E’ uscito il nuovo numero della rivista Euterpe dal tema “Potere e povertà”

Buonanasera,
comunichiamo che il nuovo numero della rivista è appena uscito (entro pochissimo sarà caricato il pdf sul sito, http://www.rivista-euterpe.blogspot.com).

Nella rivista sono presenti testi di Lorenzo Spurio, Massimo Acciai, Monica Fantaci, Giuseppina Azzena, Gilbert Paraschiva, Damiano Maccarrone, Dunia Sardi, Emanuele Marcuccio, Massimo Acciai, Monica Minnucci, Sunshine Faggio, Ivan Pozzoni, Paolo Annibali, Antonio Chisari, Alessandro Dantonio, Flavio Scaloni, Monica Fantaci, Anna Alessandrino, Mauro Biancaniello, Antonella Santoro, Angela Crucitti, Gennaro Tedesco, Mario Di Nicola, Paolo D’Arpini, Patrizia Chini, Fiorella Carcereri, Cristina Lania, Mariapia Statile, Dario Ramponi, Nadia Marra, Martino Ciano, Elisabetta Polatti.
Ricordiamo, inoltre, che il prossimo numero della rivista avrà come tema “L’intercultura”. I materiali dovranno essere inviati a rivistaeuterpe@virgilio.it entro e non oltre il 10 Gennaio 2013.

Link diretto per accedere al pdf scaricabile contenente il numero della rivista: http://www.segretidipulcinella.it/euterpe5.pdf 

“Flyte & Tallis”, il nuovo saggio di critica letteraria di Lorenzo Spurio

Famiglia, religione e guerra. Un’analisi comparativa di due grandi romanzi inglesi a cura di Lorenzo Spurio

(COMUNICATO STAMPA)

 

Lorenzo Spurio non è nuovo a pubblicazioni che pongono al centro dell’interesse testi della letteratura inglese unanimamente riconosciuti come magistrali: in Jane Eyre, una rilettura contemporanea (Lulu Edizioni, 2011) analizzava la storia della povera Jane scritta da Charlotte Brontë in chiave comparativistica offrendo una serie eterogenea di vedute sulla storia che si sono raccolte nel corso del tempo per mezzo dei numerosi prequels, sequels e rivisitazioni. In La metafora del giardino in letteratura (Faligi Editore, 2011 – scritto con Massimo Acciai), l’autore rifletteva, invece, sull’immagine, sul topos e sulla metafora del giardino in una grande carrellata di testi della letteratura italiana e straniera. Con questa nuova pubblicazione, Flyte & Tallis, Spurio fornisce al lettore un ampio commento critico su due grandi romanzi della letteratura inglese: Ritorno a Brideshead di Evelyn Waugh ed Espiazione di Ian McEwan ponendo particolare attenzione a una gamma di tematiche che l’autore va ricercando e analizzando parallelamente tra i due romanzi.

Marzia Carocci nella sua prefazione osserva: “Lorenzo Spurio ripercorre fedelmente i vari passaggi dei due romanzi riuscendo a identificare il senso, le particolarità, i caratteri e i contorni dei personaggi e dei luoghi. Nella descrizione l’autore imprime il proprio pensiero senza mai evadere i concetti e le astrazioni che i due libri esprimono”.

L’autore fornisce, inoltre, un’adeguata spiegazione della trama dei due romanzi, una parte dedicata ai rimandi letterari ad altre opere, un apparato bio-bibliografico dei due autori e una traduzione di un saggio su Espiazione scritto da Brian Finney, docente universitario statunitense.

“Spurio quindi analizza, smembra, spiega e fa riferimenti ai fatti con una precisione che regala al lettore la sensazione di assistere in prima persona al “filmato” di parole che egli, attraverso una scrittura fluida e mai astrusa o complicata, riesce a esprimere”, annota la Carocci nella sua prefazione al libro.

