“Pier Paolo Pasolini, il poeta civile delle borgate” l’antologia a cura di M. Zanarella e L. Spurio

PIER PAOLO PASOLINI, IL POETA CIVILE DELLE BORGATE

Antologia tematica a quaranta anni dalla sua morte

a cura di Michela Zanarella e Lorenzo Spurio

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A breve sarà disponibile l’antologia “Pier Paolo Pasolini.Il poeta civile delle borgate” curato da Michela ZanarellaLorenzo Spurio, un omaggio a Pasolini a quarant’anni dalla sua morte.
APS Le Ragunanze in collaborazione con Euterpe Rivista Di Letteratura è orgogliosa di questo progetto editoriale, che è stato possibile grazie a PoetiKanten Edizioni, con il patrocinio morale di Roma Capitale (Municipio XII) e il Centro Studi Pier Paolo Pasolini Casarsa della Delizia.
Nell’antologia la cui prefazione è stata curata da Francesca Luzzio, figurano poesie di Mariella Bettarini, Corrado Calabrò, Antonio Spagnuolo, Adalgisa Santucci, Angelo Gallo, Lucia Bonanni, Silvia Famiani, Simone Sanseverinati, Maria Pompea Carrabba, Salvatore Monetti, Maddalena Corigliano, Franca Donà, Pinella Gambino, Nazario Pardini, Oscar Sartarelli, Manuela Iona, Patrizia Pierandrei, Margherita Pizzeghello, Dante Maffia, Serena Maffìa III, Angela Greco AnGre, Candido Meardi, Antonella A. Rizzo, Luciana Raggi, Enza Spagnolo, Michele Paoletti, Maria Chiarello, Silvio Parrello, Michela Zanarella; racconti di Roberto De Luca, Fabio Muccin, Monica Ravalico; articoli e saggi di Francesco Martillotto, Luca Rachetta, Federico Sollazzo, Giuseppe Napolitano, Francesco Paolo Catanzaro, Michele Miano, Carlo Antonio Borghi, Diana Lanternari, Marco Ausili, Francesca Santucci, Lorenzo Spurio,Iuri Lombardi, Giuseppe Lorin. Vi ringraziamo tutti per aver collaborato con i vostri testi.

Per ordini e informazioni: poetikantenedizioni@gmail.com

“Aquiloni distratti” di Giorgia Catalano e Giorgio Milanese, postfazione di E. Marcuccio

Aquiloni distratti di Giorgia Catalano e Giorgio Milanese, Sillabe di Sale, 2015

Postfazione di Emanuele Marcuccio

AQUILONI-DISTRATTI-350x525Giorgia Catalano, dopo la felice pubblicazione nel 2012 di Un Passaggio Verso le Emozioni, silloge poetica e opera prima, si riaffaccia alla poesia con Aquiloni distratti, un’opera da lei ideata; un libro che raccoglie al suo interno due sillogi di venti poesie ciascuna, scritte dai due conduttori poeti (la stessa Catalano e Giorgio Milanese) della trasmissione radiofonica di promozione culturale, “L’Isola che non c’è”, in onda ogni giovedì sera dai microfoni della piemontese Radio Italia Uno e, grazie al collegamento web in streaming, ascoltabile in tutto il mondo.

Dopo una prefazione alle due sillogi, a firma della nota poetessa e critico letterario Ninnj Di Stefano Busà, l’opera si apre con la prima, Se potessi…, dove la Catalano conferma ancor più e in maniera più matura, quanto ho avuto modo di scrivere nella prefazione a Un Passaggio Verso le Emozioni; continua il poetare denso, fluido, che si prodiga in apocopi ed elisioni, ricco di musicalità al punto che, già due poesie di Se potessi… sono divenute canzoni[1]. Non mancano anche qui raffinate figure retoriche, come l’accusativo alla greca in “Candido manto” (“Candida/ manti erbosi/ ricopre.”) o come le funamboliche sinestesie uditivo-gustativo-olfattivo-visive in “Pausa del cuore”: “[E]ccentrico gusto/ chiassoso/ […] quasi rumore scadente.// […] sorseggiavo/ via vai di motori.// […] un fruttato episodio d’amore”. O (volendone citare una già presente nella prima silloge), come in “Ali d’un falco”, dove la poetessa all’incipit utilizza la raffinata figura del chiasmo (“Plasmata da mano divina/ nella creta affondata”) e alla terza strofa spezza il verso in un magnifico enjambement (“[B]uoi, stambecchi e libere/ ali d’un falco”).

Ma il vertice emozionale e, credo, letterario, è raggiunto da “Se potessi…”, la lirica eponima della silloge, in cui la Nostra esprime il suo immenso amore di madre per i figli (suoi “adorati diamanti”); in un tripudio di versi semplici ma emozionati e commossi ripete il sintagma “Se potessi…” quasi ad ogni incipit delle sette strofe in cui si articola la lirica: “Se potessi…/ alienerei me stessa/ annullerei i miei sogni/ per farne vela d’un battello/ e condurvi là/ dove riposa il sogno/ dove il brutto è solo un ricordo.

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Giorgia Catalano e Giorgio Milanese, autori del libro Aquiloni distratti

Continuiamo con il secondo “aquilone distratto”, il poeta Giorgio Milanese che, diversamente dalla Catalano, ha al suo attivo due sillogi poetiche. Di quasi una generazione più grande della collega, con un eloquio poetico più semplice ma non per questo meno degno di attenzione. Milanese privilegia poche ed essenziali figure retoriche; una poesia dal tono quasi colloquiale ma ricco di immagini scolpite che catturano l’attenzione del lettore e ricche di musicalità.

All’ombra delle stelle si apre con la commossa “Papà”, dove lo sguardo rivolto all’amato padre diventa occasione di riflessione sullo scambio generazionale (“Oggi son uomo/ con pregi e difetti./ […] Ora/ vado solo./ La ruota della vita/ gira ancora”); significativa è la successiva “Il verme e l’uomo”, in cui il poeta, con un ideale rimprovero rivolto all’uomo da un “verme”, lo paragona a quest’ultimo quando si piega e striscia di fronte ad un potente: «“Eppure tu, dinanzi/ ad un potente,/ spesso ti pieghi,/ strisci e ingoi fango/ e fai di tutto/ per farmi concorrenza”»). Procedendo nella lettura, a un certo punto ci imbattiamo in “Extracomunitario”, poesia civile che denuncia la deriva razzista e xenofoba, purtroppo, serpeggiante nella società odierna; degni di nota sono i correlativi oggettivi alla terza strofa (“Sono preda della nebbia/ e non sciolgo la pioggia/ dai miei occhi spaventati,/ lascio arido il terreno/ del mio corpo/ e non provo più/ a concimare i fiori/ della mente.”), dove Milanese opera un’ardita similitudine tra il “terreno” e il “corpo”, anch’esso bisognoso della “pioggia” e del “concime”.

Infine, puro idillio rustico è “Un temporale in montagna”; il poeta ci narra i gesti, quasi un rituale, all’arrivo di un temporale: “S’illumina il focolare,/ s’approntano le sedie,/ il fuoco scoppietta allegro/ e tutti ci unisce/ ad aspettare il tuono./ […] Gocce ora crepitano,/ mentre un lampo ardente/ rischiara la montagna./ Piove!

Come non ricordare in questi versi, quasi la stessa atmosfera temporalesca che si “respira” in “San Martino” del Carducci.

Volate poeti, volate “aquiloni distratti”, spensierati e, simpaticamente “pasticcioni”.

 

Emanuele Marcuccio

Palermo, 26 maggio 2015

[1] Come già è stato evidenziato nel corso dell’ampia nota bio-bibliografica introduttiva alla silloge, “Se potessi…”, musicata dal cantautore Pierino Rinaldi e “Pausa del cuore” dalla cantautrice Renata Bolognesi.

 

Questo testo viene pubblicato su Blog Letteratura e Cultura per gentile concessione dell’autore e dietro sua autorizzazione. 

“Poesie per la pace” di Patrizia Pierandrei, recensione di Lorenzo Spurio

Patrizia Pierandrei, Poesie per la pace, in Brise, Aletti, Villanova di Guidonia, 2015, pp. 81-97.

Recensione di Lorenzo Spurio

copDopo i due libri di poesie Rose d’amore (2014) e Viole di passione (2015) Patrizia Pierandrei ha recentemente pubblicato una silloge di quindici poesie, intitolata Poesie per la pace, all’interno del volume collettivo Brise edito da Aletti. Come spiegato nella nota di prefazione, il volume è stato organizzato dalla casa editrice con la volontà di acuire la dimensione dialogica e di scambio tra poeti contemporanei diversi tra loro per età, appartenenza geografica, erudizione e tematiche poetiche.

In particolare la jesina Patrizia Pierandrei sembra aver recepito in maniera assai evidente la linea in qualche modo tracciata da questo progetto editoriale fondato, appunto, sull’esigenza di una comunicazione più concreta ed efficace tra le persone, una rinnovata consapevolezza improntata al recupero di quella convivialità autentica e di tutte quelle manifestazioni di dialogo, di confronto e di condivisione.

La parola brise, dal francese “spostamento del vento che dà sollievo alla calura estiva e che dal mare va verso la terra, come ci viene ricordato nella prefazione di Giuseppe Aletti, sembra sposarsi egregiamente con l’immagine che campeggia in copertina, uno scatto privo di sofisticate correzioni od effetti visivi, che immortala la Torre Eiffel. Inaugurata nel corso della Esposizione Universale del 1899, la Torre Eiffel che ben presto si convertì come immagine simbolo di Parigi e della Francia, venne eretta per celebrare il centenario della celebre rivoluzione francese. Nelle varie tonnellate di materiale di cui è fatta e nella sua costruzione ascensionale vertiginosamente filiforme celebrava la forza inventiva ed il progresso dell’uomo, ossia il raggiungimento di un periodo di prosperità economica dovuta all’applicazione concreta degli sviluppi della tecnica e dunque dell’attività di ricerca dell’uomo. In tempi a noi più recenti, se guardiamo direttamente alle aspre vicende geopolitiche che macchiano di sangue le cronache dei giornali, la Torre Eiffel non può che non rimandare l’attenzione alle varie stragi compiute dai fondamentalisti islamici che negli ultimi tempi hanno colpito, appunto, la capitale sulla Senna. Il lutto che la Francia ha sperimentato e che soffre è un lutto che coinvolge anche noi cugini d’Oltralpe e l’Europa tutta che si è vista obbligata, a seguito del clima di terrore instauratosi e alla paranoia sociale, a intervenire attivamente non solo con una partecipazione solidale verso i francesi ma richiamando l’esigenza di politiche estere e di difesa più scrupolose, a salvaguardia del bene collettivo.

Le poesie di Patrizia Pierandrei, come recita il titolo della sua silloge, vogliono ed intendono essere lette come “poesie di pace” cioè non come mere composizioni liriche con le quali la Nostra riflette sul suo stato o ci dà una sua particolare riflessione emotiva su quanto accade nel suo intimo e nel pubblico, piuttosto richiedono una lettura in sé compartecipativa, affinché ciascun lettore possa in qualche modo farle sue condividendone i messaggi speranzosi ed ottimisti di fondo, spesso intessuti su di un evidente sentimento cattolico.

