N.E. 02/2024 – Intervista alla scrittrice e antropologa Loretta Emiri. A cura di Lorenzo Spurio

Loretta, benvenuta e grazie per aver permesso questa intervista. Ha recentemente dato alle stampe un volume dal titolo “Romanzo indigenista” (auto-pubblicato sulla piattaforma Amazon), potrebbe parlarcene un po’?

Iniziai a scrivere questo romanzo nell’agosto del 2013 e l’ho ultimato nel novembre del 2019. La privilegiata convivenza di oltre quattro anni con gli yanomami nella loro lussureggiante patria-foresta, mi ha segnata profondamente; nella loro cultura il nome attribuito a una persona può variare nel corso della sua esistenza, quindi ho affidato il racconto della mia vita a quattro voci, che cambiano se rimandano a infanzia, adolescenza, maturità o vecchiaia. La scelta è stata influenzata anche dall’opera di Pirandello, che mi affascina fin da quando ero un’adolescente. Il contenuto del romanzo ricostruisce il mio andare e venire dal “primo” al “terzo mondo”, dal Brasile al mondo yanomami considerato “primitivo”, dall’Europa all’America Latina, dalla narrativa alla saggistica, dalla poesia alla fotografia, dalla lotta per la conquista e il riconoscimento dei diritti indigeni alla lotta per l’affermazione e il rispetto della mia individualità. Nella cultura yanomami il tempo è scandito dal susseguirsi delle stagioni, per cui possiamo definirlo “circolare”: la concezione indigena mi ha permesso di oltrepassare quella occidentale, che raffigura il tempo come se fosse una linea retta su cui le date appaiono in ordine cronologico. I paragrafi del libro rimandano ad ambiti geografici e temporali diversi; il criterio di inserimento in una sezione piuttosto che in altra, non segue l’ordine cronologico, né quello della stesura dei capitoli, ma è determinato dalla maggiore intensità con cui ho vissuto uno degli eventi durante un determinato ciclo della mia vita. Mi piace affermare che ho atomizzato e ricreato il tempo, così il passato è presente e il presente è già futuro.

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Per il fatto che ha vissuto a contatto vari anni con la comunità indigena Yanomami in Brasile e per aver dedicato molti studi e volumi a quella realtà è considerata una delle maggiori studiose e divulgatrici nel nostro Paese. Può raccontarci come è nato il suo amore verso il mondo indigeno brasiliano e come si è avvicinata ad esso?

La ringrazio per considerarmi una delle maggiori studiose e divulgatrici, in Italia, della vita e cultura yanomami, ma a pensarla come lei è un ristretto numero di persone. Poiché lotto contro preconcetti e stereotipi, sono poche le porte che mi vengono aperte per realizzare una sensibilizzazione più ampia circa la problematica yanomami. Case editrici e mezzi di comunicazione preferiscono divulgare notizie sensazionalistiche, farcite di stereotipi, esotismo, superficialità.

Quando ero ancora una bambina, due desideri si installarono nella mia mente: diventare scrittrice e operare nel “terzo mondo”. Quando arrivò l’età giusta per fare drastiche scelte di vita, decisi che prima avrei svolto volontariato internazionale; l’esperienza, poi, mi avrebbe fornito temi interessanti da salvaguardare attraverso la scrittura, ed è ciò che ho fatto. Nelle Marche, dove ancora non vivevo, conobbi due persone che lavoravano con gli yanomami. La loro testimonianza e le stupende foto che uno dei due proiettò, mi fecero innamorare di questo popolo; la sua situazione esistenziale, all’epoca già difficile, mi fece decidere di operare in mezzo a loro, con loro.    

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Loretta Emiri impegnata in un’attività di alfabetizzazione nel Demini, negli anni Ottanta.

Il termine “Yanomami” che contraddistingue tanto la comunità e la loro lingua, che cosa significa?

Il termine “Yanomami” è generico e fu adottato in Brasile da coloro che per primi lavorarono con questo popolo, cioè antropologi, funzionari governativi, missionari. Nel dizionario da me scritto si legge: YÃNOMAMÈ = (1) homem, pessoa, gente. (2) Yanomami de língua yãnomamè. (3) Língua yãnomamè. Per quanto riguarda la lingua, va precisato che della famiglia linguistica yanomami fanno parte ben sei lingue differenti, ognuna delle quali con molti dialetti.

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Quale peculiarità si sente d’individuare nella comunità Yanomami rispetto alle altre del contesto dell’Amazzonia brasiliana che ha conosciuto e/o studiato nel corso del tempo?

Con gli yanomami ho vissuto a lungo; con le altre etnie presenti nello Stato di Roraima ho avuto contatti sporadici, per cui non sono in grado di determinare le peculiarità di queste ultime. Posso solo dire che la differenza maggiore è lo spazio che occupano: gli yanomami vivono in foresta, la maggioranza degli altri gruppi vive nella savana. È l’occupazione territoriale e l’utilizzo delle sue risorse che determina il formarsi delle peculiarità delle società indigene. 

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Esiste un senso di spiritualità nella comunità Yanomami? In quali manifestazioni concrete si esplica?

Il senso di spiritualità tra gli yanomami è talmente forte che hanno preservata intatta la foresta amazzonica fino ai nostri giorni. Gli yanomami sono animisti, per cui credono che ogni essere vivente, compresi vegetali, animali, cose, possiede uno spirito ed esso, a seconda della situazione, può essere benefico o malefico. Questo concetto determina che la vita del popolo yanomami sia impregnata di spiritualità, anche nelle più banali e normali attività quotidiane.   

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Come definirebbe il concetto di “anima”?

Moltissimi anni fa mi invitavano a partecipare ad una riunione di preparazione del “Corso di Abilitazione al Magistero per Maestri Kaingang”. Durante l’incontro, non ricordo in che contesto, impiegai la parola “anima”. Uno dei presenti mi fece notare di averla usata in modo improprio. Dal momento che la loro religione vanta molti spiriti, sostenne che un termine intimamente legato al concetto di un solo dio non poteva essere applicato ai Kaingang. Obiezione e argomentazione vennero formulate in modo così schietto e diretto che sentii di essere stata raggiunta da una rivelazione. Da qual momento, riferendomi agli indigeni (ma anche a me stessa) non ho più utilizzato la parola “anima”, preferendo l’uso della parola “spirito”. 

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L’anima è qualcosa di strettamente legato all’umano o si ritrova anche negli altri esseri viventi? Esiste un’anima dei luoghi?

Considerando quanto detto sopra, l’anima è qualcosa di strettamente legato all’uomo di religione cristiana, che si rapporta individualmente con una sola divinità. Gli indigeni rispettano e interagiscono con i molti spiriti che popolano la foresta, con ciò riuscendo a mantenerla intatta e sana, perché la foresta tutta è il loro luogo ancestrale, sacro per eccellenza.   

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Loretta Emiri partecipa alla conferenza di apertura del Seminario UFRR, insieme a Dawi Kopenawa Yanomami, nell’ottobre del 2023

La spiritualità dell’essere ha a che vedere imprescindibilmente con il suo attaccamento alla dimensione prettamente religiosa o può concernere anche altre dimensioni avulse alla religione?

Come abbiamo visto, nel caso degli yanomami non c’è separazione tra dimensione religiosa e dimensione fisica, materiale. Questo concetto per me è fonte di ispirazione e meditazione costante. Nel mondo occidentale, succede spesso che le belle parole sostituiscono le buone azioni, così che “tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare”. E tra il dire e il non fare c’è sempre di mezzo tanta ipocrisia, superficialità, indifferenza verso gli altri. Spesso mi capita di chiedermi se io stessa sono coerente con ciò che scrivo e ciò che nella pratica faccio; quando questo tipo di dubbio mi assale, apro l’archivio e dissotterro testi, che sempre mi tranquillizzano a rispetto.  

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Lei ha curato un dizionario yanomami-portoghese. Esistono delle parole nella lingua yanomami che risultano di difficile traduzione in italiano? Quali? Può farci degli esempi?

Realizzai la mia ricerca nella lingua yãnomamè, che è una delle sei che fanno parte della famiglia linguistica yanomami. Sia in portoghese che in italiano le parole che risultano di difficile traduzione sono quelle che derivano dalla cosmogonia yanomami. Nel dizionario, per tradurre il termine rixi ho utilizzato la locuzione “alter ego”, seguita dalla spiegazione “essere simbolico che vive una vita parallela a quella dell’uomo”. Una parola corta come rixi è la rappresentazione di una serie di concezioni, fra cui: ogni individuo possiede un alter ego; vivendo vite parallele, le due entità mai s’incontreranno; la morte dell’alter ego provoca quella dell’uomo a cui è abbinato. Alla traduzione bisogna aggiungere spiegazioni e note affinché il lettore si avvicini il più possibile alla comprensione del sofisticato concetto che può celarsi dietro a una singola, semplice parola.  

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Quali sono attualmente le condizioni della comunità Yanomami? Subisce interferenze e minacce dalla società consumistica o riesce a preservare la sua anima primordiale?

Il contatto degli yanomami con i fronti di espansione della società capitalista ha i connotati di un bollettino di guerra. Nel 1974, la strada Perimetrale Nord, voluta dai militari all’epoca al potere, tagliò a sud il territorio yanomami; il contatto con i lavoratori della strada ridusse tredici villaggi a otto piccoli gruppi di superstiti, a causa di epidemie introdotte e verso le quali gli yanomami non avevano anticorpi. Nel 1977, la seconda epidemia di morbillo dall’arrivo della strada uccise la metà della popolazione di tre villaggi. Nell’agosto del 1987 oligarchie e politici locali fomentarono l’invasione del territorio yanomami, dentro il quale confluirono circa quaranta mila uomini; non si sa quanti yanomami sopravvissero alle armi da fuoco e all’avvelenamento da mercurio utilizzato per l’estrazione dei minerali. Anche se l’area yanomami è stata omologata nel 1992, le invasioni non sono mai cessate. La situazione è drasticamente peggiorata durante la presidenza di Bolsonaro, che l’invasione l’ha criminosamente fomentata. Durante il suo mandato, in territorio yanomami sono entrate macchine potenti e uomini fortemente armati legati a fazioni criminose, che hanno prodotto il disastro finale. Nel gennaio del 2023 il governo Lula ha dichiarato Emergenza in Salute Pubblica di Importanza Nazionale, in decorrenza della mancata assistenza agli yanomami. Oggigiorno il popolo yanomami è in pieno collasso territoriale, sanitario, culturale.

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Loretta Emiri prende parte in diretta alla trasmissione “Geo” di Rai Tre che ha dedicato spazio ad alcuni aggiornamenti sulla problematica yanomami. Ottobre 2023.

L’attività “storica” dei missionari cattolici del Vecchio Continente ha riguardato anche la comunità Yanomami? Quale è stata la ricezione e quali sono stati gli esiti di questa attività di evangelizzazione?

Io decisi di operare tra gli yanomami del Catrimâni perché all’epoca i missionari che con loro già lavoravano non erano preoccupati con l’evangelizzazione, ma con la sopravvivenza fisica e culturale di questo popolo. Resta il fatto che le varie chiese che tra gli yanomami hanno operato, e ancora operano, hanno contribuito a dividere questo popolo, perché ognuna di esse affronta a modo suo la situazione senza interagire, dialogare, collaborare con le altre in funzione del benessere e dell’unità del popolo yanomami. 

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Ha assistito a feste o rituali che contraddistinguono la vita sociale della comunità Yanomami? Se sì, può raccontarcene qualcuna (le principali o quelle che l’hanno suggestionata maggiormente)?

In uno dei miei racconti, descrivo il rituale funebre, a cui ho assistito, di un giovane amico yanomami. La lettura del testo risponderebbe egregiamente alla domanda, per cui vi segnalo il link:

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A quale divinità (o molteplicità di divinità) gli indios Yanomami sono votati?

Oltre al fatto che si rapportano con sacralità allo spirito insito in ogni cosa, gli yanomami tramandano la memoria dell’eroe mitologico Omá. Quando gli sciamani devono entrare in contatto con l’aldilà, cercano la collaborazione degli Hekurapè, spiriti minuscoli come la propria immagine riflessa negli occhi.  

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Esistono testi in forma scritta della comunità Yanomami che hanno affrontato il tema della religiosità, della spiritualità e del rapporto con l’aldilà?

Un libro scritto dall’antropologo francese Bruce Albert e dal leader Davi Kopenawa Yanomami è stato tradotto in italiano con il titolo La caduta del cielo. È una vera e propria enciclopedia yanomami, allo stesso tempo è una biografia e un’autobiografia; c’è dentro di tutto: società, cultura, lingua, cosmogonia, religiosità, scontro con l’invasore uomo bianco. Ne suggerisco la lettura a quanti vogliano avvicinarsi alle concezioni filosofiche della società yanomami.

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Nel 2018 ha pubblicato un libro dal titolo “Discriminati”. Può dirci di cosa si tratta e da che cosa è stata mossa per scrivere quest’opera? Chi sono i discriminati di oggi?

Discriminati è un libro che non avrei dovuto pubblicare. Il progetto iniziale includeva racconti vari e il titolo era Racconti discriminati; discriminati perché rifiutati da un’altra casa editrice. Nello sciocco desiderio di vedere un nuovo libro pubblicato, permisi che alcuni racconti fossero esclusi e un altro, che niente aveva a che vedere con la struttura del libro, vi fosse inserito. Dovetti inghiottire anche il titolo differente. Naturalmente i discriminati di oggi sono anche gli yanomami, le minoranze in generale.

