“Mare della tranquillità”, poesia di Emanuele Marcuccio, con un commento di Cinzia Tianetti

MARE DELLA TRANQUILLITÀ[1]

(poesia di Emanuele Marcuccio)

 

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Giacomo Leopardi,
da «Canto notturno
di un pastore errante dell’Asia»

 

Tien la luna vecchie strade

a separar gli ammassi oceani

alla superfice

mari la solcano

in prosciugata tranquillità.

 (17/1/2013)

Commento a cura di Cinzia Tianetti

Imare tranquillitatisl momento di completezza espresso in quel volto illuminato dalla luce del sole, pallida visione dell’esplosione di luce dell’astro solare, freddo calore argenteo che non può non ispirare ammirazione, ha da sempre movimentato l’animo umano di visioni e proiezioni fantastiche, come l’amore implorante che ti tiene rivolto all’amata facendola desiderare, regala spiragli d’amor corrisposto; ed ecco quella luminosa e placida dea, espressione di mute richieste che non puoi non accogliere, suscitare preghiere per appagare, nell’illusione, entrambi; nell’abbozzato respiro del compiuto un sospiro liberatorio.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna? Cantava Leopardi.

“Tien la luna vecchie strade” dice Emanuele Marcuccio nella sua poesia, spingendosi a dare una risposta che nulla toglie al poeta, all’amante, al notturno uomo che sonnambulo sognerà per quelle vecchie strade senza curarsene.

Nei suoi versi, direi di filosofia del concreto, ad alleviar l’angoscia della sospensione della domanda,  si costruisce un’azione perpetua che esula dal preoccuparsi del destino umano e realizza il suo discreto ordine, la sua legge perenne, e quell’intrigante e bello aspetto che ha sempre fatto dubitare e ipotizzare.“[…] a separar gli ammassi oceani /  alla superfice […]”.

Così da leggere tra le espressioni lunari per i suoi secolari abbozzi di sorrisi, lamenti, dubbi, per tutte le scale cromatiche dei sentimenti umani, da lei abbracciati, cullati, nascosti, attraverso le sue fasi cicliche che tutto accoglie e tutto ispira, come un grande magico specchio d’immaginazione e creatività; il suo andare, tra quel che è e il suo apparire di  dea “terrea” inesorabile ed eterna, in cui in una voce di speranza ultima si ritorna per quella tanto sospirata pace così lontana dal tempo di oggi e dalle pretese quotidiane: “mari la solcano /  in prosciugata tranquillità”.

 a cura di Cinzia Tianetti

 

 

16 febbraio 2013

 

 

 

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[1] Ispirato da una zona della luna, denominata appunto “Mare della Tranquillità”, situata sull’emisfero del satellite sempre rivolto verso la Terra. Il termine “mare” è stato scelto a causa del colore scuro che contraddistingue queste regioni dai territori circostanti, in realtà si tratta di pianure basaltiche.

La solitudine in poesia vista attraverso l’immagine del volatile: “il passero solitario” di Leopardi, il gabbiano Jonathan Livingston e l’albatro

Il passero solitario
di  Giacomo Leopardi
 
commento di Giuseppina Vinci

Grande fascino desta il primo verso ‘’d’in su la vetta della torre antica’’ la vetta, le altezze,  si allungano verso il cielo, come guglie di una cattedrale che si elevano verso l’infinito, altri spazi, altri mondi; colui che sta su una vetta non può non essere che diverso dagli altri, colui che ha desiderato raggiungere la vetta aspira a una vita differente perché è differente, aspira all’infinito, a una esistenza ‘’elevata’’.

ps_jpgpassero solitarioIl passero dalla vetta della torre può ammirare un paesaggio bello ricco di luce perché la primavera ha illuminato la campagna e intenerito i cuori, il nostro Poeta ammira la natura e la sua bellezza, non può non ammirarla perché essa ‘’intenerisce il cuore’’. La Torre simboleggia la durezza del carattere, l’impenetrabilità del dolore,  la corazza di una personalità triste, melanconica,  sente di essere forte perché se ne sta in disparte; solitario ha scelto la solitudine e crede di poter vivere da solo. Non può ammirare e gioire delle bellezze della natura come tutti gli altri passeri, come tutti gli altri giovani. Scegliere la solitudine è la Scelta della sua vita, della sua breve vita. Perché rinunciare alla gioia? Breve ma pur sempre viva e presente.

