N.E. 01/2023 – “Per l’alto mare. Una rilettura del canto XXVI dell’Inferno”. Saggio di Diletta Follacchio

Jorge Luis Borges affermò, in una delle Conversazioni con Osvaldo Ferrari,[1] che maggiori sono le letture che si danno di un’opera e più cresce in ricchezza tale opera. Ogni epoca, in qualche modo, ci ritrova qualcosa di suo e certamente uno dei libri che più ha subito tale processo è la Commedia di Dante, la cui lettura si potrebbe protrarre all’infinto. Lo stesso Borges nei suoi Saggi danteschi propone una rilettura del canto XXVI dell’Inferno e in particolare del racconto che Dante fa pronunciare a Ulisse nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, dove si puniscono i consiglieri fraudolenti. Dante non vuole conoscere i peccati che hanno destinato Ulisse, insieme all’inseparabile compagno di inganni Diomede, all’inferno – peccati peraltro ricordati da Virgilio quando spiega chi si nasconde nella fiamma a due punte che tra le altre aveva catturato l’attenzione del suo discepolo. Dante è curioso di conoscere i particolari dell’ultimo e fatale viaggio compiuto dall’eroe greco e da quei pochi compagni, come lui ormai «vecchi e tardi»,[2] verso Occidente, oltre lo Stretto di Gibilterra, dopo Ceuta e Siviglia, verso il Golfo di Cadice dove, secondo la geografia dell’epoca e le sue fonti,[3] erano poste le Colonne d’Ercole, che all’epoca simboleggiavano il limite del mondo conosciuto e dunque il divieto di proseguire oltre.[4] Il racconto del naufragio di Ulisse, che alcuni commentatori considerano una digressione dell’autore o un ornamento accessorio, è giudicato da altri il racconto di un viaggio sacrilego che in qualche modo permette di sottolineare per contrasto l’importanza dell’umiltà assunta da Dante e del sostegno che egli possiede della grazia divina, in quanto il suo viaggio è un viaggio voluto da Dio, rispetto al viaggio che Ulisse compie con le sue sole forze umane. Mettendola su questo piano, i due personaggi del canto XXVI dell’Inferno hanno qualcosa in comune, ma poi le loro strade si separano e, mentre Ulisse andrà incontro al fallimento,[5] Dante, che pure insegue il desiderio di conoscere i tre regni dell’Aldilà, solitamente negato agli uomini, riesce nella sua impresa poiché antepone al suo ingegno la virtù.

Non è così per Borges, il quale afferma: «L’azione di Ulisse è indubbiamente il viaggio di Ulisse, perché Ulisse altro non è che il soggetto di cui si predica quell’azione, ma l’azione o impresa di Dante non è il viaggio di Dante, bensì la realizzazione del suo libro».[6]

La Commedia ha in comune con la tradizione epica classica dell’Odissea e dell’Eneide la centralità del protagonista nella storia – Dante, come Ulisse, come Enea, occupa il posto principale della narrazione –, ma al tempo stesso possiede una novità rivoluzionaria, la narrazione dei fatti è in prima persona ed è affidata al protagonista: narratore e protagonista coincidono. Ma c’è di più, il nome del protagonista risponde a quello di Dante e Dante Alighieri è anche lo scrittore. A questo punto, dobbiamo distinguere un duplice piano richiamato nel canto dal verso 19 «Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio»: quello del Dante agens, agente, colui che agisce, il protagonista della storia che viaggia nell’Aldilà per risolvere la sua crisi spirituale e che simboleggia il cristiano qualunque che tra le tante debolezze cerca la salvezza (Allor mi dolsi), e quello di Dante auctor, autore, il personaggio storico che fisicamente si è messo a scrivere l’opera indicando la via della salvezza, avendo già superato la crisi vissuta da Dante agens (e ora mi ridoglio).

