo di uno stato di disagio caratterizzato da un male di vivere del quale si finisce per sentirsi compartecipi o addirittura attori. In queste condizioni l’animo umano può adottare meccanismi di difesa che sono in realtà pseudo-meccanismi di difesa, prediligere l’isolamento o piuttosto autopunirsi per un qualcosa che in età infantile non si è riusciti/non si è tentato di evitare e immancabilmente il difficile percorso di crescita, accidentato dalla nefandezza di quanto accaduto, non può che concretizzare il pensiero, giorno dopo giorno, che quello che si sta vivendo non è altro che una “vita infame” caratterizzata non da gioie e dolori, ma residuata a meri “brandelli di esistenza”.

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Ilaria Celestini, autrice del libro

In questo universo di degrado umano e di disagio impenetrabile, tutto si fa più pesante perché viene meno anche la confidenza ed il colloquio e ogni cosa si copre di silenzio (il silenzio di chi subisce, il silenzio di chi sa ma non vuole implicarsi, il tempo che passa e che sembra s-lavare le coscienze e operare un’azione obliante). Ma il silenzio, come si sa, è motivo esso stesso di dolore del quale si alimenta e si accresce proprio come l’apatia e la noncuranza (sembrerebbe quasi di leggere un ribrezzo) della madre nei confronti della figlia: “lunghi giorni/ solitari/ dell’infanzia”. E lo stesso silenzio è il mezzo impiegato dall’orco nei suoi progetti meschini e perversi con una ragazzina quando le dice che quello che accadrà rimarrà un segreto (e si tenga presente quanto sia importante per i bambini nelle prime fasi di crescita l’universo concettuale che si dipana attorno alle parole segreto-mistero-silenzio con un pedissequo impegno e convinzione dell’infante nel mantenere fede a quella promessa, a patto, magari, di un qualche gioco o ricompensa): “non lo saprà nessuno/ resterà/ un segreto/ tra noi”. In questo modo si minaccia e si distrugge il mito dell’infanzia più volte e da qualsiasi direzione possibile.

Il carico di quei ricordi è difficile da sopportare e si badi che non sono solo le cose fatte a far male, ma anche e soprattutto le cose dette (ricevute), gli sguardi o le cose non fatte, poiché nella silloge si delinea una duplicità caratteriale tra chi fa e chi riceve, tra chi attua e chi subisce, tra chi domina e chi è dominato come avviene in maniera lampante in “Le parole del carnefice” in cui leggiamo “metti qui/ la manina e fai quello/ che ti dico”. Nella poesia “Dominator ac imperator” è di scena il monologo interiore di una persona psicologicamente instabile che nutre nella sua mente un piano di conquista di una giovane non tanto per amarla, ma per soggiogarla, renderla vittima, a lui inferiore, violentarla e poi, da dominatore, fare di lei qualunque cosa lui voglia, recludendola in casa come un “usignolo/ in gabbia”.

La violenza, l’abuso psicologico e il soggiogamento della mente è talmente forte che in taluni casi c’è una risposta autolesionistica, addirittura omicidiaria da parte della stessa vittima come quando leggiamo il suo anelito di disprezzo e di sfinimento (“priva di forze”) che la porta a confessare, quasi con un filo di voce, “Finiscimi”.

Se del passato si ha paura perché esso è attualizzato di continuo al presente e dunque è quanto mai concreto e reale, nelle poesie di Ilaria si nutre anche una lieve speranza nel futuro e non ci si affonda mai nel cupo pessimismo. La poetessa, come era stato già nella precedente raccolta, evidenzia che una luce può esserci sempre e in fondo sta proprio a noi saperla intravedere e percorrere la strada verso di essa. Ed ecco dunque alcuni esempi che, posti in maniera contrastiva, possono servire al lettore ad interpretare la poetica secondo la prospettiva in oggetto: “Ho paura/ […]/ dei ricordi/ che sono/ in me” e “un giorno magari anche per me/ tornerà a schiudersi il cielo”; “ogni sogno è perduto ormai” e “ma se/ mi tenderai/ ancora/ la mano/ io saprò/ che il paradiso/ anche nell’inferno/ è possibile”.

Non c’è nelle liriche di Ilaria Celestini un intento di demonizzare, infamare né denigrare quello che è l’orco, l’aguzzino o comunque il fautore del dolore, né tanto meno di sottolinearne la brutalità spicciola (la brutalità è descritta nelle conseguenze delle azioni, piuttosto che nelle azioni stesse). Non vi sono neppure condanne, reprimende, messaggi d’odio o intenzioni di vendetta e quanto la poetessa mette su carta non è che una raffigurazione episodica di turpitudini completamente reali (e non solo realistiche) che purtroppo avvengono con gratuita normalità, spesso senza parlarne o senza darne la giusta diffusione, più di quanto siamo consapevoli di credere.

La silloge non è solo una chiara denuncia sociale di ciò che spesso accade nel mondo, nel nostro paese o nella casa dei nostri vicini, ma di quanto sia importante e imprescindibile denunciare questi fatti affinché si impedisca a queste persone malate di perpetuare le proprie devianze e si metta al bando una volta per tutte la falsa e denigrante definizione di “sesso debole”.

Anche una donna/ sa fare del male” scrive Ilaria Celestini in una lirica, lontano anni luce da qualsiasi intenzione di rivalsa sull’uomo, ma come segno tangibile che in una società civile nessuno deve essere più disposto a propugnare, difendere o incentivare forme di ineguaglianza tra i sessi.

LORENZO SPURIO

Jesi, 8 dicembre 2013

 

[1] Frequente è l’utilizzo di termini come “frammenti” o “brandelli” che delineano una realtà residuale, difficile da cogliere nella sua integrità e che, pur manifestandosi quale scoria, quale elemento parziale di un tutto, mantiene la stessa forza emotiva, dolorosa, traumatica riscontrabile nella sperimentazione dell’evento in sé.

In uscita “I Grilli del Parnaso”: Spurio, Lombardi, Marcuccio e Carmina uniti per la Poesia

POETIKANTEN EDIZIONI

I grilli del Parnaso. Alterne stratificazioni

Autori: Lorenzo Spurio, Iuri Lombardi, Luigi Pio Carmina, Emanuele Marcuccio

Prefazioni: Pina Piccolo, Paolo Ragni, Camillo Palmeri, Susanna Polimanti

Pagine: 192 – Costo 15 €

ISBN:

cover grilli parnaso-page-001Sinossi:I grilli del Parnaso contiene quattro sillogi poetiche di quattro autori contemporanei: Lo zoo di Gioele di Iuri Lombardi, Le acque depresse di Lorenzo Spurio, Visione di Emanuele Marcuccio e L’iperbole della vita di Luigi Pio Carmina corredati ciascuno da puntuali note critiche d’introduzione. Ricordando l’Italia di oggi e di ieri, Lombardi mette a nudo i suoi pensieri più profondi e anche quelli fugaci mostrando al lettore miriadi di paesaggi nascosti, di vita propria e altrui. La dimostrazione che con pochi versi si può creare arte pura si ha con Emanuele Marcuccio, il quale ci offre una Visione, quasi a tratti leopardiana e quasi a tratti di un personale classicismo, di ciò che comunemente sottovalutiamo. Tematiche…

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“La vocazione della balena” di Claudio Pagelli, recensione di Lorenzo Spurio

Claudio Pagelli, La vocazione della balena, Prefazione di Guido Oldani, L’arcolaio, Forlì, 2015.

