N.E. 02/2024 – Su Mihai Eminescu. Saggio di Dante Maffia

Mihai Eminescu è una delle figure più interessanti della poesia europea dell’Ottocento. Intanto la sua vita: un crogiolo di avvenimenti, a cominciare dalla famiglia numerosa. Era il settimo di undici fratelli, uno dei quali si suicidò, una sorellina di pochi anni, Hanrieta, fu colpita dalla paralisi e gli altri morirono quasi tutti di tubercolosi. Un’infanzia così orribile, così piena di disgrazie e di dolore produsse in lui lo sfacelo psichico e non bastò la dolcezza della natura dove trascorse i primi anni (a Ipotesti, Botosani) a ripararlo dalla strazio che lo investì con ferocia inaudita. Rimase spesso gelido, lontano dagli accadimenti altrui, assente, fermentando nel suo animo furori contraddittori, fantasmi sconci e osceni che soltanto la Natura poteva curare con la sua innocenza. Aveva otto anni quando fu mandato a studiare a Cernauti, nella Bucovina dove si parlava tedesco. Non gli piaceva trascorrere le giornate a studiare, ma ebbe la fortuna di avere come professore Aron Pùmnul che, come scrive Gino Lupi, “amò fortemente e gli rivelò l’intima unione esistente fra la nazione e la lingua”. Ma non abbiamo notizie precise su questo periodo, solo ipotesi e intuizioni, con una certezza, fu sempre irregolare, inseguì un suo sogno di cui non dette ragioni e spiegazioni, neppure al padre che, a più riprese, cercò di riportarlo agli studi.

I primi versi li scrisse in morte del professor Pùmnul e furono pubblicati nel 1866 sulla rivista “Familia”. Aveva poco più di sedici anni e forse per questo motivo il direttore della rivista, Iosìf Vulcàn, l’accetto con entusiasmo, ma anche perché intravide nella filigrana dei versi qualcosa che lo spinse ad avallarlo. All’epoca Mihai firmava col cognome Eminovici e fu il redattore, non amava ciò che sapeva di slavo, che arbitrariamente lo cambiò in Eminescu. Al giovanotto piacque e da allora lo adottò per sempre.

A guardare la brevità della sua esistenza, muore a soli trentanove anni, si stenta a credere che egli abbia viaggiato tanto e scritto tanto, viaggiato anche da solo, come Dino Campana, per conoscere il mondo contadino della Romania, per sentirsi libero. Dino Campana addirittura per raggiungere Firenze da Marradi, si avviava a piedi, e non è escluso che anche Mihai non abbia fatto lunghe scarpinate; atteggiamento tipico di chi è portatore di malattie nervose. Si tratta di pure coincidenze, ma vedo negli studi disordinati di Eminescu anche un modo simile a quello di Ovidio, la stessa avidità di conoscenza del poeta latino, il variare degli interessi, un eclettismo molto selettivo e ricco di interessi che non trascuravano le scienze e la filosofia, il rapporto con la vita: disordinato, caotico, intenso; con l’amore: irto, fatale, ciclico; con la morte, con gli studi, con la politica, con l’ambiente, soprattutto con la lingua rumena che voleva sentire viva e palpitante nei suoi versi, voce del popolo, ma anche congiunzione di un ideale che doveva racchiudere la sintesi di una intensità che non trascurava la cultura in senso lato. Si noti che quando si iscrisse all’Universtà nell’anno 1871-1872, seguì contemporaneamente i corsi di economia, di lingua rumena, di anatomia, di diritto, di fisiologia, di medicina legale e i corsi di analisi dedicati a Spinoza, Leibniz e Descartes.

A dominare la vita del poeta è l’inquietudine che lo spinge a cercare il senso segreto delle cose, con la convinzione che comunque la letteratura abbia anche una funzione pedagogica che educa gli animi a un’etica sempre corroborata dall’estetica e senza che l’una limiti l’altra o la renda ancella. Un equilibrio così potente è sempre difficile che regga, eppure in Eminescu non solo trova spazio e ragioni, ma dura e diventa la forza di un modo di intendere la vita nel suo farsi quotidiano. Giustamente alcuni critici sostengono che Eminescu poeta non lo si possa intendere e godere nella sua portata se non si conoscono i suoi scritti giornalistici (nei sette anni in cui lavorerà come redattore alla rivista ”Timpul”  pubblica oltre trecento articoli in cui affronta i problemi più scottanti e più urgenti del suo tempo)  ma altrettanto giustamente io dico che la poesia di Eminescu offre, anche al lettore che per caso ci si imbatte, molte emozioni, molte frenesie e molte possibilità di entrare in armonia con l’universo al di là dei fattori contingenti che qua e là affiorano.

Quando dico entrare in armonia con l’universo non intendo il luogo comune che pretende di unificare soggettivismo e universalismo, ma naturale realizzazione di qualcosa che non appartiene più alla realtà, perché è entrata nella dimensione della musica, del sogno, di un universalismo ideale che comprende in un unico fiato il senso della vita e dell’amore. Eminescu aveva una capacità fenomenale di “sentire” la forza dei poeti, basti pensare all’incontro avuto con la poesia di Aleksandr Sergeevič Puškin che lo travolse e che gli fece quasi imparare il russo in pochi giorni.  La sua psiche però “ragionava” secondo le accensioni di interessi che scantonavano alla ricerca di un qualcosa di definitivo che egli aveva intravisto e non riusciva ad acciuffare facendo accrescere in lui la curiosità della conoscenza, proprio con atteggiamento dantesco. L’aveva colto molto bene Mario Luzi che scrisse: “Per necessità naturale e per situazione geopolitica vissuta, Eminescu ha fatto ciò che nel secolo successivo al suo e anche oggi si tenta di fare per convinzione o per calcolo: una letteratura senza frontiere tra germanesimo e retaggio latino, tra Oriente e Occidente. Con questo respiro vivo, grande, spontaneo e conscio Eminescu ha dato freschezza e vigore al profondo desiderio romantico; e ha dato anche drammatica perspicuità all’accento della sua sconfitta, senza per questo compromettere o diminuire la sua energia creativa”. E tutto questo senza mai entrare nella scia di quel maledettismo che in Francia, e non solo, ruppe gli argini e immerse la poesia spesso in un fuoco di significati esoterici ed eterogenei che crearono molta confusione e affermarono il concetto del disordine come espressione poetica di somma libertà.

Le avanguardie molto spesso aprono strade nuove e svecchiano, ma qualche volta fanno anche parecchi danni quando pretendono di sradicare gli alberi d’una foresta e senza ripiantarne uno solo. Eminescu aveva dalla sua le ragioni linguistiche che lo aiutarono a restare fermo nelle forme classicheggianti, anche quando il canto delle sue liriche prense l’aire o quando la musica dei versi si snodò in vibrazioni stridenti. In lui poeta c’era la necessità di saldare le scissioni interiori che lo dilaniavano e lo sbattevano in venti contrari, tanto è vero che il suo peregrinare ne è testimonianza pura, a cominciare dal fare il suggeritore di teatro, lo scrivano, lo studente distratto e svogliato. Ho l’impressione che la sua vita fu guidata da intermittenze allucinatorie che lo sbattevano tra inferno e paradiso, tra momenti in cui sembrava di avere trovato l’equilibrio e la sintesi delle sue ansie e lo sfaldamento di tutto, lo scendere verso le cateratte oscure di un inferno che apriva orizzonti sconcertanti, chimere che svaporavano nell’assurdo, soluzioni che non erano mai pause vere e proprie, ma appena singhiozzi di mortificazione per non essere riuscito a saldare la sua necessità di saldare il cerchio.

Il poeta romantico rumeno Mihai Eminescu (1850-1889)

Leggendo le sue poesie si ha la sensazione di attraversare una strada infinita senza strisce che guidino e senza muretti laterali; di trovarsi allo scoperto mentre in cielo l’azzurro si appallottola per nascondersi al viandante. E il viandante è sempre lui, Mihail, che a volte perde il senso della direzione e si nasconde nel guscio vuoto di sensazioni clamorosamente effimere, frantumate da singhiozzi di un vento infernale che non smette mai di spirare. Ogni situazione poetica che Eminescu affronta nasce da un suo dubbio, da una riflessione più che da uno scatto lirico; poi avviene il mutamento e la scommessa di fermare in immagini il riverbero, sempre però tenendo a freno l’anima, quasi che temesse di essere frainteso, offeso, colto nel momento in cui le considerazioni potrebbero cadere nell’aura del senso di colpa, addebitando alla sua persona i mali del mondo, le cadute a picco nell’impotenza e nell’adesione perfetta alle cose e al sentimento.

Anche nelle poesie d’amore più accese si avverte una sorta di timore ad abbandonarsi totalmente (è casuale che una delle parole più ricorrenti nella produzione di Eminescu sia marmo?) e così il suo romanticismo si veste di classicità, diventa misura che contempera accenti precisi cadenzati dalle forme metriche tradizionali come il sonetto, la ballata, le quartine utilizzando spesso anche la rima baciata.

Alla fine degli anni ottanta, epoca in cui ho frequentato spesso Firenze, ho avuto l’occasione di parlare spesso con Sauro Albisani di Mihai Eminescu. Volevo capire in che cosa consiste il suo fascino e la sua forza, la bellezza della sua poesia che non si lascia mai andare a uno straripamento, neanche ne L’astro Lucifero, neanche quando il suo cuore bolle e non riesce ad estenuare la possanza del sentire i rintocchi e le accensioni del suo animo. In lui persiste e resiste la misura, che non è tutta edulcorata dal riverbero classico greco e latino. Egli ha trovato un suo modo pudico di entrare nelle valenze umane e spirituali e ne ha fatto un rivolo di luce che irrora la parola e la porta a compiere quasi un dovere espressivo che deve racchiudere, saper racchiudere il senso apparente e ciò che vive anche dietro l’apparenza, perfino ciò che sfuma verso l’alto e diventa essenza del sogno.