Se, dunque, a confronto poniamo non i due personaggi della Commedia, ma all’Ulisse infernale accostiamo il personaggio storico, lo scrittore Dante Alighieri, vediamo come i due non prendono strade diverse di fronte al bivio del superare o meno il limite. Poiché, così come Ulisse che con l’«orazion picciola»[7] convince i suoi compagni a proseguire il viaggio e punta verso «l’alto mare aperto»[8] oltrepassando le Colonne d’Ercole e «il limite che un dio aveva segnato all’ambizione o all’ardire»,[9] così Dante autore con la sua opera rischia di macchiarsi di una colpa, dal momento che: osa modellare i misteri appena accennati dallo Spirito Santo, osa anticipare le sentenze del Giudizio Finale, osa giudicare le anime dei suoi contemporanei e dei personaggi storici, osa elevare una donna comune, Beatrice Portinari, quasi all’altezza di Gesù e della Madonna.[10]

Nel suo saggio Borges isola l’aggettivo “folle”, ovvero “insensato”,[11] in ben tre passi dell’intera opera, non soltanto in relazione alla folle impresa di Ulisse, il «folle volo» appunto, che tanto richiama il letterale folle e audace volo di Icaro[12] (a cui pure Dante dedica qualche verso specifico nel canto XVII dell’Inferno), e che ritroviamo nel XXVII canto del Paradiso proprio in riferimento al «varco folle d’Ulisse».[13] Nella selva oscura Dante personaggio chiede a Virgilio se «la venuta non sia folle»,[14] cioè se il viaggio nei tre regni dell’Aldilà a cui Dante sembra essere destinato non sia una follia, un’insensatezza, un viaggio rischioso, audace, pericoloso, che possa portare delle conseguenze in termini di colpa.

Tutto questo nella storia del viaggio ultraterreno raccontata dall’autore, ammettendo dunque la veridicità del racconto per un patto di immaginazione stretto tra narratore e lettore,[15] ma non nella vita realmente vissuta da Dante Alighieri, che più volte si sarà interrogato sulla necessità o meno di scrivere prima e pubblicare poi un’opera totale[16] come la Commedia e sulle conseguenze che tale pubblicazione avrebbe portato alla sua già sventurata esistenza.

Continua Borges, il dialogo messo in scena nel II canto dell’Inferno tra Dante personaggio, che afferma «Io non Enëa, io non Paulo sono»,[17] e Virgilio, che lo rassicura riportando le parole di Beatrice, Santa Lucia e Maria, deve essere nella realtà avvenuto nella coscienza di Dante autore che ha affrontato i suoi dubbi sulla legittimità non del viaggio, ma della scrittura, sulla legittimità cioè di quell’«alto passo»[18] che Ulisse varcò fallendo e che Dante personaggio attraversò con successo sostenuto dalla grazia divina, dall’umiltà e dalla virtù. Dante autore poté affrontare i suoi timori soltanto a seguito di un conflitto mentale, tra la paura della vendetta dei suoi nemici e di essere bandito da tutte le altre città, oltre che da Firenze a causa dell’esilio, e la necessità di dire la verità che, sola, avrebbe tra l’altro garantito lunga vita al poema tra i posteri. Evidentemente Dante sciolse i suoi dubbi con le parole che poi mise in bocca all’avo Cacciaguida: «Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, / tutta tua visïone fa manifesta; / e lascia pur grattar dov’è la rogna»,[19] inscenando nel dialogo tra l’antenato e il protagonista ciò che era già avvenuto nella sua coscienza.

Così Dante autore, come il suo Ulisse, scrivendo e pubblicando la Commedia navigò per acque nuove e sconosciute, oltrepassando il limite dell’«alto passo», del passaggio difficile, pericoloso, il confine sacro tra il mondo degli uomini e il mistero che sta al di là delle possibilità umane. Ulisse mette al primo posto la conoscenza, rinunciando agli affetti più cari, per «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore»,[20] cioè per conoscere a fondo l’uomo, e riconoscere il bene (il valore) e il male (i vizi) che si annidano nell’animo umano. Dante sceglie la verità, rinunciando alla paura delle conseguenze, e la verità risiede nella discesa all’inferno per conoscere il male e poi nell’ascesa al paradiso per abbracciare il bene. Le due figure coincidono quasi alla perfezione: «Dante fu Ulisse».[21] Potremmo allora leggere l’episodio dell’eroe greco come una manifestazione delle paure e dei timori dello scrittore medievale di naufragare, di fallire come il suo Ulisse, di fronte alla realizzazione di un’opera ardita come la Commedia. In entrambe le figure si nasconde un desiderio di affermare in grandezza il più alto grado di umanità e conoscere a fondo la natura umana, il desiderio di affermare pienamente sé stessi, ciò che arde dentro, l’ardore di Ulisse, ma anche di Dante, il quale non è affatto uomo che si abbandona a concezioni fatalistiche, ma è pienamente consapevole che il proprio destino occorre giocarselo su questa terra attraverso libere scelte, e in questo risiede l’alto messaggio etico della sua opera.[22]