 

  

SCHEDA DEL LIBRO

 

 

Titolo: Flyte & Tallis

Sottotitolo: Ritorno a Brideshead ed Espiazione: una analisi ravvicinata di due grandi romanzi della letteratura inglese

Autore: Lorenzo Spurio

Prefazione: Marzia Carocci

Genere: Critica letteraria

Editore: Photocity Edizioni, Pozzuoli (Na), 2012

ISBN: 978-88-6682-300-1

Numero di pagine: 143

Costo: 10 €

Link diretto per l’acquisto: http://ww2.photocity.it/Vetrina/DettaglioOpera.aspx?versione=19253&formato=8778

“Pensieri” di Emanuele Marcuccio, con un commento di Luciano Domenighini

PENSIERI

(poesia di Emanuele Marcuccio)

 

 

Portano poesia così

lungi il nostro dire

chioccio e impacciato così

l’ardire è vano e lontano

e requie non danno.

 

 (13/9/2012)

Commento a cura di Luciano Domenighini

Cinque versi brevi ad andamento ondulante (sequenza sillabica “8, 6, 7, 8, 6”) col soggetto ai versi di apertura e di congedo e i tre versi centrali incidentali e distrattivi a significato antitetico.

La gestione delle rime è complessa. Solo il quinto verso è svincolato. Il primo e il terzo rimano sul medesimo bisillabo avverbiale tronco “così”. L’ottonario al quarto verso presenta due rime interne: in terza sillaba “l’ardire” rima col senario del secondo “dire” e la piana bisillaba in quinta “vano” con la trisillaba “lontano” in ottava. Il tono della lirica è dimesso, sofferto, ma formalmente impeccabile.

In soli cinque versi, in un cono di luce rivelatore di un evento psichico, Marcuccio individua i termini antitetici dalla cui distanza e dal cui conflitto nasce un doloroso travaglio dal quale scaturisce, per sintesi, l’energia della poesia.

Il primo elemento dell’antitesi è un periodo bipartito (“Portano poesia così/ […] e requie non danno”) collocato agli estremi della strofa in posizione prima e quinta.

Il secondo, oppositivo, consta di tre momenti, uno per ciascuno dei versi centrali, secondo, terzo e quarto (“lungi il nostro dire/ chioccio e impacciato così/ l’ardire è vano e lontano”).

Da un lato l’esaltazione e la tensione, il languore e il tormento dell’ispirazione poetica, dall’altro la penosa coscienza di una condizione di quotidianità anonima e schiva. Due opposti, due polarità a tendere un arco.

Da un punto di vista strettamente formale sono da notare tre consonanze “interne” (“dire-l’ardire”, “chioccio e impacciato”, “vano e lontano”) che legano foneticamente il dettato, nonché l’iterazione avverbiale “così”, rimante al primo e al terzo verso, che genera un senso di irrisolutezza e di precarietà.

Luciano Domenighini

Travagliato (BS), 6 novembre 2014

Recensione di “Nuvole bianche” di Ema (Emanuela Cecconi), a cura di Anna Maria Folchini-Stabile

Nuvole bianche

di EMA (Emanuela Cecconi)

Pagnini Editore, Firenze, 2011

Recensione a cura di Anna Maria Folchini-Stabile, poetessa e scrittrice 

 

La raccolta di poesie intitolata “Nuvole bianche” della poetessa EMA, come ama farsi chiamare Emanuela Cecconi, esprime il sentire di una donna squisitamente femmina, attenta a tutto ciò che la circonda, capace di fermare sulla carta le emozioni profonde e i brividi di passione che attraversano la sua vita.

 L’opera, illustrata dalla Poetessa stessa con vedute della “sua” Toscana e di altri luoghi visitati che le sono rimasti nel cuore, è suddivisa in quattro parti:

– Uomo che fai

– Nuvole bianche

– Arcobaleno

– Chi sono

e si sviluppa su temi poetici costantemente presenti nelle liriche:

– la natura

– la donna

– la passione d’amore

– il ricordo.

EMA si sente sempre parte della Natura, da lei intesa come mater dolorosa che assiste impotente all’oltraggio dell’Uomo suo figlio: “Uomo che fai /  Di quali violenze / ti stai macchiando…/ Tutto in nome del profitto/ … Neghi ai tuoi figli/ un domani, / un domani su questa terra.” ( da “Uomo che fai, pag. 13)

Conscia di ciò ne ricerca l’abbraccio materno in ogni cosa che la rappresenta e ne riconosce e ne apprezza l’incredibile bellezza sotto ogni aspetto: “ Albero dalle gentili fronde / rigoglioso e verde / con foglie lussureggianti, / accoglienti, tu sei madre”. (da “Albero”, pag. 20)