– Oh, sei bello come solo in sogno

       Un angelo si affaccia,

Però mai ti seguirò

       Sulla via che mi mostri:

Straniero nelle parole e nel costume,

       Risplendi senza vita,

Ché io son viva, tu sei morto,

      E l’occhio tuo m’agghiaccia”.

Quanto al riferimento che alcuni critici hanno fatto a Giacomo Leopardi personalmente non vi ho trovato riscontri. Sì, sono morti tutti e due a Trentanove anni, hanno vissuto una breve esistenza studiando in modo “matto e disperato”, ma Leopardi chiuso nel suo borgo e Eminescu vagando, cercando se stesso:

“Chiedere un segno, amore, per non dimenticarti?

Ti chiederei soltanto te, ma non sei più tua;”

                                                       (Separazione)

Una delle cifre più umane e poetiche di Eminescu è proprio dentro la sua inquietudine. Ho citato prima Dino Campana, ma non escluderei Nazim Hikmet e soprattutto… ma si tratta di affinità che vagano e che comunque arrivano dopo la sua presenza. Sarà stato anche il suo seme che si è sparso con il passare del tempo forgiando il nettare di altri poeti, favorendo il loro lievito? Non è escluso, ma a noi oggi preme accertare in che cosa consiste la grandezza di Mihail Eminescu, al di là delle connessioni che può avere avuto prima e dopo. La sua poesia ha il sapore pieno della vita, una intensità espressiva rara che rasenta, per fare una citazione tutta italiana, quella di Giosuè Carducci, una verticalità spirituale e linguistica che riesce a raggiungere esiti efficaci e spesso decisi in sono tessuti i fermenti di una “visione” che non si ferma soltanto alla poesia, ma va oltre, per affermare una identità attraverso il linguaggio mai approssimativo, mai giocato sulle ambiguità o sulla marginalità. Egli è davvero il testimone di un Paese che finalmente si ritrova dentro una coralità e dentro una emotività che da una parte vuole svincolarsi dal peso quasi irremovibile della latinità e dell’altra vuole affermare con decisione

“Sì, nascerò dal peccato,

      Ricevendo un’altra legge;

All’eternità sono legato,

      Ma voglio essere liberato”,

                        (L’astro Lucifero).

Insomma, il suo progetto romantico si svela e si adegua ai canoni per rifiutarli e addirittura romperli, in modo che la sua caduta nel baratro dell’angoscia e della follia diventi seme necessario, cito ancora Mario Luzi, “la sua energia creativa”. Una energia che ha qualcosa di infernale e di caduco e che tuttavia è stata “capace di annullare e di trascendere il dato autobiografico per elevarsi a ricerca di valori universali”, come sostiene Marina Tudorache.

Sentiamo che cosa dice Eminescu rivolgendosi agli amici critici: “I fiori sono tanti, ma pochi / frutti daranno al mondo; / tutti bussano alla porta della vita, / molti cadono morti. // Scrivere poesie è facile / se non si ha niente da dire, / si mettono in fila parole vuote, / facendo in modo che ultime facciano rima. // Ma se il tuo cuore è infastidito / da forti sofferenze e da grandi passioni, / e la tua mente / ascolta tutte le voci, // e queste voci, come fanno i fiori alla soglia della vita, / bussano alla porta dei tuoi pensieri, / e domandano di entrare nel mondo, / di adornarsi di parole. // Verso i tuoi sentimenti, / verso la tua vita, / dove potrai trovare giudici / dagli occhi gelidi e spiatati? // Ah, in quel caso ti sembrerà / che il cielo si abbatterà sul tuo capo: / e così troverai le parole / per esprimere compiuta la verità? // Oh critici, fiori appassiti / che mai darete frutti- / E’ facile scrivere poesie, / se non si ha niente da dire”.

Scetticismo? O piuttosto fede cieca nella poesia che però non deve cincischiare e occuparsi del fuggitivo, di quel che corre in fretta e si dilegua? La fede di Eminescu è totale eppure non si confessa in pienezza, cerca la via indiretta e l’ironia per affermare il dogma della poesia, la sua totale necessità.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La religiosità spirituale nelle opere delle poete lucane: da Isabella Morra ad Anna Santoliquido”, saggio di Francesca Amendola

L’opera di un poeta è fusione totale tra parole e immagine, che origina quello che Bachelard chiama retentissement, ossia  la capacità della poesia di creare una sorta di “vicinanza”  tra poeta e lettore, che mette in moto l’attività di comprensione e interpretazione. Petrarca scriveva che «la poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura» poiché nasce da una commistione tra ispirazione e sentimento del divino. Anche quando il poeta non tratta esplicitamente il tema religioso (qualsiasi sia la sua confessione) vi è sempre una fortissima tensione spirituale, non a caso «nel tempo della notte del mondo i poeti, cantando, insegnano il sacro» (Heidegger). Proprio Heidegger parlava della funzione della poesia come forma di conoscenza. Infatti nell’antica Grecia il poeta era l’hermeneutès, ossia l’intermediario tra gli uomini e l’Olimpo ed era l’interprete dei presagi degli Dei. La poesia perciò era parte integrante della religione e della vita spirituale.  Nasce dal “fondo profondo” (E. Montale) e nel silenzio interiore il poeta coglie il senso del mondo e lo porta in superficie attraverso la parola. Ma «i poeti non accendono che lampade essi poi spariscono» (Emily Dickinson) nel senso che il poeta non parla per sé ma per gli altri. Ne segue che l’attività poetica dà volto alle cose e rende libera la mente, aprendola alla conoscenza del mondo e alla verità dell’Essere Supremo, che è Dio, inizio e fine di ogni cosa creata.

La vita è amore e se «l’amore è movimento», secondo il pittore E. Tomiolo, verso gli altri, verso se stessi, verso la natura, verso Dio, è proprio l’amore negato che spinge la lucana Isabella Morra[1](vissuta nel Cinquecento) ad alzare un grido straziante contro l’universo per il padre lontano,[2] contro il «Torbido Siri»,[3] contro i «fieri assalti di crudel Fortuna».[4] Crollati tutti i miti: il desiderio di trovare un amore o una ragione per vivere nelle lande solitarie e ostili di Valsinni, trovò conforto in Cristo e nella Vergine. Non a caso Il Canzoniere di Isabella Morra, come quello di Petrarca, si conclude con la canzone alla Vergine. Isabella delusa e ormai libera dalla zavorra della vita, abbraccia il mistero di Cristo e in Lui proietta i suoi desideri identificandosi nella peccatrice Maddalena, redenta e pentita e con «la mente rivolta «a la Reina del Ciel, / con vera altissima umiltade»[5], l’anima si porge alla contemplazione di Dio. L’incontro con la dimensione religiosa, metafisica, le dà certezza che esiste un mondo alternativo a quello nel quale vive.  La sua poesia è parte integrante del suo breve percorso di vita, che la guida e la sostiene nella solitudine sia nel dialogo con la natura aspra e selvaggia, sia con l’unica amica: Antonia Caracciolo, moglie di Diego Sandoval De Castro, ritenuto a torto dai fratelli, suo amante.

Ben diversa è la poesia di Aurora Sanseverino[6] (vissuta nel Settecento), una delle poche donne, che fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Coritesia. Le sue poesie non vanno al di là di una pura esercitazione letteraria; in esse la spiritualità e la religiosità sono improntate dall’esteriorità. Non analizza l’angoscia e la ricerca della pace contro «gli aspri martiri»[7] non nasce dal senso vertiginoso di vuoto, che distende la sua poesia fino al grido, allo spasimo, al pianto. Non c’è vera sofferenza e il “male di vivere” è una finzione, espressa in moduli leggeri, musicali appena increspati di malinconia. Il sentimento è distaccato e astratto e si apre a un gioco di parole secondo i modelli dell’Arcadia. Le lande sconfinate dell’entroterra lucano, che fanno da sfondo ai suoi sonetti e canzoni, appaiono irreali e artificiosi; uno scenario perfetto per una narrazione idilliaca di un mondo fiabesco, e il concetto di solitudine è ben lontano da quello straziato di Isabella Morra.  Le poesie utilizzano un linguaggio semplice, musicale a tratti lezioso, in obbedienza al tòpos classico del «luogo ameno». Figlia del secolo e della cultura dei Lumi, Aurora non sente la tematica del trascendente e Dio è inteso semplicemente come un Essere Supremo, secondo il dettame del sensismo. Gran parte della sua produzione di liriche, ballate, melodrammi è andata perduta e i pochi sonetti conosciuti hanno portato la critica letteraria a dire che il suo lavoro è «non godibile e sostanzialmente artefatto».

