Ad un anno dalla scomparsa di Renato Pigliacampo, Guerriero del Silenzio

Ad un anno dalla scomparsa di Renato Pigliacampo, Guerriero del Silenzio

A cura di Lorenzo Spurio

Esattamente un anno fa moriva Renato Pigliacampo, professore all’università di Macerata nonché poeta impegnato nella battaglia dei diritti in difesa del minorato sensoriale.


Pigliacampo era nato nella città di Leopardi nel 1948 e proprio nella terra di Marca soffrì, in giovanissima età, la perdita dell’udito a causa di una grave forma di meningite.

Si era laureato, poi, all’università “La Sapienza” di Roma specializzandosi in Psicologia dedicando particolare attenzione all’insegnamento verso i minorati sensoriali, alla difesa della Lis (Lingua Italiana dei Segni) di cui molto parlò anche nelle sue poesie.

All’interno dell’universo audioleso ricoprì anche vari incarichi importanti quali quello di Consigliere del Direttivo ENS (Ente Nazionale Sordi) e di Presidente Regionale ENS Marche.

Parallelamente a un’intensa attività saggistica sulle problematiche dell’audioleso nei vari ambiti della società (pubblicazioni uscite con Armando Editore di Roma) si dedicò con particolare entusiasmo alla poesia, forma di espressione con la quale narrò il suo disagio esistenziale, la sua rabbia dinanzi alle idiosincrasie del mondo e l’ingiustizia della società.

La sua prima raccolta organica di versi, datata 1967, si intitolava “Anni, anni che vanno”, opera alla quale nel corso del tempo ne seguirono numerose altre, tra cui “Canti del mio silenzio” (1973), “Dal silenzio” (1981), “Adobe” (1990) con la quale sembrava risoluto nell’abbandonare la poesia salvo poi tornare a ripercorrere le sue strade e pubblicare “Canto per Liopigama” (1995) e i più recenti “L’albero di rami senza vento” (2006) e “Nel segno del mio andare” (2013).

maxresdefaultIl professore fondò anche un suo premio di poesia, il Concorso Internazionale “Città di Porto Recanati”, senz’altro uno dei più conosciuti ed apprezzati in Regione che quest’anno celebra la sua ventisettesima edizione, la seconda senza il suo fondatore.

La famiglia del professor Pigliacampo, infatti, in collaborazione con Lorenzo Spurio, scrittore e critico letterario che negli ultimi anni collaborava a varie iniziative con il professore, ha deciso di portare avanti il Premio al quale era particolarmente legato e per il quale si sentiva meritatamente orgoglioso.

Il poeta ci ha lasciato lo scorso 29 Giugno 2015 e da allora riposa nel piccolo cimitero di campagna di Montecassiano, nel Maceratese. Nei mesi successivi al suo decesso il critico Lorenzo Spurio ha iniziato a lavorare ad un’opera antologica che compendiasse l’intera produzione poetica del professor Pigliacampo, opera che è recentemente uscita per i tipi di PoetiKanten Edizioni di Firenze. Essa si intitola “Nella sera che cala sul litorale. Percorso antologico nella poesia del Guerriero del Silenzio”. In essa Spurio ha raccolto, in base a una sua selezionata scelta dell’ampio materiale, testi che appartenevano a tutte le opere di Renato Pigliacampo, disponendoli in ordine cronologico ad offrire al lettore un vero e proprio itinerario, tra i mutamenti sociali e lo scorrere del tempo, dell’ars poetica di Pigliacampo. L’opera si chiude con una nota critica del poeta Guido Garufi che fornisce una disamina di alcuni archetipi del silenzio, di cui il poeta veniva soprannominato quale “Guerriero”.

coverIl prossimo 17 settembre presso la Sala Biagetti del Castello Svevo nella sua Porto Recanati si terrà la premiazione della XXVII edizione del Premio che, dall’anno scorso, assegna anche un Premio Speciale intitolato al professore che viene consegnato a un autore che con la sua poesia ha trattato in maniera esemplare e con una poetica vicina a quella di Pigliacampo tematiche forti, di impatto, che concernono l’impegno dell’uomo verso la collettività, nella presa di coscienza verso determinate mancanze e indifferenze verso il portatore di handicap. Quest’anno in particolare la serata di premiazione sarà l’occasione per celebrare il ricordo del professore e presentare il volume antologico che Lorenzo Spurio ha curato sull’intera produzione del Nostro.

Ad un anno di distanza, lo ricordiamo con una delle sue liriche in cui, come spesso accade, parla della campagna natia, della famiglia e del sentimento di unione con la tradizione agreste e patriarcale.

Spesso polemico e confusionario, ma sempre sostenuto da uno infinito stupore verso ogni ambito dello scibile, ci piace immaginarlo veemente impegnato in qualche suo discorso infuocato contro autorità insensibili e il popolo sfiduciato, alla rabdomantica sconfessione di una realtà che è ancor peggiore di come appare, perché l’uomo per sua natura è un soggetto che è improntato alla marginalizzazione dei suoi simili:

 

Compimento

Non voglio stendermi

sull’ansa del fiume con l’acqua

che specchia i tormenti del volto.

Non voglio finire così.

Portatemi nella mia casa,

sul monte, dove il babbo lavora

a mezzadria e la mamma

ricama le lenzuola per la sorella

che presto andrà sposa. Non questo

il sogno all’inizio dell’avventura

quando le doglie mi trassero al mondo.

Conducetemi dal padre, solo lui

potrà asciugarmi il sudore della fronte.

Non lasciatemi dove

i peccati della vita gli estremi

istanti tormentano i pensieri.

Scorre l’acqua, ultimo sguardo meditativo.

Non azzarderò la conta dei giorni

perché sia polvere.

Forse tra i miliardi d’anni per uno scherzo

chimico mi ritroverò lupo

e divorerò con ira l’uomo.

Inutile richiamo.

Immaginazione

creatrice del poeta vagabondo.

Conducetemi alla tomba degli uomini.

Nascere ancora dalla combinazione chimica.

È la mia speranza.

 

Poesia tratta dal libro “Dal silenzio” (1981) ripubblicata in “Nella sera che cala sul litorale. Percorso antologico nella poesia del Guerriero del Silenzio”, a cura di Lorenzo Spurio (2016).