Ecco che allora i celebri versi pronunciati da Ulisse, «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»,[23] costituiscono un invito a migliorare e a crescere in umanità, quell’umanità che secondo Leopardi si esprime anche attraverso il desiderio di infinto, un infinito solo sognato, ma non raggiungibile se non con il pensiero («io nel pensier mi fingo»[24]), proprio perché l’uomo, anche se può contenere dentro di sé l’infinto, è un essere finito, e da questo scarto ovviamente la delusione e l’infelicità. Ma al tempo stesso proprio nell’immaginazione di questa dimensione altra, nel desiderio di infinito, sta la grandezza umana e l’infinito si può raggiungere nella propria mente proprio a partire da un limite, simboleggiato dalla siepe, il limite in cui Leopardi vede la porta verso l’altro mare aperto di Ulisse, cioè questo alto passo, il passaggio difficile verso quegli interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete[25] che sono al di là della siepe o delle Colonne d’Ercole e che permettono al poeta non a caso di naufragare dolcemente, quel naufragio che distingue gli uomini dai bruti.

Tale ragionamento potrebbe essere frainteso e letto come un invito all’autorealizzazione senza scrupoli. Per evitare tale equivoco, ci rifacciamo al grande umanesimo della scrittrice belga Marguerite Yurcenar (1903-1987) e alla sua duplice visione dell’uomo, da un lato grande di per sé in virtù della sua singolarità e unicità rispetto a qualunque altro individuo, dall’altro però così umile e piccolo se paragonato all’umanità intera, intesa in senso lato come l’insieme che al di là del tempo e dello spazio tiene uniti in una rete senza confini tutti gli uomini. Forse ognuno di noi, riconoscendosi anello della grande catena dell’Essere,[26] può decidere dove collocare le proprie Colonne d’Ercole e stabilire il giusto equilibrio tra la piena affermazione di sé e il rispetto dell’altro e degli altri, tra il desiderio di elevare la propria umanità affermando ciò che sente dentro di sé per distinguersi dai bruti e la necessità di non danneggiare l’altro e gli altri, ricordandoci che non siamo singole unità le une accostate alle altre, come è facile credere nell’individualismo dominante della società contemporanea, ma siamo pezzi fondamentali di un Tutto.[27]

E così a distanza di secoli la Divina Commedia è ancora lo specchio nel quale trovare il nostro io, nelle innumerevoli interpretazioni che arricchiscono il testo in quell’infinita borgesiana[28] lettura.

BIBLIOGRAFIA:

J.L. Borges, O. Ferrari, Conversazioni, Bompiani, Milano 2011.

Id., Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2021.

Dante Alighieri, La Commedia. Inferno, a cura di Bianca Garavelli, supervisione di Maria Corti, Bompiani, Firenze 2001.

Id., La Divina Commedia. Purgatorio, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 2002.

Id., La Divina Commedia. Paradiso, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 2002.

Ezio Raimondi, Letteratura italiana. Leggere, come io l’intendo…, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2009.


[1] Cfr., J.L. Borges, O. Ferrari, Conversazioni, Bompiani, Milano 2011, pp. 208-209.

[2] Dante Alighieri, Inferno XXVI, v. 106.

[3] Cfr., Ezio Raimondi, Letteratura italiana. Leggere, come io l’intendo…, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2009, pag. 463.