“ Cavalli dalle nere criniere / rampanti aggrediscono l’azzurro, / talvolta minacciosi, / talora portatori ribelli / di sogni passeggeri”. (da “Nuvole bianche”, pag. 29)

Attenta a ogni cosa, si sofferma anche sul fiore più delicato e timido che sorride alla primavera: “ Così vi presentate / in violetto o giallo, / da tenui a scarlatti/ colori in petali vellutati” (da “Pansè”, pag. 22)

Nei confini naturali illimitati si muove la donna e la Poetessa innalza il suo canto che parla di fragilità e delicatezza, di un’idea di sé ricca di speranze, nonostante il dolore vissuto nel corso della vita tanto da marchiarle a fuoco l’anima: “ …Chi sono? Un fiore! / Il fiore galleggia su speranze deluse, / amori finiti, / ma è felice / del calore del sole / del vento che l’accarezza. (da “ Chi sono”, pag. 61)

EMA guarda con occhi positivi alla vita nonostante “Un vissuto pieno di ferite / che sono solo mie, / che hanno segnato la mia pelle e la mia anima” (idem, pag. 61) e non nasconde il suo amore per l’amore fatto di sentimenti e di carne: “ La mia testa è lì / in quel momento con te, / quando la tua bocca / si socchiuderà per baciarmi, / e tra la tua pelle e la mia / non ci sarà più nulla / al di fuori di noi” (da “Sarà tra poco”, pag. 70). 

Leggere queste poesie dischiude un poco la porta sull’universo femminile, fatto di slanci e di paure, di rimpianti e di ricordi felici.

EMA, infatti, riesce a rappresentare nelle sue liriche il mondo di una donna a tutto tondo forte e delicatissima

 

 Anna Maria Folchini-Stabile

 

Angera, 26 settembre 2012

  

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“Case del passato”, racconto di Fiorella Carcereri

CASE DEL PASSATO

DI FIORELLA CARCERERI

Era un appartamento al terzo piano di una vecchia palazzina stile liberty in cui trascorsi il periodo più “magico” della mia  vita, l’età compresa tra i sei e i vent’anni. L’ingresso era enorme, uno spazio vuoto ed inutilizzato, chissà, forse progettato da un geometra ubriaco od inesperto. Per contro, la cucina era incredibilmente piccola, la sala impossibilmente fredda d’inverno e calda d’estate. Si salvava soltanto la mia cameretta, riscaldata da una maestosa stufa a carbone coke sistemata nell’atrio ed impreziosita da un gigantesco tappeto di pelle bovina, in voga all’epoca,  arricchita da un allegro tendaggio giallo e marrone e tappezzata dai poster dei miei idoli canori e calcistici, il tutto davvero molto trendy.   Ma il punto di forza di quella casa era però costituito dall’enorme terrazza che offriva una generosa panoramica su tutto il quartiere. Al centro, un bizzarro progettista aveva sistemato un possente tavolo di pietra con sei sedie, il tutto decorato con sculture di angioletti ed altri strani soggetti.

D’estate, la terrazza era un naturale punto di ritrovo per grandi e piccini. D’inverno, quando nevicava, diventava una specie di trappola glaciale, dove il vento accumulava decine di centimetri di neve. E c’era Gaspare, il mio gatto, che non voleva saperne di abbandonare lo scatolone pieno di stracci di lana sistemato nel punto più riparato, sotto il tavolo di pietra. Usciva solo quando vedeva qualche timido raggio di sole per venire a grattare alla porta della cucina all’ora di pranzo. Che buffo vederlo camminare lentamente, con quelle zampette vellutate interamente sprofondate  nella neve fresca, ancora immacolata. Il gelo doveva infastidire parecchio le sue estremità. A volte, i suoi movimenti davano l’impressione che camminasse, paradossalmente, su carboni ardenti. Quei muri videro la mia gioia ad ogni bel voto portato a casa,  la serenità di tante festività natalizie attorno al presepio illuminato ed addobbato con muschio fresco e vere cascatine d’acqua, ma assistettero anche impotenti ai frequenti litigi fra i miei genitori e alla malattia di papà. Quelle pareti furono testimoni di ogni mia parola, dubbio, paura ed affidabili custodi di tutti i miei piccoli e grandi segreti. Ora però, quelle stesse pareti non sono più a colori ma in bianco e nero. Troppi affetti persi per strada, troppe parole taciute, troppa tenerezza soffocata, troppa nostalgia per quegli anni perduti e la loro magia.  

