Introduzione alla poesia, di Emanuele Marcuccio

ARTICOLO DI EMANUELE MARCUCCIO

Il termine “poesia” è una parola che deriva dal verbo greco “ποιέω” (poiéo), che significa “faccio”, “costruisco”, quindi, il poeta è colui che fa, costruisce (con le parole).

Ma come è nata la poesia? Come nasce nell’uomo il bisogno di poesia e quindi di fare poesia?

A mio modesto parere, la poesia nasce per un bisogno intimo di celebrare, di cantare costruendo con le parole, infatti, il primo componimento poetico della letteratura italiana è il Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi (XIII sec. d. C.), in questa poesia, in questo cantico il poverello di Assisi celebra, loda Dio attraverso tutte le sue creature.

Ma, andiamo a monte, come nasce la poesia in genere, almeno la poesia occidentale?

Le prime testimonianze di poesia nella letteratura greca ci arrivano dai poemi omerici (Iliade e Odissea), risalenti a ca. un millennio prima della nascita di Cristo, dapprima tramandati oralmente attraverso gli aedi e i rapsodi, cioè i trovatori, i cantastorie del tempo e, in seguito, trascritti, anzi si pensa che, l’alfabeto greco sia stato inventato proprio per trascrivere i poemi omerici, di questo autore Omero che, è probabile non sia mai esistito ma, sia il risultato di una collezione di autori anonimi e proprio per questo è nata la cosiddetta “questione omerica” che è ancora ben lungi dall’essere risolta.

L’Iliade, con le sue migliaia di versi, vuole celebrare, in particolare, gli ultimi cinquantuno giorni della decennale guerra di Troia e i suoi signori, vuole anche cantare i sentimenti più profondi dei protagonisti.

Mentre, l’Odissea vuole celebrare il periglioso viaggio di ritorno di Odisseo (Ulisse), leggendario re dell’isola di Itaca, dopo la caduta di Troia, in particolare gli ultimi 38-40 giorni escludendo i racconti di flash-back. Nel suo significato profondo, penso voglia celebrare la lotta dell’uomo con se stesso per poter vincere i fantasmi della guerra che lo attanagliano e per poter finalmente ritornare a casa ritrovando la pace dopo un’ultima lotta.

A differenza dell’Iliade, nell’Odissea abbiamo una celebrazione, un canto più intimo, quello del cuore umano, che combatte con se stesso ed è continuamente messo alla prova sopportando tutto con pazienza e agendo con astuzia.

Quindi, l’intento della poesia è sempre quello di celebrare, costruendo un’architettura di parole nei più vari registri, dai più intimistici e introspettivi ai più altisonanti.

Cosicché, se la poesia fa parte del nostro essere, anche noi possiamo celebrare, in questo caso è più corretto dire “cantare”, i più intimi sentimenti, le nostre emozioni; possiamo celebrare anche cose astratte ma che nascondono in sé cose umanissime ricorrendo al concetto poetico del correlativo oggettivo, diffusissimo nella poesia moderna ed elaborato dal poeta statunitense e naturalizzato inglese T. S. Eliot (1888 – 1965) nel 1919, di modo ché, anche i concetti e i sentimenti più astratti vengono correlati in oggetti ben definiti e concreti. Eliot dichiarò che il correlativo oggettivo è “una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che saranno la formula di quella emozione particolare, in modo che, quando siano dati i fatti esterni, che devono condurre ad un’esperienza sensibile, venga immediatamente evocata l’emozione”.

Nella poesia italiana questo concetto troverà la sua più alta espressione nella poetica di Eugenio Montale (1896 – 1981), che utilizzò un correlativo oggettivo per intitolare una sua raccolta Ossi di seppia; infatti, tutti gli elementi della natura possono essere messi in correlazione a condizioni spirituali e morali.

Possiamo celebrare un personaggio storico, un letterato, un accadimento contemporaneo, un personaggio letterario o un suo episodio, in una parola “tutto”. Ogni poesia, però, dovrà scaturire dall’ispirazione, da quella scintilla creativa che ci fa prendere la penna in mano e ci fa scrivere quello che il cuore detta. Perché la poesia sia vera e sincera deve esserci questa scintilla iniziale, dopodiché possiamo scrivere di getto, in maniera spontanea o, fare un lavoro di lima ricercando la rima più adatta o la parola, o il suono e starci tutto il tempo che ci è necessario. In caso contrario, diventerebbe solo qualcosa di artificioso che non è espressione dei nostri sentimenti; come scrivo in un mio aforisma: “La poesia non è puro artificio, non è sterile costruzione ma piacere per gli occhi e per il cuore, qualcosa che ci meraviglia e ci colma d’interesse, che ci spinge a ricercar nuovi lidi, dove far approdare questo nostro inquieto nocchiero che è il nostro cuore”.

E in un altro: “Il poeta sogna, si emoziona, si meraviglia; in caso contrario, tutto sarebbe puro artificio, sterile e fredda creazione, come voler scrivere su di un foglio di vetro”.

Questo, nella sua essenza, è in definitiva la poesia: un canto dell’anima, un canto senza l’ausilio di strumenti musicali, la musica è data dalle parole (con o senza rima) che cercano di esprimere quello che l’anima detta, che è sempre un cercare di esprimere, come ci insegna Ungaretti in una famosa intervista televisiva del 1961, non potremmo mai arrivare all’espressione compiuta della propria anima.

EMANUELE MARCUCCIO

ARTICOLO PUBBLICATO PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTORE. E’ VIETATO PUBBLICARE STRALCI O L’INTERO ARTICOLO SENZA PERMESSO DELL’AUTORE.

Per una strada di Emanuele Marcuccio, Recensione di Luciano Domenighini

Per una strada di EMANUELE MARCUCCIO

Sbc Edizioni, 2009, pp. 100

ISBN: 9788863470314

Recensione a cura di LUCIANO DOMENIGHINI 

La raccolta di poesie “Per una strada” di Emanuele Marcuccio, raccoglie il meglio della sua produzione poetica dal 1990 al 2006. In un arco di tempo così lungo è ravvisabile una evoluzione, soprattutto formale, nel senso della acquisizione di un linguaggio poetico più originale.

Lo stile:
Le poesie di Marcuccio, specie quelle dei primi anni, hanno uno stile composito, con vaghi richiami stilnovistici, epico-rinascimentali, neoclassici, leopardiani. Questo eclettismo, però, è privo di ostentazione; le citazioni e i modi sono sfiorati con leggerezza. Vale la pena, ad esempio, di osservare come il poeta ricorra, e frequentemente, all’elisione. Solitamente, l’elisione è motivata da urgenze metriche, mentre in Marcuccio il suo uso è assolutamente gratuito è un vezzo, una scelta fonetica puramente ornativa.

Le figure retoriche:
La poesia di Marcuccio, avendo, come detto, carattere eclettico ha una certa ricchezza di figure retoriche, anche se prevalgono nettamente figure di soppressione-sottrazione ( ellissizeugma), o di soppressione-accumulazione (asindeto) oppure di accumulazione, specie quelle reiterative (anaforaepistrofeparonomasia). Lo schema più frequente è il vocativo, seguito da asindeti o polisindeti multipli, pure associazioni di parole ad effetto “impressionista” in senso descrittivo o elegiaco. Le sequenze in asindeto, hanno effetto subentrante-perfettivo e sono composte da sostantivi, sostantivo-aggettivo, aggettivi o sequenze di verbi transitivi e intransitivi come nel bellissimo “vedi, vive, canta, sussurra.” L’impiego di queste figure di accumulazione può avere, come detto, effetto variante-specificante o descrittivo oppure più squisitamente oratorio-enfatizzante, realizzando una “gradatio” emotiva, un vero e proprio climax.

La metrica:
È un poetare libero, polimorfo, ma senza urgenze o scrupoli di ordine metrico. In qualche modo è un poetare istintivo, d’ispirazione, di prima mano. Anche quando l’eloquio poetico si coagula in disticiterzine o persino tetrastici riconoscibili e strutturati in rime o assonanze o paromeosi, sovente il computo delle sillabe, cresce o difetta e la disposizione degli accenti è disritmica. Il tentativo di rima dantesca (“Amor”) è sostanzialmente fallito. Altre volte invece il verso è di eccellente struttura metrica (cfr. gli endecasillabi ”dolce mi viene all’anima, /cantando” oppure “dell’universo immenso meraviglia”). Ma ciò, quando avviene, avviene per caso, o meglio non avviene intenzionalmente quasi che il poeta seguisse unicamente una sua musicalità del momento.

I contenuti:
Accanto alle numerose composizioni, di impronta prevalentemente moralistica, dedicate a personaggi storici o letterari (notevoli i quattro “omaggi” a Garcia Lorca) i temi prediletti da Marcuccio sono quello paesaggistico-descrittivo, quello amoroso e la poesia civile. Riguardo a quest’ultima merita di essere menzionata “Urlo”, dedicata alla tragica fine del giudice Falcone. Con toni rutilanti, epici e tribunizi, il poeta si abbandona sdegnato a una denuncia-condanna senza appello, ricorrendo a un’enfasi tragica quasi omerica, eppure mantenendo, nel messaggio, una chiarezza lampante e inequivocabile.

Conclusioni: 

Nella pressoché assoluta libertà di impiego di moduli stilistici e soluzioni lessicali, nel lasciarsi guidare dall’ispirazione e dallo spontaneo sgorgare della parola poetica; nel tendere l’orecchio insomma alla musicalità del verso come spontaneamente gli proviene dal cuore e dalla mente, e nel saperla tradurre in versi limpidi e carichi di emozione, sta la caratteristica principale di questo poeta, per conoscere il quale la raccolta “Per una strada”, opera prima, pur nella sua varietà stilistica e nella inevitabile impronta esperitiva, rappresenta una fonte preziosa ed esauriente.