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Grazie per aver risposto con attenzione e disponibilità alle domande di questa “chiacchierata” che ci hanno fatto conoscere da più vicino la comunità Yanomami.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La sacralità nella natura”. Intervista a Mirella Crapanzano. A cura di Lucia Cupertino

Cara Mirella[1], grazie per aver accettato questa intervista sulla tua ricerca personale come poetessa che ci permetterà di conoscerti meglio ed esplorare con più profondità il tuo universo poetico. È impossibile scindere i poeti dai luoghi che abitano. Raccontaci dunque la relazione tra il tuo luogo, immerso nello splendore delle Alpi, la vita comunitaria che conduci e la pratica di scrivere poesia.

Grazie a te, Lucia, per l’invito, come tu ben sai, la mia poesia nasce dall’esigenza di esplorare la quotidianità attraverso la spiritualità e viceversa, conferire ad ogni azione della mia giornata un valore, a cominciare dalla meditazione mattutina, perché questo significa predispormi a tutte le altre attività, con la giusta attenzione e centratura. C’è una relazione profonda, per me siciliana, agrigentina, nata vicino al mare e innamorata dei luoghi dove sono cresciuta fin da piccola, tra la bianca magia della Scala dei Turchi e la Valle dei templi, dove giocavo e respiravo la bellezza dei miti della mia terra e quest’altra terra bellissima, dove vivo da quasi trent’anni, la Valchiusella, ricca di boschi, laghi, torrenti, a pochi chilometri da Ivrea. Incastonata in questa valle c’è una comunità spirituale, Damanhur, conosciuta in tutto il mondo e meta di ricercatori, sognatori, ma anche curiosi in cerca di nuovi modelli sociali in cui poter vivere, come si diceva una volta, a misura d’uomo. Sono arrivata qui con il sogno di trasformare la mia esistenza, di intraprendere un percorso personale che mi desse l’opportunità di raggiungere quello spazio sacro in fondo al cuore, dove si dice, esserci “la stanza che contiene tutte le risposte”.

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Nella tua produzione poetica si respira una spiritualità molto accesa e in cui la natura apre una specie di portale magico per meditare sulla realtà è sul nostro tempo, è così? Cosa attiva la tua ricerca poetica e quali sono le “scoperte” a cui giungi?

La poesia è diventata, col tempo, la chiave che mi permette di svelarmi, che raccoglie con la sua essenzialità quello che le parole quotidiane non sanno dire: è la poesia che si avvicina alla mia anima e ne coglie l’inesprimibile. Vivere immersi nella natura cambia il proprio orientamento: i sensi si ampliano, le percezioni, le intuizioni, i sogni si colorano e si affinano, si riscopre un linguaggio ancestrale ricco di profumi, segni, che col passare degli anni, delle esperienze vissute, portano significati che aprono alla visione e all’ascolto della vita. Come la musica suscita armonia e tocca corde che fanno vibrare l’anima, così la poesia si accende dei suoni del bosco, dei colori del cielo, entra in empatia con gli spiriti dei luoghi, degli esseri di natura che vivono dove la natura è incontaminata ed è così che, amplificando ogni più piccola scoperta, la poesia diventa il linguaggio privilegiato dello spirito. 

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L’autrice Mirella Crapanzano

Nel tuo più recente libro La fragilità del bruco (Macabor 2020), lo stato transitorio di fronte a cui vita e morte ci pongono costantemente apre le porte ad una filosofia dell’accettazione e della diminuzione del proprio “io”. Com’è nato questo libro che, come recita un suo verso, cerca di muoversi oltre quel “perimetro di certezza”, che portiamo sempre con noi?

Nel libro La fragilità del bruco scrivo dello stupore della vita, attraverso quello che pensiamo sia un confine, la vita e la morte che invece è passaggio alla trasformazione. Nel caso del bruco vediamo la “metamorfosi” di un essere che “rinasce” sotto altre sembianze, conclude un ciclo per cominciarne un altro. Un essere di terra, il bruco che diventa farfalla, un essere d’aria, di cielo, se vogliamo. La metafora di due aspetti, vita e morte, che contengono al loro interno l’evoluzione, la trasformazione e che sono imprescindibili l’una dall’altra e sono così colme di fascino e mistero. Attraversare questi stati dell’essere, in maniera lucida, consapevole, con rispetto e dignità significa aver vissuto bene.  E quello che rimane di noi è l’essenza preziosa, è l’amore che abbiamo saputo coltivare.

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Nelle tue raccolte poetiche precedenti la natura è la grande protagonista, ma qual è il percorso che ti ha portato dalla tua prima pubblicazione nel 2014 ad oggi? Qual è stata l’evoluzione del tuo linguaggio poetico a tal riguardo?

Nei miei libri, esiste un costante riferimento, sottile e sottinteso, alla poesia come dimensione libera, l’unica forse in grado di dialogare con aspetti diversi dell’esistenza, come l’umano e il divino, i mondi vegetali, minerali e animali per restituire ad ognuno la bellezza dell’unicità, la sacralità e il rispetto che ogni specie merita senza distinzione. Dialogare e dar voce ad ognuno di questi aspetti che “mi compongono” significa abitarmi come un luogo dove tutto può accadere.  Del resto, come ha ben scritto Franca Alaimo nella prefazione a La fragilità del bruco, “l’osservazione della realtà circostante, da cui si origina ogni testo della raccolta, viene dilatata fino a comprendere la vastità simbolica di ogni elemento che immette il lettore in una sorta di spazio sacro, in cui piante, animali, acque, terra e cieli sono allo stesso tempo concreti e spirituali.” Elementi che divengono tutti parte di una realtà non più separata ma infinitamente ricca e variegata nelle differenti unicità. 

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Nella tua poesia la punteggiatura scarseggia o è assente. C’è qualche legame tra questo e la tua visione del fluire delle cose, del ciclo, dell’ascolto dell’impercettibile?

La punteggiatura col tempo è sparita del tutto, proprio perché le pause in poesia, se non dettate dal silenzio, rischiano di non far fluire l’incanto della molteplicità della vita con tutte le emozioni, la passione che infine ci incalza a vivere. Come ha intuito Claudia Manuela Turco, a proposito della mia poesia, “la punteggiatura è divenuta superflua, quindi è scomparsa, e con la sua sparizione si sono arricchiti anche i significati dei segmenti di poesia in movimento.” Questo ultimo concetto in poesia diviene una sorta di caleidoscopio dove le immagini si trasformano, si aprono e divengono altro, una visione, un linguaggio, uno spazio che si apre e che ognuno può sentirsi libero di abitare. 

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Infine, la spiritualità è una ricerca costante. Ti definisci ricercatrice nel campo della poesia, delle arti pittoriche e visive. Come comunicano tra di loro per te queste tre arti e a quali esiti ti porta il crocevia che si crea tra di esse?

Preferisco definirmi una ricercatrice nei campi dell’arte e della scrittura, piuttosto che poeta, pittrice o altro, perché questo mi permette di scandagliare le forme in cui posso dipingere o scrivere, creare immagini, installazioni, senza dover appartenere necessariamente a un gruppo, una corrente filosofica, poetica o pittorica, anche perché ho attraversato diverse fasi e persino vite, pur se molte in questa stessa e ogni volta mi sono riscoperta simile e completamente diversa, ed è per questo, ad esempio, che anche la mia scrittura non è mai uguale. In comune queste arti mi danno la possibilità di percorrere colori e segni ancestrali attingendo a significati che la storia dell’umanità ci ha lasciato in eredità. Nella pittura mi esprimo con il linguaggio a me più congeniale, quello del colore, scrivo frequenze che posso comporre e leggere, le arricchisco di segni, ideogrammi, che servono a creare storie da raccontare e far sentire attraverso le emozioni e così nella poesia, vorrei far respirare queste frequenze, vibrazioni, allo stesso modo che nei miei quadri, perché conducano il lettore a far vibrare, per assonanza, il proprio suono interiore che va a costituire quell’accordo immenso di cui tutto l’universo vibra.


[1] Mirella Crapanzano (Agrigento, 1959) è pittrice e ricercatrice nel campo della poesia, delle arti pittoriche e visive. Ha pubblicato la raccolta Le stanze del fiore nero (Lietocolle, 2014), la silloge Terracqua (Terra d’ulivi, 2016) con la quale ha vinto il primo premio Castello di Prata Sannita L’Iguana 2017, dedicato a Anna Maria Ortese, per la poesia edita e il poemetto Il Labirinto (Il Convivio, 2018), per essersi classificata seconda al Premio, per sillogi inedite, Pietro Carrera.  La fragilità del bruco (Macabor, 2020). Sue poesie sono presenti in diverse antologie, alcune edite da Lietocolle, Fara editore, Terra d’ulivi e Macabor e su varie riviste poetiche online. 


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – Intervista a Silvio Aman. A cura di Adriana Gloria Marigo

La sua ricerca, partendo da Armide e andando a ritroso attraversando le ultime sillogi Garten e Sonetti fosforescenti entra nelle stanze dell’Humanitas e del Logos, in un incontro con l’inestinguibile rapporto tra Essere ed Essenza e con la provvisorietà dell’Esistenza. Anche in quest’ultima raccolta, Armide,si può scorgere la metafora del reale nelle numerose figurazioni immaginifiche rappresentate dalle presenze femminili e dalla Natura che vanta sempre un posto privilegiato, non propriamente ornamentale o accessorio, ma armoniosamente partecipe, familiare.  Cosa rappresenta per lei il luogo delle «presenze misteriose e profumiere»?

Per come la intendo, la natura è il male, e in me si restringe ai giardini, specialmente quelli delle ville lacustri, e agli orti botanici: i luoghi selvaggi, se non si tratta delle Alpi, mi sconfortano. I “miei” giardini hanno sì qualcosa di familiare, ma anche di lontano, tanto è vero, che nel visitarli mi accade di avvertire nostalgia di loro, come fossi altrove. Nelle mie composizioni, costellate da viali notturni e ventosi, non trovo vi sia molto di umano. Certo, ho presente la realtà di quei luoghi eleganti e delle loro visitatrici, che vorrei tanto rivedere, ma in Armide, più che in termini immaginifici, si rivelano parvenze, nel senso per cui delle loro immagini concrete rimane una sorta di “profumo immaginale”. Non sono un realista. Non m’interesso delle poetiche: scrivo poesie come se in me fossero solo flussi transitori.

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La sua Poesia, raffinata, colta, pervasa di grazia derivante dalla qualità della reminiscenza, della forza immaginifica, della fascinazione dell’evanescenza e dell’incanto, del je–ne–sais–quoi, segno costante della sua scrittura, sembra abitare uno spazio classico che immette al sublime. In relazione a ciò, qual è il suo rapporto con la classicità; quali sono gli autori italiani o stranieri che hanno avuto un ascendente, o sono prossimi al suo modo di vedere la vita, l’arte?

Sì, è vero, nella mia poesia è presente il je-ne-sais-quoi, la grazia e l’evanescenza, perché questi tratti mi pertengono. A dir la verità, eccezion fatta per il gotico, non mi attrae nulla, se non si offre in modo fugace e suggestivo, ad esempio in certe condizioni atmosferiche e di luce, che preferisco sempre obliqua: di diretto, nel mio lavoro non vi è forse nulla. Guardo spesso le opere di due pittori che immagino fra loro inconciliabili: Caspar Friedrich e il Claudio di Lorena delle sue scene portuali, dove il sole appena sorto sfiora le cose tracciandone i profili. Nello spazio fra l’aurora e il tramonto sento solo l’oppressione delle cose stabili. Avverto un forte interesse per i polittici gotici, le opere di scuola senese e le miniature. Oltre a certi nomi sulla bocca di ogni manuale, mi attraggono opere considerate minori, o di cui nessuno parla, quando si fanno portatrici di aspetti imponderabili. La Grecia non mi ha mai attirato. Per le letture, mi perderei in una vera galassia, e solo per questioni di affinità potrei isolare Proust. Rileggo spesso il misterioso Gerard de Nerval, e attualmente le poesie Renè Vivien.   

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Il poeta Silvio Aman

Lei mostra grande attenzione alla lingua: emerge evidente la necessità che la parola sia intensa, direi assoluta, ed è la rivelazione che essa contiene un elemento che oltrepassa il dominio comunicativo e la stessa ricercatezza. Possiamo dire che nel verbum lei individua l’ineludibile forza creatrice che, insieme alla materia ispiratrice, pone in essere il suo cosmo poetico?

Certo, la lingua in poesia oltrepassa il dominio comunicativo, anche se mi è capitato di sentire poesia e mistero nel tono con cui una ragazza stava acquistando il pane. La lingua, nel mio lavoro, è intrisa di musicalità. Più che ricercato, mi trovo diverso rispetto alla vigente Koiné, e non mi è mai venuto in mente di pensare alla forza creatrice, poi non so se possiedo un cosmo poetico: a me pare di non possedere nulla. L’ispirazione è davvero qualcosa di misterioso: non si sa quando e da dove viene, per cui potrebbe anche non giungere più… ma se viene, per noi lo fa nel verbo, anzi con i significanti cui pertengono del resto gli aspetti immaginari. Non ho mai creduto nella parola assoluta: la “mia” lingua presenta un’intensità fluente, fatta di voci ondose e pronte a ritrarsi.

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In lei, quali sono le circostanze privilegiate al sorgere della parola di poesia? Attribuisce importanza alla componente autobiografica e al rapporto con i luoghi dove è nato o in cui vive, e quanto “entrano” nell’opera?

Non saprei individuare queste circostanze, sicuramente molteplici, e non è detto che dopo aver ammirato un giardino nasca qualche poesia – però è vero, che in alcune parti dei miei libri i giardini sono presenti, e certo anche per questioni autobiografiche: sono nato in un luogo celebre per il suo lago, le ville, i giardini e i grandi Hôtel. Non invento nulla: declino solo gli aspetti della mia biografia, che include anche i tratti di alcune amiche.

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Lei è poeta, scrittore, ma anche saggista. In un tempo come il nostro dominato dalla tecnica e dall’apparenza, da un evidente crollo del senso critico, il poeta può ancora indicare la via, suggerire, come in Elevazione di Baudelaire «Fuggi lontano da questi miasmi /ammorbanti, e nell’aria superiore / vola a purificarti…»?