 

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“Una donna in autunno” di Sandra Carresi, recensione di Marzia Carocci

“Una donna in autunno”

di Sandra Carresi

Ilmiolibro, 2010

Recensione a di Marzia Carocci

 

 

Sandra Carresi fa della sua poesia un diario di vita, dove sensazioni, emozioni, e nostalgie convergono in un caleidoscopio immaginario dove i colori, i profumi e le rimembranze si amalgamano a quelle gioie e a quelle paure che fanno parte dell’essere umano in quanto fragile e impotente.

La poetessa, ci condurrà nella propria vita dove sarà presente l’amore per il figlio, il marito, la madre, il ricordo, ma emergeranno anche le insicurezze, i timori, le incomprensioni i tarli umani e quei graffi nell’anima…

Contrasti di rapporti che fanno parte del vissuto di ognuno, ribellioni interiori miste a voglia di carezza e comprensione soprattutto là quando la vita non sembra più nostra e vorremmo abbracciarla, sentirla, domarla, anche ella scivola via nonostante noi.

Sandra Carresi, imprime nella sua forma letteraria quella forza e decisione volta alla luce e alla speranza in ogni caso, in ogni situazione; l’amore per la vita stessa è in ogni sua parola, in ogni sua immagine in quel cantico  scritto che diventa lirica del cuore.

La poetessa ricorderà i profumi, e attraverso la sua versificazione ci rappresenterà un mare e un cielo infinito, sentiremo quel vento caldo che descrive, odoreremo l’olezzo del tiglio che ci propone, ci parlerà delle mani di sua madre, del disordine di un figlio amato, e la morte di un pino che riporta ricordi di un tempo.

Una donna che ci conduce, passo dopo passo, nella propria esistenza, tenera e tenace, sensibile e combattiva anche nelle lotte più difficili e spesso insormontabili in quei cammini irti e tortuosi che a volte la vita c’impone.

La Carresi infonde attraverso la sua forma poetica quella speranza, quella determinazione di respiro vitale che porta a continuare a credere che al di là di ogni ostacolo, vi è sempre una salita da tentare sulla quale issarsi con forza e volontà, una cima dove riprendere a volare e a sognare, dove le aspettative e i desideri possono tornare , giorno dopo giorno a regalarci qualcosa di nuovo.

 

Marzia Carocci 

(critico/recensionista)

 

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“Quel sì e poi”, poesia di Fiorella Carcereri

Quel sì e poi

di FIORELLA CARCERERI  

 

 Cerco il tuo sguardo,

ma è sempre altrove.

  

Cerco le tue mani,

ma mi sfuggono.

 

No, non sei un amore proibito.

Tanti anni fa mi dicesti quel sì.

Fu l’unico.

 

Gli altri sì, se ci furono,

sottintesi per te,

impercepibili per me.

 

Invece, io cerco i tuoi occhi ogni giorno,

in un sorriso che non c’è mai.

 

Invece, io cerco le tue mani ogni giorno,

in una carezza che non c’è mai.

 

Una vita in attesa,

davanti ad una porta chiusa.

Aprila.

Fammi entrare.

Fammi capire.

E non mi aspetto parole.

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“Acrostico” di Emanuele Marcuccio, con un commento di Cinzia Tianetti

ACROSTICO

di Emanuele Marcuccio

Elegante mi aggiro pensoso

mentre la luna in ciel compare,

avanzando per una strada,

non comprendo il mondo:

uno è il solo pensiero

e l’orizzonte mi rapisce

la mente turbando

e l’amore m’invita.

Marcando la terra

arrivo fino in fondo

riuscendo nell’impresa,

comprendo la vuota cultura

urbana imperante,

comprendo il flebile vento

che corre lungo vicoli antichi,

introducono i nostri passi

obliando i passati mali.

 

COMMENTO A CURA DI CINZIA TIANETTI

Si canta la poesia con i passi che si compiono. Essa, lunga strada del divenire, della voglia e della possibilità, nel compiersi, è lo strascico vergine di una sposa: ritma il cammino del poeta che al tramonto, seduto sull’ultimo crocicchio, saluta l’infinita eco, quale essa è, nell’esserci per qualcun altro, che ne sarà rapito.

