Giorgia Deidda esordisce con l’opera intimista “Sillabario senza condono” (dedicata a Gabriele Galloni)

Segnalazione di Lorenzo Spurio

Giorgia Deidda (Orta Nova, FG, 1994) dichiara di amare la poesia e la letteratura, in particolare quella russa e tedesca. Sta frequentando la Facoltà di Lingue presso l’università di Bari. Tra le sue passioni di sempre figurano le lingue straniere perché – sostiene – “attraverso di esse riesco a cogliere l’essenza del significato e del modo di pensare di popolazioni che hanno avuto influenze diverse dalle nostre”. La sua prima pubblicazione poetica è Sillabario senza condono (PlaceBook Publishing, Rieti, 2020) volume che ha dichiarato essere dedicato al suo ex-compagno il poeta Gabriele Galloni (1995-2020), recentemente scomparso. Tra le sue letture preferite si ritrovano le opere di autrici intimiste e confessionali quali Sylvia Plath, Amelia Rosselli e Anne Sexton, poetesse accomunate dal nefasto epilogo suicidario.  

Nella nota critica di Alberto Barina, che accompagna le liriche del volume, è possibile leggere: «È un esordio poetico importante quello di Giorgia Deidda che con la sua poesia ci trascina dentro una scrittura già decisamente matura […] La consapevolezza del dolore, dell’inadeguatezza al quotidiano, la lucidità di saperne cogliere attimi, sfumature, momenti e l’abilità di ‘liberarsene’ attraverso la scrittura. […] I [suoi] testi si presentano […] quali frutto di una sorta di scrittura automatica, […] poesie molto più brevi, condensate, a tratti enigmatiche, ermetiche, cariche di immagini visionarie, dove il lettore deve abbandonare le proprie certezze e la propria visione delle cose ‘in orizzontale’».

A continuazione una scelta di testi estratti da Sillabario senza condono.

Conta fino a tre e senti il mondo spegnersi;

è la fine.

La distesa nera non sa che d’inchiostro, e le luminose fisse,

le mie stelle da comodino

non spiano più i tuoi passi. E gli anni

colano sul cuscino, una chirurgica

fama di folla che si scolla come carta.

Stringo le dita a pugno, ma la ferita

mi cancella come gesso su una lavagna.

Io non esisto, se non ora,

se non nel tempo della distruzione metafisica della memoria.

Gli orologi ticchettano ed intralciano

l’ingorgo dei nervi, strappano

l’immagine perenne, la tua faccia scorticata e ferruginosa

che ancora balbetta parole di ghiaccio.

Non ti comprendo. E io continuo a dormire,

con un brillio di scaglie che mi attanagliano

la morte dei sensi, il sonno profondo.

La paralisi più soffice, l’immobile nulla da addentare

che culla

la veste nuziale del ricordo, un pallore affaticato;

inciampo in stralci di tessuti e cuori bruciati,

mentre un verminoso sorriso stentato

mi pasticcia la faccia.

***

Disinnescato l’attimo in cui

io ero preda del vuoto, ho ricreato specchi per buttare sassi al mio volto,

ed odiarlo fino a farlo diventare scarno.

Nessuno sa l’inferno,

di avere un manto prezioso e non poterlo far vedere,

di indossare collane con gli artigli mentre

il sangue sgorga viscoso e lento su tutto il corpo.

Dio, mi perdono per tutte le promesse, giuro che non ne farò altre, disegnerò il bianco del mare e la sua spuma

e poi mi rannicchierò nella paura,

l’ultima cosa che mi tiene in vita.

***

Io non voglio morire ma se possibile,

offritemi un piatto abbondante,

dove le stelle si riuniscono per farmi camminare,

e dove le bottiglie di vino sono ancora piene

e io non ho alcun bisogno di farle sparire.

Dio, ridammi il piacere del gusto, ché l’ho perso di nuovo,

ha lasciato spazio ad un’ignominia e scalfita sorte, e io la protagonista

che mi barcameno senza sosta.

In fondo ciò che chiedo è requie, senza morte,

perché io voglio vivere e sentire ed amare – ecco quello che mi manca –

e stringere con le mie dita qualcosa che non sia più etereo ma che abbia forma.