La poetessa allora non parla solo di amori che ritrova nel ricordo e che vorrebbe rivivere al presente, fisicamente, cercando di annullare quello spazio temporale tra il passato e il presente sconsolato fatto, appunto, di memorie, ma anche dell’importanza del sentimento dell’amicizia e dell’esigenza, fondamentale, per i nostri ragazzi di poter contare su buoni insegnanti poiché l’istruzione, il rispetto e il senso di giustizia si apprendono da bambini. Non è possibile pensare un mondo migliore privo di ingiustizie, emarginazioni e nefandezze di vario tipo se non ci si preoccupa di istruire le nuove generazioni al rispetto dell’altro, all’ascolto, alla fede nella parola, all’esigenza del vero (“il mio sentimento di pronunciare/ le parole, che dicano il vero”, 84).

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Patrizia Pierandrei autrice della sillogi Poesie per la pace inserita nell’antologica Brise di Aletti Editore (2015)

In “Sentimenti nostalgici” la Pierandrei ci parla del suo grande sogno che vela un’esigenza impellente di poter “ritornare nel giardino”: al giardino dell’infanzia, alle abitudini dell’adolescenza e comunque di un’esistenza spensierata e compiuta, ad una età felice e rigogliosa dove la noia e le preoccupazioni non avevano ancora fatto capolino. Il desiderio di raggiungere tale giardino, tale spazio mitico-illusorio, nonché di riappropriarsi con una consapevolezza forse immatura ma incontaminata, in termini pratici sembra sposarsi con quel rigetto delle difficoltà dell’oggi, con l’esigenza assai sentita di poter chiudere gli occhi e dimenticare quanto di nefando accade come il fenomeno pandemico della fame che lei traccia nella poesia “Il pane della verità”. Ricercare un giardino in cui rinverdire la propria età e ricollegarsi a quel passato reale tanto splendidamente revocato e assai importante è allora sia motivo di ricerca di sé stessi e volontà in parte di rinchiudersi nel proprio cantuccio di esperienze e persone conosciute, in un antro tutto personale del quale si conoscono alla perfezione tutte le procedure di funzionamento. Un po’ come la Mary ragazzina nel celebre Il giardino segreto che, una volta scoperto quello spazio irreale e rassicurante, non potrà più farne a meno. D’altro canto –e meno incline a una dimensione fantastico-possibilista- la Pierandrei identifica in quel giardino dell’esperienza passata un motivo d’evasione in uno spazio incontaminato e vivibile, sempre fresco e profumato, dove la presenza del male e la violenza delle immagini non sono capaci di incrinarne il fascino primigenio.

Una nota di riflessione va riservata in particolar modo alla poesia “Comunione” nella quale la poetessa jesina sottolinea con il suo verseggiare tipicamente allitterativo per mezzo di rime baciate ed altri sistemi fonici a fine verso la centralità della parola come atto comunicativo ed elemento aggluttinante, solidificante, aggregante della società. La Nostra focalizza assai bene quale sia uno dei maggiori problemi dell’oggi ossia la mancanza di comunicazione. La società è, infatti, immersa in un grave e assordante inquinamento acustico dove non è la comunicazione sana e rispettosa degli interlocutori a dominare, piuttosto le grida, le minacce, i lamenti, gli sfottò, i pianti acuti, le denigrazioni e i comandi. La Pierandrei, con i suoi versi dalla chiarezza disarmante, è capace di riflettere e predisporre il lettore a una maggiore concentrazione su questo fenomeno del quale sottolinea l’aridità dell’universo comunicativo, la penuria di parole volte alla costruzione e il dominio, invece, dei pochi che parlano e urlano comandando sugli altri che, sottacendo alle minacce, avallano la loro inferiorità acconsentendo a futuri e maggiori castighi.

Comunicare ci insegna a conoscere/ nuove prospettive per migliorare il vivere,/ perché ci si possono scoprire/ freschi progetti per l’avvenire” (95), scrive. Il dialogo e il confronto, anche laddove avvenga su posizioni ideologiche differenti, deve mantenere sempre un rispetto per l’interlocutore e, soprattutto, non degenerare nell’adozione di comportamenti concreti, di natura fisica, che denigrino l’alto potenziale del verbo.

LORENZO SPURIO

Jesi, 21-0-2016

“La porta dell’inferno” di Daniela Ferraro con un commento di L. Spurio

Nella giornata della memoria, pubblichiamo una poesia della poetessa calabrese Daniela Ferraro ispirata alla deplorevole carneficina della seconda guerra mondiale con un commento del critico Lorenzo Spurio a continuazione.

La porta dell’inferno

di Daniela Ferraro

S’apre, improvvisa,
in mezzo al verde
e l’erba stinge
e cessa il vol d’uccelli
e odi il vento
che macera le ceneri
dei dannati immolati
al Dio umano bifronte.

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Commento di Lorenzo Spurio

La lirica, costituita da versi lapidari e assai visivi, ci immette in uno scenario di profonda ambiguità e di desolazione nella quale le tinte cromatiche hanno subito un processo di slavatura. Non sono, però, i colori ad aver subito questa operazione di illanguidimento da rendere le tinte vane e difficilmente identificabili, ma sono gli oggetti, la materialità concreta, indicata nell’ “erba” ad essere interessata così non è che leggendo la lirica immaginiamo una erba-non erba cioè a un’entità che ne descriva la sua assenza, piuttosto la Nostra il quell’ “Erba stinge” sembra quasi di vedere i fili d’erba che perdono il colore, che vengono deprivati di una delle loro caratteristiche che l’uomo percepisce per mezzo dell’utilizzo empirico dei sensi. Ma non è l’erba che effettivamente stinge, piuttosto è la vista allucinata dell’uomo, stordita dal disprezzo e vituperata dall’odio che lo porta all’adozione della bieca violenza a non permettergli, quasi come una dura condanna adoperata dalla Natura che dinanzi a ciò è completamente inerme, a distinguere nettamente la tempra cromatica dell’erba, a percepirne con distinzione tale qualità visiva. Nell’abulia dei colori (essi sono assenti non in quanto tali, ma a seguito dell’incapacità dell’uomo di identificarli) si sposa la pesantezza dell’immobilità: gli uccelli, proprio come il verde perso dell’erba, hanno cessato di produrre versi, abiurando alle leggi della loro esistenza nel mondo. Esistono come parvenze, ma anch’essi sembrano aver perso l’anima dinanzi a tanta tribolazione e degrado delle coscienze. Il vento, che la Nostra richiama, e che potrebbe servire a rivitalizzare l’ambiente, a far uscire dal torpore nel quale la natura tutta si è stretta serrando gli occhi sperando in un epilogo veloce delle vessazioni, non è  richiamato quale presenza benigna, bensì assume il nefasto carico di morte che aleggia nel campo di lavoro. E’ un vento di morte, putrido e annullante, perversamente pesante e doloroso, la sua aria contiene gli ultimi sospiri della gente a cui è stata data la morte, gli afflati emozionali, gli ansimi di tormento. E’ un vento-miscela, assai più denso e visibile di qualsiasi spostamento d’aria. La percezione dello stesso è motivo d’ulteriore afflizione nella certezza di una condanna atroce da scontare senza aver commesso peccati. La chiusa della poesia, serrata e assai perentoria, nella figura ambigua e difficile di un “Dio umano bifronte”, si riallaccia a quella natura che ha assunto gli elementi del Male, quasi per trasfusione dalle malvagità dell’uomo che in quel luogo opera senza commiserazione e improntato ad una legge snaturata. Il Dio che la Ferraro descrive non è solo “bifronte”, che osserva maledettamente il genere umano con una doppiezza di prospettive, ma si è fatto “umano”, risiedendo nelle carni ormai cenere di ciascun disgraziato che ora vaga in quel vento di morte che soffia con raffiche taglienti come asce. Si faccia silenzio per ascoltare quei fiotti di tormento e allontanarli per sempre.

 Lorenzo Spurio

 Jesi, 26-01-2016

La poesia viene pubblicata su Blog Letteratura e Cultura per gentile concessione e con l’autorizzazione dell’autrice.

 

Il partigiano annientato in “Fisarmonica rossa” di Franco Matacotta, a cura di Lorenzo Spurio

Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossa di Franco Matacotta

di Lorenzo Spurio 

 

Il rosso dell’impeto e non dell’ardore.

Il rosso dello svenamento e non della passione.

Il rosso della lotta partigiana contro la barbarie nazifascista.

Il rosso del sangue che si versa e non quello dell’amore che si promette.

È il colore che il poeta fermano Franco Matacotta impiegò nel titolo di uno dei suoi lavori più noti, Fisarmonica rossa[1], una densa e dolorosa silloge di poesia dove il poeta vergò sulla carta la dolorosa esperienza della guerra. Lo fece quasi sempre con un linguaggio duro, tagliente, aspro e senza possibilità di redenzione. Le immagini, icastiche e pregne di una desolazione morale vergognosa, si trasmettono al lettore come vere e proprie pugnalate capaci di inasprire il tormento di chi, imbevuto di lotte civili e amico dell’intera umanità, sente ancora oggi sulla sua pelle –sebbene non abbia vissuto direttamente le vicende- l’ingiuria subita da un popolo che significò lo svilimento della coscienza, la mortificazione delle carni, l’autodistruzione del genere umano.

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Franco Matacotta (Fermo, 1916- Nervi, 1978)

Matacotta nacque nella città marchigiana di Fermo nel 1916 ma visse la gran parte della sua tribolata esistenza altrove: prima nella Capitale dove frequentò la Facoltà di Lettere e prese parte alla vita intellettuale degli ambienti romani e poi altrove. Una serie di viaggi e spostamenti di varia natura lo portarono in giro per l’Italia, tra Capri, Milano e altre mete. Ogni spostamento fu, dal punto di vista culturale, assai propizio per il Nostro e gli permise l’approfondimento morale, la crescita e di connettersi a un novero di intellettuali significativi quale ad esempio Filippo Tommaso Marinetti, padre dell’avanguardia, che ideologicamente sposerà una filosofia di vita assai distante dal fermano. Matacotta stringerà relazioni anche con il perugino Sandro Penna (per altro abbastanza dimenticato), il padre indiscusso del romanzo italiano, Alberto Moravia, che avrebbe dato il meglio di sé, però, negli anni a seguire e Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, in qualche modo legata alla stessa regione del Nostro perché lì si trasferì da ragazza assieme alla famiglia (in maniera precisa a Civitanova Marche come narra nel romano autobiografico Una donna) e dove si sposò in prime nozze. Matacotta resta noto più come uno degli amanti della donna che, purtroppo, per la sua attività culturale, per la sua figura di poeta.

Sono gli anni del Secondo Conflitto Mondiale e sembra che la poesia e la letteratura in generale abbiano poco a che vedere con la dura realtà fatta di violenze, rappresaglie, proclami, città militarizzate e caccie al nemico. Ma gli intellettuali non si esimono dal parlare, vogliono credere di vivere in un società dove la minaccia del bavaglio, la censura e le persecuzioni non li riguardino. Si illudono, forse. Di certo non intendono in nessun modo venire meno al loro patto d’amore con la parola, alla loro affinità con la lirica, alla loro esigenza di un canto mite e soave. Ma la guerra incombe e con sé porta una sequela di massacri, distruzione, annulla le poche piccole certezze di uomini, dilania la vita quotidiana, spezza la famiglia ed incrina la società, acuisce gli odi ed amplia il divario allarmante tra le classi sociali. Matacotta in Fisarmonica rossa, opera che venne pubblicata nel 1945 dall’editore Darsena di Roma, ci narra la sua esperienza concreta di partigiano nella provincia marchigiana a contatto con la morte e a rischio della propria vita.