Infinita nell’afflato votarsi ad altre vite e con esse ad altri viaggi; dal punto stesso in cui salutò con lunghi addii i predecessori ispirati autori.

Ecco le risonanze per ogni poesia di secolare poetare e sentire;

 L’incedere e la riflessione, l’amore e il turbamento. Quale crocicchio suggestivo conducente per la sola via, l’animo umano.

I sentimenti più comuni dilatano il tempo in una passeggiata intimistica quasi mistica: “e l’orizzonte mi rapisce / la mente turbando / e l’amore m’invita”, dice il poeta.

Dove si intravede attraverso la cortina dell’orizzonte la suggestione della Spes (ultima dea), il godimento di Psiche. Quando nel turbamento del poeta, che s’aggira elegante, si sostiene l’ispirazione; tra l’abbraccio di Psiche e Amore, in un bacio, come una strada (quella del poeta), che rilegge il mondo. Perché se l’amore può salvare, quell’amore che compare in cielo, come l’occhio benevolo di una primigenia madre, lo stesso amore che sembra ci colmi, può altresì rivelare, nel precipitare nel terreno del frivolo, la mancanza infelice in cui soccombiamo ogni giorno, senza la riflessione che feconda, nell’intimo percorrersi il cuore dell’uomo, nel solitario avanzare, uscendo dall’oblio per distinguersi nel mondo.

 L’inquietudine meditata di questi versi matura nella riflessione che oltre l’ondeggiare del sentire c’è l’agire; il paesaggio dell’animo è turbato dall’incomprensione che sprigiona un’interrogazione poetica del tutto naturale; ma il poeta non svela la camera in cui fermentano i dubbi, i malumori, fedele alla scena appena tratteggiata rivela il clima che ha generato nella descrizione di ciò che avviene: “marcando la terra / arrivo fino in fondo / riuscendo nell’impresa”; Marcare! L’opera più grandiosa di uomo. E come si diceva, dal sentire all’agire, in cui, il poeta, attraverso il cammino della propria vita e l’arte del suo pensiero, fattisi strumento, si impegna a comprendere. E invero  l’incomprensione diviene carne e ossa nella partecipazione viva in questa “vuota cultura / urbana imperante”, portando con sé il suo turbamento e l’atto amorevole di volere capire ma in un no imperante, del pensiero rivolto a se stesso, nel non volere esserne succube, in una tautologia che vorrebbe costruire speranze.

In un unico sguardo, vediamo l’ordinario precorrere sul vento dell’ovvietà e il poeta “marcare la terra per arrivare fino in fondo. Per quell’amore per il mondo che arriva fino in fondo, riuscendo a non lasciarlo andare, obliando i passati mali.

 Se si tengono presenti tutti i motivi intonati, in questi versi dall’alterno canto d’ogni voce (dal profilo acceso della luna, dal movimento del passo, dal volto che si può immaginare nell’espressione rivolta a sé del poeta, dalle linee sinuose, ora rigide, ora, immaginiamo, vanescenti, e infine certe, della strada, dal buio, e dalla sua compagna, ombra, in ogni cosa, dal mondo, dal vento), tutto è chiaro: un coro eloquente, nella costruzione scenica fatta di temi incarnati nell’uomo come sua essenza; tratte da inconsce primitive simbologie di ogni tempo, e di intervalli, tra un’immagine e l’altra che, chiamato spazio, traduce un dire che non è detto.

Dall’essere strumento di psiche e eros rapito tra i passi dei pensieri e lo sguardo acceso dell’amore preso nel cuore dall’orizzonte che spinge l’affanno umano all’oltre, a credere, ad avere fede, il poeta costruisce una strada, la sua, sul mondo, non in un passivo andare ma, costruttore degli eventi, egli chiede, giungendo nell’impresa, di essere qui e ora nella consapevolezza.

 E il poeta arriva ad incarnare il suo sentire poetico, incarna il suo dire in questi versi nelle iniziali del suo nome come a prendersene carico nella proiezione metafisica di quel che ognuno porta, col venire al mondo. Ecco forgiar le lettere, eccole danzare e marchiare di identità l’autore, che tutt’altro che rassegnato, forma il dettato del suo temperamento tra il pensiero costante, l’amore per l’amore e il voler vivere di questo mondo.