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LUCIANO DOMENIGHINI

RECENSIONE PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTORE DELLA SILLOGE DI POESIE E DEL RECENSIONISTA. E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO SENZA IL PERMESSO DEGLI AUTORI

“Respiro terra”, poesia di Elena Condemi

“Respiro terra”

poesia di ELENA CONDEMI

E’ forse un frutto
di rose mietute
che disfa
la fragranza ottusa dell’alba
e mi ridà l’inimmaginabile
catartico spessore
dell’animale in bilico

Trapasso la ferita lucente
al di là dei ponti di catrame
Varco l’oblò
dei miei crudi orizzonti
fra spigoli di rugiada
e moltitudini

Respiro terra.
Poi, zingara impietosa
con baci di rovi e menta
fra stelle di diverse frequenze
appese agli alberi
rinomino il detto
nominando l’indicibile.

Elena Condemi

ELENA CONDEMI è nata a Catania ma ha quasi sempre vissuto a Siracusa. Ha insegnato presso varie scuole elementari e lingua italiana in Germania. Presso l’Università di Messina ha studiato “Patologie della comunicazione”. Pubblica i suoi testi su vari siti, tra cui Wordshelter,  Poetika.it, BraviAutori, Poesieinversi.it, ParoledelCuore.it, ErosPoesia.it, Scrivere, Nuova poetica, Scrittori emergenti, nel blog dello scrittore Marco Candida e scrive spesso prologhi per libri di altri autori. La poesia “Anima”, già recensita sul sito “Poesie in versi” dalla giornalista e critico Rai Cinzia Baldazzi, è stata adesso pubblicata nella raccolta di Poesie erotiche a cura di Giuseppe Bianco “Le parole per te”, Albus Edizioni.

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“Canto d’amore” di Emanuele Marcuccio

Canto d’amore (6/12/1999)

poesia di EMANUELE MARCUCCIO

 tratta dalla silloge Per una strada, Sbc Edizioni, 2009

Leggerezza, delicatezza

soffusa e serena:

un fiore, che leggiadro

al primo suo fiorire,

espande per l’aria

gli odorosi suoi sospiri,

e irrora dolcemente,

e irradia di luce

l’aria della notte:

un’arpa ascolto,

lontano il suo suono

si perde;

sospirosi ardori,

sospirato amore,

ti chiamo

e nella notte mi perdo.

CANTO D’AMORE 

Commento di Luciano Domenighini 

Sono sedici versi che alternano la terza persona (espande, irrora, irradia, si perde), descrittiva dell’oggetto amato con tre splendidi versi (10, 15, 16) in prima persona: un quinario (“un’arpa ascolto”) e un ottonario (“e nella notte mi perdo”) sospesi e vaghi, a siglare un clima incantato e infine uno scolpito ternario (“ti chiamo”), perentorio, esclamativo, che fa da perno a tutta la composizione. Da notare anche la corrispondenza iterativa dei versi 11 e 12 (“lontano il suono / si perde”) con l’ultimo verso (“e nella notte mi perdo”).

La breve lirica è un polisindeto di giusta lunghezza, con la cadenza , il respiro esatto, che ha l’unica pausa, e riprende fiato, sul bellissimo “un’arpa ascolto” che è un pentasillabo morbido, rotondo, appena inciampato sulla sinalèfe di “arpa-ascolto” (ma è difetto veniale e qualcuno potrebbe anche definirlo un pregio). L’effetto “morendo”, “perdendosi”, pur nell’intensità dell’emozione, è reso benissimo.

Nota dell’autore: “Ispiratami dall’ascolto del Quintetto n. 1 op. 89, di G. Fauré.

POESIA E COMMENTO PUBBLICATI PER GENTILE CONCESSIONE DEGLI AUTORI. E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO SENZA IL PERMESSO DEGLI AUTORI

Origine e diffusione del vampirismo. Il doppio volto della donna: angelo o demone? di Serena Bono

Origine e diffusione del vampirismo – Il doppio volto della donna: angelo o demone? di Serena Bono

Roma, Albatros Editore, 2010, pp. 112

IBSN: 9788856727999

Recensione di Lorenzo Spurio

Il vampiro è un personaggio che ha sempre riscosso un grande successo in letteratura e nella cinematografia perché è avvolto da una serie di misteri che, a tutt’oggi, rendono difficile sviscerare completamente questa figura. Il vampiro è stato utilizzato ampiamente in racconti e romanzi che appartengono al filone gotico, così come in thriller e veri e proprio horror per quanto concerne il cinema. Recentemente mi è capitato di leggere una delle numerosissime riscritture (in americano le chiamano mash ups) di un grande classico, Jane Eyre, romanzo di Charlotte Brontë. Questo rewriting, a opera di una scrittrice americana di nome Sherri Browning Erwin, stravolge il plot di Jane Eyre cambiandone l’ambientazione e così Jane, ribattezzata nel romanzo Jane Slayre, finisce per essere un’assassina di vampiri che deve lottare anche contro zombi e lupi mannari. Sono proprio queste tre (il vampiro, lo zombi e il lupo mannaro)[1] le creature mostruose che più vengono impiegate nelle narrazioni o nella cinematografia con l’intenzione di generare suspense, paura e vero e proprio terrore nel ricevente. Si tratta di personaggi di cui è quanto mai difficile tracciare l’origine e il mito di fondazione. Se si pensa al lupo mannaro infatti non è che una delle tante forme di metamorfosi e di ibridismo di cui ci narrano gli antichi greci. La figura dello zombi, originaria nell’America centrale nel periodo della tratta dei neri, è un altro personaggio inquietante, misterioso, di cui sappiamo poco o troppo. Quando si sa poco di una certa cosa è difficile parlarne o dare dei giudizi ma quando si hanno troppe informazioni, diverse e contrastanti, allora è anche peggio ed è estremamente difficile dare un interpretazione oggettiva che possa essere il più possibile vicino alla realtà. Quello che accomuna questi tre personaggi, vampiri, lupi mannari e zombi, è il fatto che non appartengono all’umanità normale e che si contraddistinguono per inaudita violenza. In tutti e tre dunque è insita l’efferatezza, la spietatezza e la morte. Sono inoltre personaggi quanto mai indefiniti e fumosi: il vampiro spesso dispone di ali e si trasforma in un pipistrello, lo zombi può assumere qualsivoglia forma, il lupo mannaro assume quella sembianza mostruosa solo nelle notti di luna calante.

Serena Bono, con il suo saggio sul vampirismo, ci aiuta a comprendere la figura del vampiro, fornendoci un’interessante lettura sostenuta da studi critici e letterari sul tema. Si parte dall’analisi delle ipotesi di fondazione di questo mito del vampiro per poi descrivere quali sono gli elementi caratteristici di questa figura e il culto del sangue per poi concludersi con un’affascinante analisi letteraria di due figure vampire femminili in due romanzi inglesi: Carmilla di Sheridan Le Fanu (1872) e il più noto Dracula di Bram Stoker (1897). La Bono utilizza un linguaggio appropriato e scorrevole, adatto alla forma e agli scopi del saggio e mostra al tempo stesso di aver fatto un fine studio sul tema, fornendoci al termine del saggio un’esauriente ed utile bibliografia.

Come la Bono sottolinea all’apertura del romanzo la figura del vampiro è polisemica, è difficile considerarla sotto un’unica interpretazione ed è dunque necessario allargare il campo d’indagine al mito, alla storia,alla tradizione popolare, alla letteratura, tutti ambiti nei quali la figura del vampiro è stata abbondantemente considerata. La grande fortuna di personaggi mostruosi quali vampiri, licantropi e zombi è forse motivata da questo senso d’indeterminatezza e di imperscrutabilità che li avvolge. Sono esseri che sappiamo non esistere e che non vorremmo incontrare mai, neppure nel sogno. Eppure, non dovremmo essere così sicuri nel mettere la mano sul fuoco che i vampiri non esistono. Recenti fatti di cronaca ci hanno infatti allarmato circa efferati gruppi satanici che utilizzavano il sangue delle vittime come rito d’iniziazione o addirittura come sacrificio umano. Così il Diavolo, Satana, esaltato da questi gruppi occulti è un dio del male, che combatte contro Dio. Ma anche il vampiro, secondo la tradizione popolare, è in continua lotta con Dio: l’acquasanta versata su di un vampiro ha per quest’ultimo degli effetti devastanti, quasi da riuscire ad ucciderlo. Sono dunque i satanisti e i cultori dell’occulto i moderni vampiri? E il vampiro è una manifestazione di Satana? Di quel Male onnipresente che minaccia il Bene? E’ di circa una settimana fa la notizia[2] che un uomo in India è stato arrestato poiché obbligava la moglie a farsi prelevare il sangue, che poi lui ingeriva per incrementare la sua potenza sessuale. In entrambi i casi è evidente l’associazione tra sangue-sesso-vampiri che la Bono pure tratteggia in più punti nel romanzo. In questo libro troverete tanti vampiri e, se per caso ne avete particolare paura, allora munitevi di spicchi d’aglio, crocefissi, acqua santa e specchi. Così riuscirete a tenerli lontani. Forse.