Recensione di Lorenzo Spurio 

www-mondadoristoreMolto è possibile domandarsi sul titolo del nuovo libro di Claudio Pagelli che in copertina enigmaticamente e con uno sprizzo ironico recita La vocazione della balena. Quale potrebbe effettivamente essere la vocazione ossia la predisposizione del più grande cetaceo? Ma, soprattutto, quale è il percorso interpretativo che è richiesto al lettore di intraprendere? La balena, quale animale, si caratterizza per la gran mole del suo corpo, ma anche per una certa maestosità della forma nonché, per i detti motivi, per la consacrazione di una immagine di forza, dominio e, dunque, è concepibile come un essere che è da temere.

La stravaganza del titolo è ancor più amplificata se si prende in considerazione l’immagine di copertina che non sembra minimamente addirsi né legarsi, appunto, al titolo del libro. In essa notiamo, in un effetto chiaroscurale tipico del bianco e nero, uno scorcio di una città ritratta nel dinamismo di un tranvia in movimento, sembrerebbe di notte dato che il faro centrale promana una luce che intuiamo accecante e che nella bicromia dei toni è reso con un bianco sfolgorante. È, dunque, l’immagine di una frenesia abitudinale, quella della città con i suoi transiti, passaggi, movimenti di sorta, incroci di vie di comunicazione, percorsi e tragitti. Niente a che vedere con la balena o, comunque, con uno scenario in qualche modo naturalistico.

Contenutisticamente il libro è formato da alcune micro-sillogi che hanno una significazione autentica e un’autonomia in sé di completezza: si apre il percorso poetico di Pagelli con la modesta compagine di liriche che fanno parte dell’aggruppamento “L’inferno di Chisciotte” per passare poi al secondo nucleo tematico (a mio avviso il più importante) denominato “Bestiario d’ufficio”; seguono poi altre partizioni interessanti del volume che vanno sotto i titoli tutt’altro che archetipi di “Caffè in sette quarti”, “Burattini” e, a chiudere, con grande impazienza del persuaso lettore, “La balena bovisa”.

La poetica del Nostro si caratterizza per un postmoderno coinvolgimento nelle immagini, una vitalità empirica e roboante del mondo, ma anche una velata organicità di fondo nutrita da senso critico, chiaroveggenza, senso di compartecipazione assai intimo con l’altro, forza caratteriale vorticosa e lucidità espressiva oltremodo evocativa. Non è un caso che il Nostro ricorra a Guido Oldani che, non solo ha prefato il testo, ma è citato pure in esergo in una delle tre citazioni d’apertura. L’eclettismo di Oldani, convinto assertore di una tendenza artistica definibile nei termini del realismo terminale, sembra in qualche maniera aver permeato con originalità ed esuberanza la penna di Pagelli, la sua cifra letteraria e soprattutto la tendenza lirica di costruzione dei componimenti.

Costrutti semantici di rilevante pregnanza (lo intuiamo dalla ricorrenza con la quale si presentano durante la lettura delle varie poesie) sono quelle che fanno riferimento alle immagini-simbolo del tatuaggio (la lirica d’apertura è proprio così intitolata, nell’inflessione plurale del termine) e all’imprevedibilità degli accostamenti tanto da derivarne spesso forme ossimoriche nonché elementi enigmatici o talmente assurdi da sfiorare il paradosso. Si tratta comunque e sempre di espressioni assai particolareggiate che il Pagelli utilizza per la descrizione minuziosa di una data realtà oggettiva trasfigurando il concreto (il visibile, l’esperibile) in una superfetazione ambigua nonché curiosa in chiave lirica, così come le cuffie del logorante lavoro di call-center che diventano in chiave di similitudine assai ricercata delle “meduse leggere” (15).

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Claudio Pagelli, autore del libro

Importante e rivelatrice la presenza di elementi e figurazioni che richiamano il campo teatrale; nella poesia “il taccuino” il Nostro non manca di osservare una società abbruttita e caricaturale con “maschere tutte uguali” (16) dove sono la reiterazione e l’inautenticità degli atteggiamenti a dominare (si parla della “seta della finzione”, 16). Costrutti assai particolari che chiamano il lettore a riflettere su questi avvicinamenti sfuggenti e a tratti amari di sostantivi che il Nostro impiega sembrerebbe con un monito di rivalsa alla assuefazione di un mondo tanto banale. L’impressione è quella di una velata critica sociale, sebbene Pagelli eviti sempre di puntare il dito in maniera chiara verso determinate categorie della società o situazioni in particolare. Se da una parte l’intento del Nostro è raggiunto sulle basi di una poesia che effettivamente ha il potere di suggestionare, al contempo ci chiediamo quale realmente sia l’obiettivo del poeta nel dipingere il mondo di fuori a tinte fosche, facendone risaltare mancanze, incongruità e ambivalenze stridenti.

Ci sono avvisaglie di un disagio giovanile che il Pagelli sembra in qualche maniera voler evocare, soprattutto nella lirica “il farmaco” ma anche in “terzo piano” dove l’explicit del testo poetico sembrerebbe stavolta abbastanza palese nella sua finalità comunicativa quando asserisce, in una maniera che sembra essere l’epilogo di una vera e propria indagine, che “l’equilibrio è di carta” (19) ad intendere dunque che la vita dell’uomo non è altro che un grande foglio di carta. Essa va scritta, è vero, ma Pagelli ci ricorda che la carta, un po’ come la seta di un’altra lirica, è un materiale corruttibile, che vive in uno stato transitorio di calma e conservazione ma che, sottoposto a carichi, intemperie emozionali e imprevedibilità di sorta, è soggetto di continuo alla lacerazione e all’annullamento.

La silloge “Bestiario d’ufficio” chiarifica da subito l’intento, direi polemico ma assai efficace e ben proposto, del Nostro: quello di descrivere, come nella più antica tradizione greca delle Favole, le componenti sociali, i vari tipi di uomo per le loro attitudini e propensioni, a degli animali. Ne viene fuori un bestiario assai curioso che non ha nulla a che vedere con quelli del periodo medievale, sebbene le poesie del Nostro siano talmente chiare e ben delineate nella resa delle immagini da figurarci mentre leggiamo la resa iconica, il prospetto grafico, di ciò di cui parla.

Assistiamo così a una carrellata di uomini-animali che tanto ci richiama alla mente le bestie orwelliane ma anche gli animali in lotta tra loro nelle celebri Favole sciasciane. In questi componimenti Pagelli poeta sembra risaltare meglio che in ciascuna parte del libro in versi lucidi e fulgenti che ci parlano con una leggerezza che nasconde titubanza, della

urticante indifferenza delle cose” (26), di una condizione di vera e propria spoliazione come avviene nella lirica “la coccinella” e della seduzione che va spesso a braccetto con l’avvenenza nella poesia dedicata alla pantera. Se il ragno bianco diviene espressione di una manipolazione studiata, di un pragmatismo logico improntato alla resa personale, è anche testamento di un’ipocrisia sociale che andrebbe depennata anche a beneficio di quei tanti polli che spesso vengono “sbranat[i] tutt[i], anche l’osso” (30) in una famelica scala alimentare dove il debole è anche il più sfortunato.