 Nella pacatezza di questa poesia si celano le forze incontrastate di Amore, che in questa poetica appare, nella Luna, romantico e di Speranza per un futuro, forte della memoria del nostro passato, che, come dice il poeta, annunciandosi con suono “che corre lungo vicoli antichi,  / introducono i  nostri passi”.

 

Cinzia Tianetti, 19 settembre 2012

PER LEGGERE IL COMMENTO A CURA DI LORENZO SPURIO A QUESTA STESSA POESIA, CLICCA QUI.

LA POESIA E IL COMMENTO CRITICO VENGONO PUBBLICATI PER GENTILE CONCESSIONE DEGLI AUTORI.

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“Fluidi pensieri”, poesia di Fiorella Carcereri

Fluidi pensieri

DI FIORELLA CARCERERI

 

Spesso nella vita

ci creiamo dei punti fermi

per non perdere l’orientamento,

per non farci inghiottire dal caos.

 

 Ma sono solo frutto

della nostra immaginazione.

  

Perché nulla è fisso,

nulla immutabile,

nulla invariabile,

nulla costante.

 

 In fondo,

non è la roccia perpetua,

bensì solo la volatilità

dei fluidi  pensieri

a salvarci

quando occorre

virare d’improvviso.

 

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“Porte sbattute”, racconto di Fiorella Carcereri

racconto di FIORELLA CARCERERI

 

Sbattere la porta è la cosa che ho sempre saputo fare meglio nella vita, in senso pratico, ma anche in senso metaforico. Sbattere la porta è la cosa che gli altri hanno sempre saputo fare meglio nei miei confronti, quasi esistesse una scuola di specializzazione che ne insegna tecniche e modalità e tutti coloro coi quali mi sono rapportata l’avessero frequentata con profitto.

Sono nata e cresciuta in un ambiente di porte sbattute, in faccia o dietro le spalle. E ciò si è verificato in tutti i possibili orari del giorno e della notte, in una miriade di situazioni.

La nonna paterna, già parecchio anziana quando io nacqui, odiava mia madre con tutta se stessa.

Mia zia, seguendo fedelmente le orme della nonna, non è mai riuscita ad avere con mia madre un approccio civile, un minimo di dialogo, non dico fraterno, ma almeno di reciproca tolleranza. I motivi scatenanti di questa “tragedia” familiare erano, in fondo, sempre gli stessi.

Da una parte, una madre rigida e mai disposta a scendere a compromessi con nessuno.

Dall’altra, una zia  perfida ed avida di denaro, quello che sottraeva a mio padre durante i suoi tristi e prolungati ricoveri in ospedale.

Nonna e zia paterne non hanno mai fatto mancare a mia madre dosi letali di ostilità e hanno sempre fatto del loro meglio per metterla in cattiva luce nei confronti di chiunque, per renderle la vita impossibile, soprattutto durante i primi anni di matrimonio in cui si viveva tutti sotto lo stesso tetto, com’era usanza diffusa un tempo.

E quella bimba, figlia unica, (non so se questo sia stato un vantaggio od una sfortuna) ebbe il “privilegio” di assistere a snervanti alterchi quotidiani che scaturivano anche da banalissimi pretesti e, talvolta, sfociavano nell’aggressione fisica, quando tutte le frecce verbali erano state esaurite.

Abitualmente, le liti avvenivano tra donne ma poi, immancabilmente, veniva coinvolto mio padre che aveva l’arduo compito di ergersi a giudice di quelle  controversie e poi, carico di rabbia, scaricava le sue ire sempre sul medesimo capro espiatorio: la più piccola ed indifesa, facile da redarguire, facile da sculacciare.

Ora sto scrivendo queste cose con sufficiente distacco emotivo e le osservo seduta in platea, in ultima fila,  spettatrice annoiata di una squallida rappresentazione teatrale. Ma allora era diverso. 

E, bene o male, tutto ciò che ho visto e sentito da zero a quindici anni ha lasciato profonde cicatrici e bruciature indelebili nella mente, nel cuore e nell’anima. Sono sopravvissuta, è vero, ma a quale prezzo!