A conflitto mondiale ultimato, nel 1947 Matacotta prese ad insegnare a Civitavecchia chiedendo poi di poter essere trasferito nella sua Fermo dove, presso l’Istituto Tecnico Industriale, insegnò sino al 1950 ritornando, però, negli anni successivi a seguire programmi didattici nel Lazio (Lido di Roma, Subiaco, Tivoli). Lo spostamento successivo sarà quello verso il nord Italia, a Milano, dove resterà sino al 1962. Farà ritorno nelle Marche ma per un breve periodo, l’ultima sua presenza a Fermo, prima di stabilirsi definitivamente nel Genovese, a Nervi, dove nel 1978 morì. L’eredità poetica del Nostro, indebitamente poco coltivata, è assai notevole; contenuta in una serie di lavori poetici tra cui figurano Ubbidiamo alla terra (1949), Canzoniere di libertà (1953), Gli orti marchigiani (1959), La peste di Milano ed altri poemetti (1975), Canzoniere d’amore (1977) nonché la summenzionata opera Fisarmonica rossa interesse di questo saggio.

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Fisarmonica rossa (1945) di Franco Matacotta

Nella poesia “Ottobre 1942” il Nostro mostra la prevaricante stanchezza e derelizione dinanzi a una condizione snervante e dolorosa che si protrae con la guerra. “Ce ne stiamo rigidi e murati/ Con le cataratte sugli occhi./ Il vento s’è messo a urlare,/ E buio, tenebra sul mondo”. Il poeta ci fornisce immagini dove è l’asfissia del colore, l’annullamento della vita, il buio a dominare, l’uomo è descritto nel suo stato di spersonalizzazione, come fosse una cosa ed avesse perso la sua identità e con essa anche le facoltà tipiche dell’uomo: non parla, non guarda (ha le cataratte agli occhi), non si muove (il suo corpo è “rigido” e “murato”). Nella desolazione di una condizione di atroce fissità, di vero annichilimento, è il vento a portare il suo messaggio: non un canto né un sibilo, non una sinfonia né un’eco, ma delle urla che intuiamo (e percepiamo) sgraziate, fastidiose e roboanti. Matacotta in pochi versi fotografa con disarmante espressività il baratro di dolore nel quale l’Europa è sprofondata: il buio che non si rischiara con una nuova alba, che ha sprofondato la società in una lugubre assenza di luce e di speranza.

Nessun organo vuole più muoversi” annota qualche verso dopo servendosi di una sineddoche fisiologica dove gli organi che non si muovono non sono altro che il cuore che, impietrito e affranto, sembra aver perso il suo battito, la sua vitalità e con esso anche i polmoni, induriti e pietrificati. L’uomo è una statua di gesso. Un pezzo unico, senza movimento né percezioni sensoriali ma, come il gesso, è assai corruttibile e friabile agli eventi bellici del contesto nel quale vive.

La predilezione in Matacotta per un linguaggio prettamente materico, con ampia frequenza di materiali, tanto naturali che dell’edilizia, sembra essere una costante: si tratta di materiali che si caratterizzano per essere freddi, inermi, pesanti, fastidiosi al contatto con l’uomo di carne ed ossa: il Nostro parla di “polvere e piombo nel cervello” ad intendere forse, nella polvere la vacuità del senso della ragione, la perdita irrecuperabile della coscienza e nel piombo l’esposizione alle mitraglie e alle armi del conflitto.

La visione del dolore e la vicinanza alla morte non sono ambiti che, col perdurare, possano permettere all’uomo che li vive di abituarsi, di soprassedere alle logiche nefande e proprio per questo il poeta fermano non può che impiegare la lirica come mezzo di riflessione, come interrogatorio esistenziale: le domande che pone non vengono risposte (e forse non possono avere una risposta congrua a completare il senso del quesito) e finiscono per essere dei dilemmi irrisolvibili che palesano la criticità del momento storico, la drammaticità degli eventi e la vulnerabilità mista alla disillusione del Nostro che così annota:

Che cosa abbiamo da dire,

Che cosa c’è più da confessare?

Chi ci ridarà le membra mutilate

Per la resurrezione della carne?

In “La rossa grandine” lo scenario di un tessuto civile dilaniato ed esposto a continue e peggiori tribolazioni prende la forma di una precipitazione impregnata di sangue: “Fischia il coltello della morte e dal cielo/ scroscia la rossa grandine d’acciaio”.

Alcune poesie della presente raccolta forniscono, sembrerebbe in presa diretta, i dettagli e le modalità di come, sulle basi di un’ideologia perversa, sia possibile debellare l’opposizione attuando nefandi sistemi di morte. Non è solo l’impressionante resa agghiacciante della morte che, spavalda, fa la sua comparsa nelle varie liriche a destare un sommovimento agli intestini, un senso di vero fastidio, ma la gratuità degli atti persecutori e l’efferatezza delle torture che spesso si associano a forme di spregio e vilipendio dei cadaveri.

Nel celebre “Canto del patriota marchigiano” assistiamo all’intenso ritorno di un patriota nella sua Regione per “riabbracciare i cani di una volta”. La parola ‘cane’ non è usata qui in senso spregiativo a denigrare la popolazione marchigiana bensì a voler sottolineare nel popolo rimasto ancora in vita la sua condizione di randagismo, povertà, denutrizione nonché solitudine. Il ritorno nella sua terra, sebbene la guerra sia ancora in atto, potrebbe esser vissuto con una rinnovata speranza ma così non succede ed è, invece, dominato da una profonda desolazione interiore segno che la guerra sta operando ferocemente un’azione distruttrice anche nelle coscienze delle persone e, sfiduciato, dice: “Ah più non credo, più non spero in nulla”. Roma, la Capitale di uno stato canaglia, luogo del potere e della legalizzazione del male, è una “vacca rognosa” (capace di infettare e spargere il suo male a macchia d’olio dove il male è chiaramente l’ideologia superomistica del fascismo), “culla d’angeli neri e rosse prostitute”.

Nell’allontanamento dal luogo di sopruso e il ricongiungimento al luogo d’infanzia e dei cari il partigiano non ha risollevato il suo animo perché trova una terra assai diversa da come l’aveva lasciata, piena di dolore e distruzione, dove anche la casa familiare è “vuota e sola”. La desolazione della casa e la s-personalizzazione che l’uomo vive, quella di non aver più un luogo caro nel quale identificarsi, viene fornita dal poeta assieme a immagini nette nel loro carico di violenza, sintomaticamente fedeli a proiettare una genia che ha perso la sua ritualità e dove la natura stessa sembra rivoltarsi tanto da proporci immagini disgustose ma assai reali come quella di un “cane magro e nero (che)/ su una chiazza di sangue a lungo lecca”. Il sangue, che è vita, e che con il dissanguamento ha prodotto la morte, può ancora essere importante a qualcuno nel salvare un’esistenza anch’essa destinata al decesso.

Ma la guerra non è ancora finita e ben presto si sente il rumore della mitraglia che colpisce poco distante da lì. L’accostamento di immagini in sé stridenti come quella di “un ragazzo col capo dentro il petto/ (che) sanguina in mezzo al fango e alla paglia” e “la succosa nipote del curato (che)/ sta alla finestra per rifarsi i riccioli” acuiscono la vertigine del lettore dinanzi a uno scenario tanto maligno e aspro. La commistione di persone che al contempo muoiono trucidate e che invece paciosamente si aggiustano la chioma contribuisce ad esasperare la sfinimento. La banale azione rituale contrasta duramente, ma in maniera assai struggente e scevra da ridicolezze, con quella di un povero cristo dilaniato.

Nel ferro e nel fuoco che polverizza la campagna, la città, la Capitale e l’Europa tutta anche la più basilare e arcaica legge di natura, quella dell’attaccamento e dell’affezionamento incondizionato, vengono infangate nella bieca azione carica di sprezzo e di viltà: “L’amico sputa fuoco sull’amico”. Non è fuoco metaforico di menzogna, basato su una maligna attitudine dell’uomo che lo porta all’acquisizione di un atteggiamento doppio e ingiurioso, è un fuoco reale, divampante e infernale, dove chi prima era amico, sul campo di lotta può diventare oppositore e dunque bersaglio contro il quale battersi. Per queste ragioni “il fratello è in agguato del vicino”: la guerra spezza quell’universo prismatico di rapporti sociali preesistenti e consolidatisi nel tempo che divengono merce di poco conto, legami che il conflitto e il sistema di odi nullifica sotto un cielo costernato dalla consacrazione della stagione di un lutto perenne.

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Un partigiano caduto

Credo che si possa sintetizzare al meglio la forte potenza visiva delle immagini che il Nostro trasmette e il pathos di trasalimento affossato in un antro cupo con la plumbea chiusa della poesia “Canto popolare del patriota marchigiano” che sembra serrare il lettore alla gola in maniera assai pressante da stordirlo; così recita: “Siamo accecati d’odio e di dolore./ Mordiamo a sangue l’aria dura e avara./ Ma per salvarti abbiamo ancora il cuore,/ O Italia, cagna nera, patria cara!”. Matacotta, dopo aver puntellato la lirica sui concetti chiave che esemplificano la dimensione del conflitto armato (di qualsiasi guerra), ossia quelli dell’odio che produce schieramenti, violenze intestine, incomprensioni e dunque una spaccatura netta all’interno del gruppo sociale e quello del dolore che fa seguito, nelle varie sprezzanti forme, al sentimento d’odio, ricollega il tutto al motivo della vista accecata, dell’offuscamento, della pronunciata cecità e dunque di una incapacità generalizzata nell’atto visivo. Nello straniamento che l’uomo vive, del quale difficilmente riesce a capacitarsi, e nell’obnubilamento indotto della propria memoria (la campagna dilaniata, la casa familiare vuota, il vicino massacrato) l’io lirico non trova altra forza (non è una vendetta) che mordere a sangue “l’aria dura e avara” consapevole che in quella “cagna nera” dell’Italia ogni cosa, anche quella invisibile ed astratta, se minacciata e colpita, ha il suo sangue da versare.

Forte è il messaggio che Matacotta nelle varie liriche annuncia, in una maniera che ha poco del retorico e celebrativo per la libertà e la democrazia alla quale spera il Paese possa arrivare. Il monito di speranza, seppur a volte velato ed altre sottaciuto, è vivo invece in alcune attestazioni nelle quali il Poeta denuncia la gravità della morte inflitta dagli uomini e la nullità delle ragioni che in qualche modo la motivano: “Non vogliamo morire col rossore sugli occhi/ d’una causa funesta e insincera”. La guerra, appunto, non è vista come conseguenza di una situazione venutasi a creare che ha imposto al governo l’adozione della decisione bellica ma è una causa. Essa è la causa del disprezzo e della solitudine, della sofferenza e della disperazione, del disagio esistenziale e della perdita di coscienza così come il motivo che rinsalda e fomenta l’odio, la violenza, l’adozione di un metro emarginante e privo di equità sociale.

Poesie cupe dove è l’angoscia della vita a fare da padrona, ansimi di tormento che il Poeta cerca di fronteggiare mediante una riflessione e un domandarsi continuo proprio mentre la guerra è in atto e spazza via le poche certezze che nel tempo si sono costruire, costringendo a vivere in quel “sacco d’ombra” che il sole non riesce a penetrare, lambiti da quel freddo “vento di morte” che non accenna ad affievolire le sue raffiche mentre sul volto scendono copiose e inarrestabili “lacrime di catrame”.