La saggistica l’ho intrapresa solo quando ho trovato l’autore che m’interessava. Come lei sa, Baudelaire non è mai fuggito, inoltre, in una sua poesia nominò la perdita dell’aureola, finita nel fango, e oggi mi pare non ci sia nemmeno più bisogno di perderla. Il poeta può indicare la via solo a chi è a un passo da imboccarla a sua volta. Le parole di Hölderlin, che poeticamente vive l’uomo sulla terra, rimangano solo per pochi… un gruppo sparuto nella notte del tempo. In quanto alla tecnica, ci accompagna da sempre in modo benigno e maligno. Del resto, anche il cuore del poeta è tecnico.

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E ancora: quale valore ha per lei la poesia, oggi che sembra orfana di maestri e, per le numerose voci, informe e frammentata, tanto che taluni la ritengono in grave crisi esistenziale?

Lo dice già lei molto bene, nominando l’informe. In quanto ai “maestri” se non ve ne sono di attuali, quelli di ieri non mancano. Certo, oggi le voci si moltiplicano, forse per l’errato presupposto, che per scrivere poesie basti esprimere il sentimento… il quale spesso mente. In quanto alla crisi, essa non è della poesia, bensì di chi ama la Musa senza esserne ricambiato… pur sempre meglio di chi la ingaggia per ragioni strategiche.

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Sappiamo quanto la copertina e il titolo rappresentino, in certo senso, la soglia del libro: come sono nati per Armide quegli elementi così carichi di suggestione?

Ah, sì, è vero, la copertina fa spesso da soglia al libro, e per questa (anche se la notevole riduzione fotografica non lo evidenzia) avevo “stregato” un piccolo giardino mettendo degli anelli d’oro ai rami e attaccandogli orecchini a goccia di zaffiri e rubini. 

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Quali sono i progetti letterari futuri? Sta già lavorando a una nuova opera e di che tratta? Può rivelarci qualcosa?

Non ho mai avuto progetti letterari futuri, semmai quello di dedicarmi ai fiori. Ho scritto un lungo romanzo, e sono certo di non scriverne altri.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore/l’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“Le domande ebbre” di Anna Manna: intervista a Michela Zanarella

Per il progetto #igrandidialoghinelweb ideato e curato da Anna Manna proponiamo, dietro autorizzazione della stessa Manna e dell’intervistata, la recente intervista alla poetessa Michela Zanarella. Il testo si inserisce all’interno dell’ampio repertorio di interviste ad autori e artisti sotto la definizione di “Le interviste sul battello ebbro” a cura di Anna Manna.

LE DOMANDE EBBRE PER MICHELA ZANARELLA

1) Sei un poeta nel 2021! Ti senti fuori tempo, fortunato, necessario, nel vento o nella scrivania?

Non mi sento affatto fuori tempo, perché vivo nel tempo, lo attraverso, lo ascolto, cerco di non sprecarlo, vanificare i giorni, i mesi, gli anni. Saper centellinare gli attimi, non rimandare a domani ciò che si può fare subito, dire un “ti voglio bene” in più, ringraziare sempre, essere grati di ciò che si ha, anche le cose che magari sembrano contrarie. Tutto ha un significato.  Mi considero fortunata, perché la poesia è entrata nella mia vita in modo inaspettato e mi sta accompagnando giorno dopo giorno, fedelmente. È un privilegio poter scrivere in versi, un grande dono. Non so se mi definirei necessaria, forse sì, ogni essere umano in realtà è unico e irripetibile, cosa si può volere di più della vita stessa?  Mi sento quotidianamente nel vento, perché la mia mente vola e la poesia mi fa raggiungere realtà straordinarie, forse incomprensibili a molti. Sono anche nella scrivania, ci passo gran parte del mio tempo, sia per lavoro, sia quando mi dedico alla scrittura. Durante la pandemia, direi che la scrivania è stata un luogo di riferimento, lì ho dato vita a una buona parte dei miei prossimi lavori editoriali.

2) Chi ti legge perché secondo te lo fa? Perché è tuo amico, perché cerca risposte dagli sconosciuti, perché gli manca qualcosa?

Chi mi legge lo fa perché mi segue da tempo o mi conosce, tanti sono gli amici, ma mi sono capitate diverse persone nuove, mai incontrate personalmente, che si sono avvicinate alla mia poesia, perché incuriosite dal mio stile di scrittura e dal mio percorso di vita. Alcuni mi hanno contattato trovandomi sui social, ho ricevuto delle testimonianze bellissime: una signora mi ha scritto che mi legge ogni volta che entra in ospedale prima di sottoporsi alla chemio, perché dice che la mia poesia la fa sentire leggera e si sente meno sola, un signore mi ha scritto che ha trovato i miei versi in rete e pur non conoscendomi, gli sembrava di conoscermi e si è ritrovato nelle mie parole. Una mamma mi ha scritto che il figlio di dieci anni ha letto la mia prima raccolta e da allora continua a leggere poesia. Alcune persone molto avanti negli anni, dicono che si sentono accarezzate e che leggere le mie parole, è come avere accanto una presenza molto dolce, angelica.

Non posso che essere felice quando qualcuno apprezza ciò che scrivo e si riconosce tra le mie parole. Credo che la poesia sia un ottimo strumento di dialogo, può sicuramente aiutare a superare limiti, a trovare stimoli, a recuperare sé stessi.

La poetessa Michela Zanarella

3) Se tu fossi giovane oggi rifaresti il tuo percorso culturale?

Forse non lo rifarei allo stesso modo. Ho iniziato non sapendo assolutamente nulla di questo mondo. Ho scontato tutte le mie ingenuità, pensando che tutti fossero disposti ad aiutarmi, a capirmi. Non è stato così. Ho trovato tante porte chiuse, ma forse mi è servito a capire meglio quale direzione intraprendere. Non ho mai voluto chiedere favori, ho lavorato giorno per giorno con fatica, a volte ottenendo relativamente poco. Se mi volto indietro, tante cose le avrei evitate, ma poi mi rendo conto che era necessario che io incontrassi proprio quelle persone, che vivessi determinate esperienze. Sono convinta che nulla avviene per caso, più lunga e difficile è la strada, più si impara ed io sono orgogliosa nel mio piccolo di quanto sono riuscita a realizzare. Superati i quarant’anni si è più lucidi, si ha più chiaro cosa conta davvero.

4) Mentre scrivi lo fai per te, per i lettori, per cercare in te risposte, per confessarti, per il successo, perché è un tarlo che ti divora?

Scrivo perché la poesia mi cerca. La poesia mi fa stare bene, mi porta a un equilibrio interiore, mi interrogo costantemente e cerco risposte, mi confesso, mi scopro, m’invento. Non per il successo. Con la poesia il successo centra poco o nulla.

5) La memoria è parte della poesia? La esalta, la cancella, riporta i sentimenti alla tua sfera personale oppure innalza la gioia ed il dolore al di sopra delle parti?

La memoria è parte della poesia, direi una parte essenziale della mia. Attraverso i ricordi recupero emozioni, luoghi, sentimenti. Si compie una resurrezione ed è qualcosa di straordinario. Ciò che sembra lontanissimo, a volte perduto, rivive, rifiorisce. Se da un lato può sembrare tutto molto intimo e personale, dall’altro la poesia ha il potere di rendere le cose universali, così i lettori entrano in una realtà comune, accessibile, condivisibile. Ricordo una frase che mi disse Maria Luisa Spaziani, ovvero che la mia poesia volava alto come un’aquila bianca sulle vite quotidiane alla ricerca della luce che è dentro ognuno di noi.

6) Ce la faremo a mantenere viva la Poesia?

Certo che ce la faremo, la Poesia vive oltre il tempo, oltre noi. Ci sono tanti giovani che la amano, la leggono e la scrivono. Non ho alcun dubbio in merito. Ho fiducia nelle nuove generazioni. Basta crederci. I sogni possono accadere.

“Ti sogno, terra 2 – Il lungo viaggio dei sognatori” di Laura Margherita Voltante. Il 12 dicembre la presentazione nel capoluogo dorico

Articolo di Lorenzo Spurio

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Giovedì 12 dicembre in Ancona, presso la Biblioteca del Consiglio Regionale (Piazza Cavour n°23), si terrà la presentazione al pubblico del volume “Ti sogno, terra 2” ideato e curato dalla professoressa Laura Margherita Volante, nota poetessa, scrittrice e aforista originaria di Alessandria ma da molti anni attiva nel capoluogo dorico. L’iniziativa, che trova accoglimento all’interno della rassegna “Libri fuoriteca – conosciamo gli autori marchigiani”, si terrà presso la Biblioteca del Consiglio Regionale delle Marche alle ore 16.30 e vedrà la presenza della stessa autrice. “Ti sogno, terra” vol. 2 è la nuova raccolta di scritti della professoressa Volante che hanno come oggetto o rimando la complessa e variegata situazione poetico-culturale-musicale della regione Marche, ma non solo. Esso è la continuazione ideale e pratica del progetto editoriale omonimo nato nel 2017 che diede vita al primo tomo, opera nella quale sono contenute recensioni, interviste e commenti critici sull’opera di numerosi poeti della Regione e di intellettuali di spicco del panorama letterario nazionale, a evidenza degli importanti scambi e apporti, delle relazioni culturali e collaborazioni continuative con un panorama ampio di intellettuali, studiati con acribia nei suoi vari interventi.  A fare da apripista a questo 295esimo volume dei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche” sono alcuni versi di rara caratura e di forte presa impressionistica di Pavese; a seguire una nota d’apertura di Mastrovincenzo, Presidente dell’Assemblea Legislativa delle Marche.

Il primo volume, che la professoressa Volante aveva dedicato con un sentimento di stima profonda e di amicizia a “Noce”, ovvero la poetessa camerte Rosa Berti Sabbieti (1924-2009), è stato presentato in varie eventi dedicati tra cui a Pesaro e Osimo, riscuotendo successo e ampliando interesse attorno al prismatico e approfondito lavoro di ricerca, studio, critica e confronto condotto dalla Volante.

Ricchissimi i contenuti all’interno del secondo tomo dove si trovano approfondimenti di carattere sociologico, letterario e poetico, con incursioni interessanti anche nel mondo della pedagogia e del mondo dell’infanzia, finanche della musica, ambiti che la Volante tesse in maniera suadente in un volume che, pur avendo ripartizioni interne per consentire un possibile percorso da prendere, si presenta assai compatto, dall’intelaiatura stretta, su un tessuto che è particolarmente fine.

Ci sono duetti poetici, a testimonianza di quella sintonia che nell’arte riesce davvero a imporsi come tale, quale spontaneo gesto di scambio e di mutuo arricchimento; c’è uno studio sulla poesia della giovane Lucia Paola Marcucci Pinoli (di cui la Volante tratta in relazione a una ravvisata “nostalgia romantica”), gli aforismi di Fabio Strinati di Esanatoglia (MC), apprezzato compositore oltre che poeta e tanti altri ancora. Seppure le Marche rappresentano quella tessera intermedia di mosaico, centrale per reggere l’intero impianto e garantire la completa bellezza dell’affresco, non mancano relazioni e ricordi in merito ad altre esperienze regionali, dal Piemonte alla Liguria. C’è l’Umbria di Emanuela Aureli, la Calabria del cosentino Angelo Gaccione e la Sicilia di Marco Scalabrino, noto poeta dialettale di Trapani, fresco della vittoria al Premio “Ignazio Buttitta” di Favara. Merita una nota di attenzione anche la presenza di un testo sul celebre fotografo Roberto Villa, che lavorò con Pier Paolo Pasolini.

Nella sua introduzione al volume la Volante annota: “Lo spirito, quindi, che mi ha spinto a sviluppare questo percorso editoriale, sostenuto dal Consiglio Regionale Marche, con un “viaggio” itinerante attraverso varie stazioni regionali, è per una presa di coscienza di valori altamente civili e sociali, attraverso vari linguaggi espressivi del tessuto culturale nazionale. Talenti di alto profilo letterario e artistico, ma sovente emarginati da una società corrotta, mediatica, clientelare emergono con tutta la loro forza morale, poetica e umana. Il progetto intende altresì veicolare ideali di Bellezza attraverso Arte, Scienza e Cultura in ogni sua espressione, divulgando conoscenza di questa bella Italia, sconosciuta agli stessi Italiani, nella dimensione di appartenenza e di comunità mondiale sia per motivazioni spirituali sia evidenziando le circostanze del contesto e il clima culturale dove si è vissuti: tradizioni, usi e costumi, nei quali ci si è formati”.

LORENZO SPURIO

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore. 

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Una società diversa: ricordi di una Trapani trascorsa, viva nel ricordo fulgido e costante. Recensione di “Spigolature” di Vittorio Sartarelli

A cura di Lorenzo Spurio

Vittorio Sartarelli è nato a Trapani nel 1937 da una modesta famiglia. Ha seguito studi umanistici e poi si è laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Palermo. Nel 1958 venne assunto dal settimanale politico trapanese “Il Faro” dove operò a diverso titolo per quattro anni. Nello stesso periodo collaborò anche con altre testate sino a che nel 1963 venne assunto in un istituto di credito dove è rimasto sino alla data del suo pensionamento.

Come autore ha esordito nel 2000; scrittore attento al dettaglio, insaziabile pittore di vicende vissute e nostalgico nel recupero di memorie che hanno contrassegnato i suoi anni passati, Sartarelli si mostra versatile per i suoi interessi verso la prosa autobiografica, memorialistica e descrittiva con particolare attenzione anche alla descrizione degli ambienti nei quali si percepisce l’attaccamento per Trapani e le affascinanti manifestazioni etno-culturali della sua terra.