L’isolamento e l’essere “figlia di una regione derelitta” qual era la Basilicata, dominio per secoli di “ignominioso servaggio”, porta la potentina Laura Battista[8] (Ottocento) a una consapevolezza dei problemi politici, sociali e storici della sua regione. Colta e raffinata al pari del Leopardi, del quale fu seguace, ebbe per opera del padre uno studio «matto e disperatissimo», che la portarono giovanissima a scrivere di greco, di latino, di tedesco e di francese. I Canti[9], ottanta componimenti in tutto, si muovono dalla sfera pubblica a quella privata. La passione politica spingeva la Battista a partecipare agli avvenimenti della nazione, dall’altro premeva il suo disagio esistenziale, soprattutto per la sua relegatio a Tricarico. La sua è una poesia d’occasione, legata agli avvenimenti, espressi spesso con un linguaggio religioso e enfatico, infatti usa per Garibaldi i termini «Redentore dei popoli», «Divino». I sonetti, ben costruiti tra retorica celebrativa e patriottica nell’esaltazione del momento, si spiegano come un brindisi e perciò risentono di una certa monotonia. Diventa la sua spiritualità autentica nelle liriche soggettive e private, che toccano i sentimenti di donna e di madre, che vive una condizione di solitudine in una casa senza amore e in un paese senza prospettive.

Poche son le donne che assurgono agli onori della gloria letteraria, come scrive in una lettera Laura Battista, ma «la donna o villipesa o trascurata presso le nazioni rozze di qualsivoglia età […]  non poteva[…] rimanere addietro, quasi non fosse anch’essa creatura di Dio».[10]

Poete e scrittrici da ogni parte del mondo e, dalla Basilicata, terra negletta e isolata, faranno sentire nel Novecento, la loro voce a cominciare dalla compianta Giuliana Brescia[11] definita la “Saffo lucana”. La sua poesia altalenante tra male di vivere, angoscia e senso ineluttabile della morte, abbraccia temi che la collocano molto vicina a Isabella Morra per il senso profondo d’inquietudine. In una poesia pubblicata postuma vi è tutta il dolore del male di vivere, che nasce da una sorta di prigionia psicologica, manifestatasi fin dall’adolescenza. Scriveva: «Passata la vita per me / finito il domani / le porte son chiuse / serrate / mi resta soltanto nel fianco / lo spasimo acuto di un male che è ancora / la vita». Una religiosità laica e mai confessionale contraddistingue le sue poesie, che nascono dai sogni che si scontrano con una realtà dura e problematica. Il linguaggio è semplice ma musicale e armonico fin dalle poesie giovanili. Si chiude nella sua “tela di vagheggiamenti” nei silenzi assordanti, nelle illusioni del vivere quotidiano, dove i «sogni si son persi / nel deserto desolato della realtà». Le liriche (Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti) delicate e ricche di forza interiore, diventano a tratti tenere proprio quando si chiude nell’intimismo, che riverbera su una natura umanizzata alla Pavese, al quale è accomunata dalla scelta del tragico destino. Nell’angoscia esistenziale àncora è la parola poetica, adulata, blandita, ricercata, che accende la speranza; ma essa è illusoria e non riempie quel vuoto straziante, che la porterà a porre fine alla sua breve vita.

Per  la poesia di Lorenza Colicigno[12]sono appropriate le parole di Montale «ogni volta che trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è dentro di me come un abisso», perché le sue  liriche nascono da un profondo silenzio interiore, dove trova il senso religioso del mondo. La poesia si dispiega come preghiera perché indaga nel fondo delle cose e porta a galla l’inesprimibile.  Ma il poeta è colui che più degli altri porta nell’anima la propria terra. Si parla di poeta come del cantore di una geografia umana. Egli erige modelli, mappature, carte del proprio luogo per affermarne l’appartenenza, creando una sorta di «paesologia» (Franco Arminio) che è una forma di etnologia del paesaggio, di cui il poeta ne dà espressione. Il bello è che la paesologia non studia un paese, l’annusa, l’ascolta proprio come fa Lorenza con la sua città, Potenza: ne rende l’energia della case arroccate sulle montagne; s’immerge nella vita della città, nelle scale mobili, che salgono quasi fino al cielo; canta la «debolezza / dei vecchi e la baldanza degli adolescenti» (in Ritorno); si chiude, solitaria spettatrice, dietro una finestra o un terrazzo a scrutare l’orizzonte, che si allarga sulla valle dove il «Basento insegue albe e tramonti / e ascolta il brusio della città che lo stringe / nell’abbraccio schiumoso della sua / modernità di ciottoli e lattine»[13] e scorre sonnolento e acquitrinoso. Contempla la città da un cantuccio solitario, dove l’«aria natia», per dirla con Saba, o la «matria»[14] è pregna di gioia e dolore insieme.

Anche per Amalia Marmo[15] il compito della poesia è scavare nel profondo dell’anima ed enunciare attraverso la parola la verità. «Vedere il mondo in un granello di sabbia» per dirla con William Blake, è questo il senso dell’estro creativo. La ricerca del ‘meraviglioso’, tanto caro a Novalis»[16] che porta a Dio, così presente nell’universo, è la missione del poeta. Le sue liriche nascono dal «sapore della terra» e dal «la salsedine del mare»[17]. La parola poetica c’immette nel ‘mistero’, che è simile all’”Inconoscibile” di Spencer: una realtà assoluta che la ratio umana non può raggiungere. Il genio creativo ci fa immergere nelle acque del subconscio e riemergere “illuminati” di una verità da divulgare. La poesia per la Marmo «altro non è / che ignara ispirazione. / Un eterno aiutante / un profeta o un indovino / senza mete o ragione».[18]  La poeta sarà sempre «sentinella costante» della «memoria lirica»[19]. Filtra la ragione con il cuore, intessendo una poesia che è «distillato di vita, quasi peccato / d’intelletto tolto al tempo / per stupire se stesso e l’universo /e chiuderlo in un pugno di mistero»[20]. Il mistero non è quello religioso ma qualcosa che supera l’umano intendimento. Crede in Dio e nell’immortalità dell’anima. Ha certezza in una vita futura. Il mondo, la natura, gli accadimenti sono aspetti diversi dell’universale mistero.

L’acuta sensibilità e lo scavo interiore di Rosalba Griesi[21] danno origine a quell’inquietudine esistenziale, ordita su interrogativi ontologici, che si mescolano ai sogni quasi invisibili, alle luci lievi della speranza. L’atmosfera spirituale si riverbera sullo spettacolo della natura, sui suoi colori cangianti: dagli «spruzzi di giallo»[22] delle mimose al «bianco immacolato» delle zagare; dall’arancione delle margherite al verde dei campi, simili al mare. Il dettato lirico fluisce a volte delicato e sinuoso, altre prorompente e impetuoso nello scandagliare gli oscuri anfratti o gli abissi o i campi brulli per comprendere la sofferenza e riemergere rinnovato e dispiegare «parole taciuta / parole serrate / parole nel cuore posate / […] parole donate»[23]. Rosalba si eleva dal paesaggio naturale della terra a una riflessione escatologica, che richiama il senso della vita e la tensione dell’uomo verso l’Assoluto, che è Dio-Provvidenza di manzoniana memoria. La sua religiosità è priva di fronzoli e si distende in note scarne, quasi epigrammatiche.

Le liriche di Rosa Pugliese[24] s’inseriscono nella poesia civile, poiché sono denunzia, accusa contro l’umanità “liquida” e l’io lirico sembra arrestarsi fiaccato dagli avvenimenti della storia, dal tempo, che vorrebbe fermare nelle scatole di latta, dove trovare «una carezza materna»[25]. Le poesie nascono dall’incanto e il superamento e il dominio del dolore lo trova nella contemplazione di armonie cosmiche e naturali. La letizia travalica il vortice dell’angoscia nella magia dell’infanzia o dei luoghi amicali; nel gioco della vita; nello scorrere del tempo in stagioni e in ore, e nella Bellezza, che ancora una volta salverà il mondo. Scriveva Pablo Neruda «La poesia è un atto di pace / Di pace è fatto il poeta come di farina il pane» e la poesia per Rosa Pugliese è un atto di pace, poiché prende tutto il dolore del mondo e lo placa proprio come il fiume che s’infratta tra dirupi e forre per sfociare lento e placido nel mare. La Nostra trae dalla sofferenza l’energia creativa e la elabora superando lo stretto orizzonte provinciale per cantare il dolore della gente costretta a emigrare nei barconi. La poesia è voce dell’anima e noi diventiamo «tratturi di campagna / solcati dalla terra che li ha generati», o fiori di malva, germinati nella terra, crepata dal gelo.