Nei “Caffè in sette quarti” è curiosa la costruzione dell’immagine temporale (sette quarti ossia un’ora ed un quarto) tanto che la minuscola plaquette non è che un tentativo di desacralizzazione della frenesia e del tempus fugit (in “quartina n.1” si legge all’apertura “tutto in fretta”, 35). Con questa chiave del tempo che corre si sposa l’amalgamante fluidità del verso del Nostro dove il linguaggio sembra farsi leggermente più condensato ed elegante, i versi si asciugano e divengono molto più sintetici proprio per sposarsi con quell’esigenza di dire quel che va detto nel minor spazio-tempo possibile. Particolare attenzione meritano la “quartina n. 3” e la “quartina n. 6”. Nella prima difficile non notare l’adozione di un sistema ritmico di tipo baciato che permette di recuperare una musicalità, seppur ridondante, forse leggermente appiattita in altri componimenti. Con l’immagine della Madonna di gesso Pagelli non ha nessun desiderio di immettersi in un canale religioso, né di affrontare speculazioni teologiche o liturgiche, piuttosto è l’immagine-impulso che motiva alcuni veloci ragionamenti. Dall’universale si passa, dunque, presto al sessuale, cioè dal celeste al meramente scatologico. Anche la religione, quale attaccamento personale e attività dell’uomo, nella società contemporanea finisce per dover sottostare al trantran velocistico di una mondo dove l’ipercinesi e l’iperattività impediscono la conquista e la conservazione di una situazione di tranquillità. La specificazione del materiale di cui è fatta la madonna, il gesso, è elemento in sé innocuo e vacuo ma al contempo rivelatore e dissacratorio a testimoniare la farraginosità e incompiutezza di ciò che esso rappresenta. Se l’autore avesse parlato di una madonna di bronzo l’immagine che ne avremmo ricevuto sarebbe stata quella di rigidità e forza, se avesse parlato di una madonna d’oro ne avremmo colto lo sfarzo e il lusso, ma il fatto che sia di gesso, costruita con materiali poveri, e particolarmente esposta agli attriti dall’ambiente ne fa una rappresentazione minimizzata, svilita, impoverita e in qualche modo anche depauperata dell’aura celeste. Ecco perché essa più che la rappresentazione di ciò che è si manifesta per il materiale di cui è fatta: non è altro che una suppellettile fragile posta da qualche parte, nolente abitatrice delle vicende degli altri, voyeur della frenesia sociale come pure di un impudico atto sessuale che può avvenire, come il raccoglimento in preghiera, sotto i suoi casti occhi.

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Claudio Pagelli, autore del libro

La “quartina n. 6” parla della “fame feroce negli occhi” (40) che non è quella di qualche povero bambino affamato che vive in qualche recondito ambito del mondo, ma quella dell’uomo contemporaneo asservito alle spossanti logiche del consumo e della lotta per l’apparenza. Nella promozione che si anela, come pure nell’assunzione che si vive come utopia paludosa, ci si comporta con un atteggiamento falsamente agonistico con il prossimo dettato invece da profonda invidia, malcelata comprensione, inosservanza e spietata freddezza. L’interesse dell’oggi è spostato così non tanto nella conservazione e nella inaugurazione di rapporti sociali concreti, ma nell’accaparramento del bene (più o meno di lusso) funzionale alla creazione di una immagine di dominio nonché alla impavida rincorsa a un celebrativismo ridicolo quale è appunto “comprarsi quelle scarpe coi tacchi…” (40). I bisogni personali del singolo, ciò che economicamente potremmo definire come i beni primari, vengono spesso sedotti ed annichiliti, scavalcati, dall’ambizione, dalla lotta tra pari, dall’egocentrismo e dalla sprizzante velleità che fa del consumo e della mercificazione di tutto i capisaldi della dottrina amorale di cui respiriamo i vapori.

Approssimandoci alla plaquette successiva, “Burattini”, sembra allora possibile completare quel sistema di collegamenti e rimandi inaugurato con la silloge “Bestiario d’ufficio”, rintracciando sulla carta in maniera assai chiara i parallelismi tra animali viziati e persone perse nelle proprie ambizioni. Non è un caso che esse non siano più, in pratica, delle vere e proprie persone ossia fatte di carne ed ossa, ma piuttosto di legno, tanto da essere burattini, esseri inanimati che vivono solamente per mezzo dei movimenti indotti da qualcuno. La società, allora, sembra chiosare Pagelli, sembra avere nella nostra attualità proprio questa deformante e allarmante verità: quella di trasformare l’uomo in burattino, in un alieno privo di quella compagine ricca e nutrita di rapporti umani, emozionalità divampanti, carica empatica, comprensione di sé e del mondo, consapevolezza lucida volta a perseguire un atteggiamento attivo e conscio piuttosto che passivo e subalterno.

Tra le poesie presenti in questa raccolta lodevoli sono “l’attore”, doppiezza di ruoli in un unico corpo, colui che sa ridere in pubblico mentre piange internamente o colui che millanta, infastidisce, provoca, assurge a realtà altre, falsifica, si mimetizza o addirittura, come è lui in presa diretta ad asserire, “posso pure insultarti/ dire quello che penso e il suo rovescio” (46). Al sarcasmo costitutivo dell’attore che è un mentitore sagace segue la raffigurazione icastica e puntuale della “manager” della quale il Nostro dà alcune informazioni necessarie ad inquadrare la sua figura. Egli ci parla della sua “lingua svelta” (47) ma anche della sua disponibilità in termini sessuali che, in chiusa, la rendono “una cagna” (47). Il Nostro non manca di ravvisare come pure a certi livelli persista un sistema mafioso e marcio dove anche i rapporti occupazionali e lavorativi sono gravati dal ributtante sistema della mercificazione e del baratto sessuale, dell’intimidazione e del ricatto. La poesia “L’allenatore” fornisce l’ennesimo inganno e cattiveria che possono intaccare le giovani generazioni che, intimorite in qualche modo dal loro coach che pretende sempre il meglio nelle loro prestazioni, non è in grado di vedere i suoi ragazzi come persone che hanno bisogno di ascolto e vicinanza, magari pure amicizia, piuttosto che un mentore vanitoso e intransigente, prepotentemente sadico al punto di manifestare una chiaroveggenza schifosa se non seguono le sue direttive.

Ci approssimiamo, così, alla chiusa del volume, all’ultima plaquette, quella intitolata “La balena bovisa” che in qualche modo riallaccia i tanti fili lanciati dal Nostro nel corso del lavoro a tessere con sapienza e artificio un lavoro che è sicuramente ben congegnato, attentamente elaborato nell’adozione di una prosa pungentemente visiva, icastica ed istrionica al contempo, pregnante di realtà dure e cementata sulla sconfessione delle storture che cancrenizzano la società.

Nella poesia “il singhiozzo” Pagelli affronta in maniera alquanto atipica il tema del silenzio sostenendo che esso è assai più educato dell’indifferenza e di ogni altro rapporto umano che maschera un’assenza di qualche tipo. Meglio tacere che dire stupidità o tentare di dire il vero sprofondando, invece, nel pozzo senza scampo dall’ipocrisia. L’inquinamento acustico, allora, non è una vera contaminazione dell’aria dovuta alle onde sonore di macchinari e altri aggeggi umani, ma è piuttosto dovuta alla confusione di dialoghi, alla commistione di odi e rancori, all’imbarbarimento delle coscienze che ammorbano l’ecosistema facendolo precipitare in un antro tossico e dunque mal vivibile.