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Franco Matacotta (Fermo, 1916- Nervi, 1978)

La fisiologia del corpo umano è deteriorata a sostanze residuali e inerti come la polvere; gli organi umani sono intorpiditi al punto di aver cessato le loro funzioni, come in uno stato di letargia pronti a poter azionarsi per riprendere il ciclo della vita. Dentro, nell’interiorità, tutto è morto. Flussi vitali, circolazioni, impulsi nervosi come pure i fasci di ricordi, le emozioni vissute, le sensibilità, le caratterialità distintive, la guerra tutto ha cancellato inesorabilmente al punto che “se un coltello ci aprisse/ troverebbe polvere nel nostro cuore”. L’evento traumatico di portata universale, difficile da recuperare a livello psicologico, deriva dall’alienazione e annullamento della propria identità precedente al conflitto che porta ad esempio il giovane partigiano ad osservare, come in balia di una profonda amnesia, “Non riconosco più mio padre e mia madre/ non ricordo più il mio nome/ […]/ Non m’importa cosa son stato” al punto estremo di rifiutare la realtà: “Non m’importa se ho caldo o freddo”.

In “Parole di sangue dette ad un ragazzo massacrato dai fascisti presso il fiume Tenna”, poesia dal titolo inequivocabilmente puntuale e fotografico al contempo, Matacotta ci fornisce la truce cronica di una fucilazione sommaria  avvenuta nella campagna marchigiana. L’efferatezza della violenza è inaudibile: l’uomo cade profondamente ferito a seguito del proiettile che lo ha colpito alla “bocca d’ombra” e da lì ci narra, come avvenisse una vera de-personalizzazione dal momento che lo crediamo già morto, descrivendo esternamente le circostanze della sua dolorosa fine:

M’hanno spogliato come un rospo nero

Nero di fame, di paura e follia

M’hanno steso sul sentiero come un pezzo di biancheria.

 Parla! Parla! Ma la mia bocca di marmo,

di marmo il cielo, il sole nella mia bocca,

nuca contro la pietra, sangue nella mia gola di marmo

 Se avessi parlato non m’avrebbero capito.

 Allora mi strapparono i peli

Come si strappano spine dalle rose,

cercavano le mie parole, ma le mie parole erano sangue,

 E il mio petto un campo di trifogli rossi.

 Allora non potendo trovare le mie parole

Cercarono i miei pensieri e mi strapparono gli occhi,

coi coltelli mi frugarono nel cervello

E l’avvoltoio del buio calò su me dal cielo.

Il partigiano muore nei pressi del Tenna perché, di fede ideologica avversa a chi lo ha detenuto, ha rifiutato strenuamente di confessare o di rivelare informazioni appetibili per i nemici. La sua integrità morale e la battaglia in difesa di un mondo fondato sul riconoscimento dei diritti e della democrazia periscono dinanzi all’adozione della violenza e gli ideali partigiani, che costituirono le file della Resistenza non violenta, affogano nel clima d’odio e di vendette in quelle parole che si tingono di sangue. La lingua, da organo della comunicazione, diviene simbolo del martirio, della negazione della vita, dell’annullamento del dialogo e su di essa rimane forgiata una “scrittura di sangue” mentre il corpo martoriato del pover uomo è lasciato alla terra che nella decomposizione lo farà ritornare in essa sottraendolo allo spregio che ora lo vede straziato e circondato di  “mosche, morte [e] cecità”.

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 24-01-2016

[1] Le citazioni sono tratte da questa edizione del testo Franco Matacotta, Fisarmonica rossa, a cura di Alfredo Luzi, Edizioni Quattroventi, Urbino, 1980.

“Dillo a te sola” di Giusy Tolomeo, prefazione di Emanuele Marcuccio

Dillo a te sola  di Giusy Tolomeo, TraccePerLaMeta Edizioni, 2015

Prefazione di Emanuele Marcuccio 

Dillo-a-te-sola_cover_original_900La siciliana Giusy Tolomeo, scrittrice e poetessa: è autrice di due romanzi (Dune, del 1994 e tuttora inedito; Il giovane Siddharta, pubblicato nel 1998 con il gruppo Edicom) e di una raccolta di poesie, Davide e Betsabea (Albatros, 2012); ritorna qui con una seconda silloge, Dillo a te sola, una raccolta di poesie d’amore, dove questo tema viene affrontato per ben centouno titoli e in tutte le più varie sfaccettature, senza mai giungere a una connotazione specificatamente di poesia erotica. In queste liriche l’amato, come ci avverte in dedica la stessa poetessa, viene idealizzato (da cui il titolo dell’intera raccolta) assumendo caratteristiche superumane, quasi divine: “All’Uomo che venne/ In sembianze diverse/ Perché io lo amassi/ Al di fuori del Tempo/ Al di là dello spazio.

Da notare il maiuscolo all’inizio di ogni verso, non solo in questa dedica ma in tutte le poesie della raccolta, come se la poetessa volesse sottolineare l’importanza di ogni singolo verso, come di un mondo a parte, dove ama rifugiarsi. La scrittura in versi, quasi quotidiana e per poco più di un anno, come possiamo notare dalla data in calce ad ogni singola lirica.

Procedendo nella lettura, notiamo che gli amanti vogliono “fondersi” con la natura, significativo il panismo che aleggia in “Il mio amato” (“Di gelsomini sa/ Il suo petto odoroso/ Quando la sera/ Le dita innamorate/ Carpiscono corolle”) o ancor più ne “I semi di girasole”, dove l’amato è identificato con il sole e i semi di girasole, di cui la poetessa accusa la disperante mancanza, divengono l’unico mezzo per poter giungere al sospirato e caldo abbraccio di luce (“Ho affondato le mani nella terra/ Di vetro erano le zolle…/ Non ho trovato i semi che cercavo/ Non li ho trovati.”) o nella simbologia notturna in “Di dolcezza e di tua forza”: “Per te/ Mio amato/ Indosserò per te/ Un campo rosso/ Di papaveri…

Ancor più significativo è il panismo che assume connotazioni cosmiche in “Come fiocchi d’azzurro” (“Ho raccolto tra i capelli/ Un po’ di cielo/ In ogni lieta nuvola/ Ho imprigionato te”) o in “Non so…”: “Non so mio antico amore/ Come hai potuto fare/ Nuovo il sole/ E indossarlo tu stesso”.

Abbiamo anche richiami tratti direttamente dalla simbologia biblica, come “i sette sigilli”, “la casa costruita sulla roccia”, “il sigillo regale”.

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Giusy Tolomeo, autrice della silloge poetica Dillo a te sola

Continuando, il lettore attento non potrà non riconoscere l’omaggio shakespeariano contenuto in “Sentirti dire…” con la riproposizione della metafora delle labbra come due pellegrini e lo stesso pudico rossore di Romeo e Giulietta al loro primo incontro alla festa in casa Capuleti[1]: «Sentir dalle tue labbra dolci parole/ Compagne pellegrine di una notte sola// Quando anche la luna/ Senza arrossire/ Implora le stelle pellegrine:/ “O mie pupille!”»

Un secondo e ben più profondo omaggio al Bardo possiamo leggere in “Hai acceso la mia anima”; una dolce potenza porta in sé questa poesia, un meraviglioso ossimoro che non si realizza in una figura retorica bensì nell’intera architettura del verso. Un grido d’amore che vuole risvegliare l’amato ad ogni costo e oltre ogni limite; sembra di riascoltare il grido di Romeo di sfida alle stelle, trasmutato qui nel grido interiore di una novella Giulietta.

D’altro canto non manca una simbologia più ingenua e fanciullesca, come in “Tu”: “Lascia che quel lembo/ Di nuvola smarrita/ Ti apra le sue stanze/ Costruite su torri/ Di zucchero filato/ Che tanto piace ai bambini”.

Una raccolta, dunque, completa, molto variegata e che certamente rapirà il lettore, per le abili e consumate capacità poetiche della Nostra.

Emanuele Marcuccio

Palermo, 29 giugno 2015

[1] Cfr. William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto I, sc. V. [N.d.C.]

Questo testo viene pubblicato su Blog Letteratura e Cultura per gentile concessione dell’autore e dietro sua autorizzazione. 

“Per diventare la donna che sono” di Pinella Gambino, recensione di Lorenzo Spurio

Pinella Gambino, Per diventare la donna che sono, Prefazione di Michele Miano, Foto di Miranda Gibilisco, Publish.it, 2015.

Recensione di Lorenzo Spurio

La prima particolarità del libro di poesie di Pinella Gambino è che i versi si aprono sulla carta già dalla copertina del libro dove, appunto, campeggiano frammenti di poesie scritte a mano dalla Nostra lasciando, invece, in bianco la parte centrale dove comunemente ci aspetteremmo di trovare il nome dell’autore ed il titolo. Aprendo il volume capiamo ben presto la ragione di questa sceltissima impostazione grafica che fa riferimento alla necessità della donna di aprire sostanzialmente a tutti i potenziali lettori lo “scrigno” delle sue emozioni personali che nel tempo ha vergato sulla carta.

Per ogni lirica contenuta nella plaquette, splendidamente prefata dal critico Michele Miano che ne sottolinea con un lucido acume i punti di forza, la Nostra ha deciso di associare una foto di Miranda Gibilisco. Le immagini, nelle quali le poesie si inseriscono e si riflettono, sono assai importanti perché in taluni casi sembrano avere la capacità assai imprevista e gradevole, di continuare le stesse come se il verso finale delle liriche in realtà non si chiudesse con un punto definitivo e lasciasse alle foto, invece, quel potere di continuità, di proiettare immagini ed esperienze ben fuori dal tessuto grafico per renderlo maggiormente fruibile, più visivo e concreto, come una azione durativa che, in effetti, ha una sua continuità nel presente. Per tale ragioni Michele Miano parla, a ragione, di fotografia “iperrealista” a cui io mi sento di aggiungere la pronunciata plasticità delle liriche della poetessa catanese.

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Pinella Gambino, autrice del libro

Analizzando l’opera da un punto di vista prettamente tematico, andando, cioè, a rintracciare quelle che sono le fisionomie ambientali, le isotopie, le ricorrenze nelle immagini, sembra piuttosto evidente la predilezione nella Nostra nel ricorrere agli ambienti naturali nei quali non di rado l’intera lirica è completamente iscritta, così come avviene nella poesia d’apertura, “L’onda… e poi” con la quale Pinella Gambino costruisce una marina in qualche modo atipica: la finalità non è tanto quella di celebrare la grandezza del mare, di registrare lo splendore delle acque in subbuglio nella forma dell’onda, piuttosto di tendere un parallelismo giusto ed efficace con la vita dell’uomo che non è altro che un alternarsi turbolento di ascese e discese, di climax e affossamenti.

L’elemento acqua domina in maniera assai preponderante sull’intero corpus poetico e ce ne rendiamo ben conto osservando le tante foto di scorci paesaggistici di scene marine. L’immensità del mare permette alla Nostra di instaurare con esso un serrato ed intimo colloquio ed è in effetti come se la Poetessa con i suoi versi si trovasse faccia a faccia con il mare e lo stesse interpellando. Ma più che interpellarlo, la poetessa non è alla ricerca di risposte vere e proprie, di attestazioni né di prove relative allo stato dei suoi dilemmi, piuttosto il confronto con l’entità marina è un espediente di confessione, di riappacificazione con se stessa, di maggior comprensione delle vicende tanto intime che sociali. I versi si susseguono, così, in maniera tumultuosa come un’onda che scarica la sua forza sulla battigia prima di essere fagocitata da un’altra.

Tra le attese e le riflessioni della Nostra si stagliano componimenti poetici condensati il cui tono è particolarmente intimo tanto da apparire, come avviene con la lirica “Ti amerei”, nella forma di vere e proprie lettere d’amore, delle missive che attestano in maniera assai esauriente lo stato di una necessità impellente e al contempo richiamano l’altro all’accoglimento dell’invito.