[4] Maria Corti fa notare come nella tradizione greca non esiste alcun cenno a un tale divieto, ma che i navigatori ellenici avevano instaurato una fitta rete di scambi commerciali al di là delle Colonne d’Ercole con i popoli degli attuali Portogallo e Isole di Capo Verde e che furono invece Arabi a partire dal VII secolo a inventare questo divieto per liberarsi da scomodi concorrenti e pericolosi nemici. Cfr., Dante Alighieri, La Commedia. Inferno, a cura di Bianca Garavelli, supervisione di Maria Corti, Bompiani, Firenze 2001, pag. 451.

[5] Ulisse e i suoi compagni, dopo aver oltrepassato le Colonne d’Ercole, navigano per cinque mesi prima di avvistare una montagna dai connotati familiari, ma si tratta della montagna del Purgatorio, il cui accesso è negato ai vivi, è per questo il naufragio è ormai garantito: «Tre volte il fé girar con tutte l’acque; / a la quarta levar la poppa in suso / e la propra ire in giù, com’altrui piacque, / infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso», Inf. XXVII, vv. 139-142.

[6] J.L. Borges, Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2021, pag. 47.

[7] Dante Alighieri, Inferno XXVI, v. 122.

[8] Ibid., v. 100.

[9] J.L. Borges, op. cit., pag. 43.

[10] Cfr., ibid., pag. 47.

[11] Cfr., ibid., pag. 45.

[12] Cfr., Ovidio, Metamorfosi, libro VIII, 183-235 e Virgilio, Eneide, libro VI, 30-33.

[13] Dante Alighieri, Paradiso XXVII, vv. 82-83.

[14] Id., Inferno II, v. 35.

[15] Cfr., J.L. Borges, O. Ferrai, Conversazioni, Bompiani, Milano 2011, pag. 209.

[16] Cfr., ibid., pag. 204.

[17] Dante Alighieri, Inferno II, v. 32.

[18] Ibid., v. 112: «Prima ch’a l’alto passo tu mi fidi» e Inferno XXVI, v. 132: «Poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo».

[19] Dante Alighieri, Paradiso XVII, vv. 127-129. Cacciaguida ordina a Dante di rivelare e scrivere quanto ha veduto e udito nell’aldilà («tutta tua visïon fa manifesta», Par. XVII, v. 128), ribadendo e completando l’investitura profetica già pronunciata da Beatrice nel paradiso terrestre.

[20] Dante Alighieri, Inferno XXVI, v. 98-99.

[21] Cfr., J.L. Borges, Nove saggi danteschi, op. cit., pag. 48.

[22] Cfr., G.M. Anselmi, Letteratura e civiltà tra Medioevo e Umanesimo, Carocci, Roma 2011, pag. 47.

[23] Dante Alighieri, Inferno XXVI, v. 119-120.

[24] G. Leopardi, L’infinto, v. 7.

[25] Cfr., ibid., vv. 4-6.

[26] Cfr., M. Yourcenar, Ad occhi aperti. Conversazioni con Matthieu Galey, Bompiani, Milano 2004, pp. 190 e 196.

[27] Cfr., ibid.

[28] L’aggettivo borghesiano è qui utilizzato con il significato di “relativo a Borges”, e non nel significato che si è diffuso di concezione della vita come storia (fiction), come menzogna, come opera contraffatta spacciata per veritiera.

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Ricordando Raul Lunardi (1905-2004), autore di “Preghiera del centenario”. Articolo di Stefano Bardi

Articolo di Stefano Bardi (*)

Questo breve articolo è volto a ricordare il poeta, scrittore, giornalista e insegnanteRaul Lunardi(1905-2004), cittadino illustre del comune di Sassoferrato, vicino a Fabriano. Un intellettuale di cui oggi si rammenta per lo più l’attività di scrittore con opere quali “Diario di un soldato semplice” (1952) e “Un eroe qualunque” (2000). Intensa fu, però, anche la sua attività poetica, oggi raccolta in un volume che la compendia in forma generale. La critica poco si è espressa su tale intellettuale, se si eccettuano interventi di Carlo Bo e di Teresa Ferri.