Fammi essere me stessa, o cambiami, trasmutami,

fà di me quel che vuoi.

Intanto, riposo.

***

Quest’anima mia la costruisco ogni giorno, mentre lavacri di sogno

permeano il blu delle fresche notti, passate tra le lacrime.

Questa mia anima è sovraccarica e spenta,

le ci vorrebbe

una cosa completa e ritagliata, infilata esattamente tra i bordi, nessuna sbavatura,

la si dovrebbe ricucire con cura con petali di rosa,

stirarla e re-indossarla come una vecchia giacca.

Ma io sono troppo cresciuta e mi sono fatta stretta, e per allargarmi

ci vorrebbe

una pinza grande di quelle che tagliano le bordature,

levigata per bene e fatta su misura.

Non crediate che le anime siano tutte gemelle di chi le porta addosso;

molto spesso strabordano e si fanno aria, lasciando pezzi di vuoto,

spesso scarseggiano e ci si vuole innamorare, innamorare, innamorare

per non sentirsi soli.

Beato chi, invece, ha l’anima perfetta;

eppure anche lui ha i suoi crucci.


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Osvaldo Anzivino e Raffaele Lepore, poeti dialettali foggiani

Articolo di Stefano Bardi  

Vorrei parlare di Foggia e della sua cultura poetica dialettale. Luci e tenebre di una città che conserva il suo patrimonio architettonico-culturale in maniera esemplare anche grazie, allo studio e alla divulgazione del suo dialetto risalente all’XI e XII secolo nato dal linguaggio della pastorizia, dell’agricoltura e dell’allevamento contaminandosi durante il suo cammino storico con lessemi napoletano-abruzzesi per giungere fino ai giorni nostri perdendo però, la sua originalità sintattico-linguistica e verbale. Dialetto che è stato usato in particolar modo nei secoli nella poesia, come è dimostrato da due poeti del secolo scorso, Osvaldo Anzivino e Raffaele Lepore.

OSVALDO ANZIVINO (1)Osvaldo Anzivino (Foggia, 1920-2011) dal punto di vista editoriale ci ha lasciato le raccolte Quatte passe pe Fogge (1975) e Archi del tempo (1978 e 1984). Opere che, come ci dice il poeta, scrittore e saggista Sergio D’Amaro sono fortemente legate al suo paese natale e in particolar modo alla figura del ferroviere che tanto sangue versò nel 1943 per liberare i foggiani e gli italiani interi, dal Nazifascismo. Più nel dettaglio è concepito dal poeta, come una guida spirituale che aiuta i foggiani nella lotta sociale e civile per la libertà, la pace universale e la fratellanza fra gli Uomini[1]. In Quatte passe per Fogge l’elemento naturale del mare è visto come un iroso padre che schiaffeggia i suoi figli purificandone gli oscuri respiri e uccidendone le carnali infezioni[2] mentre la luna è vista come un’inarrivabile compagna esistenziale, ma anche come una silenziosa madre che dispensa ai suoi terreni figli dolci, buone e compassionevoli parole colme d’amore.[3] In Archi del tempo, gli archi del titolo simboleggiamo delle spazio-temporalità in cui il poeta rivede il suo passato, qui rappresentato da Foggia e dall’universo mezzadro. Tale città è vista come una dolce reminiscenza marchiata a fuoco sul suo cuore, come un eccitante sogno e un intimo universo in cui rivedere le vecchie amicizie di una volta.[4] Universo mezzadro, infine, rappresentato dalla figura della contadina, concepita come una creatura condannata a stremanti lavori che terminano con insignificanti cibi, che procurano ferite e carnali infezioni, che creano disagi socio-esistenziali all’interno della famiglia e che mutano la contadina in una creatura sbeffeggiata addirittura dal firmamento celeste.[5]