Anche il piccione che cerca un po’ di clemenza, la gratuita donazione di qualche insignificante briciola nella poesia “campus durando” finisce per farne le spese. L’inappropriata e scurrile bestemmia di una ragazza per un accadimento privo di rilevanza è talmente assordante da trasformare questa scena postmodernamente arcadica (il parco della città) in una gravosa discesa agli inferi (sotto la piazza). La tranquillità è spezzata e per sempre, l’oltraggio è stato commesso e la natura ne subisce le conseguenze. La morale (ma non è una vera morale perché Pagelli non intende insegnare niente, piuttosto far riflettere) è che ci si arrabbia troppo facilmente e per tutto e che le reazioni sono sempre spropositate, ci si infiamma e si agisce con impulso ed avventatamente senza percepire mentalmente che le azioni a un dato episodio accaduto possono essere ulteriormente peggiorative per lo stesso nonché per la nostra salute.  Viene da chiedersi allora, nella poesia appena richiamata, il vero animale è il piccione che geneticamente e con l’atavica fame che lo caratterizza è portato a beccare attorno ai nostri piedi alla disperata ricerca di qualcosa da mettere nel gozzo o è proprio la ragazza che dell’animale ha in effetti assorbito le sembianze con le quali convenzionalmente distinguiamo tra bestialità ed umanità? Pagelli mi pare di capire che pone questo quesito ed altri, in parti simili, su altrettante questioni di vitale importanza e di fresca attualità.

La dentatura pericolosissima della balena della Bovisa che chiude la raccolta tra inquietudini, ripensamenti e perplessità non è altro che la maestosa scalinata della stazione Centrale di Milano. Entrare nella frenesia di un punto nevralgico quale è la stazione milanese è allora sinonimo di immettersi in una foga comunicativa dove è la cacofonia a dominare, la calca fastidiosa, lo struscio spersonalizzante, l’annebbiamento della vista, l’inasprimento della malinconia del luogo che si lascia. Tra qualche signora che ha appena terminato di fare shopping in costosi negozi del centro, in un angolo dorme un barbone, nel disprezzo e l’incuranza dei più. La stazione è allora l’ampio stomaco di questa balena stanca e imbizzarrita, delusa e ammorbata che al suo interno ha appena trangugiato maldicenze, viltà, ipocrisie e i vizi in cui l’uomo, impareggiabile, è maestro. A livello psicanalitico il sogno di essere stato mangiato da una balena e di vivere nel suo ventre (mito di Giona, storia di Pinocchio) corrisponderebbe all’esigenza inconscia di prendersi un periodo di pausa, una sorta di ritiro momentaneo dal mondo, necessario per metter un freno al corso degli eventi, elaborare meglio un accadimento (come un lutto), prendere le distanze temporalmente dal mondo di fuori per approfondire il proprio microcosmo. Alla stasi fa seguito una rinascita e quindi l’isolamento negli antri dello stomaco del cetaceo è positivo perché a una finta morte (il trangugiamento) corrisponde poi la rinascita (la fuoriuscita dal suo ventre) come persona maggiormente assennata e pacificata. Il riferimento collodiano salta visibilmente alla mente (una delle sezioni del libro, oltretutto, e come già detto, è intitolata “Burattini”) ma alla disperazione per la scomparsa del genitore come avviene in Pinocchio, Pagelli ha adoperato con pertinenza una riattribuzione di significato: la profonda pancia della balena è la società nella quale viviamo, conca di mancanze e disattenzioni, voracità e rincorse sfegatate al potere, bramosie vergognose, ricatti indicibili. Tutti, a vario livello, ne siamo in qualche modo assuefatti “nel solito carnevale” (25) nel quale viviamo. Resta ben inteso a questo punto che “la vocazione della balena” non è altro che una metafora prelibata e ricca dell’esigenza stringente di non lasciarci fagocitare dalla macchina stritola-coscienze della contemporaneità accelerata.

LORENZO SPURIO

Jesi, 11-12-2015

“Un profumo… un ricordo” di Gaetano Catalani, recensione di Lorenzo Spurio

Gaetano Catalani, Un profumo… un ricordo, Accademia Barbanera, Castiglione in Teverina, 2015.

Recensione di Lorenzo Spurio

9788888539805L’intera raccolta poetica del calabrese Gaetano Catalani diparte da un rapporto conflittuale e instancabile con la massa temporale, percepita il più delle volte come sadica e incontrollata ingannatrice dei destini umani. Il poeta sembra non riuscire a staccarsi dalle scaglie intime del passato che spesso ritornano talmente vivide in lui da anelare una sorta di scioglimento dell’esistenza in quel tempo che fu. Come il titolo del volume ben rimarca, il ricordo riaffiora sia in maniera voluta, dunque razionalmente, nei nostri tanti tentativi che facciamo per voler ricordare un momento o una persona con quella nitidezza ormai svanita, sia sulla base di un profumo percepito, una immagine vista, una fragranza percepita, un luogo vissuto e, comunque, tutti quegli elementi che nel presente permettono una riappropriazione della vita passata. Il ricordo allora è prevalentemente inaspettato e fugace, un lampo di barlume emotivo che riscalda il cuore e conforta ma che non è in grado di infrangere quella malinconia titanica, quel senso di desolazione che, al termine delle nostre giornate durante le quali abbiamo avuto la testa assai piena di incombenze, torna a visitarci tanto da renderci assai vulnerabili per la mancanza di un caro, l’errore di una scelta fatta, la decisione presa avventatamente o semplicemente la nostalgia del proprio borgo dove allegramente si giocava.

Lo scorrere del tempo attua un lento ma inesorabile mutamento tanto degli oggetti (si veda, dunque, come può cambiare il tessuto urbanistico nel corso di due o tre decenni) quanto a livello personale, fisico, concretamente visibile sul nostro corpo. Se è impossibile e oserei dire vanitoso cercare di porre un freno (illusorio) a questa impavida avanzata, è senz’altro possibile, anzi auspicabile, che con esso si instauri un dato legame. Non quello del terrore o della demonizzazione piuttosto un rapporto speculare che permetta l’analisi del presente per mezzo della vita del passato che sia in grado cioè, di permettere di tracciare le linee del futuro sulla scorta delle esperienze e delle maturazioni ottenute nel suo trascorso. Se la logica può aiutare in un discorso di questo tipo, l’emozionalità e con essa tutto ciò che concerne la confessione autentica del sentimento del singolo, non può trovare accoglimento in questo confronto rilassato e pacificato col tempo. La memoria dei cari, l’attaccamento alla figura della madre, la sfibrante spossatezza per la perdita di un punto fermo e con esso dell’ambiente che circondava momenti di vita felice finiscono per apparire come aghi talmente fini da non poter essere visti, capaci, però, di oltrepassare l’epidermide e far sanguinare. Si tratta pur sempre di un dolore contenuto e parco, che non dà sfogo in atteggiamenti autolesionistici o pericolosi, ma che comunque va a confluire nella compagine frastagliata della consapevolezza dell’uomo nel suo presente storico. Spesso, come è il caso del Nostro, neppure un più serrato avvicinamento alla religione, dispensatrice di speranze e fuoco divampante dell’amore, può dirsi utile nell’edulcorazione delle memorie che risalgono alla mente lasciando uno strascico di dolore e mestizia. Il pianto, allora, è la forma più spontanea che sembra dar sfogo, seppur non duraturo, a un tormento che si vive momentaneamente in un attimo di sconforto o semplicemente di maggior vulnerabilità. Con esso la lode, l’invocazione, diventa la forma comunicativa più utilizzata (“Rispondimi dal cielo, mamma cara”, 19) nel vacuo tentativo di ricevere una risposta altrettanto chiara e sentita.

Nelle poesie di Gaetano Catalani appare spesso la simbologia della nave che veleggia in un mare tumultuoso di ricordi e avversità dove spesso l’io lirico sembra percepire l’affiorare della memoria proprio come una nave che, baldanzosa e in venti di bonaccia o avversi, cerca un felice traghettamento alla costa. Ciò è per lo più impossibile e la visione della nave (dunque l’appropriazione del ricordo) rimane sempre per lo più distante, percepita come in una vista panoramica in cui è palese l’inabilità dell’uomo di poterla concretamente percepire. È una nave che, a intervalli si avvista, non senza difficoltà, tra i vapori e le brezze in rigurgito, di un mare che non è mai piatto come forse vorremmo.