Per praticità e per una più organica presentazione della sua opera poetica, dividerò la sua produzione in due diverse fasi. Nella prima troviamo poesie che vanno dal 1920 al 1983, raccolte in “Poesie 1923-1983” (1998) e quelle dalla seconda metà degli anni ’80 al Duemila in “Preghiera del centenario: poesie” (2003).  Numerosi sono i temi da lui affrontati nelle due raccolte . Un primo tema riguarda la Politica, intesa da Lunardi come creatura dalle mani sporche di sangue e di letame, con le quali i suoi funzionari non fanno altro che denigrare la società degli Uomini, sottomettere la razza umana e trasformare lo Stato nella loro casa: un Inferno. Un secondo tema riguarda i versi poetici che sono intesi dal poeta come i flussi sanguigni, poiché come quest’ultimi, anche i versi lirici sono strutture linguistico-grammaticali frenetiche, palpitanti e meditative. C’è anche il tema della terra, della sua regione, delle Marche autentiche, da lui considerate come una Regione elisiaca, dall’eterna giovinezza, dalla viva campagna e dalle reminiscenziali primavere. All’interno di tale realtà c’è un vivido omaggio alle grotte di Frasassi, concepite dal  poeta come un Eden mistico dal quale Adamo ed Eva diedero inizio alla vita.

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Il poeta marchigiano Raul Lunardi (1905-2004)

“Preghiera del centenario” (2003) è un’opera che l’autore ha volutamente costruito come una moderna “Divina Commedia” dantesca; anche la sua opera è divisa in tre gironi: “Poesie al Neutrone” (configurabili col dantesco Inferno), “Dolce Colore D’Oriental Zaffiro” (configurabili col Purgatorio) e “Dalle Stalle alle Stelle” (configurabili col Paradiso).

Un girone infernale, quello del poeta sassoferratese, in cui possiamo vedere spiriti privi di anima che sono qui collocati, poiché da vivi hanno sostituito l’amore, la gioia e la compassione con la falsa e tecnologia figlia a sua volta della aberrante globalizzazione. Anime, queste, che sono eternamente condannate a non amare più; anime senza amore carnale e spirituale, ma anche profondamente emarginate nell’animo, poiché da vive hanno percorso la strada delle estremità.

Un Inferno che è animato da più anime dannate che saranno da me analizzate nelle loro principali figure. Una prima schiera è costituita dalle oscure ombre di Uomini violenti, che nella loro vita terrena hanno avuto comportamenti maneschi, usato parole brutali e creato leggi per passare negli sguardi degli altri, come dei santi ma pronti a morire durante la loro esistenza per ogni giudizio etico colmo di verità. Una seconda schiera è costituita dalle anime che durante la loro vita sono state avide verso i loro fratelli pensando solo alla cura della propria immagine. Una terza schiera è costituita dagli Uomini cyborg, paragonati agli orologi perché, al pari di essi, compiono le stesse cose impegnati unicamente a consumare i giorni della loro vita. Uomini, ma anche Donne, che sono meretrici, in questo inferno lunardiano. Puttane che nella loro vita hanno illuso i loro amanti donandogli solo un finto amore. Dannate a dolori fisici sono le anime lunardiane; esse sono anche costrette a lasciare nella vita il loro viso nel cuore di coloro che le hanno amate, senza riuscire a dare risposte a questi spettrali visi.

Ci sono anche le impersonificazioni dell’Europa e della Poesia. Il nostro continente è delineato quale creatura ambigua e dalle carni incomplete, che ha regnato solo per mezzo della schiavitù, mentre la Poesia è vista colma di silenzi spirituali e di brumosi pensieri.