“Librodroga” di Serena Maffia

Librodroga di Serena Maffia

Serena Maffia Librodroga Aras EditoriLa lettura può provocare dipendenza? Può avere gli stessi effetti che una droga ha sul fisico e sulla mente? A queste domande ha cercato di rispondere Serena Maffia in “Librodroga”, pubblicato da Aras Edizioni.

Librodroga è una passeggiata attraverso gli studi di creatività e sulle scienze cognitive applicate alla letteratura svolti fin’ora in tutto il mondo per riflettere su quanto sia necessario conoscere il nostro cervello per una piena comprensione delle capacità umane e l’importanza della lettura come accrescimento del nostro bagaglio mnemonico esperienziale utile al problem solving.

La lettura, fino ai limiti della dipendenza da mondi fittizi, è il motore della coscienza e dell’intelligenza umana.

“Attraverso gli studi di psicologi e narratologi si arriva ad affermare che la lettura, crea dipendenza e può sviluppare sindromi psichiatriche – ha spiegato Serena Maffia – potremmo addirittura considerare la lettura una vera e propria “usanza” stupefacente: libro come librodroga. È una idea azzardata, che ho cercato di chiarire e di dimostrare, in maniera anche giocosa, seguendo il filo logico di coloro che da tempo si occupano di libri e di lettura a livello cognitivo”.

 

Serena Maffia è docente di comunicazione efficace, metodologia della progettazione, creatività, storytelling e public speaking allo IED di Roma. Studiosa di Scienze cognitive applicate alla letteratura e alla creatività, consulente di comunicazione e giornalista per la televisione è stata inviata per Rai3, Rai Educational con la trasmissione GAP, su Italia1 con il programma Voglia, addetto stampa in Campidoglio a Roma del Presidente del Consiglio Comunale e di maggioranza, condirettore di “Mosaico” Rio de Janeiro (Brasil), direttore della rivista “Polimnia”, sceneggiatrice e script analyst per la Medusa-RTI Mediaset. Autrice di numerose opere di narrativa, poesia, teatrali e regista, è direttore artistico del CAS Centro Arte e Spettacolo e presidente del Centro Poesia di Roma.

“Figli di terracotta” di Katia Debora Melis, prefazione di Lorenzo Spurio

Katia Debora Melis: la fragilità della poesia

Figli di terracotta, Thoth Edizioni, 2016

Prefazione di Lorenzo Spurio 

 

Oggi che tutto si può fare

che niente più stupisce

scandalosa è la poesia.

Due importanti lemmi linguistici coniugati a costituire una sembianza al contempo astratta e concreta costituiscono il titolo integrale della nuova silloge poetica di Katia Debora Melis, Figli di terracotta. Da una parte i “figli” richiamano quella corporeità di immagini legata al senso concreto dell’esistenza e di un vissuto che si tramanda nel corso delle generazioni mediante l’atto riproduttivo (una sorta di palingenesi continua dell’umanità), dall’altra, la “terracotta” quale materiale che esiste non in quanto naturale (come può esserlo la roccia lavica o lo zolfo) ma quale prodotto di lavorazione dell’uomo ci introduce immancabilmente a un universo plastico caratterizzato per la fragilità della materia, per la connaturata finezza dello stesso soggetta a un deterioro e che necessita, dunque, di una maneggiabilità attenta, se non addirittura severa e rigorosa.

A fare da apripista a questa raccolta poetica è una poesia iniziale che funziona come preludio a ciò che la Nostra andrà occupandosi nel corso del volume, non è un caso che essa sia intitolata “Genesi” quasi a voler intendere che questo libro non è che una poeticizzazione dell’atto esistenziale, di analisi di ciò che accade fuori di noi, fatta però con viva coscienza non solo della finitezza delle cose e della loro corruttibilità, ma anche dell’importanza rivelatrice di fatti prodromici, genetici, che hanno in un certo senso permesso l’avvio dell’umanità: bellissima la resa iniziale del “Sole/ [che] ha ingravidato la Terra/ […] [dalla quale] nacquero i figli di terracotta”. Colpisce da subito l’utilizzo di un linguaggio quanto mai diretto e quasi materico, cadenzato in versi per lo più brevi al fine di rendere plasticamente tanto la materialità geofisica (Terra) che celeste (Sole) a descrivere un percorso tra i due emisferi del reale e dell’aldilà, del concreto e dell’ignoto.

Si ravvisa un senso a volte più marcato altre volte meno di desolazione, ma -intendiamoci- non è quella desolazione che priva l’animo di speranze e ammorba in cupe incertezze o conduce alla noia titanica, piuttosto è una desolazione misurata, figlia di un’indifferenza sociale che sembra aver perso misura nei comportamenti e che vive -volente o nolente- in una sperequazione diffusa nei confronti del senso di civismo, una disattenzione (o piuttosto si tratta di incapacità?) nel colloquiare con il proprio ambiente, le proprie emozioni, se stessi. Ed ecco che le farfalle, più che anticipare la bella stagione e arricchire l’idillio di una giornata campestre, finiscono per risultare compromesse in quel sistema perverso della contemporaneità dove ogni cosa sembra aver perso logica e finalità e così le intuiamo volteggiare stanche o distratte anche se la Nostra non ce le indica e, piuttosto, ci parla della loro disarmante assenza: “Neanche le farfalle/ ormai/ escono di giorno”.

13466331_10209598678067163_7161364544256503490_n (1)In questa silloge Katia Debora Melis sembra aver approfondito, e di molto, le tematiche che nel corso del tempo ha trattato nelle sue varie sillogi precedenti tanto da giungere a una poetica in cui l’evoluzione matura di scelte linguistiche, sistemi poetico-architettonici e resa di immagini con relative suggestioni conoscono una espressività più diretta che nel lettore produce soprattutto in relazione a certe liriche un’empatia della quale egli stesso può rimanere felicemente impressionato.