Il testamento letterario e umano di Anna Santoliquido[26] è tutto racchiuso nelle sue numerose raccolte: da I figli della terra del 1981, nella quale la poesia nasce dalle vallate di ginestre e malvarose, dai campi biondi di grano e rossi di papaveri della sua Forenza, fino a Profetesha / La Profetessa, pubblicata in Albania nel 2017, dove sperimenta la dolcezza e la generosità della gente, che le riportano alla memoria i luoghi e le donne della sua infanzia. I versi limpidissimi e rigorosi aprono al lettore una nuova percezione dell’uomo, che sente l’altro non più nemico ma fratello. È questo il grande dono della poesia. «Che cosa può dare / agli altri un poeta?» si chiede la Santoliquido. Egli dona il cuore per amare, gli occhi per vedere, gli sguardi sereni, un pugno di pace.  Ed è la speranza che non l’abbandona, impegnata in una continua analisi e ricerca interiore. Sa che oltre le esperienze e le prove della vita, in fondo c’è sempre un raggio di luce, che illumina e dà forza.  Ricompone il conflitto che è alla base dello smarrimento spirituale della nostra società, alla quale manca quel “sapere dell’anima”, che oltrepassa e fonde umano e soprannaturale, sapere scientifico e visione poetica. È sorretta nel cammino elegiaco dalla fede, è questo il varco (Montale), che cancella la distanza dalla trascendenza e immanentizza l’ebbrezza ontologica e, come Sant’Agostino, supera la lacerazione tra materia e spirito. Il poeta attinge all’Assoluto e «offre parole / parole incarnate». È simile al Demiurgo platonico, creatore della realtà, che ci porta fuori dal “caos primordiale”. Diventa divulgatore di pace nel mondo e nell’anima, ma è anche colui che «muore da solo». È la forza eternatrice della poesia, di foscoliana memoria, che lo ferma «al limitar di Dite», ad afferrare la luce e liberare il canto. Il suo lavoro è simile a quello della Sibilla, il mito di cui ci parla Virgilio nell’Eneide. La profeta ispirata da Apollo, trascrive le profezie del Dio sulle foglie, che il vento disperde. Il rito rivela la missione di intermediario del vates, spesso inascoltato, tra il mondo della verità e quello degli uomini. Egli è il porto sepolto, come diceva Ungaretti, e nel profondo scopre l’inesauribile segreto, i misteri inenarrabili che il soffio del vento disperde anche se le parole sono portate dall’angelo. Anna è poeta sempre, sotto il cielo di Puglia e della Lucania, ma anche «a Belgrado e a Zagabria». I versi scaturiscono dalla sua capacità di andare dal vicino al lontano, dal microcosmo al macrocosmo. L’ispirazione nasce perché, «è l’angelo a portarmi le parole / le lascia nei vasi rotti / il vento le disperde […]»[27] e lei come una sacerdotessa vaticinante le raccoglie in «una forma di preghiera» (Kafka). Ci introduce in un mondo d’incanti quando scrive «Com’erano / piene / le mani / nodose / di mio nonno / quando / con voce roca / ma gentile / mi donava /un pugno / di noci / o di castagne»[28] o quando tratteggia in un distico toccante il ritratto della madre «Se solo potessi catturare / il sorriso delle sue rughe!»[29]. La poesia della Nostra colpisce per la forte empatia con il lettore, poiché è sempre aperta alla speranza, all’adesione con il mondo in cui vive, a nutrire attese per il futuro sulla rievocazione delle bellezze di un passato vissuto e assaporato. Il ruolo del poeta nella società è di pace perché come lei stessa scrive «è colui che porta in tasca l’universo». Egli parla una lingua nuova, toccante, rivelatrice: quella dell’anima. Per la Santoliquido valgono le parole del poeta dell’invisibile, Rilke, «Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile»[30].


[1] Isabella di Morra, conosciuta come Isabella Morra, nata a Favale nel 1520. Visse in solitudine sotto la prepotenza dei fratelli e segregata nel proprio castello, dove scrisse l’opera letteraria, Il Canzoniere, formato da dieci sonetti e tre canzoni. La sua breve vita si concluse con il suo assassinio, nell’inverno del 1545 o 1546, da parte dei suoi fratelli a causa di una presunta relazione clandestina con il barone Diego Sandoval de Castro, poeta di origine spagnola e barone della vicina Nova Siri, anch’egli qualche mese dopo subì la stessa fine. Quasi sconosciuta in vita, Isabella di Morra acquistò una certa fama dopo la morte, grazie agli studi di Benedetto Croce, e divenne nota sia per la sua tragica biografia sia per la sua poetica, tanto da essere considerata una delle voci più autentiche della poesia italiana del XVI secolo, nonché una pioniera del Romanticismo. Non si conoscono notizie inerenti alla sua vita precedente e alla biografia della famiglia Morra, dal titolo Familiae nobilissimae de Morra historia, pubblicata nel 1629 da Marcantonio, figlio del fratello minore Camillo.

[2] Giovan Michele di Morra riparò a Parigi, accusato di una congiura contro la corona, affidando la moglie, Luisa Brancaccio, e i cinque figli, Decio, Cesare, Fabio, Porzia e Isabella, a Marcantonio il fratello maggiore, uomo violento e rissoso.

[3]  I. Morra, Torbido Siri, in Isabella di Adele Cambria, edizione Osanna, Venosa 1996, pp. 65/64.

[4]  Ivi, I fieri assalti, pp. 45/46.

[5]  Ivi, XIII Quel che gli giorni a dietro, pp. 87/92.

[6] Aurora Sanseverino nacque a Saponaria nel principato di Citra (l’odierna Grumento Nuova, in Basilicata) nel 1669 e morì a Napoli nel 1726, da Carlo Maria principe di Bisignano e conte di Saponaria e Chiaromonte e Maria Fardella contessa di Paco.  All’età di 11 anni, sposò il conte Girolamo Acquaviva di Conversano, ma il matrimonio durò solo pochi anni per la morte prematura del marito. Ritornò a Saponaria per un breve periodo e compì diversi viaggi con il padre, a Palermo e Napoli. Un secondo matrimonio avvenne il 28 aprile 1686 con Nicola Gaetani dell’Aquila d’Aragona, conte di Alife, duca di Laurenzana e principe di Piedimonte. Dopo il matrimonio, si trasferì nella dimora del marito a Napoli, città all’epoca caratterizzata da un’intensa vita culturale. Nella sua casa napoletana ospitò vari poeti, musicisti e pittori, dando così vita a un noto salotto letterario. Oltre alla letteratura, fu un’abile cacciatrice, partecipando a battute di caccia al cinghiale sui monti del Matese. Fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Corinesia.

[7] Aurora Sanseverino, Ben son lungi da te, vago mio nume, in Scrittori lucani, Consiglio Regionale della Basilicata.

[8] Laura Battista nacque a Potenza nel 1845, figlia di Raffaele Battista di Agrigento e di Caterina Atella da Matera. Il padre fu un insegnante di lettere e segretario perpetuo della Società Economica di Basilicata e consigliere provinciale di Matera. Raffaele insegnò Latino e Greco presso il Real Collegio di Basilicata a Potenza, dal quale fu espulso a causa del suo orientamento Liberale, poiché l’istituto fu affidato alla direzione dei Gesuiti. Egli poté riprendere a insegnare solo dopo l’Unità d’Italia e, quindi, dopo la scomparsa del regime borbonico. Nel 1871, in seguito la famiglia si trasferisce a Matera, per le persecuzioni di cui fu oggetto il padre per le sue posizioni politiche, divenne consigliere provinciale della Basilicata. Autore di studi e inchieste sullo stato dell’economia agraria della provincia, era un fine latinista e autore di traduzioni e fu il primo e, per molto tempo, l’unico maestro di Laura. Ella insegnò per breve tempo nel convitto femminile di Potenza. Ben presto abbandonò l’insegnamento sia per la salute cagionevole sia per aver sposato il conte Luigi Lizzadri di Tricarico, dove si trasferì.

[9]  G. Caserta, Laura Battista, Canti, per i  tipi di Conti, Matera 1879.

[10]  G. Caserta, cit. L. Battista, Potenza 22 marzo 1875 Direzione Della Scuola Normale Femminile di Basilicata, p. 153.

[11]  Giuliana Brescia nacque a Rionero in Vulture nel 1945 e morì suicida a Bari dove viveva con il marito e la figlia, nel 1973. Nel 1962 le fu assegnato a Napoli il premio La maschera d’oro. Le sillogi sono state pubblicate postume: Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti.

[12]  Lorenza Colicigno nasce a Pesaro nel 1943 e vive a Potenza. Insegnante di Lingua e Letteratura Italiana, ha lavorato in radio e televisione a Roma e Potenza. Ha pubblicato: Questio de silentio (1992) Canzone lunga e difficile (2004), Matrie (2017), Cotidie (2021). I suoi scritti si trovano in antologie e pubblicazioni.

[13]  Lorenza Colicigno, Potenza e velo, in Cotidie, Manni Editore, Bari, 2021, p. 5.

[14]  Il termine è tratto dal latino mater matris, terra madre, termine utilizzato per la prima raccolta.

[15]  Amalia Marmo nata a Miglionico (MT) nel 1948, vive a Marconia di Pisticci (MT). Laureata a Napoli in Lettere classiche. Ha avuto molti riconoscimenti letterari. Ha pubblicato raccolte di poesie e romanzi.

[16]  Novalis affermava «La nostra vita non è ancora un sogno, ma sempre più deve diventar tale».

[17]  Amalia Marmo, Indenne paradiso perduto,  in Il vento leggerà Gradita Sinfonia, Edizioni Setac, Pisticci, 2015, p. 30,

[18]  Ivi, Visione furtiva, p. 27.

[19]  Ivi, Sentinella, p. 25.

[20]  Ivi, un pugno di mistero, p. 34,

[21]  Rosalba Griesi nasce a Palazzo San Gervasio, dove vive e lavora, nel 1958. Ha pubblicato: Il viaggio (2004), Nel mare del tempo (2011), Natale e dintorni (2014), Nicol ali di farfalla (2015), I racconti di nonna Peppa (2017). Le sue liriche e racconti sono stati inseriti in diverse antologie.

[22]  Rosalba Griesi, Mimose, in Nicol ali di farfalla, LuogInteriori, Città di Castello (PG), 2015, p. 39.

[23]  Ivi, p. Le mie parole, p.79.

[24]  Rosa Pugliese nasce a Zurigo nel 1965 e vive a Venosa (PZ). Si laurea in Lingue Straniere. Ha pubblicato due raccolte di poesie: La strategia della formica (2019) e La tana del riccio (2022). I suoi lavori sono pubblicati in varie antologie.

[25] Rosa Pugliese, Colleziono scatole di latta, in La strategia della formica, scatole parlanti edizioni, Reggio Calabria, 2019, p. 21.