Gaetano Catalani ci parla con un tono intimo di quei momenti in cui soffre del “rimpianto e l’ansia della sera” (25) momento nel quale il passato che si vorrebbe abbracciare tanto da sciogliere nel presente si è invece fatto roccia ed è insondabile. Esso è ormai un lastricato di cemento, saldo e freddo, dove si stagliano, pietosamente, i “momenti ormai perduti” (25).

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Gaetano Catalani, autore del libro

Struggente e assai romantica la poesia “Una nebbia sui ricordi” nella quale il Nostro sembra parlare sottovoce della figura dell’amata madre, ripercorrendo istanti di un presente dominato dalla vecchiaia e con essa dall’inasprimento di una malattia degenerativa che con l’usura del corpo porta con sé anche l’annientamento della mente. Il Nostro cerca di coinvolgere la donna in un colloquio assai sofferente nel tentativo di poter udire la sua voce (“China la testa ma non mi risponde”, 28) mentre ormai lei sembra viaggiare su lidi diversi che l’hanno privata della consapevolezza: “La sua memoria s’immerge nel vuoto” (29). Nel doloroso carme di un uomo profondo che in qualche modo non accetta il depauperamento della coscienza e con essa la perdita del mondo che fu, “ritorna la nebbia e lei già non ricorda” (29).

C’è spazio nella raccolta anche a componimenti dedicati più propriamente alle pieghe amare di un mondo in subbuglio dove sono la meschinità e il malaffare a dominare. Così come avviene nella lirica “E venne il giorno più bello” nella quale si rievoca un episodio della Calabria mafiosa con i suoi “fuoc[hi] di lupara” (31) e la “malerba […] [che] non vuol morire” (31). Amara la chiusura della poesia ispirata a una terra di miti e di odori speziati che diviene “prigioniera,/ senza catene, ma nell’omertà legata” (31). Sembra in un certo qual modo percepire il tono duro e ammonente del Sciascia mafiologo nella chiusa dove Catalani annota con una veemenza priva di retorica una nefanda realtà: “La storia si ripete sempre uguale” (31). La criminalità organizzata ritorna nella lieve poesia ispirata al “Giudice ragazzino”, emblema di una promessa autentica alla legalità che viene ripagata con le nefandezze della violenza: “Lampi di fuoco arrivarono improvvisi,/ a nulla valse la corsa fra gli aranci,/ e sotto un fuoco incrociato di lupare/ crollasti come aquilone senza vento” (34). L’assassinio del ragazzino che cade tra gli aranci che sprizzano vita è emblema fastidioso della morte che convive con la vita, dell’indifferenza connaturata nell’uomo che si protrae nei confronti degli altri con i derivati pericolosi dell’egoismo, dell’autorità e della supposta legittimità nell’uso di un codice d’onore che tutto può.

Ogni componimento del libro gode di una sua luce, cioè di una potenza visiva ed emozionale talmente forte ed accentuata capace di provocare nel lettore un senso di fastidio e di ribellione, nel caso dei carmi civili, o di una compartecipazione intima al dramma del Nostro nella divampante disillusione di un tempo feroce che svilisce il ricordo.

Menzioni particolari, oltre alla poesia “Una nebbia sui ricordi” vanno alle liriche “Il tarlo” e “Non sei diverso, vivi solo nel tuo mondo” dedicate entrambe al mondo della malattia. Ne “Il tarlo” il Nostro traccia con imperitura attenzione l’immagine di splendore e felicità di una ragazza al traguardo negli studi che dovrebbe esser felice per aver tutta la vita dinanzi e che, invece, vive già con un tormento per lo più sottaciuto ma che ingabbia il suo cuore. Quello di una malattia invalidante e degenerativa nella quale le “gambe s’intorpidi[scono]” (36) che potrebbe essere la Sclerosi Multipla dacché il poeta stesso chiarifica in un verso che “C’è qualcosa che la mielina distrugge” (36). Un fiore che si appassisce di colpo prima del tempo gravato dai dettami di una malattia infingarda che non ha una vera cura risolutiva. “Oggi sei una nuvola” (36) annota il Nostro approssimandosi alla chiusa nella quale sono vibranti la commozione e il senso quasi d’asfissia che si provano dinanzi ad un dolore ampio e ingiusto.

Nella lirica “Non sei diverso, vivi solo nel tuo mondo”, Catalani affronta con la profondità di sentimento che gli è propria e che lo caratterizza in maniera distintiva nell’ampio panorama del fare poetico attuale, il mondo della disabilità sensoriale. Sembrerebbe la cecità (“i suoi occhi scrutano/ ma non le guardano”, 37) ma più probabilmente ci troviamo dinanzi a una persona sorda (“le mie parole sentono,/ ma non le ascoltano”, 37). A dominare su questa assenza sensoriale, alla penuria di forme esperibili della conoscenza, alla fatica di interagire col mondo, sono i versi più luminosi ed incoraggianti dell’intero libro che il Nostro ci regala con viva generosità a manifestazione della sua anima sentitamente ricca e sensibile: “Ma il silenzio non si può ascoltare,/ si può solo percepire come un profumo” (37).

Grazie Gaetano Catalani!

LORENZO SPURIO

Jesi, 12-12-2015

“Mr Bennett e Mrs Brown” di Virginia Woolf, Rogas Edizioni

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“Mr Bennett e Mrs Brown” di Virginia Woolf

Rogas Edizioni

traduzione di Adalgisa Marrocco

introduzione di Gian Pietro Leonardi

Pagine: 144, Prezzo: 11,50 €, ISBN: 9788894070392

“Mr. Bennett e Mrs. Brown è da molti considerato il manifesto letterario programmatico di Virginia Woolf. Tematicamente legato a Modern Novels del 1919 e Modern Fiction del 1925, in realtà si tratta di uno dei suoi tanti testi interconnessi tra loro sullo stato di salute della narrativa nel primo quarto del Novecento. Pubblicato la prima volta in una fase ancora embrionale nel 1923, prima sul supplemento letterario del New York Evening Post e successivamente (il 1° dicembre) su The Nation and Athenaeum diretto da Leonard Woolf, il saggio si presentava subito come una risposta ad Arnold Bennett che proprio nel marzo di quell’anno aveva scritto un articolo intitolato Is the Novel Decaying? in cui Virginia Woolf veniva espressamente menzionata in relazione all’incapacità dei romanzieri moderni di creare dei personaggi reali, esempio ne sarebbe stato Jacob’s Room (1922) i cui protagonisti non sopravvivrebbero nella mente del lettore, poiché l’autrice sarebbe stata più ossessionata dai dettagli che dalla loro consistenza.”

(dall’introduzione di Gian Pietro Leonardi)

A Pesaro la presentazione del nuovo libro di Lella De Marchi: Tutte le cose sono uno

Domenica 20 dicembre alle ore 17:00 presso i Musei Civici di Pesaro, in collaborazione con il Comune di Pesaro Assessorato alla Bellezza,  presenteremo il mio nuovo libro di racconti “Tutte Le Cose Sono Uno” (ProspettivaEditrice 2015), vincitore del Premio Braingnu 2013.

Il libro si avvale di due preziose collaborazioni: la prefazione del giornalista Rai Giancarlo Trapanese e l’immagine di copertina dell’artista e performer Giovanni Gaggia.

Interverranno: Daniele Vimini (Assessore alla Bellezza), Elisabetta Marsigli (Giornalista Il Messaggero e InScena), Giovanni Gaggia e l’autrice, Lella De Marchi.