La poetessa ravvisa una fragilità di fondo tipicamente accomunata all’età post-post-moderna nella quale siamo chiamati a vivere, fragilità che non concerne solo il tortuoso sentimento nei confronti dei propri quesiti esistenziali ma che guarda oltre, spesso con criticità anche i rapporti umani che sembrano essersi deteriorati, falsificati (c’è un riferimento al “sorridere falso” nella poesia “Suggestioni”) e plastificati, cioè resi in forma in-autentica, surrogata, sostitutiva in maniera imperfetta. Una perplessità di fondo tendente a un grigio pessimismo cuce la silloge intera dove non mancano i riferimenti a una società manchevole, disinteressata o, ancor più colpevole, tanto da far “latitare” (linguaggio della nostra) il “seme dei nostri giorni”, vale a dire il significato della nostra vita, la ricerca della nostra esistenza, la compiutezza del nostro Sé cosciente. L’utilizzo di un determinato lessico è nella Nostra di fondamentale importanza e non potrebbe trovare la stessa forza espressiva e presa sul lettore se, ad esempio, si impiegassero dei sinonimi. “Latitare” di cui si diceva appena sopra, è un chiaro esempio: il “seme dei giorni” latita, cioè manca fuggevolmente, come se l’uomo stesso fosse in fuga da sé, disorientato e fuggiasco, ma allo stesso tempo sta ad individuare qualcosa di non visto, di nascosto, di celato, che sappiamo esserci stato e che, per qualche ragione, è invisibile ai nostri occhi.

L’uomo -dai versi della Nostra- ne esce come un automa quasi irresponsabile nei confronti di quell’apparato cerebrale che, se in passato è stato in grado di usare con profitto, al presente sembra aver sofferto una qualche calcificazione tanto da renderlo “ergastolano del tempo”, cioè relegato alla spoliazione del proprio essere, indifferente ed apatico di un’apatia assordante che dà fastidio chi, invece, ha fatto dell’attivismo e della consapevolezza i suoi cavalli di battaglia. La Melis ravvisa un’inettitudine di fondo nella realtà contemporanea che non è quella inettitudine caratteristica dei protagonisti dei grandi romanzieri italiani del primo ‘900 (Pirandello, Svevo) ma che è, piuttosto, la conseguenza di un disinteresse per la vita e la società in senso generale, più che per questioni prettamente familiari o personali. Ciò talvolta prende addirittura la forma di una preoccupante manifestazione anosognosica ossia di uno stato di disaffezione o disturbo del quale si è coscienti ma che facciamo di tutto per negare ed eliminare dalla nostra mente pensando, forse, che il processo di oblio forzato possa in effetti condurre a un ritrovato stato di sanità o, per lo meno, di tranquillità. Sembra non essere così e gli uomini nella silloge della Nostra sembrano pedine mosse dalla volontà di qualcuno che ha una capacità beffardamente ipnotizzante, sono esistenze sbiadite che neppure hanno nulla di caricaturale (la caricatura, per quanto possa sfociare nel mondo dell’ironia e dell’assurdo, ha pur sempre una connotazione particolare che la identifica), spaventoso o che reclama una data verità. Ed è bene a questo punto osservare che il “ridicolo” di cui la nostra parla nella lirica “Lamentazione” non ha parentela alcuna con il mondo del paradosso o del grottesco, dove il riso ne rappresenta la manifestazione concreta di un atteggiamento di stravaganza, ma piuttosto è viva in questa terminologia una volontà accusatoria (in senso generale, la nostra non punta il dito contro nessuno in particolare) e di denuncia.

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Katia Debora Melis, autrice dell’opera

A tratti quell’oscurità della silloge che cuce le varie poesie travalica il grigio, la zona d’ombra di cui si parlava, per sprofondare in una desolazione più ampia e che sembra priva di una qualsiasi consolazione: “Regna/ il lamento/ ovunque” scrive in “Linfa nera”. All’uomo d’oggi, a cui è venuta meno anche la consapevolezza della sua esistenza e nel quale si ravvisa una debolezza attitudinale, una passività fiaccante e un’idiosincrasia nei confronti di un atteggiamento sano e responsabile nei confronti della vita, sembra che non resti altro da fare che perseverare nel nutrimento da quella “linfa nera” che degrada ulteriormente l’essere inquinandone il corpo e marginalizzando ulteriormente l’anima. Ancora una volta la Nostra contrappone l’astrattezza delle forme (la linfa) alla quale l’uomo, stolto ed ignavo finisce per essere soggetto e poi vittima, alla necessità di concretezza (di vedere, di toccare, di sapere che esiste materialmente ciò di cui parliamo) come avviene nella lirica “Berlino 27 gennaio” dove la Nostra utilizza una delle pagine più amare della storia europea in una chiusa altamente significativa e da un punto di vista etico-civile e in maniera polisemica istituendo allegorie che possiamo intuire: “La più dura realtà/ è che abbiamo bisogno/ di pietre/ per ricordare”.

Il tema della falsità connaturata nella natura umana è riproposto in maniera ancor più approfondita in una sorta di lamentazione interrogativa nei confronti di un pubblico condiviso, che è la società tutta, nel quale la Nostra senza avvisi di retorica, ma piuttosto con crudeltà, chiede: “Perché è bugiarda la vita?” per passare poi a darsi la risposta, contenuta già nella domanda, chiarificatrice di quel pessimismo concreto di cui si è sin qui parlato: “La tua mente fragile e offesa/ non lo capirà”.

Parole chiave della presente raccolta di poesie restano nero, falsità e fragilità ad individuare una esistenza depressa, incapace di colloquiare razionalmente, improntata all’ipocrisia, alla scappatoia e alla bugia rendendo ancor più l’uomo schiavo di se stesso, privo di punti di riferimento, in balia delle onde di quella incoscienza alla quale egli stesso si è votato, in quel “gorgo indefinito dell’ottundimento”, inconsapevole del pericolo e del deterioramento di tutto.