[26]  Anna Santoliquido, nata nel 1948 a Forenza (Potenza), vive a Bari. Ha pubblicato le raccolte di poesia: I figli della terra (1981 – Premio Città di Napoli), Decodificazione (1986), Ofiura (1987), Trasfigurazione (1992), Nei veli di settembre (1996), Rea confessa (1996), Il feudo (1998), Confessioni di fine Millennio (2000), Bucarest (2001), Ed è per questo che erro (2007), Città fucilata (2010), Med vrsticami/Tra le righe (2011), Quattro passi per l’Europa (2011), Casa de piatrǎ/La casa di pietra (2014), Nei cristalli del tempo – poesie per Genzano (2015), Versi a Teocrito (2015), I have gone too far (2016). Ha pubblicato anche un volume di racconti e ha curato diverse antologie, tra le quali Zgodbe z juga – Antologija južnoitalijanske kratke proze (2005). È autrice dell’opera teatrale “Il Battista”, rappresentata nel 1999. Ha fondato e presiede il Movimento Internazionale “Donne e Poesia

[27] Anna Santoliquido, Incontri, in  Ed è per questo che erro, Smederevo, 2007, p. 9.

[28]  Anna Santoliquido, Mani nodose, in Figli della terra, Fratelli Laterza editore, Bari, 1981, p. 27.

[29]  Ivi, Mia madre,p.38.

[30] R. M. Rilke, dalla lettera al suo traduttore polacco Vitold von Hulevicz del 13 novembre 1925


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“L’ “io introspettivo” di Eugenio Montale nell’indagine del Mistero”, saggio del prof. Domenico Pisana

Saggio del prof. Domenico Pisana

Non oserei parlare di mito nella mia poesia, ma c’è il desiderio di interrogare la vita”. Così si espresse Montale in un’intervista di Medeleine Graff-Santschi, pubblicata  nel 1965 sulla Gazette de Lusanne, che ci fornisce una linea di movimento della poetica montaliana nella sua fase iniziale.

Montale è alla ricerca di una definizione precisa e assoluta della vita, ricerca  che, sotto l’influsso delle sue letture filosofiche di impronta  contingestista, trova il suo approdo nel  dubbio, nello scetticismo e nel nichilismo. Egli ritiene che non sia possibile indicare una verità esistenziale come prospettiva verso la quale orientare il cammino della vita: non esistono mete né certezze universali. Il poeta elabora, allora, una sorta di “teologia negativa”, che trova la sua espressione più emblematica  nella lirica “Non chiederci la parola”, composta nel 1921, che costituisce quasi una norma normans da rispettare in tutte le circostanze della vita.

eugenio-montale

La struttura della lirica poggia su un “io introspettivo” tutto al negativo, come si evince dall’uso frequente della negazione “non” (“Non chiederci”….”Non domandarci..” “non siamo…” “non vogliamo..”). Il poeta dialoga con un interlocutore indeterminato, al quale mette davanti il percorso incerto, difficile, pieno di pericoli della vita; ricorre ad un registro stilistico e lessicale pienamente aderente alla sua visione desolata e negativa dell’esistenza. “L’animo informe”, il “polveroso prato”, lo “scalcinato muro”, la “storta sillaba e secca come un ramo” costituiscono la metafora di una condizione umana precaria, drammatica, amara ed incerta, messa in contrapposizione alla sicurezza di chi non avverte questa precarietà e questo grigiore della realtà. (“Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico”).

Questo pessimismo non può essere letto, però, esclusivamente come  chiusura nel buio, perché  include, dentro l’io più profondo di Montale, anche il desiderio di infinito e di assoluto, l’apertura ad un Essere che non può farsi presente nei concetti e che non ha una collocazione nella storia; il Montale che interroga il mistero della vita, come già Leopardi, dimostra di tendere verso un Orizzonte nel quale possa essere contenuta la risposta alle tante domande che nascono nel cuore dell’uomo: “Chi può dire di vivere soddisfatto  – afferma il poeta ligure – nel mondo dei fenomeni, delle cose finite, senza farsi domande, chiedersi il perché? Paradossalmente la poesia di Montale è un canto mistico che si perde nel vuoto, un interrogare la vita per tentare di raggiungere quei risultati che il poeta cerca e che, però,  è pienamente consapevole di non potersi attendere dal mondo fenomenico. L’unica certezza della sua indagine sull’esistenza è che l’uomo deve finire: “Sappiamo che dobbiamo finire: questa certezza ci rimanda all’Essere, all’eternità”.  

L’eternità per Montale rappresenta la fine dell’inquietudine umana, la terrestrità costituisce il luogo della solitudine, dell’inganno, del malessere e della precarietà. È all’interno di questo interrogare la vita che la ratio montaliana aspira dunque a qualcosa che non riesce ad afferrare e spiegare; la sua è una  ratio che non decifra il Mistero, ma che  rivela il segno della sua Presenza in ogni esperienza umana:

Sotto l’azzurro fitto

del cielo qualche uccello di mare se ne va;

né sosta mai: perché tutte le immagini portano

scritto: ‘più in là”.

 Quel “più in là!” paradossalmente rivela l’Orizzonte verso cui tende il poetare montaliano; egli non lo vede ma lo percepisce, così come l’uomo ode il grido che c’è dentro le cose, anche se non sente la voce.  L’ “io noumenico” montaliano, pur muovendosi all’interno dei parametri propri della poetica italiana della modernità, che lanciava l’interpretazione della realtà come nichilismo, in fondo non risulta anti-religioso; anzi, si può ritenere che è connotato da una “passione religiosa”, cioè da una  espressa passione della ricerca e della eventuale affermazione di un senso alla vita, ossia di un Mistero che dia il senso delle cose, della realtà e dell’esistenza.

Quando Montale in alcuni suoi versi afferma – “Forse un mattino andando in un’aria di vetro/arida, rivolgendomi, vedrà compirsi il miracolo:/il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/di me, con un terreno ubriaco” – , egli, in fondo, non fa altro che rappresentare l’effimero delle cose che oggi ci sono e domani non più, ribadire la vanità e la nullità di ciò che esiste. Questa sua esperienza rappresentativa della realtà è sostanzialmente identica a quella del mistico religioso cristiano, il quale mentre contempla il cielo e la terra, così grandi ed evidenti nel loro spazio, sa che domani non ci saranno più, per cui capisce che la realtà è tutta segno della parola di un Altro, cioè il Mistero che sta dietro. Questo indagare il Mistero che sta dietro alle cose, agli oggetti, alla vita stessa  fa di Montale un uomo religioso senza religione, ed è la premessa alla fede come campo immediato in cui la ragione cede all’ inconoscibilità e all’ inafferabilità della “Realtà Altra”.

Se nello scavo dell’io interiore di Montale,  l’elemento religioso e l’influsso della fede sono stati poco osservati, è per un errore di approccio critico; molti hanno cercato e cercano la religiosità di Montale attraverso le sue pagine, attraverso riferimenti espliciti ad una esperienza secondo la tradizione religiosa. In questa prospettiva è facilmente intuibile che il religioso in Montale è davvero argomento difficile e controverso, non solo perché poche volte la parola “Dio” compare nei suoi versi, ma anche perché il poeta ligure rigetta ogni collocazione confessionale e ideologica.

L’approccio che occorre tentare non è quello di proiettarsi verso  la “religiosità del testo”, ma quello di verificare se il testo letterario in sé , pur non collocandosi in un espresso orizzonte teologico, sacrale e religioso, contenga “dati-testimonianza” di una specifica rilevanza religiosa.

I due moduli tematici e stilistici utilizzati da Montale nelle prime raccolte di versi, Ossi di seppia e Le occasioni, vale a dire la poetica degli oggetti da un lato e il simbolismo ermetico-metafisico dall’altro, trovano nel terzo Montale, quella di Bufera e altro, un esplicito appoggio ai termini del linguaggio simbolico e religioso. Mentre negli Ossi di seppia  è presente una cauta e generica metafora del divino, racchiusa ora nell’ombra umana, la “disturbata Divinità” dei Limoni , ora nella presenza del mare, il “divino amico” di Esterina in Falsetto, ora nella voce paterna e immensa che “afferma una legge severa” di Mediterraneo, in Bufera e altro viene,  per la prima volta, pronunciata, la parola “Dio” e l’io interiore ed intropsettivo di Montale intraprende la direzione di un lessico tratteggiato da insistenti simboli e richiami religiosi.

Entrando nella tessitura della silloge, il linguaggio lirico montaliano dà spazio ad una presenza, ambigua e per certi versi contorta, che spiega il suo affaccio inquieto al Divino in modo più esplicito rispetto alla  prima esperienza poetica. Ecco alcuni testi:   

su noi come Giona sepolti

nel ventre della balena…..

………………………….

L’iddio taurino non era

Il nostro, ma il Dio che colora

di fuoco i gigli del fosso…….

(Da “Ballata scritta in clinica”)

 

L’uomo che predicava sul Crescente

mi chiese “Sai dov’è Dio?” Lo sapevo

e glielo dissi. Scosse il capo….

(Da “Vento di Mezzaluna”)

 

Dovrà posarsi lassù

il Cristo giustiziere

per dire la sua parola…

(Da “Sulla colonna più alta”)

Dicevano gli antichi che la poesia

è scala a Dio. Forse non è così

se mi leggi……

(Da “Siria”)

 

Intorno il mondo stringe; incandescente,

nella lava che porta in Galilea,

il tuo amore profano, attendi, l’ora

di scoprire quel velo, che t’ha un giorno

fidanzata al tuo Dio …

(Da “Incantesimo”)

 

Io non so, messaggera

che scendi, prediletta

del mio Dio(del tuo forse)….

…………………………….

Il dì dell’Ira che più volte il gallo

annunciò agli spergiuri…..