Sarà anche presentato in anteprima lo spettacolo performance tutto al femminile  “Tutte Le Cose Sono Uno – RaccontInMusica”, con testi tratti dal libro, musicati dai violini elettrici Roberta Bassi, Elena Santini e dal basso elettrico Lucia Piacentini Lazzari.

Si terminerà con un piccolo brindisi prenatalizio.

macchina da scrivere

“Le trentatré versioni di un’ape di mezzanotte” di Davide Rocco Colacrai, recensione di L. Spurio

Davide Rocco Colacrai, Le trentatré versioni di un’ape di mezzanotte, Progetto Cultura, Roma, 2015.

Recensione a cura di Lorenzo Spurio 

le-trentatre-versioni-di-unape-di-mezzanotteLa nuova fatica letteraria di Davide Rocco Colacrai, Le trentatré versioni di un’ape di mezzanotte, richiama subito, con viva curiosità e compartecipazione, l’attenzione del lettore. Non solo il titolo, acchiappante ed enigmatico, sul quale cercheremo di dire qualcosa ma anche l’immagine astratta, pluricromatica, di un’opera artistica di Francesca Fumagalli.

Questo libro di poesie contiene in sé una molteplicità di codici linguistico-comunicativi: dai versi del Nostro, alle immagini rese in bianco e nero, opera di Mirko Bassi che, pur non fornendo la completa concretizzazione visiva di ciò di cui il Nostro parla, sono senz’altro un buon corredo e motivo di maggiore elucubrazione.

Il titolo di un volume è sempre importante perché in base alla suggestione o all’indifferenza che nutriamo verso di esso, ci avviciniamo in maniera diametralmente diversa al testo, ai suoi contenuti, ed ha quindi una funzione premonitrice, in qualche modo, del grado di saziabilità che il lettore potrà maturare poi nella lettura. Questo, chiaramente, non sempre accade ma nella stragrande maggioranza dei casi, sì. Nel titolo si parla di “versioni” quasi da intendere l’intento del Nostro di avvicinarsi sempre più a una stesura ultima e definitiva, a una resa perfetta pur se ancora pefettibile delle sue vicende liriche. Le versioni non fanno che pensare a quelle noiose di qualche lingua classica e dunque a un mondo di sofferta sopportazione dove era l’elemento della traduzione da una lingua ad un’altra, la trasposizione di codici linguistici diversi, a dominare. Vien da pensare anche ad altro e, comunque, a un’idea di pluralità, di un lavoro di cesello e studio, di perfezionamento e di continuo impiego di mezzi volti all’attuazione di una completezza più viva e concreta. Il “trentatré” è significativo quale numero per la simbologia che richiama essendo la duplicazione di due cifre “tre” che richiamano non solo la Trinità ed hanno quindi una chiara valenza religiosa, ma anche la perfezione, la forma del triangolo con i tre vertici e, ad ogni modo, il senso di chiusura e indipendenza. Ci si chiede, poi, cosa possa combinare un’ape a mezzanotte quando solitamente l’insetto è percepibile come un abitatore esclusivamente o prettamente diurno. L’orario, quello della mezzanotte, chiama senz’altro in causa il senso del limite, di quella frontiera labile e invisibile tra il già stato (il passato) e quello che si annuncia (il futuro) marcando, dunque, un tempo irreversibile e quasi sospeso, difficile da concepire in maniera completa.

Queste sono delle mere riflessioni che ho fatto approssimandomi al volume di cui, passando alla lettura del contenuto, ho oltremodo apprezzato la carica visiva del verso ossia la profonda competenza del Nostro nell’elargire immagini nitide aperte all’evocazione e dunque alla trasposizione di altro, il tutto con un linguaggio paradigmatico, spesso pieno di ossimori e di accostamenti inconsueti.

Concettualmente il Nostro parte dalla macro-tematica del tempo che ha sempre influenzato o tormentato poeti e scrittori per dar sfogo a riflessioni piene di obiettività nonché lucide su quanto è capace di osservare nella vita di tutti i giorni: “ogni ricordo è una ruga/ ogni ruga è un tempo/ il tempo è un sogno solo tentato” (16). Se, allora, il tempo è un sogno, è intuitivo credere che Davide Rocco Colacrai non ravvisi in esso il potere titanico che si concretizza nel veloce scorrere, nell’inclemenza dell’incedere e nella trasformazione dell’organico, piuttosto viene concepito come una presenza che è tale perché così abbiamo deciso di percepirla. Il tempo, che è qualcosa di impercettibile e difficilmente definibile, non permette, infatti, una efficace operazione di analisi dello stesso né di eventuali partizioni della materia per poterlo meglio indagare: la costruzione dell’orologio, la divisione del tempo in minuti, ore, giorni, etc. è una mera invenzione umana volta a garantire un più pratico ed efficace approvvigionamento dell’uomo nei confronti dell’esistenza. Ma il tempo non esiste, esso è vacuo e infertile, non è palpabile, non è circoscrivibile, proprio come un sogno, che non ha legami di sorta, non ha una fine né un inizio, non pretende l’osservanza di regole o dettami.

Particolarmente rilevante all’interno della silloge risulta la poesia “I giorni della vendemmia (1984)” nella quale il Nostro rievoca ricordi nella cornice arcadica della vita di campagna il periodo della vendemmia in unione con i nonni. Nella prima strofa colpiscono i riferimenti assai precisi, direi quasi tratti da una cronaca, che il Nostro ci fornisce e che meglio permettono di definire il contesto storico-sociale: “si vedeva Berlinguer in televisione” (21). Il dolce ricordo di quell’esperienza a contatto con la Madre Terra è a suo modo gravato da una contraddizione piuttosto palpabile: le preghiere recitate coi nonni durante il periodo di vendemmia sono inframezzate alle letture di Pier Vittorio Tondelli, autore iconoclasta e immagine delle mode libertine degli anni ’80. Davide Rocco Colacrai in questa lirica di velati rimandi anacreontici traccia il suo affacciarsi al mondo quale uomo in seguito alla “scoperta della carne” (21). Momenti che il Nostro ripercorre con la lievità del ricordo non mancando di sottolineare quanto il “toccare a piedi scalzi la terra” (21) fosse un atto rinfrancante e pacificante.

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Davide Rocco Colacrai, l’autore del libro

Varie altre liriche sembrano, invece, adottare un procedimento immedesimativo al quanto differente dove è un atteggiamento di mimesi distanziata,  di personalizzazione altra (vien in mente il teatro didascalico di Brecht) a permettere di affrontare un tema assai delicato, quello familiare. In queste liriche, nelle quale spesso l’io lirico si fa femminile, il Nostro affida alla carta passioni e timori, considerazioni e stati d’animo di una ragazza in relazione al rapporto con il genitore paterno. Ciò avviene in “Il mio babbo ed io”e ritorna in “La vita segreta di un’ape”. La possibilità che il Nostro abbia desiderato far parlare la natura animale (la cagna e l’ape) facendole intervenire dialogicamente nei pensieri comunicativi dell’io lirico è, appunto, una possibilità che non va del tutto scartata. Ma se decidiamo di permanere su di un piano oggettivo di analisi, curiosa è la situazione che il Nostro più volte dipinge in cui l’universo familiare sembra in qualche modo frammentato e asfittico, dove la figura del padre viene divinizzata e la madre è completamente assente. La bambina (o ragazza) tra questi “cerchi stanchi d’ape” (28) è come se vivesse un’accelerazione temporale: è sì bambina, ma in pratica attua come donna adulta, divenendo madre di suo padre, in un paradosso contenutistico sul tema-cardine del tempo che senz’altro chiama a una maggiore riflessione.