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Uno scorcio della città di Trapani

Tra le varie pubblicazioni si segnalano “Territorio e motori” (2006), un volume tascabile, una sorta di guida con informazioni sugli aspetti storico-culturali, tradizionali della capoluogo siculo in cui è nato con particolare attenzione anche allo sport. Allo sport, in particolare, Sartarelli è stato legato, in modi e in età diverse sia con il ciclismo (di cui era molto affascinato in età giovanile rimanendo affascinato da Bartali) che dall’automobilismo, seguendo la capacità meccanica e creativa del padre, meccanico arguto, che nel 1951, dopo aver creato un auto da corsa fiammante, “vinse nella sua categoria la XXXVI Targa Florio, classificandosi anche sesto assoluto nella classifica generale” (90). Quest’ultima vicenda è contenuta in particolar modo nel volume “Francesco Sartarelli” (2000) da lui definita la “biografia di un campione trapanese degli anni ‘50” ma se ne parla abbondantemente anche nel racconto “Mio padre” presente in “Spigolature” nel quale l’autore traccia la vicenda esistenziale del genitore paterno ripercorrendo alcuni degli episodi d’affetto più incisivi che li hanno visti legati sino al sopraggiungere della malattia del padre che l’autore percepisce come una “mutilazione” (91) parlandone in questi termini: “Esisteva ancora, era vicino a me ma, era diventato un’altra persona, lontana anni luce da quella che mi aveva seguito con affetto paterno e condividente durante la mia vita, il faro che costituiva per me un punto di riferimento e di orientamento costante si era spento” (91).

Il sentimento di comunione, il fascino e la completa sintonia con il contesto ambientale, sempre ben radicato nelle sue narrazioni, sono meglio esaltati in “Cara Trapani” (2007) che si configura come una sorta di almanacco dotto e utile, ricco di informazioni e nutrito di ricerca bibliografica, frutto della volontà di contenere in un libro elementi di storia, etnologia e tradizioni della sua magica città. Chiaramente non si tratta di una prosa fredda e clinica, atta a descrivere storicamente con un linguaggio critico e umanamente impassibile, al contrario nell’elencazione arguta delle nozioni storiche, geografiche, culturali è unita in maniera indissolubile una carica viva e spontanea che sgorga dal sentimento coinvolto.

Quella di Sartarelli è così sia una narrativa documentaristica (le branche del sapere che lo coinvolgono sono varie, dalla scienza all’enologia, dalla storia all’archeologia e mai coniugate tra loro con forza o in maniera improvvisa) e al contempo una prosa personale, intima, familiare, ricca di aneddoti personali, vicende proprie, memorie di momenti vissuti con parenti o di incontri, come quello con lo zio d’America, contenuto nel volume “Spigolature” (2017), una prosa che, per certi versi, fa ricordare il Sciascia narratore degli esordi.

Altre opere dell’autore sono “I racconti del cuore” (2008), un saggio di carattere sociologico “La famiglia, oggi” (2009) e un excursus dell’intero periodo lavorativo in “Memorie di un bancario” (2009).[1] Vittorio Sartarelli è anche blogger, recensore di critica letteraria, saggista. Nel volume antologico sulla poesia e cultura siciliana curato dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi che uscirà il prossimo anno l’autore ha collaborato con una recensione-documento all’opera nel dialetto locale “Petri senza tempu” del poeta trapanese Nino Barone. Collaboratore di vari giornali e riviste di cultura e letteratura tra cui “Il Salotto Letterario” (Torino), “Progetto Babele”, “Euterpe”, “Il Club degli Autori”, è risultato vincitore in numerosi premi letterari nazionali ottenendo premi da podio, premi speciali, menzioni e altri riconoscimenti che ne attestano le indiscusse capacità letterarie e comunicative. È accademico dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” di Catania e Socio ordinario dell’Ass. Culturale Euterpe di Jesi (AN).

A spiegare il titolo della raccolta “Spigolature” (Elison Publishing, Lecce, 2017) è lo stesso autore che, nella presentazione al libro, così scrive: “Spigolare chiarisce la sua definizione come un’azione antica […] di raccogliere ogni spiga rimasta sul terreno dopo la mietitura per cui ogni singola spiga di grano poteva fare la differenza; […] spigolare può avere anche un significato che ai più appare recondito, ma che è ormai entrato nel comune linguaggio culturale, come raccolta o scelta privilegiata di concetti” (3). Dunque un volume che raccoglie una crestomazia di testi, un florilegio particolare, una selezione particolarmente significativa per l’autore, dunque non un semplice compendio che agglutina la produzione, ma un testo che propone una scelta ponderata e motivata dei componenti che lo contraddistinguono, nella sua totalità, come opera unica e compatta.

9788869631405_p0_v1_s550x406.jpg“Spigolature” – “libro eclettico”[2] – si compone di una serie di racconti di diversa lunghezza nei quali l’autore rievoca momenti particolari della sua storia passata, spesso è una semplice immagine, come quella del mare nell’omonimo racconto, a riallacciare al passato: l’autore ci racconta del rapporto di amore-odio verso il mare e ce ne spiega le ragioni e, a seguire, con evidente orgoglio della sua sicilianità, passa in rassegna agli aspetti più tipicizzanti della città natìa di Trapani: da narrazione biografica[3] si passa così, senza cesure nette, a una prosa scientifica, di documentazione storica e sociale quando ci parla delle saline e delle tonnare, particolarmente presenti nella zona di Trapani (visitai qualche anno fa la Salina di Paceco e ne conservo uno splendido ricordo e, sull’isola di Favignana, la guida ci spiegò che la tonnara lì presente aveva smesso da anni di funzionare ma che una volta l’attività era frenetica e determinante per l’intera economia dell’isola). Respiriamo, leggendo queste pagine di Sartarelli, un’aria a noi diversa, che è quella calda e speziata della terra di Sicilia. Emanuela Riverso nella sua recensione a “Cara Trapani” dell’autore ha osservato questa capacità di Sartarelli di dar sapore e colore, anche sulla carta, ai suoi amati spazi toponomastici: “Il racconto della storia e dei luoghi di Trapani si fonde con le suggestioni personali dei mille ricordi legati alla città […] Il raccontare la città si identifica con il raccontare se stesso. […] Trapani nel corso della storia, dalle origini ai giorni nostri e destano molta attenzione anche le pagine più personali, lì dove ci si accorge che il racconto di una città non può essere disgiunto dal racconto della vita di chi la abita e la vive”.[4]

La narrazione si presta anche come fine documento storico nei tanti rimandi alle varie fasi di buio e di sviluppo della nostra nazione dall’età della Ricostruzione, che fa seguito al secondo conflitto bellico di cui Sartarelli parla nel racconto “La maestra della Scuola Elementare”, alla venuta dello “zio d’America” nel 1947 dopo un lungo periodo nel quale a causa delle “operazioni belliche non era stato possibile comunicare” (40) porta in Sicilia il progresso americano rappresentato dai nuovi beni di consumo quale la cioccolata, il chewing-gum e altri beni d’utilizzo per la famiglia. Dello zio d’America l’autore ha un ricordo duplice: grande gioia e aspettativa prima della sua venuta e curiosità di conoscere il parente che vive e ha costruito una sua famiglia dall’altra parte del mondo e, di contro, un uomo leggermente freddo, ormai avulso da quella realtà di provincia siciliana che, decenni prima, l’aveva visto nascere. L’autore così riflette: “Non riuscivo a comprendere, tuttavia, come mai uno zio che, per trenta anni era rimasto lontano dal suo Paese e dall’affetto dei suoi cari, una volta ritornato tra loro, non riuscisse a manifestare almeno esteriormente una maggiore affettuosità” (43).

Sempre a livello storico e proseguendo in forma cronologica, Sartarelli dedica un intero capitolo, o racconto, a “Quei favolosi anni ‘60” nei quali ci parla del rinato clima di benessere a seguito del boom economico che permetterà per un periodo una vita migliore, anche grazie a misure di sostegno giunte, a conclusione della seconda guerra mondiale, da parte degli Usa. È il periodo del cosiddetto “miracolo economico” nel quale l’Italia sembra incanalarsi verso una stagione diversa e, sulle ceneri di una ricostruzione lunga e non priva di un malcontento psicologico, si proietta verso un futuro pregno di nuova speranza. Arrivano così gli elettrodomestici quali il frigorifero e, per la prima volta viene introdotta la televisione, mezzo di comunicazione e svago, ma anche collante sociale che ha, tra le sue primarie funzioni, quella di permettere una standardizzazione della lingua ufficiale italiana incentivando, dunque, anche il sentimento di coesione nazionale. La televisione, come osserva l’autore, “avrebbe trasformato oltre che la cultura italica, anche le tendenze e il modo di pensare, avrebbe sicuramente modificato il sistema di vita delle famiglie” (55).

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L’autore, Vittorio Sartarelli

Ci sono pagine amare nel ricordo di vicende antipatiche come la rottura dell’amicizia con un ragazzo da sempre considerato un buon compagno, di vero dolore nell’apprensione che si nutre dinanzi al tremendo terremoto del Belice nel gennaio del 1968 dal nostro ricordato nel brano dal titolo “Quando la Terra trema” e dell’infarto subito in periodo più recente, qualche anno fa, del quale Sartarelli ci trasmette una cronaca puntualissima. C’è poi il mondo del lavoro, come funzionario in un istituto di credito, del quale si è accennato in precedenza e di cui ha avuto modo di parlare ampiamente in un’altra precedente pubblicazione. Nel racconto “L’Onorevole” contenuto in “Spigolature” ci narra, grazie a un sistema di consigli e raccomandazioni tra uomini influenti diffuso ancora oggi, della sua possibilità di accedere a un colloquio di lavoro che poi gli avrebbe consentito di lavorare in quella stessa sfera per molti anni sino al pensionamento. L’autore, senza riserbo alcuno con la finalità di non macchiare quel realismo onesto di cui è peculiare esponente, scrive: “La politica quindi, grazie alla raccomandazione, esercitava una nobile funzione sociale, favorendo il benessere e il miglioramento economico e sociale delle famiglie” (67) mettendoci al corrente di un sistema diffuso di mutuo sostegno e di ‘piaceri’, di collaborazione e influenze tra “poteri”, diffusa e consentita, ma che, com’è questo il caso, ha dato frutti preziosi rappresentato dall’encomiabile impegno professionale e dedizione di Sartarelli nel suo lavoro.

Se in “Spigolature” Sartarelli ha raccolto “il grano migliore” della sua produzione, i suoi progetti non terminano qui e, forse un po’ più ambiziosi, si spingono oltre nell’arrivare a pubblicare un volume unico, una sorta di opera-omnia o, comunque una pubblicazione che, ordinatamente e in forma completa, contenga tutta la sua intera attività scrittoria, di narrativa breve, romanzi, articoli, saggistica, recensioni e quant’altro. Così, in un’intervista rilasciata a “Recensione Libro.it” ha osservato: “Ho allo studio la realizzazione della raccolta di tutte le mie opere che vorrei lasciare come ultima testimonianza della mia attività letteraria, ma è ancora presto per poterne parlare e scrivere in modo definitivo”. Dette opere, la cui ideazione nasce da motivi sempre pregevoli che mostrano una grande concretezza dell’uomo che le propone, spesso sono poco attuative non perché tecnicamente difficili o azzardate ma semplicemente perché è preferibile scrivere all’istante, la vita d’oggi o ciò che essa riflette del passato, badando – nella stessa vividezza che sostiene l’autore – al dedicare attenzione a ciò che ha per noi senso. Difficile concepire un’opera completa e finale quando ancora – com’è il caso di Vittorio Sartarelli – c’è ancora tanto da raccontare ed esprimersi, narrare e studiare, affrontare indagini, ricercare il senso delle cose e di sé, in quell’ambiente folto di pensieri e custode di dolci melodie di età andate, nel materiale, eppure ancora così vive.

 

Lorenzo Spurio

Jesi, 15/10/2018

 

NOTE

[1] La recensionista Nicla Morletti sottolinea lo spettro meno felice di sentimenti provati dall’autore (sofferenza e delusione, finanche scoramento e insoddisfazione) in relazione ad alcune vicende accadute, nel corso degli anni, sul suo luogo di lavoro scrivendo che lì “Emergono la malvagità, la cattiveria, la superbia, la sete di denaro, l’arrivismo e la prevaricazione da parte di altre persone”, in Nicla Morletti, “Vittorio Sartarelli: 35 anni da bancario”, «Il Molinello».

[2]  Così viene definito nella breve recensione dal titolo “Di cosa parla il libro “Spigolature” di Vittorio Sartarelli” apparsa in internet sul sito «Recensione Libro». Lo stesso autore, in un’intervista concessa dallo stesso sito citato, ha definito “Spigolature” in questi termini: “uno Zibaldone, un revival, un vademècum”.

[3] L’autore in un’intervista rilasciata al sito «Il Giallista» ha confessato al riguardo: “Non ho bisogno di ispirazione artistiche per i miei scritti ma solo ricordi reali e i miei libri non hanno trame inventate o romanzate ma solo descrizioni di realtà avvenute, in un passato prossimo o purtroppo, ormai remoto ma vero e non inventato”, in “Intervista a Vittorio Sartarelli, autore di “Spigolature”, «Il Giallista», 9 Gennaio 2018.

[4]  Emanuela Riverso, “Vittorio Sartarelli e la sua cara Trapani…”, «Luoghi d’Autore», 8 Gennaio 2015.

 

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

Intervista a Cinzia Perrone, autrice del romanzo familiare “L’inatteso”

Si propone a continuazione l’intervista rilasciata dalla poetessa e scrittrice partenopea da vari anni attiva a Jesi, Cinzia Perrone, che nel 2017 per i tipi di Marco Del Bucchia ha pubblicato il romanzo breve L’inatteso. Su tale opera ho avuto modo di scrivere una recensione che è possibile leggere cliccando qui.