Il Purgatorio del poeta marchigiano è contraddistinto da anime che espiano colpe per la conquista del Paradiso Celeste attraverso il ricordo di arcani sapori e ubriacanti odori. Espiazione che si deve basare sulla riscoperta della fola e sul cammino nel dolore. Un girone in cui c’è spazio anche per l’Uomo moderno e la sua vita pregna di super tecnologia, con la quale è fortemente convinto di potersi sostituire alla vita creaturale creata da Dio e crede di poter prendere il posto di Dio. Quest’ultimo, la divinità, è concepita da Lunardi come un geniale direttore d’orchestra  che dona all’Uomo i suoi occhi per farlo camminare su una strada luminosa, le orecchie per ubriacarlo con dolci melodie, i piedi per farlo camminare nella compassione e il cuore per fargli diffondere amore.

Sia Inferno che Purgatorio in Lunardi hanno delle affinità con i celebri gironi danteschi. Centrale rimane, comunque, il cruciale tema della globalizzazione quale oscura sovrana, che ha costretto l’Uomo ad abusare della tecnologia per il soddisfacimento delle sue ingordigie più sfrenate. Globalizzazione dalla quale, però, secondo il poeta sassoferratese, l’Uomo se ne libererà rituffandosi nel brodo mistico dell’Alba Tempi, dal quale ricomincerà una nuova vita nel segno della purezza e della beatitudine spirituale.

Per concludere va rivelato che il Paradiso lunardiano è abitato da angeliche creature dal brumoso anelito luminoso, dalle rosee e marmoree membra simili a quelle della dea Afrodite. Accanto a queste creature c’è spazio anche per la Donna, qui rappresentata attraverso un intimo ricordo che ce la mostra come una creatura dalla dorata capigliatura, dallo spirito garbato. Una donna, quella liricizzata dal poeta sassoferratese, intesa come un angelo che riscalda l’uomo, quale creatura sessualmente libera e vera regina che tira i fili dell’Universo.

STEFANO BARDI

 

(*) Una prima versione di questo articolo, col titolo “Cultura. Sassoferrato, città d’arte e di poesia. Omaggio a Raul Lunardi, 1905-2004”, è apparsa sulla rivista “Lo Specchio Magazine” in data 27/11/2018 (disponibile a questo link). L’articolo viene riproposto con sensibili modifiche rispetto alla precedente pubblicazione, con l’assenso dichiarato da parte del relativo autore.

 

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“John Milton: Meglio regnare in Inferno che servire in Paradiso” di Giuseppina Vinci

“John Milton: Meglio regnare  in Inferno che servire in Paradiso”

a cura di Giuseppina Vinci 

 

Chiunque abbia letto versi di John Milton, non può non ricordare questi versi. Forti, toccanti, coinvolgenti…. J. Milton, poeta inglese vissuto nel 17° secolo, ci lascia un’opera indimenticabile dal titolo Paradise Lost, quel Paradiso perduto da tutti gli esseri umani dopo quell’atto, quel gesto, quella disubbidienza a Dio ricordato come ”the original sin” di Adamo ed Eva. Un gesto che ha condannato l’essere umano alla schiavitù del peccato secondo la teologia cristiano-cattolica. Gli angeli ribelli, the fallen angels, guidati dall’angelo più bello, Lucifer, cacciati dal Paradiso  per sempre.  Non più speranza, non più riscatto, non più salvezza.

downloadIl capo degli angeli ribelli domina nel suo regno, governa il luogo dove insieme ai suoi seguaci dimora.  Adesso è capo, non più dipendente, capo di una schiera di angeli decaduti. L’atto del servire lo degrada, non può accettare ordini, comandi,  lui deve disporre, governare, altri devono sottostare a lui.

La legge del più forte, del più audace, del condottiero per una causa ”giusta” solo per lui. Nessuno deve essere più forte di lui.  Nessuno più ”illimitato” di lui. Nessuno può o deve dire Cosa deve, può, e in che modo fare. Soltanto lui deve stabilire cosa e come si può fare o è lecito fare. Nessuna sottomissione ad alcuno, nessuna reverenza, niente che possa costringerlo a genuflettersi. Soltanto a lui i comandi, soltanto lui può stabilire e decidere a cosa ci si deve attenere.