La brevità della gioia dovrebbe impedire di abbandonarsi alla solitudine. Egli si è abbandonato alla Solitudine.Pur breve, la gioia  va vissuta anche se seguita dall’inevitabile dolore. Antica, par ricordare l’ ‘’antico’’ marinaio del poeta inglese Coleridge. Antico, remoto, non vecchio, quasi intoccabile,antico come il Dolore che è sempre stato e sempre sarà, ricorda Keats ( the pain that has been and may be again)  nella sua celeberrima urna greca. Condizione comune a tutti gli esseri umani, non puoi evitarlo. Dolore silenzioso, orgoglioso, remoto come ho scritto in una mia breve composizione. Il passero canta la propria solitudine e alla fine del giorno accetta la fine. Il Poeta sente di rimpiangere i momenti non vissuti, momenti che avrebbero potuto riscaldare il cuore. Anche Jonathan  Livingstone sceglie la solitudine, ma vola, sui mari, sui monti, si stacca dal gruppo, dalla esistenza fatta di obbedienza alle regole stabilite dal capo. Il  gabbiano Jonathan gioisce, spazia, soprattutto perché lontano dal gruppo che non ama volare come lui. Volare è la vita per Jonathan, ma il passero, il Poeta non vola, si stacca dal gruppo non per volare, spaziare, librarsi, gioire ma per rimanere immobile nella solitudine e dunque nella sofferenza.

Il gruppo punisce Jonathan per non essersi adattato, per aver trasgredito, ma lui non cambia, rimarrà lo stesso, amerà volare e continuerà a volare, ossia a vivere.

Il gabbiano di Baudelaire, schernito e annientato, è il Poeta condannato per essere diverso, per essere incompreso, per essere genio. Tutti ciò che appare diverso deve essere annientato. La norma è l’istituzione, e dunque, se fuori dalla norma, deve essere emarginato.

gabbIl poeta, incompreso perché geniale deve essere mortificato e dunque morire. Qui il Nostro, forse schernito dalla comunità recanatese, deliberatamente sceglie di non condividere la sua vita con altri giovani e giovinette del paese. Avrà molto sofferto. La sua adolescenza sarà stata simile a quella di tanti altri giovani, non amati soprattutto nell’ambiente familiare; niente che possa intenerire il suo cuore; durante quegli studi matti e disperati, si affanna a trovare una causa al dolore causa che difficilmente troverà. Un Thomas Hardy che non accetta la  necessità del dolore. Una Natura, le stelle che brillano, fredde e luccicanti rappresentano una Volontà indifferente alla sorte delle umane genti.

Una Volontà immanente, non soltanto indifferente ma che scherza con gli esseri umani deboli e fragili ‘’destinati’’ alla sofferenza. Non un Dio, ma ‘forze oscure’’ come Hardy le definiva, oscure perché ne sconosci l’origine, si accaniscono per far sì che l’uomo soffra e gioiscono della sua infelicità. Raggiungono la meta, il fine. Tess perirà a Stonehenge, condannata per aver assassinato Alec, ma Tess non è altro che simbolo dell’umanità,  vittima di forze oscure. Simbolo della umanità senza speranza, condannata alla morte, alla Fine. Anche Hardy si chiederà il motivo di  tanto dolore. Non saprà mai darsi una risposta. Se non quella di credere alla grande solitudine dell’uomo e alla sua inevitabile sorte di dolore e abbandono. Il nostro Poeta, come il passero perirà, si rammaricherà della vita, della propria vita trascorsa nel rifiuto, Nessuno mai l’ha consolato,  ‘all’apparir del VERO tu misera cadesti’’ dell’altra nota poesia ‘’A Silvia’’, le illusioni che avrebbero potuto confortarlo sono illusioni; la speranza nelle illusioni è anch’essa perita.

Solo il Nulla non perirà.

 

Giuseppina Vinci

Docente di Lingua e civiltà inglese al Liceo classico Gorgia di Lentini.

“Recanati”, poesia di Giuseppina Vinci

Recanati

POESIA DI GIUSEPPINA VINCI

city_recanatiRecanati,

quando nacque non sapevi

che il  tuo figlio più insigne

ti avrebbe eternata

Recanati patria dell’infinito

del dolore e della morte

Recanati  oggi

devo renderti onore

devo inchinarmi ai Suoi versi

alla immortalità della Poesia

alla Speranza della Poesia.