È importante soffermarsi a una disanima più attenta e circoscritta attorno alla poesia “Spudorata” che contiene quelle che sono le leggi morali della poetica della nostra. Si riscontra, nella forza e nell’urgenza che la nostra ravvede nel bisogno di sincerità della poesia, un richiamo sabiano al celebre saggio “La poesia onesta” nel quale il grande poeta parlava della poesia quale espressione di autenticità (nel bene e nel male) nelle forme d’essere dell’uomo; onestà e sincerità che debbono esser messe in campo per il benessere stesso della poesia affinché questa non diventi macchinazione edonistica o deteriorata rappresentazione della realtà già di per sé abbastanza restia al concetto di onestà. La nostra parla della “spudora[tezza] di sincerità” che deve avere la poesia. Non esiste, dunque, una scala di sincerità: o essa è presente oppure non lo è; non si può essere sinceri in parte o solo su alcune cose, ed ecco, allora, che la nostra con questa attestazione di poetica del vero non fa altro che denunciare la realtà fondata sull’ipocrisia e il doppiogiochismo. Affinché la poesia parli del vero, è necessario che nella vita ci sia il vero e si attui per ricercarlo e conservarlo. Questa necessità di realtà (e non di realismo, che è diverso) ricorda un po’ anche i crepuscolari la cui poetica era semplice, effimera, tristemente casalinga, ma quanto mai reale e concreta.

Completando la lettura di questo nuovo lavoro poetico di Katia Debora Melis di cui l’ultima sezione  è fortemente intimista e legata al ricordo, si ha l’impressione di avere tra le mani qualcosa di estremamente fragile, addirittura friabile, che potrebbe danneggiarsi di colpo con un brusco movimento. Questa sensazione ci è data non dall’essere fisico del libro che teniamo tra le mani che ovviamente, per quanto possa essere di fattura delicata non risentirà del nostro strofinio delle pagine, ma piuttosto per il complesso delle immagini che la poetessa descrive, ci fa immaginare o alle quali allude fornendoci flash veloci, ma ricchi di suggestione.  Per rispetto a una scrittura così squisita e profonda è bene, allora, che ci approssimiamo a leggere questi versi con cautela, che non significa solo con calma ed attenzione, ma anche con quel senso di scrupolo e di riverenza verso un’esperienza poetica, immagine di un vissuto, talmente ricco e degno di analisi.  Proprio come “I passi/ [che] sempre/ devono essere leggeri/ sulla terra/ come se volassimo/ radenti/ sull’acqua”.

LORENZO SPURIO

Jesi, 12-02-2015

 

“Assenza e mancanze”: il prossimo numero della rivista Euterpe

La rivista di letteratura Euterpe entra in seno alle attività culturali promosse dalla Associazione Culturale Euterpe.
Si fa presente che coloro che sono regolarmente associati all’anno in corso alla Associazione hanno diritto prioritario alla pubblicazione nella pagine della rivista, sempre in relazione alla selezioni fatte dalla Redazione.

Per chi volesse iscriversi alla Associazione ed entrare a far parte di questa famiglia culturale usufruendo anche di varie agevolazioni quali l’esonero o lo sconto alla partecipazione ai concorsi letterari da essa indetti clicchi qui.

Il prossimo numero della rivista di letteratura Euterpe, il ventesimo, avrà come tema di riferimento “Assenza e mancanze”.
I materiali dovranno pervenire alla mailrivistaeuterpe@gmail.com entro e non oltre il 15 Luglio p.v. 
Clicca qui per leggere alcune semplici indicazioni per l’invio dei materiali che si richiede di rispettare.
Come per ogni numero la Redazione leggerà tutti i materiali pervenuti e selezionerà i testi che saranno poi pubblicati in rivista.

Per raggiungere l’evento FB del prossimo numero clicca qui. 

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Per chi volesse, invece, consultare l’Archivio contenente la lista completa dei testi pubblicati nel corso di questi anni, suddivisi in ordine alfabetico, può cliccare qui. 

Per info:
rivistaeuterpe@gmail.com 

“Si aprano le danze” di M. Luisa Mazzarini, recensione di Lorenzo Spurio

Maria Luisa Mazzarini, Si aprano le danze, EEE-book, Moncalieri(TO), 2016.

Recensione di Lorenzo Spurio 

 

I piedi affondano

nelle foglie nude

sul terreno umido.

Un soave balletto artistico apre il nuovo volume poetico della poetessa abruzzese Maria Luisa Mazzarini. Nella copertina il quadro “La classe di danza” di Edgard Degas che raffigura un momento di insegnamento alla danza per ragazzine quasi adolescenti vestite del tipico abbigliamento di pizzi e tutù che stanno “provando” le mosse sotto lo sguardo attento di una insegnante che dà loro le lezioni.

si-aprano-le-danze-9788866902997Il fatto che Maria Luisa Mazzarini abbia voluto impiegare per questa nuova silloge il canale tematico della danza è assai significativo e va analizzato con la doverosa attenzione. Le liriche che si susseguono, molte delle quali ispirate a quadri di celebri artisti, si presentano cadenzate da un’armonia di fondo, intervallate da motivi che hanno una musicalità piacevole all’orecchio. I versi, mai troppo lunghi e spesso assai sintetici, ricorrono nelle varie liriche a descrivere un percorso di umana solidarietà e di pacato intimismo dove il gusto della forma sembra dominare. Proprio come l’eleganza e la grazia delle giovani ballerine nell’immagine di copertina, le poesie della Nostra si caratterizzano per una correzione formale ed estetica di indubbia caratura, per una sottigliezza espressiva e ricercatezza dei motivi ispiratori.

Com’era stato per le precedenti sillogi poetiche della Nostra il motivo da cui tutto muove è scindibile in due aspetti in sé spesso uniti e convergenti: l’amore e la natura. Le poesie sono ricchissime di elementi che richiamano un mondo naturale descrivibile in un paesaggismo raffinato, in una attenzione meticolosa a cogliere gli adempimenti segreti della natura, lo svolgimento lento dell’evoluzione della materia, dal fiore che sboccia, al ruscello che sussurra, sino alla luna (grande leit-motiv dell’intera raccolta) presente e custode della nostra esistenza, silente ma protettrice, che con le sue vesti dorate ed ambrate marca in maniera netta e determinata l’infinità della volta celeste.