Il mito demitizzato dell’infanzia è presente anche in “Capitolo 9” in cui si legge una attestazione originale che in qualche modo si lega alla poetica pascoliana del Fanciullino e che ha di certo una seria componente psicanalitica alla base: “forse un uomo/ rimane sempre il bambino che è stato” (33). In “Mia madre è stata una bambina” il Nostro rintraccia la fase infantile in un tempo prodromico e introduttivo alla vita, uguale ed universale per ciascuno, riflettendo appunto sull’età nella quale la madre era bambina mentre ora è configurabile solo come una “ombra” (38) la cui voce va ricercando in quella del vento e della polvere.

Nitidi intenti civili si ravvisano in “C’era una volta l’Argentina di Juan (1979)” dove il Nostro si riferisce al fenomeno massiccio di rapimento, segregazione e occultamento operato dalle forze governative durante i governi presidenziali-militari di alcuni paesi del Sud America. Davide Rocco Colacrai con il suo componimento, che si caratterizza per versi di media lunghezza, è capace di trasmettere nel lettore il senso di stordimento e delusione per una infamia tanto grave, protrattasi per troppo tempo e che ha privato a milioni di congiunti non solo di riabbracciare il proprio caro ma di poter avere i suoi resti dove poter piangere. La silente e invisibile deportazione di tanti uomini è descritta dal Nostro come l’atto di svanire, come se fosse possibile dal giorno alla notte far sparire centinaia e centinaia di persone dalla faccia della Terra. Corpi sottratti alle famiglie, agli amici e a una esistenza da vivere, ad un suolo dove poter esser contemplati tanto da divenire “ombre [che vagano] in punta di piedi” (39).

A suggellare questa interessante plaquette foriera di divagazioni di vario tipo sono alcuni componimenti scritti in sintonia con altri poeti, a quattro mani, come la poesia “Manny e l’infinito” scritta assieme al poeta bolognese Stefano Baldinu.

Lorenzo Spurio

Jesi, 13-12-2015

Dittico poetico sull’immigrazione delle poetesse Lucia Bonanni e Francesca Luzzio

“Al piccolo Aylan sulla spiaggia…” di Lucia Bonanni e “Mare innocente” di Francesca Luzzio (dittico poetico a due voci, proposto da Emanuele Marcuccio)

Creiamo dittici poetici a due voci, qualora individuassimo corrispondenze sonore, emozionali, di significanti in un’altra poesia dal tema simile, affinità elettive, oltre le distanze e il tempo, e così proporlo all’amico/a poeta o poetessa. Sì, infrangiamo questo cliché letterario sulla solitudine del poeta, come ho già fatto tante volte io creandone più di sessanta e due Antologie.

 In un dittico a due voci il poeta si apre al prossimo, anch’egli poeta, scegliendo che ai suoi versi facciano eco quelli di un altro poeta che trova in qualche modo affine, in cui individua corrispondenze sonore o emozionali, affinità elettive, corrispondenze di significanti.

 Emanuele Marcuccio

 

AL PICCOLO AYLAN SULLA SPIAGGIA…

POESIA DI LUCIA BONANNI 

Non posso più cantare.

Non voglio più cantare.

Non ha più corde la mia cetra.

Deserta l’ho lasciata

ai piedi di un cedro desolato

dove tra i rami non più vivi

ragnatele

si disegnano di polvere nera

e cellulosa infume sgoccia

da coni esplosivi e aghi

che hanno perso colore.

Assolata spoglia sabbiosa

spesso interrotta

la tua Terra, esile sguardo,

in un attimo rapito

dalle ruote dentate delle acque.

Forse in quel momento

credevi

                di sognare.

Forse pensavi

                          di tornare

nel cavo della nicchia

che ti accolse implume

e come le rondini di mare

forse speravi

                         di migrare

verso paesi innocenti e finalmente nuovi.

Invece quel lido

dalle spume di salnitro

è stato la tua bara di silenzio.

Tu che di indaco e fuoco vestivi

le forme del cuore

anche per te di breve

tempo, flebile voce, che tra ghirlande

di dura luce

sei tornata a tacere

presso i tetti sconnessi di Kobanê.

18 settembre 2015

A Turkish gendarmerie stands next to a young migrant, who drowned in a failed attempt to sail to the Greek island of Kos, as he lies on the shore in the coastal town of Bodrum, Turkey

MARE INNOCENTE

POESIA DI FRANCESCA LUZZIO 

Sento il fuoco

che fa palpitare le mie vene,

né si spegne con le tue parole.

Mi distendo sulla battigia

e cerco di non pensare,

ma ecco improvvise, danzanti

e frementi tante ombre

sulle creste delle onde

che nel frangersi tremanti,

lente sussurrano nomi e…

…dicono parole:

– Il mare con la sua coperta azzurra

mi trattiene… –

-Mare, mare, dillo tu a mia…

madre che non vede!-

-L’acqua mi soffocava,

non volevo morire…

ed ora i pesci mi stanno a mangiare!-

-Destino infame, destino infame! Non ho ieri, non ho domani.-

Ed io tappo le mie orecchie per non sentire

e, mentre tu mi chiami, si spegne tragica

la visione.

Ti abbraccio malinconica e confusa,

mentre il mare sereno e azzurro

mostra innocente calma,

indifferente anche

al singhiozzante gracchiare

di bianchi gabbiani.

primavera 2015

Al via la III Ragunanza di Poesia, dedicata alla poesia sulla natura

Locandina Terza Ragunanza

 Terza Ragunanza di “POESIA”

con premiazione domenica 22 maggio 2016

REGOLAMENTO 

La partecipazione alla TERZA ragunanza di “POESIA” è aperta a tutti coloro che dai 16 anni in su – per i minorenni è necessaria l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci -senza distinzioni di sesso, provenienza, religione e cittadinanza, accettano i tredici (13) Articoli qui specificati.

La frase sopra menzionata “per i minorenni è necessaria l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci”, vuol dire che chi non ha compiuto 16 anni può partecipare alla TERZA RAGUNANZA DI POESIA, previa l’autorizzazione scritta e firmata da entrambi i genitori che dovranno allegare alla loro autorizzazione la fotocopia della loro carta d’identità.

I nostri GIURATI valuteranno gli scritti pervenuti, a loro insindacabile giudizio. La Commissione di giuria è composta da Roberto Ormanni (Presidente di Giuria), Michela Zanarella (Presidente del Premio), Dario Amadei, Elena Sbaraglia, Giuseppe Lorin, Alessio Masciulli, Lorenzo Spurio e Fiorella Cappelli.

Il REGOLAMENTO per la Poesia, prevede due sezioni: POESIA “NATURA” e SILLOGE DI POESIA “A TEMA LIBERO”. La tematica della POESIA “NATURA”, trattandosi di “ragunanza”, termine in uso nell’Arcadia di Christina, dovrà almeno contenere dei riferimenti alla natura che ci accoglie. La POESIA “NATURA”, che sarà da Voi scritta, dovrà ricordare i dettami dell’Arcadia, il valore della natura, filtrati dagli eventi attuali che coinvolgono, modificano, distruggono i quattro elementi della nostra madre Terra e lo spirito di tutti coloro che si prodigano per la salvezza ed il recupero dell’ambiente e che troppo spesso immolano la loro vita per il bene comune. Sarà apprezzato il riferimento all’ultima enciclica di Papa Francesco “Laudato sii”.