Ricorrono più volte le immagini che descrivono uno stato di assenza, solitudine e di silenzio, condizioni che la Nostra non vive, però, in maniera desolante come delle punizioni inflitte, ma che è in grado di rinvigorire con la spiccata natura solare a occasioni di riflessione, approfondimento, ricerca di sé.

A completare la raccolta sono una serie di poesie che la Nostra ha espressamente dedicato a persone a lei care quali sua figlia, suo nipote e alla sua amata terra, l’infuocata Sicilia, che “come tra le spine/ di dolci fichi d’india/ sa viver di ogni dì/ croce e delizia”. Una Sicilia autentica fatta di colori forti, di immagini evocative e assai piacevoli, di presenze illuminanti e sagge (Pirandello) e di antri naturali che hanno del paradisiaco. Non una Sicilia negletta e spaccata, soggiogata alle leggi del malaffare come la dipinse Sciascia né complicata e infingarda come è per il Commissario Montalbano,  ma una terra ricca e speziata, un’isola con una identità intramontabile ed un fascino speciale da tutti invidiato.

Il lettore deve giungere all’ultima poesia del libro per comprendere a pieno il significato del titolo della silloge che, appunto, è quella del testo conclusivo, “Per diventare la donna che sono”, un testo particolareggiato molto personale con il quale Pinella Gambino è come se si specchiasse e, sulla scorta dell’immagine che vede riflessa, è portata a fare un’autoanalisi di sé stessa come donna, madre, nonna, cittadina del mondo. La poesia prende la forma di una confessione spontanea del passato della donna tra gioie e dolori, vittorie e delusioni, felicità e insoddisfazioni con la consapevolezza che “Per essere ciò che [è]” ha dovuto assistere a vicende emozionali di varia natura nelle quali ha sempre avuto la forza di fronteggiare “ricostru[endo] ponti”, facendo cioè, sempre di tutto per riparare alle situazioni di disagio, assenza e dolore per mezzo del costruire, ossia del creare nuovamente per poter edificare qualcosa di più forte.

Se la luna è stata nel suo passato una presenza tacita alla quale nascondere la verità, il mare è sempre stato il maggior confidente al quale “urlare” il proprio animo tormentato o solitario. La Poetessa rintraccia in un percorso non facile il traguardo della maturità, dell’appagata consapevolezza di donna e del senso di compiutezza che oggi fanno di lei la persona che è, aperta e solidale al mondo (a costruire ponti) e con un incanto e uno stupore che sempre l’accompagnano (“Trattengo ogni notte un sogno…/  e attendo che faccia giorno!”).

LORENZO SPURIO

Jesi, 21-01-2016

“Sedurre e ingannare: il mito di Don Giovanni” a cura di Lorenzo Spurio

Sedurre e ingannare: il mito del Don Giovanni

a cura di LORENZO SPURIO 

Etimologicamente la parola ‘seduzione’ ha come ampiezza di significato quella che si iscrive all’interno delle due parti di cui il lemma è composto. Il prefisso ‘se’ indicherebbe un atto di separazione mentre il ‘ducere’ latino non è altro che il “condurre”, “menare”. Così analizzato il termine seduzione ha a che vedere con quell’atteggiamento che si caratterizza per una separazione dal bene, un condurre fuori dal retto cammino, nonché una distorsione dalla dimensione di bontà. Ciò viene fatto con lusinga ed astuzia. Chiaramente non è propriamente questa l’accezione che normalmente attribuiamo al termine che, infatti, sta ad indicare una forma relazionale piuttosto disinibita dove l’ostentazione dell’avvenenza, della prestanza e dunque di una certa predisposizione all’altro si fa palese tanto da divenire messaggio subliminale che l’interlocutore è in grado di cogliere, non di rado anche grazie alla presenza di un linguaggio non verbale fatto di accenni, mimica facciale o gestualità dal significato piuttosto chiaro.

Numerosi potrebbero essere gli episodi letterari, più o meno noti, che sarebbe possibile evocare per cercare di condurre un discorso tematico di questo tipo. Universalmente noto è il richiamo narcotizzante delle Sirene per Ulisse e i suoi compagni, quest’ultimi sedotti piuttosto facilmente dalla Maga Circe e tramutati in animali di varia razza.  Viene poi a mente, così, senza un particolare logicismo, anche la ritrosia della bella Elisa di Rivombrosa nel concedersi al padrone il Principe Filippo Ristori, sebbene questa sia una storia nata inizialmente per una resa cinematografica e non propriamente letteraria, legata però alla celebre Pamela del narratore inglese Samuel Richardson. Rimandi anche a Tess d’Uberville di Thomas Hardy sono vieppiù necessari ed evidenti sebbene qui il sesso assuma la forma poi di un atto di dominazione nel momento in cui Alexander adopera l’arma dello stupro. Charles Bukowski, a suo  modo, ci parla, anche in maniera abbastanza colorita, del sovvertimento emozionale che la vista di donne, ora prosperose, ora sbarazzine e quasi bambine, suscita in lui, ricevendo dunque una folgorazione netta, dettata proprio dal potere seducente (la malia) della donna. Sono, questi, forse degli esempi non così pregnanti per poter parlare del fenomeno che, infatti, è assai capillare e prospettico nel senso di assumere, all’interno di ciascuna narrazione, una sua peculiarità distintiva nel rapporto che si viene a istaurare tra il seduttore e il sedotto. Chiaramente l’elemento seducente non è sempre e solo una donna, ma può essere un uomo per una donna o ancor più un uomo per un altro uomo. Si ricordi ad esempio il rapporto intimo e arcadico dei due giovani cowboy in I segreti di Brokeback Mountain di Annie Proulx reso celebre dal film o l’autobiografico io narrante di Orlando, portavoce di un fascino incantato verso la donna-non donna oggetto dei suoi desideri, una pacata dichiarazione d’amore dinanzi a un essere tanto ammaliante e persuasivo, la cara amica Vita Sackville-West in un’esemplare formulazione di amore saffico. Si tenga a mente anche la spasmodica e virulenta seduzione verso gli adolescenti intesa come insaziabile sete di vita nel maledetto Dario Bellezza, nel libertario Pasolini e nel più disincantato Sandro Penna o, per guardare ancora oltre Oceano, verso Lolita, l’innocua ragazzina che diviene la compagna del protagonista, in Nabokov. In questi ultimi casi (qui avvicinati in maniera assai veloce e che necessiterebbero una maggiore trattazione) la seduzione sembra in un certo qual modo essere spogliata di quel suo velame sontuoso e romantico, di ricerca mitica e di rimandi –un po’ come in Bukowski- per delegare una più succinta e spietata ricerca dell’amplesso volta al sovvertimento della pietosa condizione d’isolamento e di disagio e l’esaudimento completo di quel senso di mancanza. Il più truce dei seduttori è senz’altro il Conte Vlad che, nella sua dimora diroccata e polverosa, seduce giovani inglesi tramite la sua spiccata avvenenza con il fine di dissetarsi del loro sangue infettandole del suo morbo. Si tratta, però, di un fascino tenebroso che viene esercitato non per il vero ottenimento di un piacere sessuale (la deflorazione della vergine, la penetrazione) ma per una necessità fisiologica (l’abbeveramento da sangue) tanto che Dracula è proiettato verso una sessualità collegata alla bocca quale zona erogena e non all’apparato genitale.

Va anche detto che parlare di seduzione non necessariamente implica parlare di sesso sebbene l’immagine della donna civettuola, avvenente, disponibile e “di piacere”, ossia la prostituta, (mi vengono in mente Fanny Hill e Lady Roxana sebbene queste due narrazioni avessero una dimensione di denuncia sociale) permette di argomentare un denso capitolo all’interno dei rapporti umorali (e poco emozionali) tra l’avvenenza e la ricerca di godimento.

L’atto del ‘seducere’, ossia del catturare magneticamente l’attenzione dell’altro, rende palese la duplicità costitutiva del genere umano dinanzi a detto atteggiamento. Da una parte chi sa di essere stimato, seguito, amato, ricercato perché ha in sé un qualcosa di invidiabile che l’altro ricerca, dall’altra chi si lascia incantare, chi percepisce la sensazione delle farfalle nello stomaco, chi è talmente assuefatto dall’avvenenza fisica, dalla profondità mentale, dalla ricchezza umana dell’altro. La seduzione, dunque, è forse una insopprimibile interrelazione non verbale che ha in sé i dettami della democrazia. Nel senso che coinvolge tutti indistintamente: uomini e donne, bambini ed anziani, ricchi e poveri, bianchi e neri, etc. ed è il discrimine di un’esigenza sentita propria: ciò che rappresenta il complesso della seduzione (la serie degli elementi che consentono la persona di sentirsi sedotta) non è mai solamente sessuale, volta cioè al suo avvicinamento, conquista fisica dell’altro e godimento vero e proprio, ma ha delle ragioni di carattere psicologico che risiedono in una sorta di empatia sentita, in un sistema difficilmente spiegabile in termini razionali fatto di soggezioni e timori, affetti ed apprensioni, ricerca di attestazioni e necessità insopprimibili di credere che quel legame seduttore-sedotto esista perché punto fermo ed inderogabile sul quale scrivere e motivare la propria esistenza.

xggS7-XXBBB.vVq0xE.W8C.ClXCi0EVXWVgVu8vXS180jWgXWVWxiXtXECVviXc9nl9nnXF0aP3iVkcc9290n30Mi9ak302PtcMiF9XEXCXECVvi_ttM9_t_tnnM2m.fSvPer arginare il discorso sulla seduzione, che necessiterebbe una trattazione più adeguata e capillare per meglio poter considerare le opere citate e le tante altre che, per motivi più o meno evidenti, possono essere portate come modelli, ho deciso di dedicare maggiore attenzione alla figura di Don Giovanni, divenuta mitologica tanto che, come per ogni mito, è possibile rintracciare un’eredità considerevole in opere letterarie, musicali, recitative e quant’altro che sviluppano delle varianti partendo dalla storia cardine, il complesso delle invarianti.