Lorenzo Spurio

4 Agosto 2011


[1] Il vampiro condivide molti aspetti con lo zombi (sia il vampiro che lo zombi quando attaccano una persona, questa diviene a sua volta zombi e vampiro e questo procedimento va avanti sempre così generando un’ondata di Male finché non sopraggiunge qualcuno in grado di sopraffarle e di distruggerle; entrambi, vampiro e zombi, sono delle persone morte che possiedono la facoltà di muoversi e di agire come fossero vive) ma il vampiro condivide anche molti aspetti con il licantropo (entrambi si presentano di notte, momento nel quale sono particolarmente forti: di giorno il vampiro rimane chiuso in una bara cercando di evitare la luce mentre di giorno il licantropo si ritrasforma e riassume la sua parvenza umana; il vampiro, oltre a trasformarsi in pipistrello, può inoltre trasformarsi anche in un lupo, proprio come il licantropo).

[2] “India, marito “vampiro” beveva il sangue della moglie”, Il Tempo, 18 Luglio 2011.

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Dies Natalis di Cinzia Luigia Cavallaro

Dies Natalis di Cinzia Luigi Cavallaro

Edizioni Il Foglio, Piombino (Livorno), 2010, pp. 44

ISBN: 9788876062636

 

Recensione di Lorenzo Spurio

Con questa breve ma ricca silloge poetica Cinzia Luigia Cavallaro scandaglia da varie prospettive due dei temi che hanno sempre ossessionato l’uomo: il tempo e la morte. Temi che in fondo finiscono per legarsi, contaminarsi, fondersi ed eguagliarsi. Quando moriamo, finisce il nostro tempo.  E’ una raccolta di poesie di lunghezza diversa che presenta un tono cupo, quasi esistenzialistico, dove è onnipresente il senso di morte espresso magistralmente nella poesia “Materia prima” nella quale la poetessa condensa in pochi versi il carattere transitorio del genere umano: «Siamo pane per/ i vermi/ e concime per/ i fiori/ liquame/ di dolori/ e stelle/ di sorrisi».

La poetessa si avvale spesso della natura (un giardino, un albero, dei fiori) per mettere in luce la caducità, il senso di finitezza, il passare del tempo e il sopraggiungere della morte. La Cavallaro ci fa riflettere sul rito di Thanatos impiegando prospettive che rifuggono dalla nostra quotidianità per costruire una poesia dal tono pacato e diretta, quasi scarnificata ed altamente evocativa.

LORENZO SPURIO

9 Agosto 2011

CINZIA LUIGIA CAVALLARO è nata a Milano nel 1961. Ha vinto e ricevuto segnalazioni; alcune sue poesie sono state inserite in antologie poetiche. Nel 1994 è stata premiata a La Spezia per il suo racconto Gita al porto. Ha pubblicato sillogi di poesie: Kairos (Giraldi Editore, 2008) e Dies Natalis (Il Foglio Edizioni, 2010) e un romanzo: Sogno amaranto (Joker Edizioni, 2010).


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I Antologia “Esordi Amo”

BLOGLETTERATURA E CULTURA DI LORENZO SPURIO
RIVISTA SEGRETI DI PULCINELLA DI MASSIMO ACCIAI
INTINGENDO D’INCHIOSTRO VERSI ED ALTRO DI MONICA FANTACI

ORGANIZZANO LA PRIMA ANTOLOGIA “ESORDI AMO”

BANDO DI PARTECIPAZIONE:
La I Antologia “Esordi Amo” è ideata e organizzata da Lorenzo Spurio, Monica Fantaci e Massimo Acciai, scrittori e poeti esordienti che si occupano di letteratura e cultura attraverso i loro spazi online e che intendono con questa iniziativa dare la possibilità ad altrettanti giovani di dire la propria, di esprimere le loro invenzioni letterarie.

Il concorso è aperto a tutti senza limiti di età ed è gratuito.
E’ articolato in due sezioni:
a. POESIA IN LINGUA ITALIANA A TEMA LIBERO
b. RACCONTO IN LINGUA ITALIANA A TEMA LIBERO
Ciascuna persona può partecipare ad entrambe le sezioni presentando un testo per ciascuna.
Per la sezione a – poesia il limite massimo consentito di versi è pari a 30 mentre per la sezione b- racconto si accetteranno racconti non più lungi di 7 pagine (file Word, carattere Times New Roman, 12 punti di carattere, spaziatura 1,5, margini alto/basso 2,5 destro/sinistro 2,0).
Ogni testo dovrà apparire su un file unico (non mescolare poesie e racconti).
Assieme al file del testo va allegato un file con i propri dati contenente queste informazioni:
NOME E COGNOME
LUOGO E DATA DI NASCITA
INDIRIZZO DI RESIDENZA
E-MAIL DI CONTATTO
NUMERO DI TELEFONO
SEZIONE A CUI PARTECIPA
TITOLO DEL TESTO
ATTESTAZIONE DELLA PATERNITA’ DEL TESTO CHE SI PRESENTA, copiando in calce questa attestazione:
Attesto che il testo che presento al suddetto concorso è frutto del mio ingegno, ne dichiaro la paternità e l’autenticità.

Non verranno accettati testi che presentano elementi razzisti, pornografici, blasfemi o d’incitamento all’odio, alla violenza, alla discriminazione di ciascun tipo.

I materiali vanno inviati per posta elettronica a lorenzo.spurio@alice.it specificando nell’oggetto “CONCORSO ANTOLOGIA” completi di tutte le informazioni richieste. La mancanza di qualche elemento richiesto significherà l’esclusione dal concorso.

La data di scadenza per l’invio dei materiali è fissata al 20 NOVEMBRE 2011.

La commissione esaminatrice è composta da Lorenzo Spurio, scrittore e recensionsita, gestore di Blogletteratura e Cultura, Monica Fantaci, scrittrice e poetessa e gestrice del blog Intingendo d’Inchiostro e Massimo Acciai, scrittore, poeta e direttore della Rivista Segreti di Pulcinella.

La giuria voterà i 10 migliori racconti e le 20 migliori poesie che verranno pubblicate in un’opera unica dalle edizioni Lulu con codice ISBN. Ciascun autore pubblicato o non potrà poi comprare, se lo riterrà interessante, il volume in cui compare la propria opera.

Il giudizio della giuria è insindacabile. Coloro che saranno stati scelti e che saranno pubblicati verranno contattati direttamente da un membro dello staff in tempi utili. La lista degli autori scelti e pubblicati nell’antologia verranno inoltre resi noti attraverso i nostri siti e blog. Non verranno fornite spiegazioni circa la valutazione di ciascun pezzo e le motivazioni di eliminazione.

Qualsiasi altra richiesta di informazioni o precisazioni limitatamente all’antologia può essere inoltrato allo stesso indirizzo mail fornito sopra.
Vi chiediamo di far girare il più possibile questo bando di concorso fra i vostri amici e conoscenti.
Buona partecipazione.

LEGGI IL BANDO IN PDF IN ALTA VERSIONE CLICCANDO QUI.

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26 Agosto 2011

LORENZO SPURIO

Coordinatore I Antologia “Esordi Amo”
lorenzo.spurio@alice.it

“Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso” di Marco Nuzzo, intervista a cura di Emanuele Marcuccio

Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso di Marco Nuzzo

Rupe Mutevole Edizioni, 2011, collana “Sopra le righe”

opera e nota di commento a cura di Emanuele Marcuccio, cocuratori: Gioia Lomasti e Marcello Lombardo.

Intervista a cura di Emanuele Marcuccio

Da quanto tempo scrivi, come è nato in te il desiderio di scrivere poesie?

Scrivo da sempre, ho sempre amato esprimere su carta le mie sensazioni, penso di esser stato affascinato dalla lettura e dalla scrittura sin dalla più giovane età, ma non solo; ho amato anche l’arte in ogni sua forma, come la musica, le arti marziali e la pittura, forse anche come metodi per esorcizzare la paura, i demoni o le incomprensioni di un mondo che sapevo esser troppo grande, ho messo in atto una ricerca dedita all’esplorazione dell’anima altrui quale specchio per la propria introspezione. Ho cominciato a scrivere poesie solo da qualche anno, dapprima come mero desiderio di provarmi su qualcosa di nuovo e dunque come scavo verso l’Es, la parte primordiale e più naturale del nostro cervello, quello antico e rettile.

Ci potresti spiegare meglio quest’ultimo punto, in che senso “quello antico e rettile”?