 

INTERVISTA A CINZIA PERRONE

A CURA DI LORENZO SPURIO

 

LS: Da che cosa nasce la storia di questo romanzo? Ci sono elementi in qualche modo autobiografici?  

CP: Ho iniziato a scrivere questo romanzo concependolo come un racconto corale di più personaggi che attraversasse molti anni della nostra storia, per far rivivere attraverso la storia di questa famiglia e dei suoi membri un po’ tutte le problematiche che hanno interessato il nostro Paese. Per quanto riguarda l’aspetto propriamente emotivo, questo mio lavoro è nato come omaggio al concetto di famiglia in generale e alla mia in particolare, in quanto alcune storie dei protagonisti sono liberamente ispirate alle vicissitudini di alcuni miei parenti stretti o meno.

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L’autrice del romanzo, Cinzia Perrone

 

LS: Perché hai deciso di esaminare l’intera storia di una famiglia nel corso di tre generazioni?

CP: Come ho detto prima, volendo omaggiare la famiglia come punto fondamentale nella nostra società, è in essa che più si possono cogliere i più intimi aspetti delle problematiche personali e sociali che possono investire ogni individuo. L’ho vista attraverso lo scorrere degli anni, proprio per mettere in evidenza quanto conti la società del tempo per quei personaggi, nonché la differenza generazionale.

 

LS: Con quale personaggio e perché simpatizzi di più?

CP: Credo di aver posto l’accento su due personaggi in particolare dell’intero romanzo, perché rappresentano quell’indomita lotta contro il destino che alberga in ogni essere umano; sono Antonio, il primo a comparire sulla scena, e Antonia, l’ultima discendente omonima che chiude la narrazione. Entrambi rappresentano la fenice che risorge dalle sue ceneri.

 

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LS: Nel corso della narrazione fai uso di tecniche stilistiche molto diffuse quali l’ellissi, l’accelerazione, analessi (retrospezione) e prolessi. In quest’ultimo caso la prolessi consente di anticipare qualcosa, pur in maniera velata o allusa, che di lì a poco prenderà piede. Quali tra queste figure consideri più efficace nell’atto della lettura del libro per accentuare interesse verso il narrato?

CP: Sono tutte tecniche importanti che ogni autore usa, ed ognuna ha la sua funzione narrativa utile per uno specifico momento. Le adopero quasi tutte al momento opportuno per trarmi anche d’impaccio, come nel caso dell’ellissi o dell’accelerazione. L’analessi, detta anche all’anglosassone flash-back, è utile sia all’autore che al lettore, magari per ragguagliarlo su aspetti ed eventi passati di alcuni personaggi, necessari al proseguimento della narrazione. Forse la tecnica più accattivante per creare aspettative e curiosità nel lettore, in modo tale che cresca in lui la voglia di proseguire il racconto, è la prolessi; quel dare una piccola anticipazione può essere assimilato a quel che fa un buon trailer cinematografico.

 

LS: I contenuti del volume, a livello sociale, sono molti e permettono di affrontare varie tematiche che coinvolgono il nostro mondo attuale. Qual è il messaggio principale del libro che hai inteso veicolare con questa storia

CP: Le tematiche sociali affrontate nel romanzo sono davvero tante, per dare al libro un ampio respiro e al lettore un quadro di insieme sui vari aspetti della vita; ma essi ruotano intorno ad un perno principale, che come anticipato dal titolo del libro, è quello dell’imprevedibilità della vita che spesso sconvolge i nostri piani. Da qui nasce anche l’analisi di quelle che possono essere le più svariate reazioni umane a questi sconvolgimenti.

 

LS: Narrazioni come queste, tese a delineare le fortune e gli accadimenti meno felici di un ceppo familiare col trascorrere del tempo, che potremmo definire “saghe familiari”, si prestano a una prosecuzione della storia per andare a tratteggiare gli esponenti più giovani o, al contrario, riprendere più da vicino un dato personaggio e dedicargli una narrazione tutta a parte, più approfondita e circoscritta alla sua figura. Personaggi come Francesco o il fratello Vittorio morto in guerra potrebbero spalancare la possibilità a una trattazione delle loro vicende. Che cosa ne pensi di questo? È qualcosa che può incontrare il tuo interesse o navighi su altri progetti di scrittura?

CP: Quando ho terminato il romanzo non nascondo di aver pensato ad una eventualità del genere, vista più come un proseguimento della vita dei due protagonisti finali, che nel finale del libro si lanciano verso un nuovo inizio; il racconto in questo modo dei due fratelli, in tempi attuali, avrebbe coronato idealmente il messaggio di lotta e speranza già presente nel romanzo. Ma per il momento ho accantonato la cosa, e oltre ad aver appena terminato una raccolta di racconti e poesie, mi sto dedicando a un nuovo romanzo, che potrei definire di formazione; infatti è la storia di un ragazzo che cresce tra disagi, sogni, risentimenti ma sempre con tanto ottimismo dentro se stesso. 

 

Jesi, 10-06-2018

  

Il n°27 della rivista di letteratura “Euterpe” dedicato a “profili ed esperienze femminili nella storia, letteratura e arte”

Dopo la recente pubblicazione del n°26 della rivista di letteratura online “Euterpe” che proponeva quale tematica “Emigrazione: sradicamento e disadattamento”, contenente pregevoli contributi critici e non solo tra cui brani di Mario Vassalle, Asmae Dachan, Rosa Elisa Giangoia, Maria Grazia Ferraris, Paolo Saggese e Valtero Curzi. 

La Redazione della Rivista ha diffuso nelle ultime settimane il comunicato relativo alla raccolta di materiali per il prossimo numero della rivista. Il nuovo numero monografico sarà aperto a contributi appartenente ai vari generi (aforismi, poesia, haiku, narrativa, saggistica, critica, recensioni, interviste) che abbiano relazione con il tema di riferimento: “Il coraggio delle donne: profili ed esperienze femminili nella storia, letteratura e arte”. Sarà l’occasione per approfondire le esperienze umane e gli itinerari culturali di poetesse, scrittrici, donne di scienza, eroine e di altre donne che, a loro modo e nei relativi campi d’appartenenza, si sono distinte in maniera rimarchevole. Nel banner che identifica l’invito a prendere parte al nuovo numero figurano i volti di alcune celeberrime donne della letteratura: la poetessa lombarda Antonia Pozzi (1912-1938), suicida giovanissima, la scrittrice sarda, premio Nobel per la Letteratura nel 1926 Grazia Deledda (1871-1936), la romanziera modernista Virginia Woolf (1882-1941), punta di diamante della letteratura contemporanea e la pacificante poetessa americana Emily Dickinson (1830-1886).

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I materiali dovranno essere inviati entro e non oltre il 15 Luglio 2018 alla mail rivistaeuterpe@gmail.com attenendosi alle “Norme redazionali” della rivista che sono consultabili cliccando qui.  Su Facebook è già presente il relativo evento Facebook che si può seguire, anche per rimanere aggiornati sullo svolgimento della selezione, per raggiungerlo, cliccare qui.

Per consultare i vecchi numeri della rivista è possibile cliccare qui, mentre per chi voglia prendere visione dell’archivio storico contenente la lista sintetica di tutte le apparizioni in rivista, ordinate in ordine alfabetico dei rispettivi autori è possibile cliccare qui.

Intervista al poeta e performer Max Ponte. A cura di L. Spurio

Max Ponte è nato nel 1977, vive e lavora a Torino. Si è laureato in Filosofia all’Università di Torino con una tesi in Estetica. Svolge attività di ricerca presso l’Università di Parigi-Nanterre. Sue poesie e racconti sono stati pubblicati in antologie, riviste e raccolte collettive. Per la poesia ha pubblicato Eyeliner (Bastogi, 2010) e 56 Poesie d’amore (granchiofarfalla, 2016), mentre per la saggistica Potere Futurista (2015). Ha curato alcune mostre di arte contemporanea e di poesia visiva. Collabora con il blog letterario “La Poesia e Lo Spirito”. Si è occupato per anni di poetry slam promuovendo eventi poetici in tutta Italia. Nell’agosto del 2016 ha creato “L’Angelico Certame”, una gara poetica da lui ideata e realizzata in tutti i suoi particolari, dal nome al logo ad ogni aspetto del progetto e del regolamento. Il suo blog personale è http://maxponte.blogspot.it/

 

L.S.: Quando ti sei avvicinato per la prima volta alla poesia e quando hai scritto il tuo primo testo?
M.P.: Mi sono avvicinato per la prima volta alla poesia alle scuole elementari. Una maestra eccezionale, poetessa, mi trasmise il fuoco sacro per l’arte della parola e mi fece partecipare al primo evento, La Festa dell’Albero, nel quale i bambini erano invitati ad intervenire con testi poetici o disegni. Non avevo mai preso in mano un microfono fino a quel momento e tremavo.
 L.S.: Che ruolo ricopre la poesia nella tua vita?
M.P.: La poesia ricopre un ruolo centrale, essenziale, insostituibile nella mia vita, pare quasi retorico ma non lo è. Senza la poesia sarei scomparso tante di quelle volte da non ricordarmi neanche di me stesso.
L.S.: Che cosa ne pensi della poesia civile contemporanea o pseudo tale, quella gran fetta di testi poetici che, con stili e linguaggi anche molto differenti tra loro, trattano dei drammi sociali, dei casi d’inadeguatezza dell’uomo contemporaneo e dei suoi disagi, dell’allarmismo terroristico e tanto altro ancora?
M.P.: Esiste veramente un tal filone? Penso comunque che sia lodevole il tentativo di fare poesia civile, ritengo sia estremamente delicato ed è una vocazione più specifica a quella generalmente poetica che si deve avere. Le mie poesie civili sono poche, ne ricordo una contro il terrorismo, vorrei in questi giorni, dopo una lunga mobilitazione sindacale alla quale ho partecipato, scrivere un testo sul lavoro, i licenziamenti, la disoccupazione.

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Max Ponte

L.S.: Tra i tuoi maggiori interessi figura lo studio dell’avanguardia futurista alla quale hai dedicato una pubblicazione dal titolo “Potere futurista” (2015). Da cosa nasce tale interesse e in che modo si è sviluppato nel tempo?
M.P.: L’interesse per il futurismo fa parte di uno slancio vitale tutto bergsoniano che ho inseguito e ritrovato concretizzato nel movimento marinettiano. Nei futuristi c’è tutto il desiderio, tutto l’ardore e tutta l’ingenuità di chi vuole vivere e trasformare la realtà. Iniziai a studiare i futuristi autonomamente, e dopo la tesi in estetica dedicata a Marinetti e soci, ho proseguito. Del futurismo ho affrontato due aspetti: il rapporto fra l’arte e la politica trattato in Potere Futurista, dalla mia tesi in Estetica; e un argomento più circostanziato come quello performativo e competitivo della poesia futurista.
L.S.: Quali consideri gli esponenti principali della letteratura futurista? Perché?
M.P.: Mah, l’esponente principale della letteratura futurista è senza dubbio Filippo Tommaso Marinetti. Certamente Govoni, Palazzeschi, Soffici, Folgore hanno goduto e godono di grande attenzione. Però tutto va riportato a chi ha definito o meglio proposto una poetica (spesso disattesa), cadendo in disgrazia per il suo stretto rapporto, seppur critico, col fascismo. Il Manifesto del Futurismo redatto da Marinetti e pubblicato il 20 febbraio 1909 su Le Figaro (ma prima su altre testate) è un capolavoro, i manifesti sono testi letterari e poetici in forma programmatica. E il genio di Effetì, come lo chiama Giordano Bruno Guerri, merita molto di più. Oltre ai manifesti ricordiamo i romanzi, la creazione delle tavole parolibere, partiture per gli occhi e per la voce. Si potrebbe iniziare dalle prime poesie simboliste per arrivare fino all’ultima opera, Il quarto d’ora di poesia della X MAS. In questa parabola alcuni vertici come Zang Tumb Tumb per la poesia e Mafarka il Futurista per la narrativa. Quando non ritrovai Marinetti in un’antologia della poesia italiana come il Mengaldo mi inalberai fortemente. Mengaldo incluse in Poeti italiani del Novecento alcuni grandi poeti futuristi ma escluse il loro maestro, colui che aveva creato l’orizzonte indispensabile a quella generazione d’autori. Scelte come questa sono dettate da una matrice ideologica e da una volontà di rimozione. La pubblicazione di un Meridiano su Marinetti da parte della stessa Mondadori diede invece in quegli anni un segnale diverso. 
L.S.: Trovi che vi sia nella poesia e nella letteratura d’oggi qualcosa che sia erede della sensibilità futurista?
M.P. Solo esperienze isolate che non stanno emergendo, dal poetry slam alla poesia elettronica, e non stanno emergendo forse per il troppo provincialismo che c’è in autori, operatori e pubblico.
L.S.: Che cosa ne pensi delle contaminazioni artistiche come ad esempio la body poetry, la visual poetry o la performance poetica? Rappresentano delle forme valide per far cultura e giungere a un pubblico poco incline alle forme tradizionali?
M.P. Forme validissime ma senza un’attività di educazione nelle scuole e sul territorio non andiamo da nessuna parte. Perché il pubblico non coglierà la parte propriamente poetica e ne vedrà solo il mero spettacolo, prendendolo come una sortita ludico-teatrale o peggio da avanspettacolo, magari la performance risulterà gradita ma decontestualizzata dalla sua matrice letteraria.
L.S.: Recentemente hai tenuto un intervento in una conferenza tenutasi a Jesi relativamente al futurismo, dove hai relazionato in merito al fenomeno del poetry slam quale possibile derivato delle rissose serate futuriste. Ti andrebbe di tracciare il collegamento analizzandone i maggiori punti di contatto tra le due realtà performative?
M.P.: Il legame è alla base della mia ricerca e della mia tesi di dottorato. Il poetry slam italiano è approdato ai lidi delle patrie lettere grazie all’onda lunga avanguardista (disegnata da avanguardie storiche e neoavanguardie). Lo confermano le appartenenze di chi lo slam l’ha portato in Italia (Lello Voce proveniente dal Gruppo 93) e altri protagonisti della scena italiana vicini al mondo di Adriano Spatola, Arrigo Lora Totino, Nanni Balestrini. La possibile connessione fra la prima avanguardia e il poetry slam è più forte di quello che si possa pensare perché nel patrimonio marinettiano ci sono anche le gare poetiche, quasi nessuno se lo ricorda ma è così. Il concetto di poesia come sport è tutto marinettiano. Ho provato a parlarne in un saggio dal titolo Poetry Slam and Futurist Poetry Competition in International Yearbook of Futurism Studies 6 (2016).