Don Giovanni, assieme a Casanova, è probabilmente il più grande seduttore che la letteratura e, di converso, l’opinione pubblica ricordi ed evochi. Non è un caso che nel parlar comune sono frequenti espressioni idiomatiche quale “è un dongiovanni” o “è un Casanova” spesso impiegate in maniera sinonimica sebbene abbiano alle loro spalle un retroterra di motivi differenti tra i due caratteri. La prima cosa che va detta è che Don Giovanni non è un seduttore propriamente detto, sebbene ci si riferisca spesso, per semplificare, a lui con questa terminologia. Non lo è per il semplice motivo che nelle sue avventure non è mosso dal desiderio di conquistare le donne per motivi sentimentali ma di conquistarle con l’inganno, prendendosi gioco di loro. L’arma che Don Giovanni impiega nelle sue avventure, a differenza di Casanova, non è quella della seduzione, dell’autodichiarazione dell’amore, ma quella dell’inganno ed è lui stesso a dichiararlo in più punti nel corso dell’opera come quando al servo Catalinón dice “Burlar/ es hábito antiguo mío[1] o, alcuni versi più avanti, quando rende il concetto in maniera ancora più diretta:

Don Juan: Sevilla a voces me llama

el Burlador, y el mayor

gusto que en mí puede haber

es burlar una mujer

y dejalla sin honor. (112)

casanova

Don Giovanni impiega due modalità per ingannare le donne: il travisamento dell’identità attraverso l’utilizzo di abiti di altri personaggi e l’ipocrita adulazione e promessa di matrimonio. L’uomo è talmente furbo da aver sperimentato che è necessario adoperare un progetto arguto nel cercare di sedurre donne appartenenti all’alta classe sociale e proprio con Isabela ed Ana adopererà lo scambio di identità indossando dei particolari distintivi dei rispettivi amanti. Se riesce abbastanza facilmente a gozar Isabela (ci troviamo all’apertura dell’opera quando l’amplesso è già avvenuto), con Doña Ana non riesce perché lei è in grado di riconoscere che non si tratta del suo amante e sventa l’inganno. Per quanto concerne le donne popolane (la pescatrice Tisbea e la contadina Aminta) Don Giovanni mette in atto l’espediente del corteggiamento esasperato, dell’adulazione delle grazie della donna con la quale vuol far trasparire il completo innamoramento che nutre verso di esse. Entrambe le donne, che si mostrano lusingate dalle sue attenzioni e belle parole, prima di lasciarsi andare chiedono perentoriamente all’uomo se sta facendo sul serio e Don Giovanni, oltre a rassicurarle, non manca di illuderle promettendo di sposarle. Questo tipo di approccio porta a una facile persuasione nella donna che le parole dell’uomo siano vere e dunque sentite e dall’altra enfatizzano ancor più il loro coinvolgimento ed amore verso di lui da divenire palese:

Tisbea: El rato que sin ti

estoy ajena de mí. (91)

Quando a Don Giovanni è chiaro che l’operazione dialettica del corteggiamento è stata efficace e che è ben riuscito a circuire la donna, non fa mancare la sua dichiarazione di impegno verso la stessa che in termini pratici viene a suggellare il loro rapporto d’amore da vivere nel piacere delle carni:

Don Juan: […] te prometo de ser

tu esposo. (92)

A questo punto non c’è più spazio per la componente comunicativa tra Don Giovanni e la donna e si realizza il fine ultimo del Nostro ossia riesce finalmente a godere del rapporto sessuale che Tirso de Molina non descrive ma che lascia intuire. Pochi versi dopo, il lettore accoglie con nessuna sorpresa la scena in cui la donna, scopertasi burlata, si dispera e inveisce contro l’uomo che vigliaccamente l’ha circuita per il soddisfacimento del suo piacere, disonorandola:

Tisbea: ¡Ah, falso huésped, que dejas

una mujer deshonrada!

[…] Engañóme el caballero

debajo de fe y palabra

de marido, y profanó

mi honestidad y mi cama. (95-96)

Esemplare è la presenza del catalogo, elemento importantissimo nella configurazione mitica di Don Giovanni quasi a rappresentare una invariante dello stesso, un denominatore comune delle varie versioni che dall’opera originale di Tirso de Molina nel tempo si sono succedute. Il catalogo rappresenta la quantificazione numerica in chiave iperbolica delle prodezze sessuali di Don Giovanni che spesso vengono rievocate (citando i nomi delle donne, il luogo della burla e l’inganno adoperato) dal suo fido servo Catalinón. Esso, da testamento concreto degli episodi ingannatori di Don Giovanni, funge da elemento simbolico con una funzione ulteriormente accrescitiva della grandezza dell’uomo secondo l’equazione banale e stereotipata: più donne si sono possedute, più si è valoroso.

Don Giovanni potrebbe essere un conquistatore ardito, un nobile da invidiare se le sue azioni non producessero delle risposte indignate e dei procedimenti contro di lui per l’offesa al codice dell’onore tanto importante nella società spagnola. Il re, che nel corso dell’opera sembra apparire come uno dei personaggi più deboli, nonostante decida per gli altri ed emetta ordini, finisce al termine della vicenda per essere burlato anche lui da Don Giovanni. Quando Aminta, Tisbea ed Isabela, che sono le tre donne effettivamente ingannate nel corso dell’opera[2], reclamano giustizia per aver perso il loro onore in maniera ingannevole a causa di Don Giovanni, il re emette la condanna a morte per il dissoluto, ma essa non ha nessuna efficacia perché il libertino è già morto, senza che lui l’abbia saputo.

L’uomo è rimasto ucciso nella scena finale, quella del contro-invito nella tomba del Commendatore[3] che, tempo prima, lui stesso aveva ucciso a duello dopo aver tentato di abusare della figlia Ana. Don Giovanni assiste senza nessun timore (a differenza del servo Catalinón) all’astrusità del morto che ritorna per vendicare non tanto il suo atto spregevole (o, meglio, la sua intenzione) contro la figlia, ma per essersi mostrato irriverente nei confronti della morte e della religione. Nella scena della cena, dove la statua del Commendatore offre vipere e scorpioni, il Commendatore chiede la mano a Don Giovanni e con una presa infuocata lo trascina agli Inferi, sotto lo sguardo allucinato di Catalinón.

Il motivo della mano (di chiedere la stretta) è assai importante all’interno dell’opera ed è il mezzo pratico con il quale si compie l’inganno. Don Giovanni, infatti, nelle sue varie conquiste ingannevoli di cui si rende protagonista spesso chiede la mano alle rispettive donne come atto estremo d’amore e rispetto e impegno di matrimonio. Significativo è il fatto che Don Gonzalo attui la condanna celeste proprio per mezzo del gesto della mano a castigo irreversibile delle sue tante beffe. Si veda di seguito l’uso del tema della mano che viene fatto nell’opera:

Don Juan: Ahora bien; dame esa mano,

y esta voluntad confirma

con ella.

Aminta:    ¿Que no me engañas?

Don Juan: Mío el engaño sería.

Aminta:     Pues jura que complirás

la palabra prometida.

Don Juan: Juro a esta mano, señora,

infierno de nieve fría,

de cumplirte la palabra.

[…]

Aminta:    Pues con ese juramento

soy tu esposa. (148-149)

E di seguito la richiesta della mano che la statua del Commendatore (il morto) fa durante la cena nel suo sepolcro:

Don Gonzalo: Dame esa mano;

 no temas, la mano dame.

Don Juan:      ¿Eso dices? ¿Yo temor?

¡Qué me abraso! ¡No me abrases

con tu fuego!

[…] ¡Que me abraso! ¡No me aprietes!

[…] ¡Que me quemo! ¡Que me abraso!

¡Muerto soy! (Cae muerto) (179)

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Tirso de Molina, autore del libro El burlador de Sevilla y convidado de piedra

La punizione che il re prevede per Don Giovanni, per la sua condotta debosciata e libertina, è dunque inattuabile perché egli è già morto per volere di una giustizia divina, celeste, soprannaturale e non secondo la giustizia terrena che lui rappresenta. A nulla valgono il tentativo di duellare con la spada di Don Giovanni contro il morto, la rassicurazione di non aver compromesso sua figlia e la richiesta di pentimento perché quest’ultima non è sincera e giunge in extremis senza convincimento. Sebbene Don Giovanni nell’opinione comune sia il libertino per antonomasia, colui che ha molte donne perché ha gli stratagemmi che gli permettono di conquistarle, egli è anche e soprattutto l’empio che irride la morte, l’irriverente che si burla e nega l’importanza di una dimensione celeste. L’autore dell’opera, il frate Tirso de Molina, da religioso aveva ben a cuore questo secondo nucleo tematico volendo sottolineare con evidenza che il pentimento non può esserci per chi ha eretto la propria vita sul materialismo, su una condotta frivola fatta di esuberanze o che non può essere concesso in extremis, in maniera miracolistica, perché esso può essere il mezzo di salvezza solo per anime redente, che hanno preso consapevolezza del male perpetuato e intrapreso con serietà un percorso di remissione.

Tra le varie versioni successive[4] del mito del Don Giovanni quelle maggiormente note e studiate risultano essere quella di Moliére (1665), quella di Mozart con libretto di Lorenzo Da Ponte (1787) e in periodo romantico, sempre in ambito spagnolo, l’opera di José Zorrilla intitolata Don Juan Tenorio (1844).[5] In quest’ultima opera l’intercessione di Ines nella scena finale permette la salvezza di Don Giovanni che, assieme al personaggio femminile, sale in Cielo. Zorrilla prevede ugualmente la morte del corpo fisico dell’uomo, ma non la dannazione della sua anima come avviene in Tirso de Molina. L’epilogo dell’opera originale del frate andaluso è consegnata dalle parole del Re che riconosce che è stata fatta giustizia (sebbene non la sua, politica, ma quella celeste, del divino) e che, venuto meno l’elemento di disturbo, si può procedere alla consacrazione legittima delle coppie preesistenti:

Rey: ¡Justo castigo del cielo!

 Y agora es bien que se casen

 todos, pues la causa es muerta,

 vida de tantos desastres. (183)

LORENZO SPURIO 

03-01-2016

 

NOTE

[1] Tirso de Molina, El burlador de Sevilla, Castalia Didáctica, Madrid, 1997, p. 90. Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione in lingua originale commentata.

[2] Don Giovanni tenta di ingannare anche Doña Ana promessa in sposa al Marchese de la Mota, ma non ci riesce perché lei lo riconosce, sebbene sotto mentite spoglie e prende ad urlare.

[3] Si tratta di Don Gonzalo de Ulloa, Commendatore dell’Ordine di Calatrava.

[4] Tra le altre numerosissime versioni dell’opera vanno citate The Libertine (1676) di Thomas Shadwell, Don Giovanni ossia il dissoluto (1736) di Carlo Goldoni, il poemetto Don Juan (1819) di Lord Gordon Byron, Il convitato di pietra (1869) di Puskin, Las galas del difunto (1926) di Ramón Maria del Valle-Inclán, El hermano Juan o el mundo es teatro di Miguel de Unamuno (1929), Don Giovanni in Sicilia (1941) di Vitaliano Brancati. Il primo Don Giovanni italiano,  Il convitato di pietra (1671) di Giacinto Andrea Cicognini, sviluppa in particolar modo il secondo nucleo tematico quello del rapporto con la divinità (il morto che ritorna).

[5] Secondo un profilo cronologico a metà tra l’opera di Tirso de Molina (1630) appartenente al periodo barocco e quella di José Zorilla (1844) di epoca romantica si situa l’opera No hay plazo que no se cumpla ni deuda que no se pague y convidado de piedra (1713) di Antonio de Zamora che prevede per Don Giovanni il pentimento in extremis. L’opera di Zorrilla, che delle tre è la più elaborata scenicamente da apparire inverosimile, è confacente agli stilemi della nuova sensibilità romantica che acuisce l’interesse per il mistero e il senso di sorpresa. Non è un caso, infatti, che il sottotitolo dell’opera di Zorrilla riporti Drama religioso-fantástico-romántico.

Questo saggio  è apparso per la prima volta sulla rivista di letteratura “Euterpe”, n° 18, Gennaio 2016, pp. 85-90, consultabile online e scaricabile in formato pdf.

“La luce dell’inganno” di Michele Paoletti, recensione di Lorenzo Spurio

Michele Paoletti, La luce dell’inganno, Fotografie di Andrea Cesarini, puntoacapo, Pasturana, 2015.

Recensione di Lorenzo Spurio 

465b88_7aaa168bc60448dead1129e0ed83fc0aLe poesie di Michele Paoletti, com’era avvenuto per la raccolta Come fosse giovedì, sono sempre piuttosto succinte e condensate tanto che, a livello di versi, sono piuttosto brevi e contenute. Tematicamente la brevità non si sposa alla trasposizione di immagini fugaci né al dipinto di emozioni secondo modelli complicati che si arroccano sulla figura retorica del caso. Il Nostro, piuttosto, con l’abilità di un verso sillabicamente lungo ma che rigetta la tendenza alla prosa è capace di avviluppare il lettore all’interno di micro-spazi privi di artificiosità e densi, invece, di prese d’atto emozionali.