L’argomento è molto lungo, tenterò di sintetizzarlo affinché possa render meglio l’idea. Tra il 1960 e il 1970, la conoscenza del cervello umano fece più progressi che nel corso degli ultimi millenni e ciò grazie agli studi dei neurologi Sperry, MacLean e Laborit. Già precedentemente, verso il 1875, Darwin aveva dissacrato l’uomo con la sua teoria evoluzionistica. Vent’anni dopo nel 1895, S. Freud constatava che la maggior parte dei problemi fisici dell’uomo proveniva da pulsioni primitive inconsce. In seguito tali teorie progredirono poco e si restava nel campo delle ipotesi. Quella di Darwin si affinò nel neo-darwinismo e quella di Freud fu malmenata tra i suoi discepoli, quali Jung, Reich, Adler ecc… Nel 1965 R. Sperry ebbe il coraggio di separare i due emisferi cerebrali di un paziente, sperando di porre fine alla sua epilessia. Tale separazione rivelò, con sorpresa di Sperry, che i due emisferi si comportavano da fratelli nemici, restando d’accordo su alcuni compiti, ma in disaccordo sulla risoluzione di altri. Il sinistro era a favore delle ostilità, e si opponeva al destro, che invece era pacifico. Nel 1968 P.D. MacLean, constatò, attraverso l’uso di nuove invenzioni che permettevano di osservare l’attività cerebrale, che l’uomo non aveva un solo cervello, bensì tre cervelli sovrapposti, ognuno di essi comparso e rimasto nel corso dell’evoluzione, passando da quello rettile, a quello mammifero per arrivare a quello ominide. Lo chiamò cervello triunico. Il neurologo Laborit, nello stesso periodo, fornì una spiegazione di alcuni comportamenti umani, conducendo esperimenti sui ratti, tra i mammiferi più vicini all’uomo dal punto di vista comportamentale. Su tali scoperte, che coincisero con la guerra nel Vietnam (dal 1961 al 1975), negli USA sorsero alcune tecniche di saggezza ancestrale (che ormai vengono capite meglio dal punto di vista scientifico), dando vita alla New Age. Questo movimento, ostile allo sviluppo industriale, aspirante alla libertà individuale e alla non violenza, si estese a tutto l’Occidente. Non tutti divennero hippie e andarono a cantare a Woodstock o all’Isola di Wight, molti si interessarono alla meditazione, alla contemplazione e al bio-feedback (utilizzo di apparecchi per il controllo elettrico per la modifica dello stato di coscienza). Come si poteva prevedere, questo paradiso incontrò l’ostilità della società dei consumi da una parte, mentre dall’altra i giovani caddero nella trappola dell’illusione creata dall’uso di droghe, funghi allucinogeni, hashish, il cui effetto era quello di un accesso più rapido rispetto alle antiche modificazioni dello stato di coscienza (yoga, zen, buddhismo, arti marziali “dolci”). Eccetto casi sporadici, questi cercatori di libertà, abbandonarono il movimento New Age e si reintegrarono nel sistema. Ma esaminiamo con maggior cura il cervello triunico: Cervello rettile o rettiliano: È così chiamato perché fu il primo ad apparire, circa trecento milioni di anni fa. È piccolo ma essenziale perché contiene tutto ciò che è vitale, regolando esso la nutrizione, il sonno, l’istinto, i movimenti, la produzione ormonale, l’istinto di riproduzione, ecc. Quindi se siete fieri del vostro grande cervello pensante-parlante, ricordate che non è questo il più importante, ma quello rettiliano, minuscolo, ma che contiene le ghiandole più vitali, come l’ipofisi, l’epifisi, il talamo e l’ipotalamo. È nel nostro interesse conservarlo in buono stato, con una vita sana, con lo sport. Al contrario il sonno irregolare, l’uso di droghe o alcool e una vita sregolata lo danneggiano irreversibilmente. Il cervello rettile ha una memoria a breve termine, impara poco e solo dopo un lungo periodo di addestramento, ed è una fortuna, perché se si lasciasse influenzare dall’uomo, o da certe fantasie intellettuali, non sopravvivremmo per molto. Cervello mammifero o paleo-mammario: Sotto il cervello rettile nasce il cervello mammifero, circa centosessanta milioni di anni fa. Si sarebbe fatto a meno di questo cervello per vivere, ma esso ha dato modo alla nostra specie di migliorarsi. Questo cervello è incredibilmente emotivo e cocciuto. Si è preso una parte talmente grande della nostra vita che ormai funzioniamo su una base emotiva per ritrovare il piacere provato dai nostri cinque sensi. Siccome è anche il centro dei rituali e dei mammiferi (intimidazione, affronto), l’uomo segue queste leggi senza rendersi conto che si comporta come ogni mammifero sano di mente. Il cervello mammifero è molto duro d’orecchi e finisce per credere a quel che viene ripetuto a lungo con tonalità particolari. Capiamo dunque come le religioni, le sette o la politica usino particolari rituali, come canti, litanie o preghiere per imprimere ciò che si intende radicare nelle menti. Potete dunque capire perché sia difficile modificare il cervello mammifero di una persona con altro credo, o perché, dopo una conversazione in cui ciascuno cerca di convincere l’altro con argomenti intelligenti, senza che nessuno dei due ascolti, alla fine se ne vanno pensando “quello non capisce nulla”, non è così? Forse ora che avete capito come funziona questo cervello, smetterete di parlare per convincere, ricollegandovi alla saggezza di Lao Tse: «L’uomo che sa (di non essere ascoltato) non parla, l’uomo che parla (prova la sua ignoranza poiché…) non sa.»Cervello neo-mammifero: Si sovrappone agli altri due all’incirca cinquanta milioni di anni fa. Non lo possiamo chiamare cervello umano perché anche gli altri mammiferi ne hanno uno anche se più piccolo. Questo nuovo cervello è utile ma crede che comandi lui. Le sue capacità sono stupefacenti, è capace del meglio o del peggio; nell’uomo dominato dall’ego, la proporzione del peggio è del 75-80%, contro il 10% del meglio. Ma da dove vengono i lampi di genio? Da dove viene l’introspezione, l’immaginazione fervida, il sapersi guardare nel profondo? Gli psicologi pensano che quest’ultimo cervello non valga molto, in quanto i lampi di genio arrivano quando è a riposo, ad esempio durante la meditazione o la siesta. Ecco dunque spiegato il segreto. Nel cervello antico o rettiliano risiede l’epifisi, la ghiandola pineale, il terzo occhio che già molte culture dell’antichità rappresentavano iconograficamente sia in forma di pigna (vedi lo scettro papale o quello di Osiride, il Bacco dei romani, il dio Tamus), che sotto forma di occhio (Buddha, Shiva, l’occhio di Horus). Le culture del passato associavano quella che noi oggi chiamiamo epifisi ad un organo preposto alla maggior chiarezza mentale ed alla visione interiore. Per Cartesio la ghiandola pineale è il punto privilegiato dove mente (res cogitans) e corpo (res extensa) interagiscono.

Grazie per questo excursus molto interessante che, penso sortirà anche l’interesse dei lettori e che ora mi fa comprendere il perché spesso preferisci essere criptico, emetico nei tuoi scritti… ma continuiamo con l’intervista. Cos’è per te la poesia, cosa non deve mai mancare in una poesia in generale e nella tua in particolare?

Poetare vuol dire utilizzare la semantica per trasmettere un messaggio. La poesia differisce molto dal racconto che, invece, utilizza una moltitudine di parole per esprimere un concetto. In una poesia, credo, non debba mai mancare la capacità di trasmettere emozioni, prescindendo da significato e significante stessi, elementi che passano dunque in secondo piano per far posto alla musicalità. Per questo, nel mio poetare non deve mai mancare questo elemento che io ritengo essenziale. Esasperare un concetto, sia esso tragico, comico o fantastico affinché il cervello elabori sensazioni, secerna adrenalina che sia tremore latente, un possente gremire di sentimenti tangibili, che siano trascinamento dall’alto all’abisso.

E cosa non deve mai mancare nello scritto di uno scrittore?

La fantasia e lo spirito di osservazione. Vedo troppi sedicenti “scrittori” o “poeti” che mancano di idee, come se l’arte stessa in senso lato fosse morta, spersa nel circolo vizioso delle solite tautologie, in un trittico “sole – cuore – amore”. Si ha davvero bisogno di esser definiti scrittori o poeti o artisti o giornalisti per poter scrivere?  Altro non sono che dei titoli, presi troppo spesso per dare importanza ad una figura oggi divenuta di moda, null’altro. L’archetipo dello scrittore è quello del saggio, di colui che sa, che è spinto alla ricerca, che scrive menzogne per esprimere delle verità. Se tale stereotipo poteva andar bene per i tempi andati, ora scrivere è diventata una moda. Tutti scrivono, tutti pubblicano, pochi leggono. Io penso che chiunque possa scrivere dei buoni testi se utilizza l’inventiva, se si auto-insegna a guardarsi intorno.

Dal punto di vista strettamente stilistico com’è il tuo poetare, utilizzi la metrica o solo la rima, o nessuna dei due e perché?

Ogni anima ha un proprio percorso, così deve essere anche per la poesia. La base di partenza, comunque, deve essere il comune studio della metrica, di modo che si possa partire dalla forma per ricercare una libertà di stile proprio. È come per la musica o le arti marziali. Si parte dalla forma, dallo stile, verso la ricerca di un proprio stile che si addica alla propria persona, al carattere, al tutto. Solitamente, nelle mie poesie, non utilizzo la metrica o le rime ma seguo a briglia sciolta un mio “stile privo di stile”, avendo però ben presenti le regole prime che devono comporre un testo poetico. Seguire forzatamente metrica e rime per me vuol dire limitare la libertà della scrittura.

Quanto tempo impieghi per scrivere una poesia?

Molto dipende dal momento. Ci sono momenti in cui scrivere è semplice come lo scorrere di un fiume in piena, altri momenti in cui si abbisogna di tempo, forse ore o giorni; allora mi siedo sulla riva e attendo.

Perché, secondo te, la poesia ha minor pubblico rispetto alla narrativa, tanto da esser considerata di nicchia?
Senza tanti fronzoli, credo che la poesia non riscuota molto interesse se non in certi ambienti culturali e scolastici quale oggetto di studio. Un romanzo è letto da tutti, giovani e meno giovani, la poesia è vista spesso come sintomo di debolezza per chi la legge e per chi la scrive. Poi bisogna considerare il contenuto. Un romanzo lo si legge con più interesse, genera apprensione sino alle ultime pagine, viene pubblicizzato in modo differente dalle case editrici e dalle edicole. Molto spesso le case editrici pubblicano gratuitamente il genere narrativo e a pagamento i libri di poesia, proprio perché sanno che con un romanzo rientreranno dalle spese di pubblicazione, con la poesia se ti va bene rientri tu dalle spese della pubblicazione.