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Max Ponte durante la conferenza sul futurismo svoltasi a Jesi (AN) il 12-02-2017 assieme al critico d’arte prof. Armando Ginesi, specializzato nelle avanguardie letterarie.

 

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La slide d’apertura dell’intervento di Max Ponte alla conferenza sul futurismo tenutasi a Jesi (AN) il 12-02-2017 organizzata dalla Ass. Euterpe.

 

L.S.: Quale è lo scopo della poesia performativa?
M.P.: Dare o meglio restituire corpo alla poesia, avvicinarla ancor più alla vita da cui proviene.
L.S.: Nel 2013 hai contributo a fondare la Lega Italiana di Poetry Slam (LIPS) divenendo primo segretario e mantenendo tale carica anche nell’anno 2014. Che ricordi hai di quel periodo e in particolare quanto lavoro e collaborazione ci furono tra i vari futuri fondatori prima di giungere alla costituzione di tale ente associativo?
M.P.: La nascita della LIPS fu un evento accompagnato da grande entusiasmo, e l’idea mia e dei fondatori era quella di unire tutte le realtà italiane del poetry slam (tutte le gare e tutte gli organizzatori italiani sparsi per la penisola), cosa che avvenne per la prima volta nel 2013 a Trieste. Fu un progetto ambizioso e un risultato notevole nella grande frammentazione culturale del nostro paese. Dopo pochi mesi mi accorsi che non si poteva andare avanti in quel modo, che i contrasti e le differenze e le beghe e gli interessi di bassa lega mi stavano pesando troppo. Uno scontro nel direttivo della LIPS successivo alla prima finale nazionale fece sì che io ed altri poeti uscissimo dall’associazione. Nacque qualche mese dopo SLAM ITALIA che coordinai con Bruno Rullo per due stagioni fino a lasciare al mio socio le redini. Oggi in Italia esistono due campionati di poetry slam, uno più strutturato sicuramente, quello della LIPS e un altro, un po’ meno incisivo ma attivo, quello di SLAM ITALIA. E son felice di poter aver dato il via ad entrambi. Oggi mi occupo di poetry slam soltanto come studioso come ricercatore come osservatore, dopo tanti slam ho l’urgenza di vivere e proporre altre dimensioni poetiche.
L.S.: Nel 2016, dopo un’esperienza di collaborazione con Bruno Rullo, coordinatore di Slam Italia – Rete Italiana di Poetry Slam, hai ideato “L’Angelico Certame”, una “gara poetica realizzata in tutti i suoi particolari, dal nome al logo ad ogni aspetto del progetto e regolamento” (come si legge sul sito ufficiale: www.angelicocertame.org). Come mai l’esigenza di creare un format che provveda a organizzare poetry slam svincolato dagli enti associativi preesistenti?
logo-angelico-certame2.jpgM.P.: L’Angelico Certame, come potrai leggere dal regolamento, non è un poetry slam. Bisogna forse chiarire di che cosa stiamo parlando. Il poetry slam è una gara di poesia in cui il poeta viene votato da una giuria interamente popolare, sorteggiata o individuata sul momento. Il poeta deve presentare poesie proprie in un tempo massimo di 3 minuti e non può usare oggetti di scena, costumi. Insomma la dimensione è più che altro orale, anche se può avere degli sviluppi performativi, dipende altresì dalla bravura di occupa la scena. Il format del poetry slam inventato dal poeta-operaio Marc Kelly Smith (lanciato nel 1986 negli USA e arrivato in Italia nel 2001) è abbastanza semplice, è la scoperta dell’acqua calda. Semplice sicuramente ed efficace ma con dei limiti espressivi, valutativi e culturali. Per questo dopo un’estate di meditazioni nel settembre del 2016 ho presentato per la prima volta a Torino L’Angelico Certame, un progetto poetico differente, rivolto a chi vuole provare un altro gioco. Si tratta sempre di una gara poetica (esistono dall’antichità per altro) a mio avviso più ricca, più raffinata e certamente più complessa. Il mio obiettivo quello di avanzare una proposta tutta italiana in grado di garantire l’espressività totale del poeta performativo. Chi partecipa all’Angelico Certame deve attraversare tre prove, la prima di improvvisazione su un tema scelto, la seconda orale/performativa, la terza di carattere teatrale o artistico. Inoltre il poeta è valutato da una giuria mista (popolare e tecnica) e ha un tempo di soli due minuti per le prime due prove. Siamo arrivati al sesto Angelico Certame ad oggi e il progetto è in piena espansione.
 

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Max Ponte durante uno dei suoi eventi

 

L.S.: La presenza di una giuria popolare nel poetry slam, vale a dire non caratterizzata da professionisti della letteratura, poeti, critici, studiosi è una delle prerogative fondanti del regolamento ufficiale che tende a sottolineare l’esigenza di una popolarità e democraticità della poesia. Come mai l’idea di inserire ne “L’Angelico Certame” una giuria mista formata – in parti uguali – da membri scelti tra il pubblico e altri da una compagine tecnica?
M.P.: Ti riporto direttamente il regolamento de L’Angelico Certame: «La presenza di una giuria mista nel corso della manifestazione conferisce equilibrio alla competizione rispetto ad una giuria formata di solo pubblico o di soli addetti ai lavori. Tale formazione rispecchia a tutti gli effetti la realtà della poesia contemporanea in cui la “critica” (in senso lato) e i “lettori” sono soggetti determinanti nel futuro di un autore.» Sottolineo poi altre due cose, che i giudici sono 4 (2+2) e che il campionato ha durata biennale, non ha un rush finale ma il poeta vincitore è colui che porta a casa più gare o a parità di gare il punteggio più alto.
 L.S.: Nella terza parte di gara de “L’Angelico Certame” si dà spazio alle contaminazioni artistiche tra poesia-immagine, poesia-musica, poesia-teatro e poesia-danza, rendendo ben più ampie le possibilità esibitive ed espositive del certante (lo slammer). Da quali considerazioni personali è derivata l’esigenza dell’inserimento di questo atto performativo multidisciplinare?
M.P.:  L’Angelico Certame nasce dalla presa di coscienza dei limiti, imposti o auto-imposti, dalle gare poetiche a cui avevo partecipato. I limiti vanno superati col coraggio e questo format è rivolto a coloro che vogliono provare a staccarsi dal suolo della consuetudine. L’angelo/poeta è un messaggero che può andare ovunque ma lo deve fare con efficacia, rapidità e portando la sua novella.
 L.S.: Lello Voce parlando dell’elemento agonistico dello slam ha osservato che è “dal combattimento che può nascere qualcosa di nuovo, dal riconoscimento della nostra differenza affidato alla comunità […] Solo dal dialogo può nascere una lingua che ancora non c’è. […]  I poeti sono – tutti o quasi – ferocemente competitivi”. Che cosa ne pensi? Sei d’accordo con lui? Perché?
M.P.: Sono d’accordo, anche se poi si è soliti ripetere retoricamente che il combattimento non sia altro che un’occasione per diffondere poesia, che il punto è la poesia e altri blabla. Ma è evidente che la “scusa” della diffusione della poesia rientri essa stessa in un procedimento per trovare scuse. I poeti non sono certo dei bénévoles, sono affetti da competizione, narcisismo, individualismo, sindromi che se non volgono al meglio rendono il poeta un pessimo artista e un pessimo essere umano. Da non conoscere personalmente e da non leggere. Perché tout se tient.

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Max Ponte durante un evento de “L’Angelico Certame”

L.S.: Nella tua significativa esperienza di MC puoi sostenere che esistano testi poetici più adatti a un poetry slam rispetto ad altri? Se sì, quali peculiarità li contraddistinguono?
M.P.: Tutti i testi sono potenzialmente adatti dipende da come vengono performati. Per valutare un poeta performativo bisognerebbe avere un documento video. Detto questo, il testo lineare rivela nella maggior parte dei casi la capacità creativa del poeta e in mancanza d’altro ci si affida a quello.
L.S.: Credi che il timore dello uno slammer nell’esibirsi per primo in una competizione dovuto al pensiero di ricevere una votazione tendenzialmente bassa dalla giuria sia concreto? Perché?
M.P.: Penso sia un timore e basta, potrebbe ricevere una votazione anche alta, e comunque le gare di solito non iniziano “a freddo” ma sono aperte da un reading o da un giro in cui si simula una votazione.
L.S.: Il performer sudamericano Rojo Cordova in una dichiarazione ha avuto modo di osservare che “Il poetry slam è l’elemento quintessenziale della letteratura”. Credi che al poetry slam vada riconosciuto un qualche valore letterario?
M.P.: In se stessi i format poetici, più o meno strutturati che siano, il poetry slam, L’Angelico Certame, gli open mic, i reading, e se vogliamo pure i festival, non sono che cornici, forme, la differenza la fanno i poeti singoli. Queste cornici possono avere certamente un valore letterario, e mi auguro che ce l’abbiano, ma tale valore è fluttuante. Le “cornici” sono da assumersi come laboratori, fucine di talenti, come spettacoli in cui avere punti di osservazione privilegiati sulla poesia italiana contemporanea.
 L.S.: Sono vari gli intellettuali che non hanno mancato né si esimono dal mostrare una certa perplessità nei confronti del poetry slam. Tra di loro Jacopo Raimunda ha osservato che “[esso è] meno efficace rispetto alla lettura di un testo, lettura silenziosa o ad alta voce, ma comunque in solitudine, con più attenzione e con meno filtri. Secondo me la parola scritta è più precisa, più puntuale della parola letta e la precisione è uno degli ingredienti fondamentali della potenza”. Che cosa risponderesti a una simile osservazione?
M.P.: La poesia nasce come poesia orale non come poesia scritta, si potrebbe ribaltare tutto dicendo altresì che la poesia scritta non abbia la stessa capacità espressiva di quella orale. Si tratta di due modi diversi di poetare, che possono comunicare fra di loro, non dobbiamo cercare contrasti inutili. Oggi ci sono poeti che vivono entrambe le dimensioni e i filoni di ricerca, il contrasto è il residuo di un’eterna querelle fra partigiani dello sperimentalismo e partigiani della tradizione, ma oggi sinceramente possiamo occuparci d’altro.
 L.S.: Che cosa ne pensi degli slam in cui gli organizzatori provvedo a una pre-selezione dei poeti che attueranno quali slammers?
M.P.: Mi pare sia opportuno fare così in tutti gli eventi poetici.
 L.S.: A un poeta che non ha mai tentato la strada del poetry slam gliela consiglieresti? Adducendo quali ragioni?
M.P.: Consiglio a tutti i poeti di lavorare sulla parola, mettersi in gioco e partecipare agli slam e soprattutto a L’Angelico Certame.
L.S.: Quali pensi che siano o possano essere le derive poco felici di un cattivo svolgimento del poetry slam o di una malsana accettazione di sé in quanto slammer nel caso di una mancata affermazione?
M.P.: Derive sono presenti e attengono a quelle deficienze comportamentali e umane delle quali parlavamo prima. Deriva sommamente infelice è a mio avviso che il mondo poetico, già marginale in se stesso, diventi autoreferenziale perdendo la capacità di sedurre.
L.S.: Credi che l’indifferenza di alcuni intellettuali verso questa tendenza performativa che è lo slam sia una sciatta miopia o che abbia, invece, più i connotati di una mancanza di giudizio critico verso un fenomeno sociale agglutinante che ha diritto di essere tenuto in considerazione e studiato?
M.P.: Un intellettuale o un letterato o un ricercatore di comprovata onestà non possono e non devono trascurare i fenomeni odierni di poesia performativa. Chi li trascura coltiva solo il proprio orticello. Mi pare che sia una tendenza tutta appartenente alla nuova e supponente ignoranza quella di procedere senza una visione d’insieme, come particelle sparate nella società, sempre più povere sempre più deboli.
Grazie per il tempo che hai dedicato a rispondere alle domande.
Lorenzo Spurio
07-01-2018
La riproduzione di questa intervista, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

Intervista alla scrittrice ed editrice Rita Angelelli. A cura di Lorenzo Spurio

12961692_10204882259136370_3786960462861747023_nQuest’oggi abbiamo l’occasione di conoscere più da vicino Rita Angelelli, autrice e poetessa che tanto si sta impegnando per la promozione culturale credendo in autori esordienti e riconoscendo talenti a livello nazionale. Rita Angelelli è nata cinquantatré anni fa a Santa Maria Nuova (AN) dove attualmente vive. Ricamatrice di professione, creativa per passione e produce bigiotteria di alta classe per sé e per gli amici, nel 2017 ha fondato la casa editrice Le Mezzelane. Autrice di racconti e romanzi erotici (tra cui la trilogia Le nuove confessioni di Eva) e di sillogi poetiche (Ceramiche a capodanno del 2017 e Un’altra vita di prossima uscita), dopo la guarigione da una subdola malattia pubblica Salve amici della notte, sono Porzia Romano, un crudo resoconto di vita vissuta di cui è stata protagonista. Direttrice editoriale de Le Mezzelane, lettrice, relatrice in presentazioni di libri ed eventi, MC, performer.