Interessante e ben posta la nota critica d’apertura della poetessa pesarese Lella De Marchi che, richiamando alcuni dei versi a suo vedere pregnanti al fine della sua dissertazione, puntualizza il discorso interpretativo della silloge di Paoletti attorno al tema della linearità. Di fatti più che un tema, la “linearità” alla quale il Nostro allude e si protende non è un vero tema né un elemento aggluttinante l’intera sua poetica, piuttosto parlerei di “linearità” come sentimento dell’assenza e ricerca, appunto, di tale dimensionalità concreta, stabile ed organizzata.

In quella che potrebbe essere una “marina” postmoderna, il focus si sposta dall’elemento mare alle suggestioni intricate e difficilmente sviscerabili dell’io che si metamorfizza in pesce quasi a provarne gli spasmi delle asperità della vita da anfibio. Sembra esser contenuta, meglio che in ogni altra lirica, l’essenza stessa dei componimenti che è da indagare, a mio vedere, in una frenetica ed ellittica ricerca di una trasposizione del sé nella vita concreta. Ciò che, in altri termini, Lella De Marchi definisce “una possibile liberazione-redenzione”. Ne sono vive testimonianze gli sdoppiamenti “in presa diretta” (potremmo dire per sottolineare anche la caratteristica fortemente mimico-gestuale-teatrale della sua poetica) del “mezzo uomo e mezza donna”, ma anche “il calore del sasso” trasmette quel senso di travaso nel fenomeno empirico del tattilismo da un’inversione curiosa tra incorporeo e materico, tra inerme e vivo, tra un sasso appunto e qualcosa che produce e conserva calore.

La nettezza visiva che fuoriesce dalle immagini che il Nostro partorisce grazie a una padronanza invidiabile nella costruzione del verso si sposa egregiamente con le tante foto opera di Andrea Cesarini che accompagnano il lettore con piacevolezza durante la lettura delle poesie. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di fotografie che ritraggono il particolare  e non tanto lo scenario ambientale che lo contiene. Paoletti in campo poetico sembra attuare spesso la stessa prospettiva di indagine partendo da pochi piccoli elementi, spesso disorganicamente legati tra loro, per giungere poi a una visione complessiva dello stato ambientale, sociale ed emotivo al quale intende rifarsi.

Il lettore, come sempre, deve fare la sua parte nella lettura di un libro, deve cioè compartecipare, o partecipare attivamente, non tanto alla costruzione dei significati, che l’autore in qualche modo già propone in maniera più o meno palese, ma alla loro applicazione al senso reale, alla loro interpretazione tenendo conto delle multiformi variabili.

La fascinazione verso il mondo del teatro è evidente anche per mezzo dell’impiego di una terminologia che richiama spesso tanto l’universo circense (il trapezio, l’equilibrio) che quello vero e proprio drammaturgico dove l’io poeta da cantore di uno stato emozionale diviene protagonista concreto delle sue vicende esistenziali. Per queste ragioni la poesia di Paoletti è talmente concreta e palpabile, ricca di contenuti e compatta proprio perché coniuga il lato interiore (l’esistenza) con quello esteriore (la rappresentazione).

Pieghe fosche all’interno di queste riflessioni sull’esistenza sono ravvisabili nel libro quando il Nostro fa riferimento a una solitudine spossante o a una condizione di disagio piuttosto pesante (“il mio ottuso male”, “la muffa del mio male”), condizioni che l’io poetico vive con malcelata apprensione e che, pur rasentando il vittimismo, lo pongono in una situazione di conflitto interiore, pure tortuoso, che è possibile grazie all’ampiezza dei ragionamenti e la profondità della contemplazione. Se “non h[a] parti di [sé] da offrire/ o segreti da incatenare ad una pietra” egli è alla vorticosa e mai paga ricerca di quella “linea che da stanza a stanza/ compie il percorso/ tra [sé] e il rimorso”.

Frequenti le immagini nelle quali il Nostro con parsimoniosa attenzione impiega correlativi oggettivi che denotano in maniera chiara e determinante una serie di elementi ai quali si appiglia nel suo fare poesia. Gli oggetti si caratterizzano molto spesso non per il loro colore o la loro forma, né per le caratteristiche che comunemente ci si aspetterebbe venissero identificate da un punto di vista estetico-qualitativo. Il Nostro antepone l’esigenza di descrivere il mondo per mezzo del trascorrere del tempo, mediante l’usura e il deperimento dei materiali, ci parla infatti di “strade scorticate” come se fossero strati di pelle umana che si lacerano e si assottigliano in maniera dolorosa, di “assi scheggiate” dove le schegge trasmettono l’idea di qualcosa di acuminato e sottile, di imprevedibile e lacerante, di “scatole dal doppio fondo scassato” nelle quali è evidente l’azione di sabotaggio e depredamento, di invasione della dimensione privata e dell’oltraggio e poi ancora di “forchett[e] arrugginit[e]”, cioè vecchie e non usate da tempo, corrose dall’ossido, inutilizzabili e testimoni silenziose di un tempo che cambia e si consuma nonché di “far[i] capovolt[i]”, immagini quest’ultime che amplificano quella insopprimibile assenza della linearità propriamente detta ossia l’anelito pressante nel Nostro verso una compiutezza ed organicità nei meccanismi esistenziali.

In questo percorso tra elementi che marciscono, presenze vacue e pensieri grevi, la convivenza con uno stato di desolazione interiore finisce per mostrarsi assai accentuata e le poche immagini lievi e pregne di colore qua e là nel corso dell’opera non sembrano capaci del tutto nel risollevare l’amarezza di fondo. Amarezza che non è un presagio di un dolore che ottenebra la mente ma una lucida considerazione sulla finitudine e l’ambiguità dell’essere umano ingabbiato da sempre nella sua corporeità e nei pensieri ad essa relativi che spesso non concedono del tutto a quella “luce dell’inganno” che caparbia vela ogni cosa di esser messa fuori gioco. Come in una lunga partita a scacchi nella quale, dopo lunghi minuti di contemplazione per la miglior tattica, riusciamo a salvare il Re pur dovendo assistere alla morte della Regina.

Lorenzo Spurio

Jesi, 18-01-2015

Antonio Merola su “Irrational man” di Woody Allen

Irrational man:Woodartre e l’esistenzialismo ironico[1]

DI ANTONIO MEROLA

irrational-man-woody-allen-locandina-300x300In un’epoca astorica e omologante quale la nostra, in cui difficilmente è possibile parlare di individui, quanto piuttosto di meri effetti rispetto ad un’azione economica centripeta, il che è un truismo per quei pochi che ancora esistono, Irrational man del regista statunitense Woody Allen si pone come una pellicola necessaria, pur tuttavia racchiudendo in tale essenza un elemento paradossale.
La critica occidentale ha reagito negativamente all’opera d’arte, mostrandosi dubbiosa, scettica di fronte ad un Allen che puzza di vecchio, di ripetizione ammuffita, di recipiente intellettuale ormai vuoto, sul quale sembrano intravedersi i segni di una raschiatura; in Italia, per citare ad exemplum, così si è espresso sul Fatto Quotidiano Davide Turrini, “Allen ha voluto con caparbietà ritagliarsi un ruolo marginale, secondario, ininfluente nel cinema mondiale”[2], arrivando a definire Irrational man come “un film inesistente”, non accorgendosi, forse, di averci visto, criticamente, giusto.

Non è questa un’opera che si presta ad una lettura superficiale, pena la sua inutilità comunicativa, quanto meno nella sua funzione intenzionale; per suscitare una reazione e/o una spinta alla riflessione, per essere quindi necessaria, mi si perdoni il gioco di parole, necessita di essere compresa, comprensione che può risolversi sì in più di una soluzione, ma che non può avvenire senza le dovute basi filosofico-letterarie, un insieme preciso di romanzi, saggi, drammi teatrali e raccolte di racconti brevi che vanno sotto il pesante nome di corrente esistenzialista, e tra i quali un autore in particolare sembra “tiranneggiare”: Jean-Paul Sartre.
Una chiave interpretativa che rende impossibile l’avvicinamento per il ricevente principale, un pubblico medio che pure si è recato entusiasta nelle sale cinematografiche, uscendone accompagnato da un’ebete perplessità, vanificando l’operazione civile del film, rendendolo, in definitiva, semplice – e non pura – estetica da pop-corn.

Eppure, i rimandi alla matrice sartriana sono molteplici e di natura differente. Abe Lucas, professore di filosofia in piena crisi esistenziale, interpretato magistralmente da Joaquin Phoenix, e la studentessa Jill Pollard, ovvero Emma Stone, ricordano molto da vicino due tra “i protagonisti” de L’età della ragione, primo romanzo della trilogia de Le vie della libertà, Matteo e Ivic; identici, infatti, i ruoli sociali di partenza, simile lo sviluppo della trama amorosa, seppur con esiti divergenti, differente, al contrario, l’ambientazione esterna in cui i personaggi sono chiamati a muoversi – in Sartre, la seconda guerra mondiale. Come pure la tensione iniziale di Abe, il suo logoramento interiore, l’annichilimento del suo sentire, può essere tradotto in termini di Nausea, condizione questa, che anticipa il conseguente stato di azione, volto al suo superamento indispensabile. E’ interessante notare che, tra le principali cause di questo lutto interiore, la società, o meglio, l’èpoque che ne è l’espressione ambivalente, occupi una posizione preponderante. In un dibattito letterario in cui “tutto è già stato detto”, la condizione d’essere del professor Lucas viene minata, il suo ruolo d’intellettuale e di artista mutilato; a che scopo, si chiede, quasi fosse l’Alfred Prufrock eliotiano nel suo “Oserò/turbare l’universo?” , scrivere l’ennesimo saggio su Heidegger? Ne consegue uno stato d’impotenza e di frustrazione, espresso nell’immagina scenica attraverso la metafora dell’impotenza sessuale – un tono patetico d’altronde aleggia fin da subito nella scena con la collega Rita Richards/Parker Posey.
Da qui in poi, L’umanesimo sartriano viene scandito riga per riga, direi alla lettera, dal regista.
In un tentativo di costruzione di se stesso da parte del non-ancora-individuo, la dicotomia classica in cui l’io è tale perché diverso da un alter viene ad annullarsi, a dissolversi completamente. L’altro, in un’ottica sartriana, diventa un nemico tanto quanto lo è il contesto storico, perché riduce a maschera, blocca cioè in un personaggio fisso, tramite un’errata e inevitabile percezione, quell’inesorabile divenire che è l’io, nella sua continua negazione/compenetrazione del sé precedente.
sartre1L’inferno sono gli altri”, quindi, citazione non casuale di Allen. Non viene, forse, l’arrivo di Abe Lucas al College Brailyn preceduto dalle notizie di un passato già passato, determinandone lo stupore di chi ancora non lo conosce? E non sono queste sue presunte qualità di “uomo vissuto” a generare in Rita Richards un desiderio incontrollabile di seduzione? Non sono proprio i suoi colleghi che ne determinano il successo intellettuale, lodandone il saggio che lo ha reso famoso nel mondo accademico? La pellicola è disseminata di metafore di questo tipo, eppure è nel rapporto tra Jill e Abe che Allen, in un tentativo di rendersi esplicito, tocca la punta più alta: la negazione della libertà da parte dell’altro si fa qui evidente nel momento in cui la maschera del Genio viene a tramutarsi in quella dell’assassino agli occhi della ragazza, e Abe viene quindi minacciato di essere denunciato, sotto l’apparente possibilità di una scelta, che porterebbe comunque al carcere.
Per chiudere il cerchio, sopraggiunge la morte,  la cessazione del divenire – basti pensare al giudizio totalmente dispregiativo nei confronti del suicidio da parte di Sartre, per farsi un’idea del perché la morte venga percepita, in definitiva, come la nemica naturale dell’uomo, l’unica contro cui è impossibile opporsi, dove persino l’immortalità letteraria non basta a salvaguardare la sopravvivenza dell’io.
Si apre però, a questo punto, un cerchio ancora più grande, quasi una ring composition dal risultato bivalente. Nella critica che Abe Lucas muove a Kant, quando definisce come “masturbazione verbale” la congettura di “un mondo senza menzogna” come condizione felice per gli uomini, e tenendo conto della citazione in apertura del film sulla morale kantiana, il pensiero sartriano può essere visto in modo contrappuntistico a quello del filosofo tedesco, pur mantenendone la finalità – e che, nel secondo si concretizzò in una partecipazione attiva al comunismo, ma basti dire che si concretizzò – o il fallimento del protagonista può essere interpretato come un’eiaculazione senza mezze misure? Non posso che rifugiarmi in un’epochè, per evitare di ridurre l’opera d’arte a una sola lettura dogmatica, tuttavia suggerendo un’evidenza situata nel rapporto individuo-realtà fondato sulla percezione dell’io: nel momento in cui Abe sceglie di eliminare Thomas Spangler, si assiste a un capovolgimento nel suo rapporto con il mondo esterno – laddove il reale, preso nella sua non-essenzialità, corrisponde a uno statico Nulla privo di un significato trascendentale –, capovolgimento che non solo dona un senso al suo agire, ma si riflette in una condizione d’armonia che rende l’essere umano, in definitiva, un Uomo.