Preferisci scrivere a penna o al PC?

Al PC, per l’unico motivo che, quando sono davanti al PC sono tranquillo e rilassato, il momento migliore per scrivere. Porto però sempre al seguito un foglio e una penna per prendere appunti quando arriva l’ispirazione.

Quali esperienze sono state per te più significative per la tua attività di autore?

Sicuramente l’incontro con Gioia Lomasti, Marcello Lombardo, Matteo Montieri, Emanuele Marcuccio (lo stesso che mi sta adesso intervistando) e la collaborazione per la casa editrice Rupe Mutevole. Ho trovato persone fantastiche con le quali ho avuto il piacere e l’onore di collaborare, gente che ama il lavoro che fa e che dedica anima e cuore per tutto questo. Altra esperienza significativa l’ho avuta collaborando con la poetessa Noris Roberts, Ambasciatrice Universale di Pace in Venezuela e ancora con il Dinanimismo di Zairo Ferrante e Roberta Murroni. Significativi sono stati anche i concorsi nazionali di poesia “Wilde” e “Mario Luzi”, sulle quali antologie sono presente. Detto ciò, la parte più significativa consiste nell’aver scoperto un lato di me che non avevo considerato.

Ti ringrazio, sei troppo gentile, sono stato ben felice di presentarti alla casa editrice per la pubblicazione di Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso, grazie anche a nome dei colleghi assenti ma che leggeranno. Sarà perché prima di essere curatori, siamo soprattutto autori. Come nasce in te l’ispirazione, come organizzi il tuo scrivere, ci sono delle fasi?

Non ho un metodo preciso e sicuro per lasciarmi ispirare… tutto ciò che faccio è rilassarmi e far scorrere i pensieri, divenendo quanto meno cerebrale io possa; il resto consta nella fase di raccoglimento dei pensieri, farne un amalgama e infine trasporli su carta o schermo. Il tutto, come dicevo precedentemente, deve essere condito dall’estremizzazione del dire, dagli ossimori e quanto più mente m’enunci.

Quali libri hai pubblicato oltre a Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso?

Ho pubblicato un libro edito da Aletti Editore dal titolo Ultime Frontiere, uscito quasi in contemporanea nel 2011 con il mio libro edito da Rupe Mutevole, appunto, Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso.

Perché proprio questo titolo Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso?

Siamo un viaggio, un continuo mutare pensieri e sensazioni e spesso siamo soliti guardarci per come ci siamo lasciati indietro la pesantezza dei nostri inverni, spesso incompresi ai più. Avviene di conseguenza che questo nostro atteggiamento segue una via non più naturale e sincera, ma un atteggiarsi aberrante, composto, per come gli altri ci desiderano. Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso parte da qui, parte dallo spogliarsi dell’inverno al quale siamo stati diseducati e camminare sulle proprie sensazioni, sulle proprie canzoni, sul proprio, naturale stile, senza dover per forza accondiscendere al forzato piacere altrui.

La poesia di Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso che ti è più cara o che ritieni più significativa?

È certamente “Apnea n.2”, una simulazione del proprio immergersi dentro, del guardare oltre all’abissale sconforto, è un lasciarsi andare per ritrovarsi perdendosi.

Apnea N°2

Estensione,

placida infusione

in sensi

d’oltreoceano colato,

giochi di luce

trafiggono onde

navigatrici

d’eterno…

– introspezione –

è riconoscermi acqua

nel tacito richiamo

d’assenze passate;

stilla nella nebbia

traccio l’ultima eco,

allontanando

i cerchi nel mare,

confusi

nell’oro del sole

che cauto

spegne l’orizzonte

sul freddo ponente.

E perché non la poesia da cui hai attinto il titolo della raccolta?

Sebbene mi piaccia molto anche quella, credo che in questa poesia si dia una maggiore enfasi alla meditazione che è intenzione del mio dire.

Cosa ti ha spinto la prima volta a voler pubblicare il tuo primo libro?

Sarò sincero. La curiosità e la voglia di veder pubblicato un mio lavoro; penso sia stato questo il motivo principale.

Quali sono i tuoi poeti preferiti, ce n’è uno in particolare?

Su tutti Montale col quale condivido l’ermetismo e poi Dante, W.B Yeats, E.Allan Poe che tutti conoscono come scrittore horror ma non come poeta, Coleridge, Baudelaire, Penna; ma anche Hikmet, la poetessa Claudia Ruggeri, Ungaretti.

E qual è la tua poesia preferita?

Due tra tutte:

Egli desidera il tessuto del cielo

(di W.B Yeats)

Se avessi il drappo ricamato del cielo,

Intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,

i drappi dai colori chiari e scuri del giorno e della notte

dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,

stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:

invece, essendo povero, ho soltanto sogni e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;

cammina leggera perché cammini sopra i miei sogni.

Lamento della sposa barocca

(di Claudia Ruggeri)

T’avrei lavato i piedi

oppure mi sarei fatta altissima

come i soffitti scavalcati di cieli

come voce in voce si sconquassa

tornando folle ed organando a schiere

come si leva assalto e candore demente

alla colonna che porta la corolla e la maledizione

di Gabriele, che porta un canto ed un profilo

che cade, se scattano vele in mille luoghi

– sentite ruvide come cadono -; anche solo

un Luglio, un insetto che infesta la sala,

solo un assetto, un raduno di teste

e di cosce (la manovra, si sa, della balera),

e la sorte di sapere che creatura va a mollare che nuca che capelli

va a impigliare, la sorte di ricevere;

amore

ti avrei dato la sorte di sorreggere,

perché alla scadenza delle venti

due danze avrei adorato trenta

tre fuochi,

perché esiste una Veste

di Pace se su questi soffitti si segna

il decoro invidiato:

poi che mossa un’impronta si smodi

ad otto tentacoli poi che ne escano le torture.

Hai detto che Montale è il tuo poeta preferito ma, perché non compare tra le tue poesie preferite?

Sebbene sia molto legato alla poesia di Montale quale poeta ermetico, effettivamente la forza che viene trasmessa da alcune poesie di altri poeti supera, a mio modesto parere lo stile che si sente proprio. È il caso di questi due poeti, Yeats e Ruggeri. Con Yeats pare di essere in una marea di forza contrapposta, la poesia in sé è in chiave semplicistica, ma la chiusa sconvolge, travia. Con la poesia di Claudia Ruggeri avverto molta affinità sul piano emozionale, stilistico e di significato intrinseco della parola: “Poesia”.

Perché hai scelto Claudia Ruggeri, una poetessa poco conosciuta, le cui poesie sono state pubblicate solo postume?

La prima volta che mi è capitato di leggere una poesia di Claudia Ruggeri sono rimasto senza parole. È proprio ciò che una poesia deve fare. Il suo ruolo è sbattere il tuo cervello come uragani che tracimano gli oceani, oppure deve poterti far naufragare in una dolce musica. Un poeta può essere poco conosciuto, può non diventare mai famoso o diventarlo solo dopo la propria morte, ma se riesce a trasportarti in quel mondo onirico, nel suo linguaggio barocco, se riesce ad evocare ciò che hai dentro, allora diventa il Poeta con la “P” maiuscola. Sta di fatto che mi sarebbe piaciuto conoscere Claudia di persona, purtroppo scomparsa prematuramente nel suo “folle volo”.

Quali sono i tuoi libri preferiti, c’è un libro del cuore?

Amo molto la letteratura horror e di fantascienza, ma leggo anche saggi e ogni cosa che possa suscitare il mio interesse. Il libro che preferisco è “Io sono leggenda” di Richard Matheson.

Ecco, perché la scelta del genere horror?

Molti amano questo genere, scelta rispettabilissima, ma che non mi ha mai attratto, c’è forse qualche motivo in particolare per cui si sceglie di leggere un horror, piuttosto ché un classico, un romanzo storico, un thriller o un libro di poesie?

Penso sia una questione di interessi e di sensazioni che riescono ad evocare una qualche sorta di sinestesia. In effetti, è un mio parere che la scelta del genere horror possa esser ricollegata ad un modo di percepire la realtà. Molti vanno alla ricerca di sensazioni forti, legate alla paura, forse il sentimento più ancestrale dell’uomo o pure la non accettazione di un mondo sin troppo realistico per uno onirico e fantastico. La paura ha sempre fatto parte del nostro essere e, essendo noi uomini, possiamo dire solo “grazie” ad essa se ora siamo qui. L’uomo, la storia lo insegna, ha dovuto difendersi dagli animali, dalle catastrofi e dai propri simili. L’ingegno dell’uomo nasce dalla paura e dallo sviluppo dei pollici opponibili che gli hanno permesso di costruire ripari, fortificazioni, città.

Il termine “Monstrum” inizialmente stava ad indicare un evento fantastico, meraviglioso e divino, atto ad ammonire (dal latino monere), avvisare (l’uomo). Penso si possa definire un sistema premi-punizioni adottato nell’antichità per incutere paura, ma a fin di bene. Con lo sviluppo della letteratura, il termine ha assunto significati sempre maggiormente legati alle paure dell’abisso, di ciò che non si conosce ma che è insito nell’inconscio, quello stesso inconscio di cui parlavo prima, circa la ghiandola pineale, quell’inconscio che ha fatto nascere gli universi di Lovecraft il quale, trascrivendo i propri sogni, dava vita al “ciclo di Cthulhu”.