(Da “L’Orto”)

I versi citati offrono indicazioni circa la presenza di un “io religioso” nella poetica montaliana a diversi livelli. C’è, anzitutto, un primo livello nel quale si configura un tratto antinomico della presenza del divino: da un lato l’ “iddio taurino”, dal quale Montale prende le distanze(“non era il nostro”) perché simbolo della violenza e del trionfo,  e che la “razza idiota degli eletti” adora, dall’altra il “Dio che colora/di fuoco i gigli del fosso”, che simboleggia l’amore sacrificato, il dono incontaminato del sacrificio destinato a perdurare nel tempo e che  riecheggia il “Dio dei fiori” della lirica  thanatos athanatos di Quasimodo.

Il secondo livello supera la precedente antinomia per dare rilievo ad una “visione relazionale e comunionale” tipica del Dio della Bibbia. Il verso montaliano sembra assumere il linguaggio personalistico della fede (il “tuo Dio”, il “mio Dio”); gli aggettivi possessivi, peraltro, non solo riecheggiano il linguaggio di Dio verso Israele (“ Io sono il tuo Dio, colui che ti ha fatto uscire dall’Egitto” ) ma sembrano accorciare la distanza tra il poeta e Dio, non più percepito come realtà distante e nascosta o potenza arcana e trionfante, ma come presenza vicina e solidale all’esperienza umana. E, tuttavia, si tratta sempre un approccio titubante e timido, come si evince da quel “forse”( “del tuo forse”), che evidenzia l’ambivalenza della problematica religiosa nel poeta ligure.

In altri testi, ancora, l’accostamento al Divino si esprime ora sotto forma di domanda, ora con l’attestazione dell’attesa della parola del giudice supremo, il “Cristo giustiziere”, ora come riconoscimento dell’ontologia religiosa del verso” che, stando a quanto – scrive Montale –  “dicevano gli antichi”,  eleva verso Dio”.

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In Bufera e altro l’io poetico montaliano non esclude dunque la possibilità della salvezza dell’uomo; Montale, che nella sua formazione ha visto l’accostamento a letture di ispirazione cristiana, quali i Padri apologeti, Sant’Agostino, Pascal, Dostoevskii, utilizza le categorie teologiche per inserire sul suo cammino poetico l’orizzonte sotereologico. E difatti, come  nella teologia cristiana la salvezza passa dalla donna, tant’è che l’incarnazione del Verbo si è realizzata grazie al “fiat” di una donna, Maria, divenuta corredentrice di Cristo, così vediamo che in Bufera e altro Montale riprende, sull’onda di influenze dantesche, di convergenze stilnovistiche e di echi petrarcheschi, il tema della donna-angelo, della donna salvifica.

La struttura sintattica delle liriche appare infatti dominata da quel “Tu” rivolto quasi sempre alla donna, sotto immagini e nomi diversi, la donna del  Giglio rosso, Iride, Clizia, Volpe; l’apparizione della presenza femminile ruota, al di là dell’ordine fisico e sentimentale, che pur sono compresi, all’interno di un’allegoria che ripropone temi della tradizione cristiana e figurale.    

Tillich diceva: “quello che determina il nostro essere o il nostro non essere, è il nostro interesse ultimo”. L’uomo, in altre parole, non rinuncia mai, se si cala dentro il suo io più profondo con una azione introspettiva vera e sincera, alla ricerca della conoscenza del senso ultimo delle cose e dell’esistenza; egli guarda ad un fine ultimo, che per molti è Dio, per altri un archetipo, un assoluto, una causa; in ogni caso, Dio, anche se negato, rimane l’ultimo interlocutore dell’uomo.

Se il primo Montale ha sostenuto che l’inganno e l’illusione costituiscono  i fondamenti su cui poggiano i falsi equilibri della vita quotidiana, se ha teorizzato la condanna dell’uomo ad una esistenza fortemente segnata dalla solitudine, e di tutto ciò ne ha manifestato il  rammarico, con  Bufera e altro egli  comincia a testimoniare, pur se indirettamente, l’ammissione del suo bisogno di superamento del “male di vivere”, bisogno, che proprio a partire dalla raccolta Bufera e altro, egli proietta in quel “Tu” raffigurato come emblema e portatore di salvezza. 

DOMENICO PISANA

L’autore del saggio ha acconsentito e autorizzato alla pubblicazione del testo su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. Si rappresenta, inoltre, che la diffusione del presente saggiosu altri spazi, in forma integrale o parziale, non è consentita senza il consenso scritto da parte dell’autore.

 

 

“A volte non parlo” di Anna Maria Folchini Stabile, recensione di Lorenzo Spurio

A volte non parlo
di Anna Maria Folchini Stabile
con prefazione di Paola Surano
Liberia Editrice Urso, 2013
Numero di pagine: 55
ISBN: 9788898381104
Costo: 9,50 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

198La nuova silloge poetica di Anna Maria Folchini Stabile, A volte non parlo (Libreria Editrice Urso, 2013), arricchisce il suo curriculum letterario che vanta altresì di varie pubblicazioni di narrativa breve. Chi conosce la poetica di Anna Maria, o ha avuto almeno il piacere di leggere qualche sua poesia (ricordo che la poetessa pubblica con regolarità le sue liriche sul sito Racconti Oltre gestito da Luca Coletta), sa bene che le suggestioni che ci trasmette fuoriescono direttamente dalla sua considerazione nei confronti della realtà quotidiana. Le sue poesie, infatti, sia quelle che hanno come tema l’amore, sia quelle che, invece, partono dall’indagine del tormento interiore motivato spesso da una riconsiderazione del passato, condividono tutte una essenzialità di linguaggio e una purezza semantica che incontra di certo il favore del lettore. La poetessa rifugge gli orpelli retorici, i tecnicismi e addirittura sembra mostrare una certa sofferenza nei confronti della metrica stantia, del verseggiare classico e chiuso e si offre, invece, in pensieri sciolti, che giungono diretti al cuore del lettore e poi alla mente. Troveremo, dunque, la poetessa a riflettere su un amore solido ed entusiasmante, duraturo nel tempo tanto che il lettore è certo che esso non conoscerà mutamento nel suo divenire, descrizioni più cupe che partono, invece, dall’analisi a tratti inquieta a tratti dubitativa dell’essere. Ci saranno, inoltre, liriche che presentano il sottofondo scenico caro alla poetessa, quello del suo luogo di residenza con vari e continui accenni al lago come avviene in “Lacustre”, dove la vista del lago al primo mattino, come fosse un saluto rinnovato ad un amico sempre presente, si veste di imperscrutabilità del futuro: «Niente/ turba/ questo inizio di giorno.// Tutto/ è possibile» (48).

Una lirica ricca di contenuti, di tematiche e di sfaccettature; si susseguono prospettive visuali diverse: a volte è come se la poetessa colloqui con se stessa, altre volte è evidente l’intento di voler annunciare il contenuto delle sue liriche al mondo; molte poesie si arrovellano sul Tempo sia dal punto di vista tematico che dal punto di vista strutturale: intere liriche in cui Anna Maria utilizza il condizionale, quella condizione ipotetica che si sarebbe sviluppata nel passato se avesse fatto/non fatto qualcosa («Avrei cambiato il mondo/ se avessi fatto…/ Ma sono rimasta alla finestra/ e avete fatto tutto voi», 12), altre, invece, si configurano come una sequela di domande, con un tono ascendente dove, però, i quesiti non trovano risposta. Ma è un po’ tutta la silloge ad essere investita da una sensibilità nuova; nell’opera precedente, Il nascondiglio dell’anima (Libreria Editrice Urso, 2012), che si apriva con una mia nota di prefazione, avevo osservato che le liriche si caratterizzavano per una eclatante fascinazione per il colore, il bello, gli elementi naturali nel loro felice divenire, tanto da definire la sua poetica modernista (con riferimento al modernismo spagnolo e sud-americano). Qui, nella nuova silloge, l’atmosfera è differente, si è stemperata, le primavere e i bagliori sembrano aver lasciato il posto a crepuscoli e folate di vento gelido. I colori si sono scuriti e a tratti anche la parola –pur sempre limpida e lineare- si è ispessita, in linea con una nuova concettualizzazione delle tematiche. E questo mutamento, questa metamorfosi “decadente” si esplica nei vari riferimenti al sé-poeta dubbioso, alla continua ricerca di risposte, di soluzione a quesiti, alla difficile liberazione da inquietudini che fanno dell’io lirico un animo scisso, apparentemente debole e tormentato, anche e soprattutto dalla difficoltà dei tempi contemporanei riscontrabili nei «Giorni pesanti/ Difficoltà nuove/ […] Ogni giorno/ ha il suo fardello» (18) di “Uomini e draghi”. E se è vero che la poetessa molto ci trasmette con le sue liriche, è altrettanto vero che si respira un certo sentimento omertoso, come se ci sia nel sottofondo qualcosa che, sino alla fine, non viene mai rivelato al lettore. Tutto questo è esemplificato dal titolo stesso della raccolta, A volte non parlo, lirica che apre il testo. La poetessa Anna Scarpetta tempo fa, parlandomi della nuova silloge dell’amica Anna Maria Folchini Stabile, mi disse: «Hai visto, Lorenzo? Anna ha scritto “A volte non parlo”… e, invece, dice tanto. Dice tutto!»; ed è di certo una considerazione valida e possibile anche se a mio avviso, come già detto, nella silloge si respira una nuova aria, insomma una diversa Anna Maria. E sulla mia stessa linea è anche la poetessa varesina Paola Surano che nella prefazione al testo osserva: «balza subito all’occhio e alla mente che questa raccolta è diversa dalle altre» (5). Vediamo il perché di quanto si sta dicendo in maniera più scientifica.