La SILLOGE DI POESIA EDITA “A TEMA LIBERO”, che sarà da Voi già stata pubblicata (o da Casa Editrice o in proprio) e si presenta quindi come un libretto, potrà contenere qualsiasi riferimento essendo “A TEMA LIBERO” e potrà spaziare su temi alti dell’esistenza, su temi universali che abbracciano il genere umano. È questo l’intento e l’obiettivo della rinnovata “ragunanza” nell’ambiente bucolico di Villa Pamphilj a ricordo dei raduni, delle adunanze, organizzati da S.A.R. Christina di Svezia.

Art.1

Si richiede per la III Ragunanza di POESIA, che il testo sia compreso in un massimo di una (1) pagina word e scritto in Times New Roman, a carattere 12 o 18 e che si rispettino in tutto i 13 Articoli, che specificano le norme, i diritti, i requisiti e le leggi di questo regolamento.

Art.2

La POESIA della sezione “NATURA” dovrà essere inedita e, per concorrere, andrà spedita via e-mail a apsleragunanze@gmail.com indicando e specificando la sezione da voi scelta: Terza Ragunanza di POESIA sezione: “NATURA” La POESIA sarà ammessa solo ed unicamente con il nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso. Ai giurati sarà fatta pervenire la Vs POESIA in forma anonima. Terza Ragunanza di POESIA sezione: “SILLOGE DI POESIA EDITA” ovvero, già pubblicata (o da Casa Editrice o in proprio) sarà ammessa solo ed unicamente con il nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso. La Silloge di poesia dovrà essere spedita sia con piego di libri in una (1) unica copia a: A.P.S. “Le Ragunanze” c/o Michela Zanarella– Via Fabiola, 1 – 00152 Roma sia in pdf alla mail apsleragunanze@gmail.com indicando nell’oggetto la sezione. Nel foglio inserito nella busta insieme alla silloge dovranno essere specificate le indicazioni dell’autore: nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso.

L’assoluta competenza e serietà dei giurati permetterà una giusta assegnazione della votazione che porterà alla graduatoria finale.

Art.3

Le modalità espressive della POESIA e della SILLOGE non dovranno essere offensive né ledere la sensibilità e/o la dignità del lettore, dell’ascoltatore e della persona chiamata in causa a leggere.

Art.4

La partecipazione è soggetta alla tessera associativa equivalente ad € 10,00 per ogni sezione che sottintende la presenza dell’autore concorrente o la persona delegata ed include le spese di segreteria e l’acquisto di coppe, targhe, medaglie e pergamene nonché l’eventuale affitto della sala di premiazione ed un piccolo rinfresco.

Art.5

La scadenza per l’inoltro dei testi è fissata a giovedì 31 marzo 2016.

Art.6

Il giudizio della giuria è insindacabile.

Art.7

La partecipazione al concorso comporta l’accettazione di tutte le norme del presente regolamento ed il partecipante dovrà essere presente il giorno della ragunanza per la lettura delle POESIE secondo la graduatoria di premiazione di fronte agli astanti. Sono ammesse deleghe solo in presenza “certa” del delegato a ritirare il premio assegnato, il quale si dovrà mettere in contatto con la segreteria del premio.

Art.8

Qualora il delegato non fosse presente, il riconoscimento del premiato non sarà spedito, se non previo accordo con la segreteria.

Art.9

I partecipanti, le cui poesie siano state selezionate per la premiazione e la lettura in pubblico, saranno informati sui risultati delle selezioni mediante e-mail personale e segnalazione sul sito dell’Associazione di Promozione Sociale “Le Ragunanze”: http://www.leragunanze.altervista.org

Art.10

Le POESIE di entrambe le sezioni scelte e premiate saranno presentate e lette in pubblico DOMENICA 22 MAGGIO 2016, dalle ore 10,00 fino al termine delle letture e delle relative PREMIAZIONI all’interno di Villa Pamphilj nella Sala del Bel Respiro, conosciuta come antica vaccheria dei principi Pamphilj. Qualora per suggestione o timidezza l’autore decidesse di non leggere la propria opera in pubblico, questa sarà letta da un attore o un’attrice che darà professionalità all’evento stesso esaltando al contempo la poesia dell’autore.

Art.11

A tutti i selezionati sarà inviato, con largo anticipo, l’invito a partecipare alla PREMIAZIONE e al reading. Le POESIE di entrambe le sezioni premiate, che saranno lette in pubblico e ritenute idonee dal giudizio insindacabile dei giurati, saranno inserite nell’antologia di POESIA pubblicata dalla Casa Editrice più idonea e sarà disponibile per l’acquisto nella giornata di lettura al pubblico e comunque acquistabile nelle librerie virtuali e fisiche tramite il codice ISBN che le verrà attribuito.

Art.12

I PREMI saranno così suddivisi: Terza Ragunanza di POESIA sez. “Natura” – I PREMIO, primo classificato: (coppa con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, Golem informazione, Turisport Europe) Terza Ragunanza di POESIA sez. “SILLOGE DI POESIA EDITA” – I PREMIO, primo classificato: (coppa con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, Golem informazione, Turisport Europe) 5 5 Secondo classificato POESIA sez. “Natura”: (targa con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, Golem informazione, Turisport Europe) Secondo classificato POESIA sez. “SILLOGE DI POESIA EDITA”: (targa con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, Golem informazione, Turisport Europe) Terzo classificato POESIA sez. “Natura”: (medaglia con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, Golem informazione, Turisport Europe) Terzo classificato POESIA sez. “SILLOGE DI POESIA EDITA”: (medaglia con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, Golem informazione, Turisport Europe) Dal quarto al decimo classificato per la sez. di POESIA “Natura” saranno consegnate le Menzioni d’Onore (cartiglio pergamenato con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, Golem informazione, Turisport Europe). Dal quarto al decimo classificato per la sez. di POESIA “SILLOGE DI POESIA EDITA” saranno consegnate le Menzioni d’Onore (cartiglio pergamenato con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, Golem informazione, Turisport Europe).

Tutti i partecipanti presenti, e solo i presenti, riceveranno brevi manu l’attestazione di partecipazione alla Terza Ragunanza di POESIA per aver concorso con l’opera, anche se questa non si è posizionata tra i vincitori. L’attestazione avrà la stampa dei sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, Golem informazione, Turisport Europe.

Art.13

Nel file d’invio a apsleragunanze@gmail.com includere dati personali, indirizzo postale, indirizzo e-mail, telefono, breve nota biografica, (per i minorenni includere anche l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci con la fotocopia della loro carta d’identità) la dicitura “SARÒ PRESENTE”, fotocopia del versamento di € 10,00 (per i soci già iscritti all’Associazione di Promozione Sociale “Le Ragunanze” la quota è di € 5,00 – Si ricorda comunque che la tessera ha valore annuale) da effettuare tramite ricarica Postepay n° 5333171018479663 intestato a Michela Zanarella, C.F. ZNRMHL80L41C743L per i diritti di segreteria ed acquisto premi, riconoscimenti, affitto sala, piccolo rinfresco; in calce al testo, la seguente dichiarazione firmata: “Dichiaro che i testi delle POESIE da me presentati a codesto concorso sono opere di mia creazione personale e inedite. Sono consapevole che false attestazioni configurano un illecito perseguibile a norma di legge. Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi della disciplina generale di tutela della privacy (L. n. 675/1996; D. Lgs. n. 196/2003) e la lettura e la diffusione del testo per via telematica e nei siti di Cultura della Poesia, della Narrativa e dell’Arte, nel caso venga selezionato, dai giurati del concorso Terza Ragunanza di POESIA”

Referente concorso:

La Presidente dell’A.P.S. “Le Ragunanze”, Michela Zanarella apsleragunanze@gmail.com

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