 Infatti, una tua poesia del tuo Non ti piacerei… ha proprio questo titolo “Cthulhu”.

E citando un passo della recensione di L. M. Cortese al tuo libro “Sorprende, in mezzo a questi paesaggi interiori, la poesia “Cthulhu”, pervasa dell’atmosfera paurosa e decadente del ciclo di miti creato da H.P. Lovecraft (che obbedì, a sua volta, a chissà quali fantasie trasfiguranti).”.

Cthulhu

(di Marco Nuzzo)

Forgia di universi

e placide attese

nei mari più oscuri

e tra le rive di sabbia,

smascherate

da eoni inconsapevoli

di strati di fondo;

tremano,

tra le piaghe socchiuse

le umane miserie,

strappando dal cielo

oceani di sogni,

soffiati in superficie,

velati

da tangibile inconsistenza

che offusca la vista…

nebbia

su acque di porti

socchiusi

da fragili corazze,

il destino si compie

contando al contrario,

resta sveglio,

stanotte

e contempla la fine.

Esattamente. È una poesia che a primo acchito può sembrare fuori luogo, ma a tutto c’è un perché. A parte l’omaggio ad uno dei miei scrittori preferiti, la poesia vuole essere innanzitutto un modo per far comprendere ciò che il sogno e la meditazione siano in grado di partorire.

C’è un genere di libri che non leggeresti mai?

Romanzi rosa

Sì, mi trovo d’accordo con te. Nella tua vita ti è mai capitato qualcosa che ha rischiato di allontanarti dalla poesia, o che ti ha allontanato per un periodo dalla poesia o dalla scrittura in genere?

Capitano periodi in cui si avverte la necessità di allontanarsi dalla scrittura, ma solitamente questo accade solo per le occasioni in cui si avverta di dover riorganizzare le proprie idee. Non penso esista una vera e propria “crisi dello scrittore”, ci sono soltanto momenti in cui si avverte il bisogno di respirare nuove sensazioni per poter ripartire, il bisogno di osservare nuovamente e in silenzio, in completa apatia, mettendo in funzione le onde Alfa del cervello, per meditare. Confucio diceva: «Non importa quanto vai piano, l’importante è che non ti fermi.».

Ami la tua terra, la tua regione o vorresti vivere altrove?
Amo moltissimo la mia terra, amo gli usi e i suoi costumi. La Puglia è una terra aspra e dolce alla stessa stregua, ma ci sono moltissime cose che potrebbero migliorare.

Tra poesia e prosa, cosa scegli e perché?

Non riesco a fare una scelta ponderata. A volte preferisco la poesia, altre la prosa, sono due generi troppo differenti. Amo scrivere in poesia, ma vorrei scrivere anche in prosa, stessa cosa per la lettura, anche se la prosa, come un po’ tutti, attira maggiormente anche me.

Hai un sogno nel cassetto?

Tanti, ma al momento mi ritengo abbastanza soddisfatto.

Come ti sei trovato con Rupe Mutevole Edizioni, perché l’hai scelta, la consiglieresti?

Con Rupe Mutevole mi sono trovato abbastanza bene, hanno mantenuto le promesse riguardo alla pubblicazione, sempre gentili e onesti. L’ho scelta in quanto mi è stato possibile vedere in anteprima il modo di lavorare che ha pienamente soddisfatto ciò che mi ero prefissato di raggiungere.

Cosa pensi dell’attuale panorama editoriale italiano?

Oramai, più che editori, la maggior parte sono stampatori, mi spiace dirlo, ma molti di questi signori non lavorano come dovrebbero, spesso promettono la promozione su canali internet, biblioteche e librerie, ti firmano un contratto col quale si pappano i tuoi soldi e del tuo libro non trovi più traccia, se non in qualche canale disperso di internet.

Cosa pensi dell’attuale panorama culturale italiano?

La mente è come un paracadute, funziona solo se si apre. Partendo da questo concetto si evince come l’attuale panorama culturale nel nostro Paese sia effettivamente in declino. Si legge poco, i libri sono stati sostituiti dalla TV che, a guardare il palinsesto, non ha molto da offrire a parte i soliti, urticanti programmi che promuovono il culto del fisico. Questo è l’ideale col quale vengono tartassati i nostri giovani la cui mente è ancora malleabile e suscettibile e che divengono adepti di vestiti firmati, di calciatori e veline, figli di un troppo benessere che non accetta compromessi. Non voglio generalizzare, c’è sempre colui che si distingue, ma di questo passo saranno sempre meno.

Recentemente ho letto un articolo di Cesare Segre sul “Corriere della Sera”, riguardo all’irresistibile declino della critica letteraria agli autori contemporanei, con la conseguente perdita di prestigio della letteratura. E cosa pensi dei premi letterari, pensi siano importanti e necessari per un autore?

I premi letterari sono fini a sé stessi. Non penso siano necessari per un autore, tuttavia fanno volume ed enfiano di certo la stima da parte dei più. Però un premio non è sinonimo di grandezza per uno scrittore. Chi scrive lo fa per se stesso e non per vincere dei premi. Riguardo alla perdita di interesse della letteratura, mi trovo altamente d’accordo con Segre, la critica letteraria, come di conseguenza la letteratura, soffrono una profonda crisi e perdita di interesse presso la popolazione.

Davvero chi scrive lo fa per se stesso? E allora perché decide di pubblicare, non hai detto che, in una poesia non deve mai mancare la capacità di trasmettere emozioni?

Chi scrive lo fa principalmente per se stesso, la decisione di pubblicare i propri lavori può esser dettata da vari fattori. Molti sognano di diventare famosi con la scrittura, altri pubblicano per avere il proprio libro nella loro biblioteca personale o altri motivi ma, se non c’è passione, se manca quell’attitudine a scrivere per se stessi, corroborando l’anima e il proprio sentire, allora lo sforzo risulterà vano. Scrivere è un lavoro di concetto, significa buttare su un foglio tutto lo sfogo internato nell’anima. Se dovessimo scrivere solo ed esclusivamente per diventare famosi, allora penso sia meglio orientarsi sulla palestra, scolpendosi un fisico “da urlo” e andare ad urlare in uno di quei programmi vespertini per teenager, non faccio nomi, ove saremmo indubbiamente tutti ricchi e famosi.

Certamente, se alla base manca quella passione per la scrittura, tutto risulta vano e, citando un mio aforisma “Il poeta sogna, si emoziona, si meraviglia; in caso contrario, tutto sarebbe puro artificio, sterile e fredda creazione, come voler scrivere su di un foglio di vetro.”. Il critico letterario Matteo Leombruno, a proposito della tua poesia ha scritto: «La poesia di Marco Nuzzo è una poesia trincerata in se stessa, chiusa all’esterno e abitata da un “io” segreto e nascosto.»Concordi su questo giudizio e, in che misura?

Assolutamente. È ciò che mi pongo quando scrivo. L’ermetismo è parte del mio scrivere e voglio che sia così. Per questo paragono la mia poesia a quella di Montale, senza pretesa d’essere alla stregua del mio mentore. Il mio non è solo un modo di mascherare parole fini a se stesse, ma vuol essere innanzitutto un modo per svegliare dal torpore i dormienti, esagitarne la mente al fine di farne fluire l’assenzio che può corroborare il loro spirito.

Come ho scritto sulla nota di commento a pag. 7 di Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso, le quattro liriche in progressione intitolate “Apnea” sono davvero significative. Ce ne vuoi parlare?

Le “Apnee” sono una sorta di racconto e divise in parti, racconto fatto di sensazioni durante le immersioni nei sensi, che, come placide acque permettono la discesa nei più intimi segreti, sino a ritrovare quell’Oniria, quell’Atlantide che è significante del proprio Es che emerge, scaturita dal rivangare nella conoscenza e nei sogni. È necessario lasciarsi andare, lo dicevo prima, è necessario perdersi per ritrovarsi. Ogni giorno si nasce, ogni giorno si muore, ma lo si può fare vedendo sprecati i propri desideri o ardendo i fuochi della propria essenza.

Quanto è importante per te il confronto con altri autori?

È essenziale. Siamo specchi e il confronto diviene mezzo per guardarsi dentro. Noi esploriamo l’essenza degli altri, la viviamo, ci immedesimiamo in essi, mimandone la luce. Solo agendo in questo modo possiamo dire di trovare noi stessi.

Ci sono dei consigli che vorresti dare a chi si accosta per la prima volta alla scrittura di poesie o alla scrittura in genere?

Leggete, leggete e ancora leggete. Poi dimenticate tutto, uscite fuori a divertirvi, ma osservate. Osservate il comportamento degli esseri umani, osservate gli animali e il movimento dei pini marittimi, guardate la scia delle formiche. Adesso avete il mondo nell’inchiostro della vostra penna, dovete solo scriverlo.

Concordo, la poesia è “rappresentazione”, nel senso di interpretazione soggettiva della realtà e, quindi, nel senso di sua ri-creazione e trasfigurazione. Picasso, a proposito della pittura ha scritto: «La pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto.». E un poeta non è mai mero cronista di ciò che attentamente osserva, non è mai impersonale messaggero, bensì è interprete soggettivo, che ri-crea, trasforma, trasfigura sogni, storie, emozioni, in sintesi, un poeta scrive ciò che sente. Vuoi anticiparci qualcosa su una tua prossima pubblicazione o, su quello che stai scrivendo?

Vorrei dedicarmi alla scrittura di un horror, ho già cominciato, in effetti. L’idea è buona e penso sarà un qualcosa di mai tentato. Il tempo ci dirà il resto.