E’ di certo la lirica iniziale che contiene il manifesto di questa nuova venatura poetica di Anna Maria Folchini Stabile; qui si legge, infatti, di “pensieri masticati” (pensiamo si tratti di idee difficili da gestire, che ritornano a infastidire l’animo della poetessa, dure, ingestibili e che, dunque, necessitano una masticatura più prolungata e veemente) e di “labirinto di ipotesi” che evoca nella nostra mente una situazione fastidiosa di stallo e di tomento, di ricerca di una fuga con esiti già scritti e tutti abbastanza deludenti come osserva lei stessa nei versi che seguono: «non vi è alcuna uscita tra le siepi di bosso/ che costeggiano questo cammino…» (9). Vicolo cieco? Strada sbarrata? Vie tortuose che confluiscono con altre per poi depistare? E’ una possibilità con la quale l’autrice vuol intendere quella difficoltà insita nel senso stesso dell’esistenza da lei rappresentato enigmaticamente come un «rigioco sulla scacchiera invisibile» (9) che tanto mi fa pensare al gioco a dadi della Morte nella celebre ballata di T.S. Coleridge.

E come si diceva poc’anzi il tempo è oggetto della poetica della donna: esso è onnipresente, a tratti latente, a tratti esplicitato, la poetessa non lo teme né ha necessità di affrontarlo, non ci colloquia, evitando di considerarlo un degno interlocutore, ma lo tiene in considerazione, lo osserva da distante e ne tiene conto. Il passato è visto quale momento felice dell’esperienza personale che non è morto e in sé chiuso a comparti stagni con il presente liquido, ma si configura quale fattore esperenziale che si rinnova con la rimembranza e che nel momento in cui viene “rivissuto” giunge addirittura a eternizzarsi nell’istante che funziona nell’animo come rivelazione: «E le speranze promesse/ e i desideri accennati/ e i sogni sorridenti/ per un attimo/ riprendono vita./ Solo per un attimo» (20-21). Ma quel presente che si riappropria del passato a sprazzi, per immagini o ricordi singoli, è illusorio e fugace: il momento si esaurisce velocemente e la finitezza del ricordo “rivissuto” è, forse, ulteriore causa del disagio e del senso d’apatia dell’io lirico, conseguenza dell’incapacità di sapersi destreggiare nei vari piani temporali: «Non è dolore/ questo tempo andato,/ ma sabbia di clessidra/ che vorrei rivoltare» (14) scrive in “Grigio di cielo”.

In “Occhi innamorati” la poetessa si proietta verso il futuro cercando di ipotizzare come sarebbe stato se avesse fatto/fosse successo qualcosa sviluppando uno sguardo acronico nel quale cerca di vedersi dall’alto come si sarebbe comportata in certe situazioni per concludere lapalissianamente «Non lo sapremo mai/ come sarebbe stato» (17): la storia, tanto privata quanto pubblica, infatti, non si costruisce con i ‘se’ né con i ‘ma’; le ipotesi, lecite e curiose, di ciò che sarebbe successo “se” riflettono ancora una volta quel senso di continua ricerca della donna di giungere ad una più completa analisi delle sue “gesta” passate. Solo nel sogno il tempo si ferma e sembra congelarsi: esso non scorre e sembra annullarsi, semplicemente perché anche la ragione e dunque tutte le attività umane ritrovano pace e riposo: «Attimi sospesi, idee scintillanti/ tempo fermo» (26) ed anche Peloso, il cane della poetessa, sembra divertirsi di più nel sogno/ricordo piuttosto che nel presente ed infatti «rincorre farfalle/ di un’altra primavera» (27).

In “Incapace” la poetessa esprime nel suo “scoramento” il senso di desolazione che si mostra come miscela di paura, scoraggiamento e rabbia tacita per quella falsità endemica che, purtroppo, ci circonda, contenuta nei «pensieri doppi» (10) che, più che individuare strutture polisemiche, mi sembra di intendere come sinonimo di falsità, mediocrità, opportunismo e menzogna. In questo clima ripugnante il sensibile io lirico non può far altro che chiedere aiuto («Aiutami») e far appello affinché un valido sostegno morale sopraggiunga a rinfrancare la poetessa: «Ti prego/ sostienimi» (10).

L’ambientazione cupa chiaramente intimistica si ravvisa anche nei «pensieri inespressi» (12), nel «sorriso bello/ di anni e luoghi/ sepolti/ nel passato,/ tempo di sogni/ e di incertezze certe» (23), nella solitudine dalla quale la poetessa cerca di distanziarsi in “Pausa” (30), nel desiderio di sentirsi  priva di tomenti: «Vorrei essere libera e senza pensieri» (39) e nelle «domande/ senza voce,/ sospese/ nella timidezza/ della mente» (53). A stemperare la gravità delle divagazioni esistenzialistiche che Anna Maria fa mi sento di osservare almeno due elementi: 1) il sentimento di giovinezza che la poetessa nutre e 2) la vita intesa come percorso, come un cammino a tappe e rivolto a una meta. In relazione alla giovinezza d’animo, nella lirica “Spuma di mare”, infatti, leggiamo «Mi guardo/ nello specchio della vita/ e ritrovo/ la ragazzina/ che mi sento» (43); si osservi che la poetessa non dice “la ragazzina che ero” né “la ragazzina che vorrei essere”, ma “la ragazzina che mi sento” in un verso che traspira grande carattere e forza di volontà e di certo smorza l’inquietudine che pervade l’opera. Quanto al cammino, poi, vorrei segnalare la bellissima lirica “I giorni a venire” –a mio modesto parere la migliore della silloge- dove è chiaro e continuo il riferimento all’universo itinerante: ‘incontri’, ‘strada’, ‘cammino’, ‘percorso’, ‘sosta’ che, più che delineare un componimento on the road, concretizza sulla carta il suo fervido convincimento nell’idea che il percorso formativo, culturale, morale dell’uomo nella realtà terrena sia una semplice ma non banale metafora dell’esistenza. Non è un caso che l’Associazione Culturale da lei fondata assieme a me, Sandra Carresi, Laura Dalzini e Paola Surano e della quale è Presidente, abbia come nome TraccePerLaMeta e che l’ultimo concorso organizzato abbia avuto come tema “il cammino”. In questo percorso fisico dell’uomo verso una meta, un luogo ambito o sconosciuto, da raggiungere mediante un percorso accidentato o progettato, più o meno lungo, l’uomo è continuamente minacciato, osteggiato e macchiato dall’errore che potrà porlo nell’infelice situazione di «inveire/ [o] maledire la vita» (24). La silloge rifugge il pessimismo, ma è chiaro l’intento di fondo: l’uomo deve rimboccarsi le maniche e non lasciarsi scoraggiare dalla desolazione che può investirlo e demoralizzarlo sempre più per riscoprire, invece, la ricchezza insita nella sua genuinità:

 

Usciamo
dalle nostre solitudini
riscopriamoci persone
quali siamo
in questi egoismi di realtà divise
con muri invalicabili e invisibili. (36)

 

 

 

Lorenzo Spurio

(scrittore, critico letterario)

 

Jesi, 27 Maggio 2013

 

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

 

 

ANNA MARIA FOLCHINI STABILE è nata a Milano nel 1948. Attualmente vive tra la Brianza e il Lago Maggiore. Ha alle spalle una lunga carriera nel mondo dell’insegnamento. E’ poetessa, scrittrice e presidente dell’Associazione Culturale TraccePerLaMeta. Per la poesia ha pubblicato Spuma di mare (Lulu Edizioni, 2009), Il nascondiglio dell’anima (Libreria Editrice Urso, 2012). Per la narrativa ha pubblicato le raccolte di racconti L’estate del ’65 (Lulu Edizioni, 2008), Un topolino di nome Anna (Lulu Edizioni, 2010) e Noccioline (Lulu Edizioni, 2010). Ha curato, inoltre, per il sito Racconti Oltre dove scrive regolarmente, il manuale Come si scrive? – piccolo prontuario per l’autocorrezione dei più comuni errori ortografici, assieme a Luca Coletta. Partecipa a concorsi letterari ottenendo buone attestazioni ed è membro di giuria nei concorsi organizzati dall’Associazione di cui è Presidente.

“Stabili Equilibri Precari” di Francesco Montalto

Il libro d’esordio di Francesco MontaltoStabili Equilibri Precari” è da qualche giorno online. E’ un libro di poesie, che racchiude, come lui stesso dice, i tre ultimi anni della propria vita e le sensazioni che questi  hanno portato dietro. Si respira un’atmosfera cupa, di perenne instabilità, inquietudine e turbamento, tra i versi di Stabili Equilibri Precari, ma anche di estrema consapevolezza. Versi che lasciano trasparire tutto l’ignoto che le varie esperienze di vita portano con se. C’è l’ombra di un Charles Bukowski moderno, ma anche la visionaria passione di Jim Morrison e la speranza e disillusione di Emily Dickinson. Soprattutto però, c’è la sensibilità di un animo estremamente umano  e la sincerità nel raccontare pulsioni e sentimenti quotidiani, di una persona normale, che per fortuna (o sfortuna) vive spesso un mondo parallelo a quello reale,  guardando dall’esterno ma senza presunzione e sicuramente senza nessuna invidia, tutto quello che ruota intorno a se, non sentendosene parte e nello stesso tempo rendendosi conto che in fondo molti sentimenti sono comuni a tanti, e magari vissuti in maniera diversa e senza spesso rendersene conto,  sono pur sempre universali.