RAFFAELE LEPORE.jpgIl secondo poeta è Raffaele Lepore (Foggia, 1923-1989), fortemente legato alla sua città da lui concepita attraverso il passato e attraverso la modernità per lui del tutto indecifrabile, come si evince dai titoli Quann’ére uaglione (1967), Carosello foggiano (1970) e ‘I timbe so cagnàte (1980). Nella raccolta del 1967 leggiamo poesie sulla sua infanzia rimembrata come una vita fatta di solitari passi, di offuscate luci, di spirituali dolcezze, di gioie etico-sociali, di quotidiani incontri familiari e poesie sulla figura del padre defunto, dal figlio poeta rimembrato come un’ombra emanante gioia, come un padre intensamente legato agli affetti filiali e come una paradisiaca ombra sempre presente, nella terrena vita del figlio.[6] Accanto a questi temi compaiono quelli legati alla sua infanzia e più precisamente ai suoi giochi, ricordati come momenti di puro godimento. Nella raccolta del 1970, quella di maggior successo, si possono leggere liriche sul mare dal poeta visto come un grande arcobaleno dagli accecanti colori e come un cammino esistenziale che deturpa, contamina e come un avido padre che soffoca il suo passato.[7] Mare affiancato dai temi riguardanti la Religione e il Natale. Tema – la Religione – che è poetizzato attraverso la figura del rosario, dal quotidiano rapporto matrimoniale fra marito e moglie fatto di angherie, soprusi e lacrime. Tema invece quello del Natale, dal poeta trattato attraverso il giorno della vigilia concepito come un frenetico giorno composto da assordanti rumori, soffocanti voci, inebrianti sapori. Opera infine quella del 1980, dove la città natale dell’ormai maturo Lepore non è cambiata nel suo cammino esistenziale e nelle sue architetture ma lo è a livello umano in un universo dove le vecchie amicizie del poeta si sono trasformate in impercettibili fantasmi.[8] Città, infine, che si è trasformata in un universo dove i suoi momenti infantili sembrano essere diventati insignificanti ombre del passato, quali lontani ricordi a lui ormai del tutto estranei.[9]    

STEFANO BARDI

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Bibliografia e Sitografia di Riferimento:  

CATALANO ETTORE, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Progedit, Bari, 2009. 

Foggia, da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Foggia

Poesie Osvaldo Anzivino, dal link: http://toniosereno.altervista.org/pagina-845487.html 

Poesie Raffaele Lepore, dal link: http://ildialettodifoggia.altervista.org/raffaele-lepore.html   

           

 

[1] SERGIO D’AMARO, Poeti in Capitanata in ETTORE CATALANO, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Progedit, Bari, 2009, p. 115. 

[2] OSVALDO ANZIVINO, Acque e scoglje, dal link http://toniosereno.altervista.org/pagina-845487.html  consultato il 23/12/2019 (“[…] L’acque, lundane, e’ fèrme; nen zze mòve, / ma sop’e scoglje corre, sbatte e ‘ndorne, / piggh’a sckaff’i prete, zombe a l’àrje, / s’apre a vendaglje e ccade sckattijànne / pe nderre cumie vitre de becchire.”)  

[3] OSVALDO ANZIVINO, Luna chiène, dal link http://manganofoggia.it/osvaldo-anzivino/ consultato il 23/12/2019 (“[…] Crijatùre, ggiuvenòtte, / òme fatte, / ci amme tenùte sèmbe cumbagnìje/ passànne nzime tande e ttanda notte. / Ije t’accundàve tutt’i fatte mìje / quanne che nnìnde m’ ’a pigghiàve a ffòrte, / e ttu rerènne, ‘a facce ‘a mèla còtte, / decive doje paròle de chenffòrte. […]”)   

[4] OSVALDO ANZIVINO, Fogge, paèse mìje, dal link http://toniosereno.altervista.org/pagina-845487.html  consultato il 23/12/2019 (“[…] Fogge, paèse mìje, / tu staje stepàte / ind’a qquistu còre. / Anne dop’ anne, / sforze, sedòre, / strazzàte i panne, / o, forse, segnòre, / ije, cum’e ttanne, / ije te pènze angòre. […]-[…] i vìje de Fogge, ‘a case ndò sò nnàte; / ‘a tèrre che chemmògghie ‘a ggènda mìje; / tanda parìnde, tutt’ ‘a cumbagnìje / ch’ agghie rumàste da tand’ anne fa.”)                