Colpisce come Maria Luisa Mazzarini, ancora una volta, sia fedele compagna delle acque, quasi una molecola della stessa sostanza liquida da poter essere trovata in ogni dove: nel mare o nell’oceano, nella pioggia o nella tempesta, nelle lacrime o semplicemente in un fiume. Da questo legame inscindibile con l’universo equoreo (già presente nella precedente raccolta ma qui ancor meglio sviscerato) fuoriesce un insaziabile amore per l’esistenza o ogni sua peculiarità. La poetessa, nel canto intimo dove la natura non è ambiente ma sorella e compartecipe allo sviluppo dell’emotività, sembra vaporizzarsi nelle gocce d’acqua che spruzzano da un torrente in discesa o che cadono in una pioggia improvvisa, quasi con la volontà di essere assorbita dalla natura circostante.

Di questa esigenza vitale, espressa superbamente dal ricorso continuo alla linfa vitale che tutto racchiude, la Nostra si erge a cantrice di una natura vivida e fulgente, ricca di aspetti e grande contenitrice di elementi di stupore. La meraviglia che sottende l’animo della Nostra dinanzi a molte scene bucoliche, o comunque intrise di un sentimento panico, è assai pregnante, tanto da caratterizzarne la cifra contenutistica della sua poetica.

L’acqua che scende e fluisce, l’acqua che perpetua il suo scorrere e che bagna per poi ritornare, l’acqua che vorticosamente ci unisce a quell’esigenza arcaica dell’uomo, è esaltata con giustizia dalla Nostra da farne un canto naturalistico che ha in sé anche una pia riconoscenza verso i misteri del Creato che siamo chiamati ad accogliere con meraviglia evitando di interpretarli con le stringenti idee razionali.

Lorenzo Spurio

Jesi, 20-06-2016

“Orfeo della dama” di Bogdana Trivak, recensione di Lorenzo Spurio

Bogdana Trivak, Orfeo della dama, Rocco Carabba, Lanciano, 2016.

Recensione di Lorenzo Spurio

Pregevole la nuova raccolta poetica di Bogdana Trivak, poetessa croata naturalizzata italiana che vive a Pescara da vari anni dove ha fondato l’Associazione “Ad Adriaticum”.

copertina orfeo della dama_350La raccolta, che nel titolo richiama la figura mitologica di Orfeo, si apre con una breve ma sostanziosa nota critica firmata da Giorgio Di Vita per dar spazio poi a una serie di liriche assai sintetiche e scarne nei versi che presentano un linguaggio di particolare suggestione nel lettore. A suggellare l’intenso lavoro poetico è una nota di postfazione del poeta bosniaco Emir Sokolovič. L’intero libro si presenta in una duplice faccia essendo al contempo in lingua croata e in traduzione in italiano.

La poetica della Nostra sembra assestarsi in quel filone del nostro oggi, per altro difficilmente individuabile in peculiarità e forme, che predilige l’atto poetico quale raffigurazione di un’immagine, di un impulso vitale, ossia di un bagliore di realtà. Le poesie, infatti, sembrano aver molto in comune con la scuola poetica orientale dell’haiku o del waka (scantoniamo, ovviamente, il computo delle sillabe e dei versi che definiscono questi generi) per il fatto che la poesia rifugge da qualsivoglia intento descrittivo o narrativo (come molta poesia oggi vien fatta, tanto da rappresentare un carme o una prosa poetica) per essere, invece, il frutto dell’affiorare di un’immagine netta e concreta che la Nostra rende sulla carta.

Se ad una prima vista la successione atipica di sostantivi o l’apparente incongruenza di alcune immagini può destare sbigottimento nel lettore tradizionalista, è ben evidente che questo tipo di poetica ha con sé una serie di elementi e rimandi a una cultura di un dato tipo, che forse non sono direttamente palpabili in chi usufruisce del testo ma che, dall’altra parte, manifestano l’ampio lavoro di sintesi che la Nostra ha prodotto.

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L’autrice, Bogdana Trivak

Nell’istantaneità delle immagini colpisce come Bogdana Trivak sia capace di porre lo sguardo sulle particolarità e in modo speciale sui mutamenti degli stati fisici ed emotivi suoi e dell’ambiente che la circonda. Di base resta un orfismo che permea le varie liriche da intendere non tanto in termini classici, rifacendosi alla Grecia e in senso religioso, piuttosto in termini lirico-artistici come accostamenti liberi di pensieri, quasi giocosi e frutto di un associazionismo di idee pulsante, che pure fa ricordare la scrittura istintiva dei surrealisti.

Nelle succinte liriche alcuni termini-chiave sono inscindibili dall’analisi completa dell’intera opera: la culla, quale spazio chiuso di protezione e calore che si contrappone alla soglia, spazio liminare tra dentro e fuori e che inaugura –nel movimento dall’uno all’altro- un rito di passaggio determinante nella crescita psicofisica di chi lo intraprende. Nella poesia “Ode” ritorna il concetto della culla espresso stavolta nella forma del nidocon il mare e la conca” ed infine la nostra impiega il termine di gabbia nella poesia dal titolo “Utero” a far riferimento, ancora una volta, ad uno spazio di vita che è racchiuso attorno ai suoi confini, dove il germe ha vita e lo sviluppo prende piede. La vita che invigorisce gli antri più piccoli e bui. La speranza che ritorna anche laddove l’inclemenza e la noia hanno eretto il proprio regno d’argilla.

 

Il libro Orfeo della dama è stato premiato come finalista alla IV edizione del Premio Internazionale “Città di Sarzana” (2016) e la poesia “Quando” inserita nel volume è stata premiata  con la Menzione di Merito al Premio Letterario Nazionale “Nuovi Poeti Ermetici 2016”.

Lorenzo Spurio 

Jesi, 20-06-2016

L’antologia della Ass. Culturale Euterpe in sostegno dello IOM Vallesina

ANTOLOGIA DELLA ASS. CULTURALE EUTERPE A SCOPO BENEFICO “L’AMORE AL TEMPO DELL’INTEGRAZIONE”

antologia iomLa nostra Associazione nelle scorse settimane ha pubblicato una antologia di poesie e racconti a tema che si raccoglie attorno all’indicazione del titolo (proposto dalla Socia Alessandra Montali) che recita “L’amore al tempo dell’integrazione”.
Nell’antologia figurano i lavori di 55 persone di ogni parte d’Italia. 