Pur avendo ottenuto tutto ciò, pur seguito da  ”angeli ribelli”, avuto una dimora, un ”regno” tutto per lui, non è e non può essere appagato. Non accetta la nuova dimora, non sente di essere  ”re” nel suo nuovo regno,  perché tutto detesta anche il regno dove sarebbe l’unico  capo incontrastato.

”Meglio regnare in inferno che servire in paradiso” potenzia il suo stato, nonostante la nuova inospitale dimora, nonostante gli odori del nuovo ambiente, nonostante la grande rabbia che sovrasta tutto e tutti intorno, lui ”regna” non serve, servire non gli appartiene, non può essere il suo stato. Non lo sarà mai. Perché dal suo stato non si torna indietro. Non può più tornare alla celestiale dimora. Non vuole, non può, il cielo è distante, chiuse le porte, se porte esistono, ormai  è Fuori per sempre. Una lotta infinita è iniziata, non cessa, sarà la lotta eterna tra due Forze e spera di vincere.

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Il poeta fa parlare il più ribelle degli angeli, a tratti sembra condividerne gli umori, lo stato d’animo di chi non ha più voluto  accettare la DIPENDENZA,  di chi non ha voluto sottomettersi a una Volontà Superiore. L’essere servi lo avvilisce, lo umilia, lo annienta.

Le condizioni storico-sociali dell’Inghilterra del 17° secolo, il conflitto e la conseguente guerra civile tra la casa reale inglese e i Roundheads, con la vittoria dei Puritani guidati da Cromwell  ha senza dubbio condizionato e determinato le convinzioni del Poeta, la sua avversione verso la casa reale che rappresentava il potere, il rigore, che aveva soffocato la democrazia a cui il popolo inglese era oramai con e dopo i Tudors legato, Milton si sentiva suo malgrado costretto ad accettare la guida degli Stuarts, diremmo oggi anacronisti, governare secondo il cosiddetto Diritto Divino suonava agli inglesi una forzatura, un ribaltamento della loro civiltà e la fine della democrazia.

E allora la forza, la ribellione contro il potere temporale, contro gli Stuarts appariva come l’unica soluzione. Starà dalla parte di Cromwell e per 20 anni, tanti sono gli anni del Protettorato, appoggerà the Commonwealth.

Milton non giustifica la ribellione di Lucifero verso Dio, ma potremmo dire trova ”legittimo” quel gesto, quell’atto, quella sorta di coraggio, di impeto, di volontà forte a non sottomettersi a quella che ai suoi occhi, purtroppo, è ritenuta tirannia. La volontà di sapere, di conoscere gli appare negata, e non potendo giungere alla piena conoscenza, al sapere assoluto e universale, cerca e vi riesce, di convincere gli  altri a ribellarsi, con il risultato di essere cacciati anche loro dalla dimora a loro concessa. Da qui il pianto, la sofferenza di essere diseredati, l’eredità assegnata tolta, non più paradiso ma inferno, non più condivisione ma separazione da Dio.

L’eredità, gratuitamente data, ora bisogna riottenerla e i  modi e le vie sono tante e sconosciuti.

L’Albero della Conoscenza del Bene e del Male è inavvicinabile, lontano dalla loro vista, una vista divenuta miope, distante dalla Verità. Non resta che la sofferenza, quello stato di sofferenza comune a chi ha scelto la separazione e il distacco in nome della libertà.

La libertà, la facoltà di sentirsi non sottoposti, non sottomessi è lo stato e del primo RIBELLE  della storia umana e di tutti gli esseri che consapevolmente e/o no hanno seguito e seguono le sue tracce, le sue orme. In nome della libertà, dell’autonomia, della gestione del proprio io, si innalza una barriera, un muro, si esce da una ”porta” per entrare verso un’altra non definibile, sconosciuta, dalla quale non sai ove precipiti. Storia di esseri umani, di esseri alla conquista della libertà, della indipendenza, percorsi mai conosciuti ma allettanti, l’uomo che scopre, che distingue, che scruta o si allontana dalle origini o si avvicina alle origini,  un mistero tutto da svelare.