Ogni giorno mi auguravo  di ricevere qualche complimento, qualche tenera carezza, e pregavo per veder sorridere e ridere i miei genitori ma, pensandoci bene, non ricordo di aver mai colto anche un solo attimo di felicità nei loro sguardi…

Il nonno materno che sbatteva la porta dopo aver cercato invano di difendere figlia e nipote…

Mia madre che, un mese sì e l’altro pure, raccoglieva i nostri abiti in una grande valigia rigida di colore marrone scuro per andare a chiedere ospitalità ai nonni…

Porte sbattute, a centinaia…

Ad un certo punto, cominciarono a non farmi più effetto e pensai: “Se per i grandi questo è l’unico modo per ottenere qualcosa o attirare l’attenzione, perché non dovrei farlo anch’io?”.

Frequentavo le scuole medie quando, per i motivi più diversi, che sono sempre e comunque di importanza esistenziale per un’adolescente,  non di rado saltavo la cena e mi chiudevo a chiave nella mia stanza per riaprire soltanto al mattino successivo. 

Quando mio padre era ancora vivente, non aprivo per non essere picchiata.

Dopo la sua morte, non aprivo per non dare soddisfazione a mia madre che mi minacciava e mi intimava di aprire da dietro la porta  in legno e vetro smerigliato.

Non riesco a ricordare con esattezza per quali motivi arrivassimo ai ferri corti. A scuola andavo molto bene, non avevo brutte compagnie, anzi, ero pressoché un’eremita.

E’ passato troppo tempo ormai e, fortunatamente, ho rimosso i particolari più dolorosi di quei momenti. I nostri caratteri erano del tutto incompatibili.  Punto e basta.

E quella santa donna della nonna materna sempre in mezzo, nel tentativo di ricucire gli strappi su due pezzi di stoffa ormai logori e lacerati e che nessun filo sarebbe mai stato in grado di riunire. Se oggi fosse ancora tra noi, avrebbe potuto ricoprire degnamente la carica di giudice di pace, mediatore od altra attività diplomatica di tutto rispetto. Povera nonna… Non smetterò mai di ringraziarla nelle mie preghiere per avermi salvato la vita in più occasioni, purtroppo non solo, e non sempre, in senso metaforico.

Quando, dopo la maturità, entrai ufficialmente nella vita “seria”, nel mondo degli adulti, ero già rodata, avendo alle spalle una ragguardevole gavetta. Gli inizi non furono esattamente da tappeto rosso ma, tutto sommato, una passeggiata rispetto a quanto avevo avuto il “privilegio” di condividere nella mia pseudo-infanzia ed adolescenza dalle tinte fosche.

Ancora oggi quando, nonostante gli sforzi, non riesco ad esprimere verbalmente ciò che sento e che vorrei,  quando ho l’impressione di essere attaccata ingiustamente o in tutte quelle situazioni in cui, mio malgrado, sono costretta a far emergere il lato peggiore di me, ricorro al vecchio metodo della porta sbattuta o della cornetta riattaccata, un classico.

Un gesto, forse, vigliacco, una modalità un po’ ferina per chiudere una controversia che so benissimo essere  momentaneamente sospesa e la cui soluzione è purtroppo solo  rimandata.

Considerando però questo comportamento da un’altra prospettiva, ritengo possa essere il “minore dei mali” nelle situazioni che stanno per sfuggire di mano, quando non è più possibile provare a ragionare, venirsi incontro, riavvolgere la bobina, quando ormai ci si è spinti troppo in là per abbassare i toni e nessuno è più disposto a cedere di un millimetro.

Sbattere la porta è la “protesta estrema” per non imboccare la via di non ritorno.

Sbattere la porta lascia tempo ai contendenti di riflettere, riordinare le idee, rimuginare sulle proprie colpe, se ve ne sono, o su quelle degli altri.

E’ una specie di intervallo tra due round di pugilato, aiuta a riprendere vigore se lo scontro è destinato a protrarsi, o a dire definitivamente “basta”.

Ogni volta che mi succede penso sempre “Questa è stata l’ultima”, anche se so perfettamente che cambiare il proprio temperamento è un’impresa disperata e comunque discutibile, qualora ciò fosse possibile. 