 

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Nanni Moretti torna con Habemus Papam

La succinta scheda del nuovo film di Nanni Moretti pubblicata da Il Corriere della Sera titolava in questi giorni “Un Papa appena eletto fugge dall’incarico e si perde per le vie di Roma”. Sembra una storia buffa e praticamente incredibile se ci figuriamo quanto sarebbe difficile per un Pontefice in questi tempi girare a piedi e da solo per le vie della Città Eterna. Nel film succede e la storia neppure sembra così strana e stupefacente. Andiamo per gradi.

Nanni Moretti, regista affermato ma controverso, è uscito da pochi giorni nelle sale cinematografiche con il suo ultimo film dal titolo Habemus Papam. Un titolo che sembra quasi essere irreverente e blasfemo se lo pensiamo ideato dal regista italiano.  Tra i suoi capolavori vanno ricordati film come La stanza del figlio (2001), dramma in piena regola dove si analizzano i comportamenti e i sentimenti di una famiglia che ha perso un figlio, e il più recente Il caimano (2006) tutto imperniato sulla visione politica antiberlusconiana di Moretti, presente anche in Aprile (1998)  . I suoi film si caratterizzano principalmente per una componente sarcastica e irrisoria, che viene fatta in maniera pacata, ma che caratterizza l’intera opera e per una condanna implicita e silente a certi comportamenti umani (prevalentemente politici). E’ maestro abile e curioso. Le sue opere sono squarci di realtà contemporanea e non celano la sua ideologia politica.

Habemus Papam tratta una materia nuova per Moretti, quello della religione. Si tratta di un film che ci narra delle ansie e delle inquietudini interiori di un Pontefice appena eletto ambientato in un età a noi contemporanea. Non ci sono riferimenti al Papa attuale né a quello precedente né ad altri papi, la sua è una storia completamente inventata e anche se al protagonista viene dato il nome di Papa Celestino V in realtà non ha niente a che vedere con il vero pontefice Celestino V[1] che visse durante il III secolo d.C.

Il periodico catalano La Vanguardia titolava un articolo che nella sezione cultura che si riferiva all’uscita nelle sale italiane del film con  “El Papa va al psicoanalista”. Infatti la storia che viene raccontata nel film non è quella convenzionale di un qualsiasi Papa (nascita, infanzia, ordinazione a sacerdote, elevazione a vescovo, elezione a Papa e morte) ma si focalizza invece su un problema personale dell’individuo che fu chiamato a ricoprire la carica di vicario in terra di Dio.

Ci viene mostrato un Papa anziano, debole, inquieto ed insicuro che soffre di instabilità personale e che ricorre all’ausilio di uno psicoterapeuta ateo, il professor Brezzi, interpretato nel film dallo stesso Nanni Moretti. Il Pontefice infatti, da poco eletto nel suo incarico si sente fuori luogo e non riesce a sopportare l’incarico che deve ricoprire.

L’uscita del film nelle sale italiane capita in un momento particolarmente importante per gli affezionati vaticanisti e più in generale i cattolici: l’inizio della Settimana Santa e la proclamazione a beato di un grande Papa, Giovanni Paolo II, che si terrà in Vaticano il prossimo 1 Maggio.

Il Vaticano non ha concesso le riprese nella Cappella Sistina, cappella dove si tiene ogni conclave e così a Cinecittà è stata ricreata una sala che vuol suggerire che ci si trova proprio nella famosa Cappella Sistina. Il vaticanista Salvatore Izzo in una lettera pubblicata su vari blog e sul quotidiano cattolico Avvenire ha invitato a boicottare il film: «Bocciamo la pellicola al botteghino – scrive il giornalista – saremo noi a decretare il successo di questo triste film, se ci lasceremo convincere ad andare a vederlo, perché il pubblico laico si annoierebbe a morte e infatti diserterà le sale. E’ su di noi che si fa conto per recuperare l’investimento cospicuo che è stato fatto per ricostruire la Sistina in uno studio». Ancora una volta un film di Moretti viene recepito come fastidioso da alcuni strati della società ed apre alla polemica, alla quale il regista stesso risponde «Sul mio lavoro c’è libertà di opinione, chiunque può dire qualsiasi cosa, ma io non commento. Dopo averlo visto possono boicottare»[2]

I cardinali che partecipano al conclave non si caratterizzano per opulenza, interessi personali, vincoli nepotici (caratteristici di ben altre epoche). Alla fine viene eletto il cardinale Melville (Michel Piccoli) che al momento ha 85 anni. Nel momento in cui dal balcone del palazzo apostolico viene recitata la formula che informa al mondo dell’avvenuta elezione del nuovo pontefice che recita Habemus Papam, il cardinale neo-pontefice prova un attacco di panico.

A partire da questo momento cresceranno le preoccupazioni, le ansie e le inquietudini del pontefice e il professor Brezzi lo avrà in cura ma senza successo. Il Pontefice non riesce a migliorare e così decide di fuggire sotto mentite spoglie, cedendo al lato umano della sua persona. I cardinali non sanno che fine abbia fatto e sono molto preoccupati. Continuano a fornire notizie al mondo che il Pontefice è nelle sue stanze e sta recuperando.

Un’analogia che mi sembra opportuna a questo riguardo è il recente film The King’s Speech che narrava di problemi personali di re Giorgio VI d’Inghilterra costituiti dal suo balbettio e dall’incapacità di tenere un discorso senza intoppi. Anche in questo film si sottolinea la fragilità e la debolezza della componente umana di un personaggio eminente. Ernst Kantorowicz[3] in un interessante saggio ha parlato dei due corpi del re sostenendo che il monarca (soprattutto secondo la tradizione monarchica medievale ma anche secondo un’ideologia molto diffusa ancora oggi in varie monarchie) disponga di due corpi: il corpo umano, naturale, che lo rende uguale a tutti gli esseri umani e che è soggetto allo scorrere del tempo, che invecchia e si indebolisce e il corpo regale rappresentato dalla sua funzione politica, il fatto di essere il capo del popolo e allo stesso tempo il vicario di Dio in terra. E’ ciò che succede in The King’s Speech dove il lato regale di re Giorgio VI viene minacciato dalle debolezze del lato umano della sua persona. Qualcosa di molto simile avviene in questo in cui il Papa, al pari del monarca, ha due corpi: quello naturale, deperibile e corruttibile e uno imperiale, religioso, temporale, che è esente dallo scorrere del tempo. Anche in questo caso viene mostrato come la componente umana del Papa, che dovrebbe apparire al popolo incorruttibile per rinsaldare l’idea della potenza e dell’infallibilità del suo ruolo religioso, sia invece rilevante.

In questo parallelismo tra i due film possiamo dunque individuare una serie di analogie: il personaggio eminente, il monarca (Il Papa, Re Giorgio VI), la compresenza dei due corpi in entrambi i personaggi, la presenza di un problema umano-psicologico-personale (l’inquietudine del Papa, le balbuzie di Re Giorgio VI), l’introduzione di misure correttive attraverso l’introduzione di un dottore (il psicoterapeuta Brizzi per il Papa, il logopedista Lionel Logue per re Giorgio VI).

La sua inquietudine, il suo malessere infatti non gli consentono di gestire il suo ruolo e di apparire al mondo capace di farlo.

Quando il Pontefice ritorna in Vaticano e accetta il suo incarico, sembra che tutto ciò che è successo precedentemente sia stato un incubo. Non è guarito e continua a non riuscire a sostenere il gravoso peso che il suo incarico comporta. Rinuncia al suo ruolo. In questa maniera il film non è altro che una messa in scena del lato umano, quello che rende uguali tutti i mortali, in persone potenti, che sono chiamate a ricoprire incarichi molto importanti per il bene di tutta la società. E’ un esempio di quanto sia difficile l’accettazione di ruoli pesanti e al tempo stesso troppo importanti. E’ il prevalere della componente umana-personale-psicologica dell’uomo rispetto a quella di comando-cerimoniale-religiosa).

Si sono richiamati sin qui una serie di elementi e comunanze che permettono di costruire una trama di parallelismi tra il nuovo film di Moretti e The King’s Speech. A prevalere in entrambe le storie sono la fragilità, la debolezza e la malattia di una persona eminente, potente e la cui immagine è particolarmente importante. Colin Firth che interpreta Re Giorgio VI grazie all’assiduo lavoro di Lionel Logue riesce a recuperare il suo problema e ad eludere i difetti di pronuncia nel famoso discorso alla nazione nell’occasione dell’entrata in guerra dell’ Inghilterra mentre Papa Celestino V, gravato dalla sua inquietudine, non riesce a rinsavire. Re Giorgio VI recupera la componente umana della sua figura e salva la componente regale, mantenendo il trono mentre Papa Celestino V non ci riesce. La debolezza che gli deriva dai suoi disturbi è tale che preferisce abdicare e lasciare il trono che fu di Pietro. Sono due diversi modi di comportarsi, di vincere i propri difetti e di preservare la propria figura regale. E’ ovvio che si tratta però anche di due disturbi molto diversi. Paragonati questi due film evidenziano quanto persone potenti, re, Papi che siamo soliti pensare come persone incorruttibili, invincibili e che non soffrono dolori umani siano invece estremamente vulnerabili alle malattie, ai disturbi, alle debolezze e alle inquietudini che sono proprie di tutto il genere umano.

LORENZO SPURIO

25-04-2011


[1] L’unico elemento che si potrebbe richiamare a questo riguardo è che Papa Celestino VI fu uno dei pochi pontefici ad abdicare.

[2] Claudia Morgoglione, “Moretti, lettera aperta sull’Avvenire: ‘Non andiamo a vedere il suo film’ “, La Repubblica, 17 Aprile 2011.

[3] Ernst Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology, Princeton, 1957.

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