Giuseppina Vinci

L’autrice di questo saggio acconsente alla pubblicazione online su questo spazio senza nulla chiedere né all’atto della pubblicazione né in futuro e attesta, sotto la propria responsabilità, di essere un testo personale, frutto del suo ingegno. 

“La porta dell’inferno” di Daniela Ferraro con un commento di L. Spurio

Nella giornata della memoria, pubblichiamo una poesia della poetessa calabrese Daniela Ferraro ispirata alla deplorevole carneficina della seconda guerra mondiale con un commento del critico Lorenzo Spurio a continuazione.

La porta dell’inferno

di Daniela Ferraro

S’apre, improvvisa,
in mezzo al verde
e l’erba stinge
e cessa il vol d’uccelli
e odi il vento
che macera le ceneri
dei dannati immolati
al Dio umano bifronte.

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Commento di Lorenzo Spurio

La lirica, costituita da versi lapidari e assai visivi, ci immette in uno scenario di profonda ambiguità e di desolazione nella quale le tinte cromatiche hanno subito un processo di slavatura. Non sono, però, i colori ad aver subito questa operazione di illanguidimento da rendere le tinte vane e difficilmente identificabili, ma sono gli oggetti, la materialità concreta, indicata nell’ “erba” ad essere interessata così non è che leggendo la lirica immaginiamo una erba-non erba cioè a un’entità che ne descriva la sua assenza, piuttosto la Nostra il quell’ “Erba stinge” sembra quasi di vedere i fili d’erba che perdono il colore, che vengono deprivati di una delle loro caratteristiche che l’uomo percepisce per mezzo dell’utilizzo empirico dei sensi. Ma non è l’erba che effettivamente stinge, piuttosto è la vista allucinata dell’uomo, stordita dal disprezzo e vituperata dall’odio che lo porta all’adozione della bieca violenza a non permettergli, quasi come una dura condanna adoperata dalla Natura che dinanzi a ciò è completamente inerme, a distinguere nettamente la tempra cromatica dell’erba, a percepirne con distinzione tale qualità visiva. Nell’abulia dei colori (essi sono assenti non in quanto tali, ma a seguito dell’incapacità dell’uomo di identificarli) si sposa la pesantezza dell’immobilità: gli uccelli, proprio come il verde perso dell’erba, hanno cessato di produrre versi, abiurando alle leggi della loro esistenza nel mondo. Esistono come parvenze, ma anch’essi sembrano aver perso l’anima dinanzi a tanta tribolazione e degrado delle coscienze. Il vento, che la Nostra richiama, e che potrebbe servire a rivitalizzare l’ambiente, a far uscire dal torpore nel quale la natura tutta si è stretta serrando gli occhi sperando in un epilogo veloce delle vessazioni, non è  richiamato quale presenza benigna, bensì assume il nefasto carico di morte che aleggia nel campo di lavoro. E’ un vento di morte, putrido e annullante, perversamente pesante e doloroso, la sua aria contiene gli ultimi sospiri della gente a cui è stata data la morte, gli afflati emozionali, gli ansimi di tormento. E’ un vento-miscela, assai più denso e visibile di qualsiasi spostamento d’aria. La percezione dello stesso è motivo d’ulteriore afflizione nella certezza di una condanna atroce da scontare senza aver commesso peccati. La chiusa della poesia, serrata e assai perentoria, nella figura ambigua e difficile di un “Dio umano bifronte”, si riallaccia a quella natura che ha assunto gli elementi del Male, quasi per trasfusione dalle malvagità dell’uomo che in quel luogo opera senza commiserazione e improntato ad una legge snaturata. Il Dio che la Ferraro descrive non è solo “bifronte”, che osserva maledettamente il genere umano con una doppiezza di prospettive, ma si è fatto “umano”, risiedendo nelle carni ormai cenere di ciascun disgraziato che ora vaga in quel vento di morte che soffia con raffiche taglienti come asce. Si faccia silenzio per ascoltare quei fiotti di tormento e allontanarli per sempre.

 Lorenzo Spurio

 Jesi, 26-01-2016

La poesia viene pubblicata su Blog Letteratura e Cultura per gentile concessione e con l’autorizzazione dell’autrice.

 

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