Nell’antologia sono presenti testi di:
Elisabetta Amoroso, Elvio Angeletti, Cristina Biolcati, Sergio Cardinali, Gioia Casale, Pietro Cerioni, Maria Salvatrice Chiarello, Maria Rosa Chiarello, Marinella Cimarelli, Anna Maria Rita Daina, Assunta De Maglie, Franca Donà, Franco Duranti, Lorella Fanotti, Giuseppe Gambini, Luigi Gennari, Giorgio Giaccaglini, Melita Gianandrea, Paolo Giannattasio, Salvatore Greco, Maria Teresa Infante, Izabella Teresa Kostka, Anna Maria Lombardi, Leonardo Longhi, Liliana Manetti, Donatella Marchese, Emanuele Marcuccio, Massimo Vito Massa, Maria Rita Massetti, Emanuela Meldolesi, Valentina Meloni, Antonio Merola, Laura Moll, Vincenzo Monfregola, Alessandra Montali, Guido Nardinocchi, Gianni Palazzesi, Michele Paoletti, Daniela Pellino, Patrizia Pierandrei, Matteo Piergigli, Francesca Quaglieri, Cinzia Ricci, Maria Lucia Riccioli, Oscar Sartarelli, Anna Scarpetta, Stefano Sorcinelli, Enza Spagnolo, Teresa Spera, Lorenzo Spurio, Michela Tombi, Stefano Vignaroli.

L’immagine che campeggia nella copertina è un’opera di Andrea Carducci.
Abbiamo avuto già occasione di presentarla a Jesi (AN) e a Caltanissetta e nei prossimi mesi seguiranno nuove presentazioni.
Ciò che di più ci sta a cuore è il fatto che si tratta di un progetto benefico, infatti parte dei ricavati a fine anno verranno destinati a sostenere le attività dello IOM (Istituto Oncologico Marchigiano) – sede Vallesina.
Il volume può essere acquistato direttamente da noi, scrivendoci una mail o un messaggio qui, ed ha costo di 20€ comprensivo di spese di spedizione con piego di libro raccomandato.
Grazie a chi vorrà aderire alla iniziativa a scopo umanitario.

Info:
www.associazioneeuterpe.com
ass.culturale.euterpe@gmail.com

 

Un dittico poetico per ricordare la strage di Capaci

CON LA MEMORIA RITORNO[1] 

di LUCIA BONANNI 

nel XXIV anniversario della strage di Capaci

In quel soleggiare tremendo

sulla via di Capaci

la voragine di terra

spacca la storia.

A ridosso del mare

il Monte Pellegrino è ancora

carcere e dietro le sbarre

la Legge dei giusti

tiene prigioniera.

Nella terra delle agavi

mani incallite

la conca, che prima era dorata,

arrossano di cupi misfatti.

Vorrei gridare…

ma il pianto smarrito

ancora spezza la voce.

Con la memoria ritorno

ad un biglietto

in silenzio lasciato

sulla corteccia del tuo albero

che nel tempo conserva

fronde rinverdite

e della linfa si nutre

del tuo nome

che mai morrà.

 

Lucia Bonanni, 23 maggio 2016

 

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URLO[2]

di EMANUELE MARCUCCIO 

 

Dolore e aspro dolore

orrendo negl’occhi…

pietà, giustizia…

urla… uomini prostrati,

la rabbia nei cuori,

l’ira negl’occhi…

volti piagati

di sangue grondanti

e amaro lutto

nel cuore scosso, rimosso

dal silenzio.

 

Grida di sangue

risorgono

dalla città morente,

spirito di reazione

risorge…

e affrontiamo

e ricordiamo

i morti…

e i nostri cuori

colpiti, schiantati…

 

 

Un alito di speranza

il cuore, quasi ci squarcia…

luce d’amore

c’investi, c’innalzi, ci esalti…

 

Emanuele Marcuccio, 23 maggio 2016

 

NOTA:

Entrambi i testi poetici vengono pubblicati su questo spazio per gentile concessione dei due autori e con la loro autorizzazione. 

 

 

[1] Ispirata dalla lettura di “Urlo” di Emanuele Marcuccio, gli propongo il dittico a due voci. [N.d.A.]

[2] Scritta il 23 maggio 1993, per il I anniversario della strage di Capaci, poi edita in Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, 2009, viene qui presentata in una seconda versione da me rivista del 23 maggio 2016. [N.d.A.]

Una poesia di Lucia Bonanni per ricordare le 19 donne yazide arse vive

La barbarie dell’incomunicabilità nello scempio igneo di Mosul

Il 7 giugno 2016 viene data notizia nei canali di informazione che un gruppo di estremisti islamici a Mosul (Iraq) ha imprigionato diciannove donne curde in gabbie metalliche e gli hanno dato fuoco perché avrebbero rifiutato di concedersi sessualmente a loro.

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PIANTO DEL FUOCO

POESIA DI LUCIA BONANNI 

 

In ricordo delle diciannove donne Yazide 

barbaramente uccise a Mosul da un gruppo di estremisti islamici

 

Se il fuoco dilata e distrugge

l’acqua si espande

cambia forma e di adatta.

Nel caos non più primordiale

ogni elemento si muta nell’altro

e vestali d’acqua

ancora vegliano il fuoco

per mantenere viva

la sua forma violenta.

Nel giudizio di un culto tremendo

urla selvagge immolano

vergini spose

su altari di ruggine e pietra

e la legge è involuzione

di passioni e materia.

Il dolore si contorce in fumo luttuoso

e lo scempio porta squallore

anche al paesaggio di ossido e fango.

Secco e caldo, umido e freddo.

Il pianto del fuoco

guarda il bruciante metallo

che devasta e corrompe il nitore vanito

mentre  nei ruvidi pozzi

l’acqua è ancora sussulto

che purifica e salva.

 

LUCIA BONANNI (C)

La poetessa ha concesso di pubblicare su questo spazio il suo testo poetico dandone facoltà al gestore di questo blog in data 17-06-2016.