C’è una soglia di sopportazione, o di dolore, o di rabbia  oltre la quale scatta l’allarme. Faccio sempre del mio meglio per rallentare l’avvicinarsi di questo  momento ma poi il fiume esonda.  Le mani non obbediscono più alla ragione che vorrebbe fermarle e succede. Succede e basta. Perché siamo esseri imperfetti e qualche difetto, anche grosso, dobbiamo pur averlo.

Chi mi conosce bene non si stupisce più. Magari, ci resta male sul momento, ma sa che basta pazientare. Dopo ogni tempesta, anche la più terribile, arriva sempre la quiete. Tanto più violenta è la tempesta, tanto più nitido, luminoso e stupendo sarà l’arcobaleno.

Non so quanto c’entrino la famiglia d’origine e le circostanze della vita in questo mio modo di essere, ma sicuramente hanno dato il loro non indifferente contributo.

Non sono sicuramente un mare forza uno.

Non sono la brezza impercettibile di una tiepida giornata di aprile.

Sono spesso un osso duro, una gatta da pelare, a volte una corona di spine.

Tuttavia, a mia parziale discolpa, se di colpa si può parlare, posso dire che nessuno mi ha mai amata di meno per questo.

E sono enormemente grata a chi è riuscito a vedere ben oltre le apparenze. A chi ha avuto la volontà e la pazienza di comprendere che cosa si cela dietro quella dura corazza difensiva. A chi, dopo un po’, si fa sempre trovare sorridente dietro ogni mia porta sbattuta.

E, in cuor mio, spero di potermi un giorno riconciliare completamente con il mondo in modo tale che quel gesto non rappresenti più, per me, l’unica via possibile.

 

 

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E’ uscito il nuovo numero della Rivista “Segreti di Pulcinella” (n°39)

E’ uscito il nuovo numero della rivista Segreti di Pulcinella, avente come tema “La crisi”. Il numero, particolarmente corposo nella quantità dei materiali, è composto da racconti, poesie in italiano e in lingua, recensioni di film e di libri, rubriche di arti figurative e filosofia e si apre con due editoriali, uno firmato da Alessandro Rizzo, vice-direttore della rivista e l’altro firmato da Andrea Cantucci, redattore della rivista.

 

Nella rivista sono presenti testi di:  Massimo Acciai, Lorenzo Spurio, Andrea Cantucci, Alessandro Rizzo, Marco Bazzato, Giuseppe C. Budetta, Luisa Bolleri, Niccolò Maccapan, Fiorella Carcereri, Iuri Lombardi, Monica Fantaci, Alessandra Ferrari, Emanuela Ferrari, Simona Marchini, Luca Mori, Gilbert Paraschiva, Nazario Pardini, Ivan Pozzoni, Dunia Sardi, Francesco Vico, Mihela Zanarella, Pierangela Castagnetta, Aurelian Sorin Dumitrescu, Codruta Dragotescu, Lucia Dragotescu, Marius Viorel Girada, Manuela Léa Orita, Ioana Livia Stefan, Sandra Carresi, Sara Rota, Flavia Pacini, Antonella Pedicelli, Mario Gardini, Gennaro Tedesco, Paolo D’Arpini, Apostolos Apostolou, Vito Tripi.

 

Si ricorda che il prossimo anno la rivista compirà i suoi primi 10 anni di attività letteraria e che per celebrare questa ricorrenza è stato organizzato il Concorso Letterario “Segreti di Pulcinella” di cui in rivista si può leggere il bando. Per chi fosse interessato a scaricare il solo bando comprensivo di scheda di partecipazione in formato pdf, il link di riferimento è questo:http://www.segretidipulcinella.it/concorso.pdf

La prossima primavera a Firenze si organizzerà la festa dei dieci anni della rivista dove –speriamo- avremo il piacere di incontrarci (vice-direttori, redattori, collaboratori) e in quello stesso momento si premieranno i vincitori del Concorso.

 Il nuovo numero della rivista – come tutti gli arretrati- può essere letto e scaricato in formato pdf collegandosi al sito: www.segretidipulcinella.it

Il prossimo numero della rivista sarà dedicato al tema “Istruzione” e i materiali dovranno pervenire entro e non oltre il 31-12-2012.

 

LA FOTO CHE E’ LA COPERTINA DI QUESTO NUMERO DELLA RIVISTA E’ UNA PRODUZIONE DI ANDREA CANTUCCI, REDATTORE DELLA RIVISTA SDP.

 

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