Grazie tante per la tua disponibilità e tanti auguri per la tua attività di scrittore!

Grazie infinite a te, Emanuele, è stato un piacere!

A cura di Emanuele Marcuccio


TESTO PUBBLICATO PER GENTILE CONCESSIONE DELL’INTERVISTATORE, EMANUELE MARCUCCIO.

Antologia di Racconti 100×100, Montecovello Editore

L’idea è quella di raccogliere in un’ unica antologia 100 autori con diversi generi letterari: dal fantasy ai racconti d’ amore, dal racconto di viaggio al racconto d’amicizia, dal teatro ai saggi e via dicendo.

Il vero lettore, non è colui che predilige un solo genere ma è colui che ama  la lettura in quanto tale, quindi, tutti i generi. L’obiettivo dell’antologia è proprio  questo: far leggere al lettore anche quello che gli piace di meno.

E’ una bella sfida, ma sono certa che con il vostro contributo, riusciremo a realizzarla. Per aderire, vi basterà leggere le informazioni di seguito riportate, in alternativa, potete inviare una e-mail all’indirizzo: annaritamurano@yahoo.it

Titolo del libro: 100×100

Sottotitolo: 100 opere di 100 autori

Edizione cartacea: A5

Edizione digitale: A4

Scadenza: 30 Novembre 2011

Pubblicazione: entro il 12 Dicembre 2011

Commercializzazione: sui siti online e in tutte le librerie di Italia oltre che alle varie presentazioni che Montecovello organizzerà

Contenuto: RACCONTI DI QUALSIASI GENERE O SAGGI.

Ogni opera dovrà essere minimo di 5 pagine in formato A5 massimo 10 pagine ( margini 1,5, interlinea 1, carattere 10),

All’autore non è richiesto nessun contributo di partecipazione. In caso di selezione dell’opera, l’autore della stessa è tenuto solo all’acquisto di 3 copie( ogni copia al prezzo di 12 euro).

Oltre alla pubblicazione del racconto nella nostra antologia, saranno premiati i 3 racconti o saggi.

Per l’invio dei racconti: annaritamurano@yahoo.it

Ricordate di inserire i vostri contatti.

Vi aspettiamo numerosi.

Anna Rita Murano

per la MonteCovello Editore

Dalla vetrata incantata, di Sandra Carresi

Dalla vetrata incantata di Sandra Carresi

Lulu Edizioni, 2011, pp. 56

ISBN: 9781447794141

Prefazione all’opera, a cura di LORENZO SPURIO

Dalla vetrata incantataLa liriche proposte da Sandra Carresi in Dalla vetrata incantata, sua seconda silloge di poesie, trasmettono una poesia fresca, diretta, che non ama fronzoli formali né la retorica, preferendo focalizzarsi sulla semplicità dei temi. Semplicità che non è mai sinonimo di banalità ma, al contrario, di qualcosa di bello perché puro ed innocuo. La raccolta si caratterizza per affrontare immagini e tematiche diverse fra loro che però, contrariamente a quanto verrebbe da pensare, non forniscono una visione disomogenea della silloge. La Carresi infatti, con la sua scrittura espressionistica, traccia pennellate di colore che il lettore ammira ed interpreta dalla sua prospettiva, riuscendo a coniugarle in un universo unico.

Curiosa e quanto mai verosimile l’immagine della donna che la Carresi tratteggia in “Donna” descrivendo appunto il genere femminile secondo una dimensione diacronica, nel tempo. La donna di ieri: messa a tacere, violata, dominata e quella di oggi, «dai tacchi alti», emancipata, progredita e compiuta. Ma il messaggio che la Carresi manda è doppio: nel passato troppe violenze si sono consumate nei confronti della donna ma anche nel presente si conservano forme d’imposizione, di diseguaglianza. Rispettare la donna, sembra suggerire la Carresi, è il modo più semplice per riconoscerci uomini, ossia esseri dotati di raziocinio. Ma l’universo femminile è onnipresente nella raccolta di poesie e lo ritroviamo nelle varie immagini della luna (la dea Artemide nella mitologia greca era associata alla luna e ad essa venivano offerti una serie di cerimoniali e complessi festivi; il ciclo mestruale è un ciclo lunare, la donna è dunque particolarmente legata alla luna), alla Terra concepita come Grande Madre, come Dea suprema e l’elogio alla primavera, stagione della rinascita, della fertilità e dell’avvio del ciclo vitale. Un affascinante omaggio a piazza Duomo di Firenze in un momento di festa è offerto in  “In piazza fra curiosità ed allegria”.

In questo piacevole viaggio che la Carresi ci fa fare ci sono anche ampi riferimenti al tema del tempo che passa, come il lento passare delle stagioni, e la suggestiva immagine di una persona che guarda il tempo ma ha perduto l’orologio (in “L’orologio”); importanti sono anche i temi della memoria e la rievocazione dei ricordi, che si configurano come una riappropriazione lucida dei tempi passati del nostro essere che solo nella nostra mente e nei nostri sogni prendono di nuovo forma nel “qui e ora”.

Non da ultimo, la Carresi si mostra un’attenta osservatrice del mondo che ci circonda e riesce a trasfondere con la sua maestria lirica alcune delle problematiche sociali che ci riguardano da vicini: il futuro del pianeta, l’immigrazione, la precaria identità dell’Europa e gli italiani che sono troppo diversi tra loro ancora, dopo centocinquanta anni d’unità d’Italia.

IL LIBRO PUO’ ESSERE ACQUISTATO SU LULU.COM SIA IN FORMATO CARTACEO, AL PREZZO DI 10 EURO, CLICCANDO QUI O IN MODALITA’ E-BOOK AL PREZZO DI 8 EURO CLICCANDO QUI E NELLE PROSSIME SETTIMANE SU TUTTE LE ALTRE LIBRERIE ONLINE.

Lorenzo Spurio

21 Luglio 2011


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Le Perseidi, Odi e Poesie, intervista ad Andrea Gigante

INTERVISTA AD ANDREA GIGANTE

Le Perseidi, Odi e Poesie varie 

Arduino Sacco Editore, Roma, 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Com’è  nata l’idea di scrivere questo libro? Qual è stata la genesi?

AG: A un certo punto ho voluto scrivere qualcosa di simile a ciò che leggevo, così ho concepito dei componimenti di vario tipo che poi sarebbero confluiti nella seconda parte del libro, che va sotto il titolo di Poesie varie. Ho notato che l’esperimento era interessante e che era ancora possibile sfruttare quel grande serbatoio di motivi, temi, parole e forme che è la poesia del passato, per cercare possibilmente nuovi esiti. In un secondo momento è nata anche l’idea di scrivere delle ‘odi’ (che avrebbero costituito la prima parte del libro), in cui è ancora molto forte la componente letteraria, ma che ho inteso come uno spazio più mio, più personale. Così molte poesie della prima e della seconda parte sono state scritte da un certo momento in poi più o meno contemporaneamente, ma gli ultimi mesi di scrittura sono stati interamente assorbiti dalle Odi. In un certo senso, in questa successione cronologica che ti ho appena prospettato, è ravvisabile un movimento dal “poetico” al “prosaico”, pur limitato, dal momento che il libro ha in ogni sua parte una forte presenza del lessico letterario. Quanto al titolo, esso mi è “apparso” – per così dire – più o meno a metà della redazione, e seguendo quest’idea ho scritto l’altra metà del libro: mi piaceva la metafora delle poesie come delle meteore, come delle folgorazioni che a tratti illuminino il cielo del pensiero.

LS: Hai diviso le tue liriche in due sezioni: le Odi e le Poesie varie. Puoi spiegare qual è la differenza secondo la tradizione letteraria e la differenza che esiste secondo te? Perché questa divisione? Quelle che tu consideri ‘odi’ non avrebbero potuto trovarsi sotto la parte delle ‘poesie’ o viceversa?

AG: Beh, la divisione è semplicemente tra un genere poetico in particolare, quello delle odi, da me intese come componimenti di carattere “alto”, e altri generi, che hanno formato la seconda parte, quella appunto delle Poesie varie. Quanto ai contenuti, alcune di queste ultime avrebbero certo potuto essere inserite nella prima parte, ma dal punto di vista formale e stilistico no: nelle varie parti ho ricercato infatti anche una certa omogeneità formale.

LS: Come fai riferimento anche nella prefazione della tua silloge di poesie, hai fatto un attentissimo studio ed analisi metrico e stilistico. Hai utilizzato per lo più versi alessandrini ma anche l’endecasillabo, considerato il metro più alto per la poesia. Come mai questa attenzione alla sonorità, al metro, alla cadenza? E’ stato difficile tener conto di questo aspetto?

AG: La poesia che mi ha appassionato di più è sempre stata quella in metrica e in rima. È come se l’emozione ne risultasse arricchita, o facilitata. L’aggiunta di uno strumento a un’orchestra non può che rappresentare una ricchezza per quell’orchestra e per la musica che questa eseguirà, se vi si accorda bene. D’altra parte la musicalità consente un’indubitabile facilità di memorizzazione, che non è certo da trascurare.  Non dico affatto che non concepisco poesia senza metrica e rima, ma far vibrare le corde dell’emozione senza la musica è a mio avviso più difficile, è una sfida che pochi sono riusciti a vincere. I capolavori non mancano da quel versante, ma temo che sia difficile eguagliare o superare quanto fatto da Rimbaud nelle Illuminazioni, per esempio. Ma in fin dei conti questo è il discrimine tra arte brutta e arte bella: che quest’ultima è solitamente il risultato di un notevole sforzo o il frutto dell’esperienza scaltrita dell’artista. Questo mi riporta alla mente una massima di Giuseppe Baretti: «Io non posso non pensare un po’ all’inglese, e non disprezzar que’ letterati che non fanno degli sforzi d’intelletto quando scrivono». Il panorama editoriale risulterebbe molto meno confusionario e degradato se venissero pubblicate solo opere che mostrino palesemente di essere frutto di un impegnativo lavorio da parte dei loro autori. Invece oggi, siccome vanno per la maggiore gli editori a pagamento, si pubblica un po’ di tutto, purché si paghi. Per fortuna, io ho trovato nella Arduino Sacco Editore una casa editrice che non approfitta delle velleità letterarie di innumerevoli autori per chiedere loro un finanziamento.