[5] OSVALDO ANZIVINO, ‘A tarrazzàne, dal link http://toniosereno.altervista.org/pagina-845487.html  consultato il 23/12/2019 (“[…] Ha ffadegàte tutte ‘u jùrne sane / ind’a na pèzze, / ch’i pìde sènza scarpe / mmìzz’ ê spìne, / e na stòzze de pane / l’ha ssuppùndàte ‘u stòmeche. […]-[…] e i màne, / pòveri màne! / So ttutte aperte, lòrde de tèrre. […]-[…] Nenn e’ ffenùte angòre sta jurnàte: / s’ha da ‘bbadà a i crijatùre: / a ‘u piccule ca chiàgne e vvòle ‘u làtte; / s’ha da penzà a mmagnà / ggià vòlle l’àcque. […]-[…] I stèlle tremelèjene / cum’ e llambìne / a mmìll’ a mìlle. / Dumàne ‘u tìmbe e’bbùne! / Dumàne… sì, dumàne / e’ n‘ate jùrne lunghe de fatìche.”)          

[6]              RAFFAELE LEPORE, A papà mije, dal link http://ildialettodifoggia.altervista.org/raffaele-lepore.html consultato il 24/12/ 2019 (“[…] ‘U vulèvene bène tutte quande, / ére allègre, ‘i piacève ‘a cumbagnije! / Gènde de tutte spècie ‘u respettave, / pecchè teràve a tutte ‘a sembatije; […]-[…] Vulève ‘ a cumbagnije d’i figghje suije: / ‘u baciamme, e cundènde s’a revève… […]-[…] Tu rire angòre, d’a fotografije, / ma a nuje nenn’esce manghe na parole, / sole n’Avemmarije,… papà mije.”)     

[7]              RAFFAELE LEPORE, Mare, dal link http://ildialettodifoggia.altervista.org/raffaele-lepore.html consultato il 24/12/2019 (“[…] E’ bèlle, tène cinde sfumature, / cagne chelore d’a matìne ‘a sère, / d’o vèrde, ‘o rusce, ‘o blù, quanda petture / l’hanne guardàte quanne s’arravògghje! / L’acque se move, nen se fèrme maje, / azzoppe, torne ‘ndrète, po’ se ‘mbrogghje, / se ‘ngrèspe, face ‘a sckume, cacce ‘a ‘ddore, / se sfasce ‘a lonne, po’ ne vène n’âte, / cke n’âta forme, cke n’âte remòre. […]-[…] ‘A vite nen se fèrme, e tu nèmmanghe, /pèrò, jurne pe jurne qualche cose / rumàne ‘ndèrre e ‘nde n ‘accûrghe manghe. […]”)           

[8]              RAFFELE LEPORE, Doje piume, dal link http://ildialettodifoggia.altervista.org/raffaele-lepore.html consultato il 24/12/2019 (“[…] Pe quìstu viche, ‘u timbe nn’è passàte, / e se defènne, e stipe, amminze ‘e mure, / lùcchele e voce ca ‘nze sò cagnàte, / umedetà e ‘ddore de fretture. / Ck’a scuse d’accattà nu cuppetille, / ‘a frutte, ‘i pelanghille, doje carote, / ce passe apposte ind’a stu vecarille: / là vède angòre Fogge de na vote!”)       

[9]              RAFFAELE LEPORE, Scagghjûzze, dal link http://ildialettodifoggia.altervista.org/raffaele-lepore.html    consultato  il 24/12/2019 (“[…] turnàje ‘ndrète de parècchj anne, / e revedije, cûme si fosse aire, / jurnàte ca passàvene zumbanne: / ‘ i lite, ‘i jûche fatte annand’a scole, / ‘u scagghjuzzàre ck’a stagnère annanze, / ‘u pianine, ‘u bellome ck’i varole, / tarrazzane ck’i ciste e ck’i velànze! / Fra ‘i poche cose ca ce stanne angòre, / de quilli timbe bèlle e spenzaràte, / stanne ‘i scagghjûzze càvede ck’a ‘ddore, / pure si peccenùnne e arresecàte. / Nu sfûglje sicche sicche, color d’ore, / arresecàte, sì, redutte a ninde, / e t’è sta attinde quanne isce fôre: / si agàpre ‘a carte,… s’i carrèje ‘u vinde! […]-[…] hagghje accattàte solamènde ‘a ‘ddore!”)