DI GIUSEPPINA VINCI

QUESTA POESIA VIENE QUI PUBBLICATA SU GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.

“Pioveva a Soria” racconto-diario di Lorenzo Spurio

Pioveva a Soria

racconto-diario di Lorenzo Spurio

“¡Oh, sí! Conmigo vais, campos de Soria,
tardes tranquilas, montes de violeta,
alamedas del río, verde sueño
del suelo gris y de la parda tierra,
agria melancolía
de la ciudad decrépita.
Me habéis llegado al alma,
¿o acaso estabais en el fondo de ella?”
(Antonio Machado, “Campos de Soria”)
 
“Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia delle case senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava
(Marino Moretti,  “A Cesena”)”

L’avevo trovata diversa da come me l’ero immaginata. Le poesie dove veniva decantata parlavano di un borgo semplice, immerso nelle campagne bruciate dal sole. Davanti ai miei occhi, invece, era scorsa l’immagine di un centro storico abbastanza sviluppato che si estendeva a partire dal Collado e, una volta usciti dalla zona centrale, poco al di là dell’Alameda de Cervantes, c’erano una serie di palazzotti di numerosi piani di recente costruzione. Recente per modo di dire, costruiti però non prima degli anni Sessanta. Al piano terra c’era qualche fioraio e vari mq di negozi cinesi vendi-tutto. Dopo di quella zona iniziavano i campi sterminati, in parte frammisti a zone rocciose di una pietra rossiccia che si sfaldava facilmente e che avevo visto arrivando in autobus. Era un paesaggio un po’ monotono e che si ripeteva identico quasi all’infinito, senza annoiare. Un binario arrugginito e fuori utilizzo percorreva parallelamente la strada principale, ricoperto ormai da varie piante spontanee.

Continua a leggere il racconto cliccando qui.

“Per una strada”, silloge poetica di Emanuele Marcuccio, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Per una strada