LS: Nonostante alcuni temi contemporanei che affronti nelle tue liriche come ad esempio le odi celebrative per l’unità o la liberazione d’Italia, la raccolta si caratterizza per proporre una poesia classica, tradizionalista. Come mai questa decisione? Perché ti piace utilizzare parole desuete, strutture criptate?

AG: Sono attento a questi aspetti formali propri della tradizione perché oggi quasi nessuno lo fa più. La poesia si è omologata. È proprio questo che mi ha spinto a scegliere la metrica e la rima per “ingabbiare”, o per meglio dire “modellare” i miei sentimenti e i miei pensieri. Credo che se tutti oggi avessero scritto così, io avrei scelto il verso libero. Per me l’aspetto formale in poesia è essenziale, e non avrei mai accettato che la forma delle mie poesie (che, come è noto, è in rapporto diretto con il loro contenuto) potesse essere scambiata con quella di chiunque altro. In questo senso, i miei versi rappresentano tanto un recupero della tradizione quanto un’affermazione della mia identità, della mia individualità. Il recupero di parole desuete, poi, è stato quasi sempre fatto dai poeti, immagino perché questi ultimi hanno sempre amato in particolare, oltre che l’elevazione del proprio linguaggio (soprattutto per temi elevati), ciò che è misterioso e ciò che spinge allo sforzo e alla ricerca di significati. Lo stesso discorso vale per quelle che tu chiami “strutture criptate”. Non è comunque da trascurare l’aspetto ludico e sperimentale della cosa: usare strutture e parole particolari può essere divertente e permette di evitare la banalità del non avere regole da seguire. A tal proposito, la lezione degli scrittori dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle) è stata per me fondamentale.

LS: C’è una poesia intitolata “Ai Lumi” e che fa riferimento all’Illuminismo. Inoltre hai utilizzato varie citazioni di autori illuministi quali Voltaire o Kant. Quanto secondo te è importante questo movimento artistico-letterario? Perché?

AG: Trovo che la filosofia illuminista sia una corrente di pensiero ancora di attualità. Basti pensare alla sorprendente modernità di un autore come Voltaire, per l’appunto. Questo movimento è importante per noi oggi soprattutto per il portato rivoluzionario delle sue tesi. Vero è che molti dei nostri valori per noi oggi indiscutibili hanno in quel movimento la propria matrice, come le idee di progresso e di libertà e tutela degli individui, ma è vero anche che alcuni dati acquisiti, come la tolleranza, la laicità dello Stato e l’eliminazione di ogni genere di casta al potere, non sono presenti che come affermazioni teoriche: in pratica si disprezza il diverso, si lascia che il Vaticano continui bellamente a fare ingerenza nella cosa pubblica e ci si lascia governare da chi pensa prima ai propri interessi, e poi a quelli del paese. L’Italia non ha avuto una vera e propria rivoluzione nella propria storia. Ora, se si applicassero fino in fondo, pur mondati da ciò che risulta inaccettabile per noi moderni, i princìpi illuministi all’odierna realtà italiana, come ha detto Scalfari (che non a caso ho citato in epigrafe e parafrasato nell’ode), si avrebbe anche qui una rivoluzione. Senza ideologie: le ideologie accecano, le idee illuminano.

LS: Quali sono i tuoi autori preferiti, sia italiani che stranieri? Ami molto i classici? Se sì quali?

AG: Mi nutro di letture molto diverse tra loro. Leggere è come respirare, per me, è un’inspirazione, mentre scrivere è spesso un’espirazione. Se dovessi indicare degli autori che hanno ispirato la mia poesia, direi per esempio: tra gli antichi, Omero, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio, tra gli stranieri, Voltaire, Shelley, Keats, Hugo, Baudelaire, Rimbaud, e, tra gli italiani, Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, d’Annunzio. Due poeti italiani contemporanei che ammiro molto sono Patrizia Valduga e Valerio Magrelli.

LS: Perché presenti in questa silloge temi tanto vasti e diversi tra loro: storia, guerra, amore, solitudine, letteratura etc? In che maniera è possibile coniugare liriche tanto diverse sotto un’unica opera? Qual è il filo rosso che lega odi celebrative, poesie filosofiche, poesie impegnate e liriche d’amore?

AG: Per parafrasare una frase di Victor Hugo, contenuta nella prefazione alla raccolta poetica de Le Orientali, tutto ha diritto di cittadinanza nella poesia, perciò non vedo perché avrei dovuto restringere il suo campo d’azione. Trattando temi anche molto diversi tra loro ho voluto anche evitare il pericolo della monotonia. Detto questo, le liriche presenti nella raccolta sono collegate tra loro, oltre che dalla forma e dallo stile, da un medesimo sguardo sul mondo, che da una parte può essere descritto dal motto di Voltaire «Moi, j’écris pour agir» (Io, scrivo per agire), e dall’altra dal paragone tra pittura e poesia, sempre gravido di conseguenze.

LS: Quanto di autobiografico c’è in queste poesie? In che momenti le hai scritte?

AG: Ovviamente c’è molto di autobiografico, anche se ho voluto evitare in una certa misura di sottostare troppo a quella che viene spesso chiamata “dittatura dell’io”, e dunque di trattare solo temi autobiografici. Ho scritto queste poesie quando ho avuto del tempo libero, generalmente in estate.

LS: E’ evidente da alcune liriche, “Al lago Trasimeno”, “Le fonti del Clitunno”, il tuo amore verso la verdeggiante Umbria. E’ così? Ti sei sentito particolarmente ispirato da un ambiente tanto naturale?

AG: Amo molto quella regione. Alcuni suoi posti, come quelli da te citati, hanno le caratteristiche del locus amœnus. Peraltro devo dire che alle fonti del Clitunno si respira molta letteratura…

LS: Hai qualche altro progetto in cantiere? Stai scrivendo una nuova opera? Se sì, puoi anticiparci qualcosa?

AG: In cantiere ho una raccolta di prose poetiche. Inoltre mi piacerebbe continuare a scrivere altre odi, magari portando a compimento quel passaggio dal “poetico” al “prosaico” cui accennavo all’inizio di quest’intervista, vale a dire facendo sì che la mia poesia diventi più “poesia di cose” che “poesia di parole”, senza per questo rinunciare alla musica, alla metrica, alla rima. Dovrei fare mio il concetto espresso dal Berni nel suo capitolo in lode della poesia di Michelangelo: «Tacete unquanco, pallide viole / e liquidi cristalli e fere snelle: / ei dice cose, voi dite parole».  Finora ci ho provato, ma ho appena ventiquattro anni, e ho ancora molto lavoro da fare.

Ringrazio Andrea Gigante per avermi concesso questa intervista.

LORENZO SPURIO

17 Luglio 2011


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“Ramoscello d’ulivo”, poesia di Emanuele Marcuccio

Ramoscello d’ulivo (20/3/1992)

poesia di EMANUELE MARCUCCIO

tratta dalla raccolta “Per una strada”, Sbc Edizioni, 2009

Ramoscello d’ulivo,

tu sei desiato,

canti disteso,

dolce traspari:

ché quel richiamo taorminese

innanzi tempo, tinto,

fosco sogno adombro,

rimane.

RAMOSCELLO D’ULIVO 

Nota a cura di Luciano Domenighini

L’inizio è in vocativo, svolto in tre delicati quinari, uno passivo (sei desiato) e due intransitivi (canti, traspari), è siglato da una quartina esplicativa dove alla bella musicalità di un verso (“innanzi tempo, tinto,”) fa riscontro l’ermetica ruvidezza del verso successivo, dove “adombro” è aggettivo e non verbo. Sono solo otto versi ed è diviso in due quartine collegate dai settenari al primo e al sesto verso. La prima quartina è tutta in vocativo, limpida, diretta, sviluppata da tre quinari sorretti da verbi in seconda persona, lievi, delicati (sei desiato, canti, traspari).  La seconda, esplicativa, in realtà è ermetica, presentando cesure sia semantiche che sintattiche. Nondimeno il settenario “innanzi tempo, tinto,” è bellissimo per la perfezione della cadenza e l’impasto fonetico, ottenuti ricorrendo a quatto raddoppi di consonante e ad un abile uso del colore delle vocali.

Nota dell’autore: “Ispirata ad un sogno che io feci, di ritorno da Taormina; da notare la ricercata figura dell’accusativo alla greca in “tinto, / fosco sogno adombro,”, da sottolineare che “adombro” non è verbo ma è l’arcaismo dell’aggettivo “adombrato”. Cosicché, quel richiamo taorminese rimane un fosco sogno tinto (variegato, colorato, di colori diversi, ma solo intravisti) e adombrato (coperto di un’ombra d’oblio) innanzi tempo (prima che lo si possa comprendere).”

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