Foto tratta dal sito: http://en.abna24.com/

“Via Crucis” di Francesco Terrone, recensione di Lorenzo Spurio

Francesco Terrone, Via Crucis, Presentazione di Mons. Giuseppe Agostino, Ep. Em. Diocesi Cosenza-Bisignano, Disegni originali di Liana Calzavara Bottiglieri, I.R.I.S., Mercato San Severino, 2015.

Recensione di Lorenzo Spurio 

copertinaviacrucisIl poeta salernitano Ing. Francesco Terrone (Mercato San Severino, 1963) ha raccolto nel pregevole volume in sontuosa veste grafica Via crucis un numero consistente di liriche d’argomento religioso nelle quali si percepisce in maniera vivida il suo afflato emotivo, lo spessore della fede e la necessità di un colloquio accorato con la Divinità. La prima parte del volume –dopo una sostanziosa e pregnante nota d’apertura del Vescovo Emerito della Diocesi di Cosenza-Bisignano, Mons. Giuseppe Agostino- è dedicata al percorso cristiano più doloroso, quello della Via Crucis che Terrone affronta, tappa per tappa, dedicando una poesia ad ogni stazione del martirio di Gesù Cristo. Ciascuna lirica è accompagnata, nella pagina di sinistra, da immagini a colori forti e dall’espressività lancinante di pose del Cristo sofferente e morente, opere di valore prodotte da Liliana Calzavara Bottiglieri. Immagini che non solo arricchiscono il volume, già di per sé importante e per la fattura e per i densi contenuti, ma che lo completa rendendolo ancor più fruibile ed interessante nel lettore. Le liriche di dolore che descrivono i passi di Nostro Signore verso la denigrazione, le becere offese, la caduta, la crocifissione e la morte sono visivamente descritte, come in una fulminea foto, dai disegni della Calzavara Bottiglieri i cui tratti del viso del Cristo addolorato emergono con una nettezza sorprendente e una visività toccante.

Terrone impiega una poetica che rifugge da particolari schematismi metrici o retorici prediligendo un linguaggio basico e lineare dove sono la descrizione attenta, la raffigurazione degli spazi e del gruppo umano che contorna a quelle scene a dominare. Come dei sunti o delle sinossi quanto mai influenzate da un approccio fortemente empatico e vissuto, le poesie si susseguono cadenzate dal breve tempo dell’assurdo sacrificio imposto al Nazareno. Le vessazioni, l’indebolimento del corpo, le cadute e le ingiurie, l’offesa corporale sono fatti di inaudibile odio che il Nostro inanella nelle varie liriche che seguono descrivendoci, con i vari versi, con una grande forza espressiva e compartecipazione gli accadimenti più infausti dell’esistenza di Gesù.

Ci troviamo distanti mille miglia, o ancor di più, da manifestazioni ridondanti e spettacolari, farsesche e improbabili che spesso vengono fatte per celebrare gli ultimi istanti della vita di Cristo: non si ha un effetto di ribrezzo o di dolore rabbioso dinanzi al suo sacrificio come può avvenire dinanzi alla criticata pellicola di Mel Gibson, The Passion, dove la centralità del messaggio sembra ruotare attorno all’apologia della violenza piuttosto che sul martirio. Ci troviamo altresì distanti anche dalle celebrazioni folkloriche della Spagna andalusa che commemora la settimana Santa in colorate e carnevalesche processioni con rappresentazioni sceniche degli istanti mortali di Cristo. Terrone, pur servendosi delle immagini che corredano l’opera, impiega la parola, lo scritto, il verso, per cantare il dolore, per sconfessare la violenza, per far librare la sofferenza. Sofferenza che, pur con un procedimento di mimesi non sarà mai quella di Cristo ma che, comunque, le si avvicina molto essendo un dolore dinanzi alla violenza gratuita, all’ingiustizia, che si amplifica ancor più per la propria condizione di essere inerme.

A completare il tragitto della passione è un ampio apparato finale dove il Nostro ha raccolto una serie di poesie, anch’esse di matrice religiosa, che possono essere considerate delle vere e proprie preghiere, delle lamentazioni, dei canti accorati d’angoscia, delle riflessioni sul senso di finitudine e testi contemplativi sulla presenza di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio. Tra di esse, mi piace citare alcuni versi da una lirica dedicata alla figura paterna dove, seppur non è richiamata direttamente la dimensione cristologico-religiosa, il padre venuto a mancare, il genitore assente, l’uomo che vive nel ricordo, sembra assumere i caratteri di un amorevole Dio che sovrasta la sua esistenza, vivendo nel mondo incorporeo dove tutto perdura e non ha limiti: “Quel volto,/ reliquia sacra della mia vita,/ […]/ Il volto di mio padre…/ volto rapito da Dio, donatomi da Dio/ nella vita,/ nei frammenti di sogni,/ nell’immaginario” (80).

Lorenzo Spurio

Jesi, 09-06-2016

“Tra gli aranci e la menta” di Lorenzo Spurio, recensione di Francesca Luzzio

Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico Garcia Lorca di Lorenzo Spurio

con note critiche di Nazario Pardini, Velentina Meloni, Corrado Calabrò, Lucia Bonanni, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016.

Recensione di Francesca Luzzio

COVER GARCIA_3_NEW-page-001Tra gli aranci e la menta è una plaquette composta di dodici liriche, create da Lorenzo  Spurio  per ricordare il grande Federico García Lorca.  

In apparenza, come si legge nel sottotitolo, è un recitativo dell’assenza,  ma di fatto, è un recitativo dell’immortalità  poiché  il poeta è eterno, è sempre presente, anche quando il corpo si scioglie in cenere o, ancora peggio, non si sa, come nel caso di Federico, dove i resti mortali siano stati sepolti.  La voce di García Lorca è sempre viva, canta sempre con i suoi versi e anche le sue ceneri,  in fondo, diventati linfa vitale della natura, non smetteranno mai di esistere: “io pronuncio la grammatica silvestre” (in “Non lontano dal limoneto”, pag. 54).

Lorenzo Spurio è consapevole di quanto suddetto, pertanto  il suo “recitativo dell’assenza” suona piuttosto come denuncia della triste sorte che spesso ancora oggi tocca ai sostenitori ed ai combattenti per la libertà. Così con il suo canto-denuncia Lorenzo consacra ulteriormente la presenza e l’eternità del grande poeta, soldato della libertà e condanna ogni forma di autoritarismo, limitante l’essenza libera dell’io. 