di Emanuele Marcuccio

SBC Edizioni, Ravenna, 2009

ISBN: 978-88-6347-031-4

Prezzo: 12,00 Euro

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio


Anche se in una recensione solitamente non si fa, e ci si limita a criticare un testo, chiedo scusa a Emanuele Marcuccio per la lentezza con la quale ho letto il suo lavoro e per questa tardiva recensione, frutto della lettura attenta della sua silloge di poesie. Marcuccio è un poeta palermitano particolarmente attivo nel panorama letterario e che attualmente sta pubblicando presso Photocity Edizioni una raccolta di aforismi dal titolo Pensieri minimi e massime. Questa ultima raccolta, alla quale ho avuto la grande occasione di scrivere una postfazione, dedica molti aforismi alla letteratura e soprattutto alla poesia. Marcuccio è un poeta attento e delicato la cui sensibilità si evince dai suoi componimenti che rifuggono dai rigorismi della metrica per offrirsi, invece, al lettore nella sua purezza espressiva scevra da vincoli di restrizioni di ciascuna natura.
L’animo poetico di Marcuccio è ben delineato già dalla nota di prefazione che ha voluto inserire all’apertura del testo dove dice al lettore che il legame con la poesia è qualcosa di intimo e profondo che deve necessariamente essere affidato al contatto umano con carta e penna. In questa nostra era super tecnologica è sicuramente un elemento anacronistico che, però, evidenzia con forza quale sia il vero valore della poesia: l’espressione diretta, istantanea, di un qualcosa che deve essere colto al momento e che, per dirla in soldoni, non può aspettare l’accensione di un computer, per quanto veloce esso sia. Carpire l’attimo poetico è l’essenza stessa della poetica del Marcuccio.
Contrariamente al titolo della raccolta, Per una strada, la poesia di Marcuccio non sfugge, non si vanifica nel momento in cui terminiamo un componimento e ci imbattiamo a leggerne un altro, ma è quanto mai concreta e la sua fisicità è donata per lo più dall’attenzione che il poeta affida nei confronti delle sfere uditive e visive. Una poetica d’altri tempi, diremmo. In una attualità dove i poeti e gli pseudo-poeti si riempiono la bocca di paroloni, di termini stranieri, di nonsense e costruiscono spesso le loro poesie partendo dal cupo drammatismo o immergendosi a pieno nel mondo dell’erotico, non mancando a volte di insultare l’arte letteraria.
La poesia di Marcuccio parte da un chiaro pessimismo che nella prefazione lui stesso definisce “moderato” e di stampo leopardiano. Sono, infatti, molti i componimenti che condividono una visione amara, come in “L’inquinamento” o che, comunque, danno una visione a tinte fosche della realtà in cui viviamo: una colomba che ormai morta è diventata una sorta di tappeto stradale poiché in molti la calpestano, la trapassano, la annullano: “Vedi come tutti,/ su quei motorini maledetti,/ tutte le straziano,/ orrendamente sfigurate, percosse”. Dell’uccello in “Al mio caro pappagallino” si tratteggia la morte dell’animale e si vagheggia il suo probabile e cristiano volteggiare in cielo, beato. E’ evidente il sentimento cristiano che sorregge e che anima l’intera raccolta poetica, quel baluardo di difesa che lo stesso Marcuccio cita nella prefazione come motivo di un’esistenza addolcita.
Il famoso poeta recanatese ritorna in maniera lampante nelle liriche di Marcuccio che, magistralmente, rende omaggio al poeta del pessimismo cosmico. Come non intravedere un riferimento alla “donzelletta in sul calar del sol” del “Sabato del villaggio” in “Le mietitrici” di Marcuccio ma anche il verso “e come odo stormir” della poesia di Marcuccio “Il viandante” che riecheggia “L’infinito” di Leopardi. L’omaggio più grande al poeta de “La ginestra” è contenuto nella lirica “A Giacomo Leopardi” dove il poeta è ricordato come “flebil spirito [che] ancor risuona”, con l’esortazione a donare ai poeti contemporanei la sua ricchezza lirica fatta della trasposizione su carta di illusioni, speranze e gioie.
L’immaginario dei personaggi che Marcuccio tratteggia, in effetti, (mietitrici, viandanti, cacciatori..) è espressione di un mondo provinciale, di campagna, d’altri tempi, oggi un po’ perduto e che si conserva solo in pochi luoghi. E’ una lode alla vita di campagna, alla spensieratezza e all’esistenza a contatto diretto con la natura. Curioso il bestiario che Marcuccio sfoggia in “Gli animali” dove va paragonando vari comportamenti di alcune specie animali ad alcune caratteristiche dell’uomo, quasi a voler sottolineare come l’ascendenza umana sia in effetti di derivazione animale secondo un’interpretazione etologica che rifugge, invece, le teorie evoluzionistiche.
L’acume poetico di Marcuccio prende percorsi diversi: ci sono poesie a tematica sociale, come quelle che si riferiscono alla guerra o al ricordo per la tremenda strage di Capaci o alla guerra di Bosnia, altre nostalgiche che rievocano un mondo campagnolo ormai in declino, altre che rendono esplicito il legame poesia-arte-musica e altre ancora che danno prova della conoscenza letteraria del Marcuccio, sia quella classica che quella europea (Leopardi, Pirandello, Dante, Alfieri, Parsifal, Shakespeare, Seneca, Federico Garcia Lorca, la saga dei Nibelunghi) con un favoloso omaggio al padre de Il giorno della civetta, la cui scrittura è ricordata da Marcuccio con questi versi: “sfoghi la tua ansia/ nell’inventar storie vere,/ coperte d’una patina d’irreale,/ in cui traspare un dolore sommerso.” Da sottolineare che, il termine “inventar”, ci avverte Marcuccio in una nota, è usato proprio nel senso inteso da Sciascia, di ricercare, investigare.
Le numerose poesie che compongono questa raccolta scorrono via, velocemente, lasciando però una traccia viva e un senso di freschezza, come pensieri raccolti assieme che vanno e ritornano inesorabili come l’onda del mare si abbatte sulla battigia per poi ritirarsi e compiere questo movimento all’infinito.

Chi è l’autore?
Emanuele Marcuccio è nato a Palermo nel 1974 e lì vive. Ha pubblicato nel 2009 la prima silloge di poesia dal titolo Per una strada e sta attualmente pubblicando la sua prima raccolta di aforismi dal titolo Pensieri minimi e massime. Da vari anni lavora alla stesura di un poema drammatico ambientato in Islanda, un lavoro lungo e faticoso. Collabora a varie riviste di letteratura, tra cui Euterpe ed è direttore onorario della Vetrina delle Emozioni. E’ poeta, scrittore e commentatore e curatore editoriale presso la casa editrice Rupe Mutevole.

 a cura di Lorenzo Spurio

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