ANTONIO MEROLA

[1] Questo articolo è apparso per la prima volta online sul sito “Il Giornale di Letterefilosofia.it al seguente link: http://www.letterefilosofia.it/2016/01/irrational-man-woodartre-e-lesistenzialismo-ironico/  L’autore dell’articolo ha acconsentito alla sua ri-pubblicazione su Blog Letteratura e Cultura.

[2] http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12/18/irrational-man-woody-allen-e-una-stanca-ripetizione-di-se-stesso-film-inesistente-involontaria-parodia-di-una-qualsiasi-tragedia-bergmaniana/2315518/

V Premio Naz.le di Poesia “L’arte in versi”: il bando per partecipare

 

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L’Associazione Culturale PoetiKanten in unione con la rivista di letteratura Euterpe, il Patrocinio della Regione Marche, della Provincia di Ancona e del Comune di Jesi, bandisce la V edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” alla quale collaborano le Associazioni Culturali “Le Ragunanze” di Roma, “Verbumlandi-Art” di Galatone (LE).

  1. Il concorso è articolato in tre sezioni:

Sez. A – poesia in lingua italiana a tema libero

Sez. B – poesia in dialetto a tema libero (accompagnata da relativa traduzione in italiano)

Sez. C – haiku

 

  1. I testi potranno essere editi o inediti, ma non dovranno aver ottenuto un 1°, 2° o 3° premio in un precedente concorso.

 

  1. Per le sezioni A e B si partecipa con un massimo di 3 poesie per ciascuna sezione che non dovranno superare il limite di 30 versi ciascuna. Per la sezione C si partecipa con un massimo di 3 haiku (5-7-5 sillabe) in lingua italiana.

 

  1. Quale tassa di partecipazione è richiesto il pagamento di 10€ a sezione. È possibile partecipare a due sezioni corrispondendo la quota di 20€ o a tutte e tre corrispondendo la quota di 30€. Il pagamento dovrà avvenire con una delle modalità descritte al punto 6 del bando.

 

  1. Il partecipante deve inviare entro e non oltre la data di scadenza fissata al 15 maggio 2016 alla mail arteinversi@gmail.com le poesie con le quali intende concorrere (rigorosamente in formato Word), il modulo di partecipazione compilato e la ricevuta del pagamento. Eventuale curriculum letterario o scheda biobibliografica è gradita, ma non obbligatoria.

In alternativa, l’invio di detto materiale potrà essere effettuato in cartaceo, mediante posta ordinaria, e dovrà essere inviato a:

V Premio Naz.le di Poesia “L’arte in versi”

c/o Dott. Lorenzo Spurio

Via Toscana 3

60035 – Jesi (AN)

Per l’invio mediante posta tradizionale farà fede la data del timbro postale.

 

  1. Il pagamento potrà avvenire con una delle seguenti modalità:

Bollettino postale: CC n° 001029344650

Intestato ad Associazione PoetiKanten

Causale: V Premio di Poesia “L’arte in versi”

Bonifico: IBAN:   IT19N0760102800001029344650

Intestato ad Associazione PoetiKanten

Causale: V Premio di Poesia “L’arte in versi”.

Contanti: Nel caso si invii il materiale per posta tradizionale, la quota di partecipazione potrà essere inserita in contanti all’interno del plico di invio.

 

  1. Non verranno accettate opere che presentino elementi razzisti, denigratori, pornografici, blasfemi o d’incitamento all’odio, alla violenza e alla discriminazione di ciascun tipo.

 

  1. La Commissione di Giuria è composta da esponenti dell’ambiente letterario: Lorenzo Spurio, Susanna Polimanti, Annamaria Pecoraro, Michela Zanarella, Valentina Meloni, Giuseppe Guidolin, Alessandra Prospero, Stefano Baldinu, Emanuele Marcuccio, Cinzia Franceschelli e Luigi Pio Carmina. Il giudizio della Giuria ha valore ultimo e definitivo ed è insindacabile.

 

  1. Verranno premiati i primi tre poeti vincitori per ciascuna sezione. I premi consisteranno in:

Primo premio: targa, diploma con motivazione della giuria e 200€

Secondo premio: targa, diploma con motivazione della giuria e 100€

Terzo premio: targa, diploma con motivazione della giuria e libri.

La Giuria procederà a individuare ulteriori premi che saranno indicati quali “Menzione d’Onore” e “Segnalati dalla Giuria”.

La Giuria attribuirà i seguenti Premi Speciali: Premio Speciale del Presidente di Giuria, Trofeo “Euterpe”, Premio Speciale Associazione “Le Ragunanze”, Premio Speciale “Verbumlandi-Art”, Premio alla Carriera Poetica e Premio alla Memoria.

Nel caso in cui non saranno pervenuti una quantità di testi congrua per una sezione o all’interno dello stesso materiale la Giuria non abbia espresso notazioni di merito per particolari opere, l’organizzazione si riserva di non attribuire determinati premi.

 

  1. La cerimonia di premiazione si terrà in un fine settimana di novembre a Jesi (AN). A tutti i partecipanti verranno fornite con ampio preavviso le indicazioni circa la premiazione.

 

  1. I vincitori sono tenuti a presenziare alla cerimonia di premiazione per ritirare il premio o per mezzo di un delegato. In caso di impossibilità, i premi potranno essere spediti a casa dietro pagamento delle spese di spedizione, eccettuati i premi in denaro che debbono essere ritirati tassativamente il giorno della Premiazione dal legittimo vincitore. Parimenti, la targa in oro  messa a disposizione dalla Universum Academy – Switzerland dovrà essere necessariamente ritirata il giorno della Premiazione dal vincitore o suo delegato.

 

  1. Tutti i testi dei vincitori, dei menzionati e dei segnalati dalla Giuria verranno pubblicati nel volume antologico dotato di codice ISBN che sarà presentato nel corso della premiazione e disponibile alla vendita poi attraverso le librerie online.

 

  1. Il Premio di Poesia “L’arte in versi”, da sempre sensibile alle tematiche sociali, devolverà parte dei proventi derivanti dalla vendita delle antologie a una realtà di emarginazione o bisogno, impegnandosi a comunicare ai partecipanti del Premio della relativa donazione. Gli organizzatori del Premio si impegnano a darne comunicazione ai partecipanti a mezzo mail e mediante pubblicazione della notizia sui rispettivi spazi internet.

 

  1. La partecipazione al concorso implica l’accettazione di tutti gli articoli che compongono il bando.

 

 

    Lorenzo Spurio                                                         Susanna Polimanti

Presidente del Premio                                                 Presidente di Giuria

 

 Info: arteinversi@gmail.com

Evento su FB:    Facebook_New_Logo_(2015).svg

 

  

Scheda di Partecipazione al Concorso

La presente scheda compilata è requisito fondamentale per la partecipazione al concorso. Ad essa va allegata la ricevuta del pagamento.

Nome/Cognome ________________________________________________________________

Residente in via _________________________________Città____________________________

Cap ___________________ Provincia __________________Stato____________

Tel. ____________________________ E-mail _______________________

 

Partecipo alla sezione:

□ A –Poesia in lingua italiana                           

con il/i testo/i dal titolo/i____________________________________________________________

_________________________________________________________________

_________________________________________________________________

□ B – Poesia in dialetto   (specificare dialetto: _____________________)                        

con il/i testo/i dal titolo/i____________________________________________________________

_________________________________________________________________

_________________________________________________________________

□ C – Haiku

con il/i testo/i _________________________________________________________________

_________________________________________________________________

L’autore è iscritto alla SIAE?               □  SI               □  NO

□ Dichiaro che il/i testi che presento è/sono frutto del mio ingegno e che ne detengo i diritti a ogni titolo.

  □ Acconsento al trattamento dei dati personali qui riportati in conformità a quanto indicato dalla normativa sulla riservatezza dei dati personali (D. Lgs. 196/03) allo scopo del Concorso in oggetto e per iniziative letterarie organizzate dalla rivista di letteratura “Euterpe”.

 Firma____________________________ Data ____________________________

Giorgia Spurio presenta “Le ninne nanne degli Šar” ad Ascoli Piceno

Domenica 14 febbraio ore 17.30

Libreria Rinascita

Piazza Roma,  7 – Ascoli Piceno

Presentazione del libro di poesie

“Le ninne nanne degli Šar”

di GIORGIA SPURIO 

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Link evento FB: https://www.facebook.com/events/167844816912810/

Presenteranno l’autrice Roberta Carboni e Giuseppina Petrelli dell’Associazione In-Soliti Sentieri.

Le ninne nanne degli Šar ha vinto la XX° edizione del Premio Letterario Editoriale L’Incontro della casa editrice Golden Press, sez. B, con la seguente motivazione:
“La raccolta ha il valore di un romanzo di formazione in versi. Gli occhi di un bambino rom percorrono, con cadenzamenti musicali di pregevole fattura e la robustezza di agili ballate, territori e dimensioni, nostalgie e scoperte, appartenenza e dispersione. Il richiamo agli orizzonti originari è mescolato alla valenza magica che traspare da tutti i nuovi orizzonti presenti e futuri, come nella percezione precisa di una vita intrinseca delle cose, che sa trasparire dai monti e dagli oggetti tutti, dai volti e dai movimenti delle persone, in un caleidoscopio di leggende, di fiabe e di culture.”

Un estratto del libro:

” Pensavo agli Šar,
lungo il percorso delle acque,
chissà se si sono accorti che non ci sono più.

Pensavo ai castelli di sabbia e roccia,
e alle stelle che lì cadono,
alle lucciole che prendevo tra le mani.

– Ora le fate a chi racconteranno le loro ninne nanne? –

È nuova la casa,
c’è un’altra lingua che parla,
un dialetto che si lega alle cipree…”

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