  

L.S.: Che cosa rappresenta per te la letteratura?

R.A.: E’ la mia vita: è un mondo che mi affascina e nel quale mi sento realizzata, dove ho l’opportunità di conoscere gente e di entrare in contatto con realtà diverse. Questo, su un piano meramente personale, mentre a un livello superiore potrei dire che la letteratura è senz’altro un sapere che ha a che vedere con l’istruzione, con la fame di conoscenza. Essa ti permette di scoprire tante cose e anche di capire meglio te stesso.

L.S.: Quali generi preferisci?

R.A.: In particolar modo amo il genere rosa (ho letto moltissimi Harmony!), o romance come lo chiamano adesso, il thriller sino ad arrivare al giallo-crime e al noir. Negli ultimi tempi ho iniziato ad apprezzare anche il fantasy.

L.S.: Cos’è che ti piace di più del genere rosa e degli altri generi?

R.A.: La possibilità di scoprire personaggi realistici che hanno al contempo qualcosa di ‘fantastico’. Chiaramente molto affascinanti sono le ambientazioni da sogno e la capacità della narrazione di farti sognare e trasportare su ‘universi paralleli’. In particolare apprezzo molto le narrazioni di Daniel Steel e di Liala (pseudonimo di Amalia Liana Negretti Odescalchi, nota autrice di romanzi d’appendice). Mentre per quanto riguarda il thriller/giallo crime/noir mi piacciono quei passaggi dal ritmo elevato e i colpi di scena.

L.S.: Quali sono secondo te le principali difficoltà che incontra uno scrittore nella stesura di un romanzo?

R.A.: Secondo me la questione linguistica è importantissima. Anche io, che provenivo da tutt’altro mondo rispetto al sapere umanistico, ho dovuto fare un’attenta operazione di studio della grammatica, della sintassi e delle forme. Tale amore verso la letteratura mi ha portato recentemente a iscrivermi a un corso di letteratura antica che inizierò nei prossimi mesi. Particolare attenzione va riversata anche sulle ambientazioni: è sempre preferibile raccontare di episodi localizzabili in ambienti, contesti geografici, che, per qualche ragione, l’autore ha sperimentato direttamente perché li ha vissuti. L’utilizzo del flashback è una risorsa importantissima perché consente di portare a galla i flussi di coscienza dei personaggi e dunque di fornirne una tracciatura completa dei caratteri.

L.S.: Puoi parlarci del tuo progetto narrativo Le nuove confessioni di Eva?

R.A.: Le nuove confessioni di Eva è una trilogia di cui è stata pubblicata per il momento solo la prima parte. Essa è nata in maniera anomala nel senso che inizialmente avevo scritto un racconto breve, dotato di un suo finale e poi mi è stato proposto di ampliare l’intera storia e così, partendo proprio dalla chiusa, ho rielaborato il tutto con maggiori particolari e una più attenta tracciatura del personaggio di Eva e del suo vissuto. Pur essendo consapevole che i generi di racconto e romanzo sono differenti e distanziati tra loro, in tale circostanza la forma breve mi è servita come base, come abbozzo, per lo sviluppo nei dettagli e nella trama, di una narrazione più arzigogolata.

L.S.: Come definiresti la poesia?

R.A.: La poesia nasce in un momento d’intimità con sé stessi. Si tratta di un’esigenza di affrontare argomenti e renderli pubblici e dunque fruibili. E’ difficile definire la poesia in maniera univoca; io nel tempo ho scritto vari tipi di poesia, da quella amorosa, a quella più “pesantina” che ha a che fare con tematiche biografiche quali la malattia e la morte. Essa ha sempre la caratteristica di essere una scrittura istintiva, non mediata da un’analisi o da una ricerca come ad esempio può avvenire con la narrativa.

L.S.: Scrivi al pc o a mano?

R.A.: In entrambi i modi, indifferentemente. A seconda delle situazioni e della disponibilità.

L.S.: A quali poeti – italiani o stranieri – ti senti maggiormente legata?

R.A.: Mi piace molto la poesia realistica e concreta di Ezra Pound. Ho letto più volte Neruda. Per quanto concerne la poesia italiana, non farei nomi in particolare. Per il lavoro che conduco mi trovo spesso a leggere la poesia di autori giovani ed esordienti. Posso citare alcuni poeti che secondo me si mostrano – ciascuno a suo modo – veramente validi: l’aretino Davide Rocco Colacrai, il sardo Alessandro Madeddu, la padovana Michela Zanarella. Tra le voci di maggior spessore, consacrate alla letteratura del nostro secolo, senz’altro Dante Maffia.

L.S.: Per quale motivo una persona è portata a scrivere oggi?

R.A.: Mi trovo a individuare tre fasce di persone che scrivono. Chi lo fa per mera passione, e il più delle volte nemmeno pubblica niente, tenendo i propri scritti nel cassetto. C’è poi chi lo fa perché ha una reale esigenza di farlo (scrittura come terapia) ed ha dunque la necessità di condividere con un pubblico ciò che scrive. Raramente queste persone diventano famose come scrittori o poeti. C’è infine (pochissimi) chi è uno scrittore di professione, riconosciuto. Vale a dire che vive dell’attività della sua scrittura.

L.S.: Puoi parlarci del tuo nuovo libro di poesie, Un’altra vita?

R.A.: Si tratta di una raccolta di liriche scritte in un ampio arco temporale. Alcune contraddistinte da temi amari quali la malattia, la solitudine e la morte ed altre, più recenti, che parlano di gioia e soddisfazione e che aprono dunque a “un’altra vita”. Si tratta di poesie molto personali che toccano la mia interiorità, gli affetti e la famiglia, molte di esse sono poste nella forma della riflessione.

Un_altra_vita.jpgL.S.: Quali progetti personali ti vedono coinvolta in questo periodo?

R.A.: Il romanzo Solo sabbia tra le mani uscirà rivisto a breve con il titolo di Lucrezia. Si tratta di un romanzo ambientato tra Porto Recanati e Ancona che parte come erotico per diventare giallo e sfociare alla fine come un vero noir. Sono particolarmente legata al romanzo anche per il sistema di narratori che ho previsto: nella prima parte si narra in terza persona singolare, dunque da un punto di vista extra-diegetico, nella seconda parte si fa uso della prima persona singolare, dunque è una narrazione intimistica e diaristica, in presa diretta. Infine la terza parte è sempre scritta in prima persona ma ho adoperato una sorta di distaccamento dall’io narrante, come una proiezione distaccata ed esterna. Tra gli altri progetti dovrò lavorare a una riscrittura di Istinto e passione, il mio primo romanzo pubblicato nel 2012. Mi è anche stato chiesto di scrivere i testi per una serie tv, ma per quello ci sarà tempo da attendere. Qualcosa di bello ma al contempo impegnativo: vedremo come si metteranno le cose!

L.S.: Quali sono le tue considerazioni in merito allo sterminato scenario dei concorsi letterari in Italia?

R.A.: In Italia ci sono tantissimi concorsi, ma quasi nessuno dà veramente la fama e consente di essere conosciuti, apprezzati e diffusi. Tranne quei pochi concorsi risonanti, il cui numero si conta sul palmo della mano, devo riconoscere che la gran parte sono poco utili, spesso mal organizzati e privi di un reale intendimento nella questione sociale o, peggio ancora, macchine per far cassa. La mia esperienza con i concorsi mi porta a citare il premio di poesia e narrativa breve “La pelle non dimentica” da me ideato nel 2017 con lo scopo di dare la possibilità di sensibilizzare sui temi del femminicidio e della violenza di genere e di sostenere finanziariamente l’Ass. Artemisia di Firenze che si occupa di violenza sulla donna, sui bambini e di case famiglia. I concorsi dovrebbero essere motivati, al di là dell’effimero premio, da un sostegno verso realtà di disagio.

L.S.: Sei stata, assieme al sottoscritto, organizzatrice e MC di poetry slam. Che cosa ne pensi di questa formula di proporre la poesia?

R.A.: Si tratta di un bell’universo perché il pubblico è parte attiva della manifestazione. Il poeta si impegna e ci mette tutto se stesso per interpretare e dar forma ai suoi testi. È uno spettacolo vero e proprio che è anche bello condurre. Mi piace perché partecipano molti giovani e perché l’età anagrafica dei partecipanti è completamente ininfluente nei metri di giudizio della giuria pubblica.

L.S.: Perché hai deciso di aprire Le Mezzelane Casa Editrice?

R.A.: Ho sempre amato i libri e leggerli ma la decisione di aprire la casa editrice è nata più come sfida o ribellione nei confronti di (sedicenti) editori che in precedenti occasioni avevano interagito con me e le mie opere in maniera poco scrupolosa e professionale. Ho svolto per un paio di anni l’attività di talent scout e credo di essere abile nell’intuire se un autore valga. Il progetto è nato e si è sviluppato nell’arco di circa sei mesi e da allora (un anno e mezzo di attività) siamo orgogliosi nel riconoscere di aver 74 libri pubblicati e altrettanti – in forma di proposte – che verranno pubblicati nel corso del 2018. Abbiamo varie collane che si occupano di tutti i generi e al momento quelle maggiormente rappresentate sono “Ballate” per la poesia, “La mia strada” per la narrativa e “Tra serio e faceto” per l’umoristica. Abbiamo iniziato con un organico ridottissimo e ora siamo in quindici: la proprietaria, Camilla Capomasi, io che sono il direttore editoriale, la capo-editor Maria Grazia Beltrami che coordina undici editor e la grafica Gaia Conventi. Oltre al nostro sito – che ben presto verrà implementato anche con servizi aggiuntivi – i nostri libri sono acquistabili in tutte le librerie online e ordinabili nelle librerie fisiche. Il nostro distributore LibroCo, copre l’intero territorio nazionale in maniera efficiente e tracciata.

 

Jesi, 28-12-2017

 

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Lorenzo Spurio intervista la poetessa albanese Irma Kurti

Intervista a Irma Kurti

A cura di Lorenzo Spurio 

L.S.: In quale città/zona dell’Albania sei nata e vissuta? Puoi raccontarci qualche episodio della tua infanzia?

I.K.:  Sono nata a Tirana ma ho passato l’infanzia a Elbasan, una città situata nella zona centrale del paese. I ricordi dell’infanzia, anche se priva di tanti giochi e gioie, sono sempre coperti da un velo di nostalgia. Ricordo gli attimi in cui salivo sul palcoscenico a cantare, le domeniche quando le donne pulivano il cortile e la polvere copriva tutto, anche i nostri pensieri, le passeggiate nella via principale costeggiata dagli alberi vicino ai marciapiedi. Provo ancora una specie di ansia quando mi vengono in mente le corse che facevamo per rifugiarci nel tunnel sotterraneo davanti al palazzo per proteggerci “dall’attacco nemico”. Erano simulazioni che venivano fatte per simulare un’eventuale invasione: momenti difficili che incutevano angoscia e paura. Sentivamo la sirena dell’allarme a qualsiasi ora della notte. Ci alzavamo di fretta, i nostri genitori ci preparavano, ci vestivano come delle bambole. Eravamo addormentati e terrorizzati, ma non c’era tempo di fare domande perché dovevamo scendere velocemente. Il volume della sirena era forte ed era minacciosa, come se appartenesse a un’altra epoca. Sento ancora oggi il velocizzarsi dei battiti cardiaci di quella bambina spaventata che ero, che fissava con occhi spalancati scene reali e irreali al tempo stesso, che la circondavano.

L.S.: Che ricordo hai del tuo paese?

I.K.: Ricordi vividi e altri sfocati. Non dimentico ore e giorni interi passati al buio per la mancanza dell’energia elettrica. Il festeggiamento del Capodanno al freddo, sotto la tenue luce della candela, il terrore di vedere per strada persone armate con kalashnikov che sparavano all’impazzata, le notti passate in bianco a causa dagli spari che mi uccidevano la serenità, la preoccupazione e la tristezza negli occhi dei miei genitori mentre invecchiavo anch’io con loro.

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Irma Kurti

L.S.: Come era la vita durante la dittatura comunista di Hoxha?

I.K.: Una vita non vissuta direttamente, in prima linea, ma dettata dagli altri che ti infondevano perfino i pensieri. Eravamo soltanto degli automi in un sistema che ci aveva rubato l’anima. Giorni colmi di demagogia. L’arte e la letteratura erano completamente politicizzate. Nei festival, per esempio, c’era l’obbligo di presentare canzoni dedicate al partito del lavoro e al suo leader. Ciò succedeva anche con le opere poetiche. Qualche anno fa ho trovato un block notes con delle poesie scritte per un pubblico infantile durante gli anni 1986-1990. In un verso c’era scritto: “Quando ci chiama la patria/siamo tutti i suoi soldati”. E in un altro: “Ogni giorno cresciamo felici/sotto il sole del Partito”.

L.S.: Quali restrizioni e negazioni hai sofferto principalmente?

I.K.: Ho fatto la scuola media superiore a Tirana perché nella città natale non c’era la scuola delle lingue straniere. Il primo anno ho vissuto al convitto, ma ho dovuto abbandonarlo perché le condizioni sanitarie erano scarse: non c’era acqua calda e la qualità del cibo era scadente. Mi ha ospitato mio zio. Dormivo poco, mi svegliavo alle tre o alle quattro di notte dalle voci della gente in coda per comprare latte, uova e yoghurt. A volte chiacchieravano semplicemente, altre discutevano a chi toccava per primo il turno. Quelle voci le sento ancora. Nella camera dove studiavo e mi svegliavo senza più riuscire a dormire, si è plasmato il mio carattere. Da ragazza vivace, alla quale piaceva scherzare, imitare amici o insegnanti davanti alla classe, che prendeva l’iniziativa, recitava e cantava sul palcoscenico, sono diventata timida, riservata e malinconica.