La funzione eternatrice della poesia è una verità ormai assiomatica della tradizione letteraria  e Spurio la esemplifica e  nello stesso tempo la soggettivizza attraverso García Lorca, con il quale vive una profonda consonanza esistenziale ed etico-morale che lo induce a rivivere in sé emozioni, stati d’animo e idee che furono del grande poeta spagnolo.  

È una immersione totale che lo porta  a riproporre anche le modalità linguistico-espressive di García Lorca, realizzando quella sintesi tra popolare e colta che è tipica della cosiddetta Generazione del  ‘27 a cui apparteneva anche il grande poeta andaluso. Così il suo avanguardismo surrealista è nello stesso tempo ancorato alle tradizioni popolari dell’Andalusia  che gli  offre immagini, atmosfere e contrasti cromatici.           

I versi di Lorenzo ripropongono quest’interazione culturale e la natura e i suoi elementi si umanizzano: “Le piante quel giorno hanno smesso di parlare:/ gli acuminati rami superbi imposero il silenzio” (in “Nella roccia vescovile”, pag. 23) e l’io diventa natura: “non ho imparentato  le mie cellule con la polvere/ ma con fremiti verdi, ansiti amari e lucori silvani”( in “Non lontano dal limoneto”, pag. 54), per cui in questo metamorfismo panico è inutile cercare la sua tomba: egli vive  in ogni elemento,egli è vivo, è natura, è soprattutto “poesia”.

Francesca Luzzio 

Palermo, 10-06-2016

 

“Maria Teresa Manta e il tempo dell’attesa”, a cura di Lorenzo Spurio

Maria Teresa Manta e il tempo dell’attesa

Recensione a Fisse le stelle in cielo, ilmiolibro, 2016

a cura di Lorenzo Spurio 

La salentina Maria Teresa Manta non è alla prima pubblicazione e, nel corso degli anni, ha avuto più volte occasione di raccogliere suoi testi –sia poetici che narrativi- in vari libri, oltre ad aver preso parte in collettanee di autori ed antologie. Una donna che fa poesia con il cuore, lasciando trasparire, pure nei riverberi d’angoscia e nelle ore di tormento, la sua femminilità e il disagio esistenziale di chi è destinato a vivere con un peso addosso. E’ questa l’impressione principale che si ha leggendo il suo ultimo libro, la silloge poetica Fisse le stelle in cielo dove, sin dal titolo, è difficile non notare l’elemento della fissità, dell’immobilità che non è una costernazione che prende piede nell’incomunicabilità, piuttosto una necessità di ancorarsi a un passato che, pur andato, è necessario rievocare e rivivere giorno dopo giorno, ora dopo ora.

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I libri pubblicati dalla poetessa salentina Maria Teresa Manta tra cui Fisse le stelle in cielo oggetto d’analisi della presente recensione.

La grande maggioranza delle liriche di Maria Teresa Manta raccolte in questa silloge sono contraddistinte da un dolore irrevocabile, da un canto di angoscia dovuto a una mancanza lancinante, quella di un figlio che l’imperscrutabile percorso della vita ha voluto a sé prima di ogni lecita scadenza.  I versi sono intrisi di quella desolazione emotiva che è propria di chi quotidianamente si arrovella sul perché di un accaduto tanto infausto nonché sui motivi per cui i destini si compiano in maniera tanto precipitosa senza aver il tempo di potersi prima salutare, tributare il giusto affetto. Tutto ciò crea un disagio emotivo assai pesante che è ancor più gravato dal rimorso dal non fatto o dal non detto a rimarcare ancor più quanto l’abitualità alla vita ci fa dimenticare anche delle cose più semplici che, in un batter d’occhio, possono diventare una condanna pesante con la quale dover sopravvivere.

La poetessa parla di questo figlio scomparso, allontanatosi da lei e dal ceppo familiare, non si capisce bene perché e in che modo, ma in fondo non è questo che interessa a livello poetico, piano comunicativo al quale la donna ha trasmesso il subbuglio emozionale, l’atarassia e l’ha condotta a rivivificare il passato, nelle tante schegge di ricordo, nei sorrisi ricevuti, nei momenti d’unione o semplicemente nella lieta convinzione di vivere in mancanza dell’assenza.

La morte allora si configura non tanto come momento accidentale di un percorso di vita che inesorabilmente si compie, non come fine delle speranze, piuttosto come consacrazione del tempo che non esiste. Con la morte del caro la Nostra sembra entrare in punta di piedi nel tempio dorato dell’assenza, dove tutto manca e niente ha la sua forma. Essendo l’uomo abituato per sua natura al materiale, al visibile, all’esperibile, il traghettamento forzoso alla dimensione dell’immateriale, dell’assenza del concreto non può che creare scompenso e confusione: ed è in questo limbo di pianti e incomprensioni che si attesta la lirica di Maria Teresa Manta. La poetessa fa vivere ciò che non è più, dà forma all’inesprimibile, costruisce il tempo che si è dissipato ed è in grado, con il calore materno e la pacatezza di una donna sensibile, di derogare alle scadenze imposte dall’Alto. Nessuno muore se vive nel ricordo di chi ha lasciato. Seppure non vi siano tracce che palesano il sentimento cristiano della Nostra, il messaggio che fuoriesce da questa silloge è proprio questo.

Siamo tutti in attesa di un tempo che non finisce. Un tempo che fluisce all’infinito e che è impossibile arginare, che non ha scadenze né può essere misurato. Ad esso si contrappone quell’asfittico tempo dell’attesa, un ragionare rimestato, un frenetico rincorrere a pillole di passato, l’attaccamento al mondo finito quando la vita continua e necessita che noi la viviamo al presente.

L’attesa, che è anch’esso tempo dell’immateriale, è costellata da continui atti di dolore e pentimento, ma anche fondi silenzi dove la confessione con sé stessi si struttura in un tormento afono che è impossibile fronteggiare con la nuda ragione.

Lorenzo Spurio

Jesi, 08-06-2016