L.S.: Quando e perché sei giunta in Italia?

I.K.: Sono arrivata in Italia nel 2006. La procedura per ricevere il permesso di soggiorno sarebbe terminata l’anno dopo. In quel periodo a mia madre, che nel frattempo soggiornava a Bergamo, venne diagnosticata una malattia grave e così decisi di raggiungerla per starle vicino.

L.S.: Quali sono le immagini che più ti legano al tuo paese natale?

I.K.: L’immagine più cara è il nostro piccolo appartamento a Tirana. Lì respirano i ricordi e i sogni di quando eravamo una famiglia. Non c’erano luce, acqua, riscaldamento, ma avevamo l’uno e l’altra e quel grande affetto che ci aiutava a sopravvivere nelle situazioni difficili. Penso a quell’appartamento come a un essere umano. Quando piove, nevica o in un giorno normale il mio pensiero corre lì: “Si bagneranno i vetri, il balcone cadrà a pezzi dalla nostra mancanza?”. 

al-areaL.S.: Quali spazi (mare, collina, etc.) hanno contraddistinto la tua infanzia/adolescenza e quale ricordo hai di essi?

I.K.:  Un palazzo a forma di L mi suscita sempre una nostalgia indescrivibile.  Lì, nell’angolo, dove si incontravano le due ali della L, si trovava il mio appartamento. Dietro l’edificio si estendeva un parco immenso dove giocavamo o passeggiavo con i miei. A volte provo il desiderio irrefrenabile di andare e bussare in tutte le porte dei vicini, ma temo l’assenza di quelli che non troverò: persone care che non potrò mai più riabbracciare, perché se ne sono andate per sempre. Non avevo giocattoli, non avevo una camera tutta mia, non avevamo televisore e quando l’abbiamo comprato guardavamo un solo canale; abbiamo vissuto con poche cose, con tante carenze, ma tenevamo le porte spalancate nel vero senso della parola. Entravamo senza bussare a casa dei vicini. Quella sensazione di farne parte di una grande famiglia non l’ho più provata e credo che non la proverò mai più nella vita.

L.S.: Torneresti a vivere in Albania?

I.K.: No.  Solo le situazioni della vita dovessero riportarmi lì per qualche ragione.

L.S.: L’Albania di oggi è un paese vivibile? Che futuro intravedi?

I.K.: Conosco emigrati che sono tornati o che vogliono tornare al loro paese d’origine. Conosco italiani che amano l’Albania e hanno programmato di andare a vivere lì. Tante cose sono cambiate, ma altre sono ferme o si trascinano com’erano. Anche se sono passati ventisette anni dall’apertura delle frontiere, l’economia non si è sviluppata granché, c’è tanta povertà e il sogno di tante persone resta ancora quello di emigrare. Intravedo un’Albania invasa dai turisti, a ragione delle sue bellezze naturali e genuine ma anche per l’ospitalità e la cordialità della gente.

L.S.: Cosa c’è, nell’anima del popolo albanese, nel suo modo di fare, nel suo atteggiamento che ti manca e che non c’è nel popolo italiano?

I.K.: In Albania non esistono gli orari e, di conseguenza, neanche l’ansia perché si è in ritardo. La gente sta seduta per ore davanti a una tazza di caffè, il tempo non ha il valore che gli diamo in Italia e i giorni non sono così frenetici.

L.S.: Quando scrivesti la prima poesia e perché? Ricordi di quale testo si tratta?

I.K.: Avevo dieci anni quando scrissi la prima poesia. Quel giorno semplicemente “mi sono espressa” diversamente. La poesia era dentro di me. Mio papà faceva il medico ma era un amante della letteratura ed è stato lui a svegliare e coltivare in me la passione per la scrittura. Si trattava di una poesia dedicata ai bambini felici, come noi pensavamo di essere.

Gj. Senza patriaL.S.: Quando iniziasti a scrivere poesie e poi a pubblicarle, nel tuo paese natale, come vennero accolte?

I.K.: Le prime poesie vennero pubblicate sulla rivista “Pionieri” e ciò era già considerato un successo. Negli anni dell’adolescenza e dell’università iniziai a scrivere i testi musicali che vennero poi accolti molto bene: premiati dalla critica, ma soprattutto dalle persone semplici che tuttora conoscono a memoria tutti i miei versi, forse anche meglio di me.

L.S.: Quali sono i poeti della tradizione classica che preferisci? Perché?

I.K.: Sono cresciuta con i poeti russi: Aleksander Puskin, Sergej Esenin, Vladimir Majakovskij e altri come Adam Mickiewicz, Heinrich Heine, Mihai Eminiescu. Li ho adorati. Anche adesso mi vengono in mente i loro componimenti. I poeti letti durante l’adolescenza non si dimenticano mai perché sono legati a quel periodo in cui la vita ti sembra magica e piena di infinite possibilità. Ammiro anche le poesie di Pablo Neruda, Nazim Hikmet, Raymond Carver e Herman Hesse perché rispecchiamo il mio stato d’animo e quella malinconia che m’insegue.

L.S.: Come consideri lo stato della letteratura e della poesia albanese contemporanea? Vi sono intellettuali di spicco? Parlaci di alcuni poeti e scrittori del tuo paese che hai letto e/o conosciuto.

I.K.: La letteratura di oggi è un vero caos. Ci sono migliaia di persone che scrivono, non esiste la critica professionale e tutti si credono scrittori e poeti; questa forma è divenuta una specie di nebbia che spesso copre il valore delle opere qualitative. Le opere di Ismail Kadare, Dritero Agolli, Fatos Arapi, Fatos Kongoli sono tradotte anche in altre lingue e rimangono all’apice della classifica.

L.S.: Sei in contatto, qui in Italia, con poeti albanesi che continuano a vivere lì?

I.K.: No. Ci sono dei poeti che conosco di nome che mi contattano per avere più che altro informazioni riguardo la pubblicazione di un loro libro in italiano, ma … niente di più.

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Irma Kurti

L.S.: Alcuni poeti stranieri che sono emigrati in Italia hanno deciso di continuare a esprimersi solo nella propria lingua d’origine e scrivono e pubblicano nel loro idioma, non sentendo necessità di essere tradotti in italiano. Che cosa ne pensi di questa cosa?

I.K.: Scrivono solo in madrelingua perché si sentono più sicuri. Ma spesso non hanno altra scelta: non è facile tradurre le proprie opere in italiano o trovare qualcuno che lo può fare per te; tutto ciò ha un costo.

L.S.: Per quali ragioni, invece, tu hai deciso di pubblicare anche in italiano?

I.K.: Scrivere solo in madrelingua per me era un’esistenza a metà. Non mi sentivo integra. Avevo una marea di sensazioni e di sentimenti da condividere con la gente del paese che mi ha ospitato.

L.S.: Nel caso delle poesie che compongono l’ultimo libro “Senza patria” (Kimerik, 2016) queste sono nate direttamente in italiano o prima in albanese e le hai tradotte?

I.K.: Le bozze delle poesie nascono sempre in lingua albanese. Più volte mi capita di pubblicare per primo il libro in italiano. È successo così anche con la raccolta di poesie Senza patria. Ho tradotto le bozze preliminari in italiano e poi ho iniziato a elaborare le poesie. Il libro in albanese è stato pubblicato nel corso di quest’anno. Ho dovuto tradurlo dall’italiano perché le poesie erano ormai realizzate. Un po’ complicato, no?

L.S.: Ti avvali di traduttori professionisti oppure preferisci, pur con qualche aiuto e supporto, dedicarti tu alla traduzione delle tue poesie?

I.K.: Non ho trovato nessuno che mi potesse aiutare con la traduzione del primo libro, Tra le due rive. Sono stata obbligata a farlo da sola. Continuo a tradurre le mie opere; ora ho più dimestichezza con la lingua e non mi sembra così difficile come nei primi anni.

L.S.: Che cosa rappresenta per te la poesia?

I.K.: Voglio citare il poeta e il filosofo libanese Khalil Gibran: “La poesia è il salvagente/cui mi aggrappo/ quando tutto sembra svanire”. Ed è così anche per me.

L.S.: Quando, invece, ricorri alla narrativa?

I.K.: La narrativa è un’esigenza che sorge quando la poesia non basta.

 L.S.: Se dovessi descrivere l’Albania con tre parole quali useresti?

I.K.: L’Albania è ostaggio dei politici senza scrupoli e di un popolo inerme che guarda come spettatore lo spettacolo vergognoso di interessi e avidità che si ripete continuamente.

L.S.: E l’Italia, invece?

I.K.: L’Italia, paese di rara bellezza, ha bisogno di una classe politica onesta e di persone che lo amino di più.  

 

Bergamo, 3 Settembre 2017

 

Questa intervista è stata precedentemente pubblicata sulla rivista di letteratura “Euterpe”, n° 25, Novembre 2017.

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.

 

A QUESTO LINK E’ POSSIBILE LEGGERE IL MIO SAGGIO SULLA POETICA DI IRMA KURTI DAL TITOLO “QUANDO SI SPEGNE UNA STORIA: LA POETICA DI IRMA KURTI” PUBBLICATO IL 02-01-2018 SUL PROFILO PERSONALE DI ACADEMIA.EDU, DISPONIBILE CLICCANDO QUI. 

Intervista allo scultore ligneo jesino Leonardo Longhi

A cura di Lorenzo Spurio

Entrando dalla storica Porta Valle a Jesi e approssimandosi a risalire per le stradine che salgono al centro storico è doveroso il passaggio in Via Lucagnolo; al civico numero uno si trova la bottega-laboratorio dell’artista Leonardo Longhi, scultore sopraffino del legno di ulivo. Nella mia recente visita nella bottega occupata in maniera fitta e precisa delle sue preziose produzioni, ho deciso di rivolgergli qualche domanda per approfondire la conoscenza su questa scultura molto particolare che riguarda il legno, il suo rapporto con l’arte nonché le immagini maggiormente riprodotte nelle sue opere. Ma prima vediamo chi è lo scultore.

Leonardo Longhi è nato a Jesi (AN) nel 1973. Scultore, scrittore, poeta e libero pensatore pervaso dal pensiero unico del benessere collettivo e dall’amore olistico e funzionale in una società bistrattata e disattenta come la nostra. Dice di se stesso: “il cuore mi fa da piedistallo e la poesia da ponte per attraversare il fiume della semplicità”. Le sue opere sono state esposte in alcune mostre tra cui una tenutasi presso i Navigli di Milano, un’altra a Imstad (Germania) senza contare i tanti incontri e appuntamenti che hanno toccato tante città delle Marche, da Jesi a Recanati, da Macerata a Pesaro, da San Benedetto del Tronto a Chiaravalle e altre ancora. Articoli su di lui sono apparsi sul “Corriere Adriatico” e il locale “Jesi e la Sua Valle”. Nel 2016 lo scrittore Stefano Vignaroli ha proposto un progetto editoriale sulla sua attività scultorea da cui è nato un libro nel quale una serie di autori locali erano chiamati a creare racconti di propria invenzione a partire da alcune opere scelte del repertorio di Leonardo Longhi: Dalle immagini alle parole. Alcuni testi poetici di Leonardo Longhi sono inseriti nell’antologia curata dalla Ass. Euterpe di Jesi intitolata L’amore al tempo dell’integrazione (2016). L’artista Victoria Dragone lo ha inserito, assieme ad altri artisti, nella catalogo di arte contemporanea L’anima del dipinto 3 edito nel 2017.

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L.S.: Quando è nata la prima scultura in legno da te incisa?
L.L.: Ero più giovane. Con molta probabilità doveva essere il 1982. Il primo pezzo di legno che lavorai fu un pesce. Il pezzo alludeva già di per sé a quella forma ma io presi a lavorarlo, per rifinirlo e renderlo ancor meglio visibile e comprensibile. Si trattò di un lavoro artigianale fatto, così, senza ancora una vera conoscenza delle tecniche che, però, ricordo ancora con piacere. Scoprii, già dalla prima volta che mi apprestavo a lavorare il legno, che la mia volontà era quella di rispettare la materia, seguendo le linee a volte sinuose altre volte più irregolari caratteristiche di quel legno. Quando lavoro sul legno seguo le venature che il legno ha impresse, perché è come se ascoltassi l’anima di quel legno. È necessario rispettarla e ascoltarla. Con la mia attività non posso andare contro quelle venature e, anzi, nel tempo ho anche imparato a meglio valorizzarle nell’opera compiuta. Quest’arte, se così vogliamo definirla, è volta dalla necessità di ascoltare empaticamente il materiale sul quale sto lavorando, percependo l’anima interna dell’ulivo.

L.S.: Quali sono le principali caratteristiche del legno d’ulivo che hai imparato a conoscere nel tuo percorso?
L.L.: Il legno d’ulivo (di ulivo esistono molte razze, dall’ulivo marchigiano dalla conformazione molto ramificata, l’ulivo pugliese dalla struttura massiccia, l’ulivo greco, etc.) si caratterizza per essere un legno duro particolarmente difficile da lavorare perché si scalfisce facilmente e questo, nelle attività di scalpellatura, può significare una vera e propria problematica. Altri tipi di legno – che pure ho lavorato – appaiono molto diversi e più semplici da trattare: parlo di legni chiari come il tiglio (che è molto ben malleabile), del pioppo e del cirmolo nonché dei legni più scuri quali il noce, la quercia e l’abete. Ciascuno ha una sua anima ma quello che preferisco in assoluto è il legno d’ulivo proprio per la questione delle venature di cui parlavo poco fa.

L.S.: Come viene deciso il soggetto delle tue opere? Come prende forma l’idea che nella tua mente si produce?
L.L.: Singolare è il mio rapporto con il parto creativo. Quando inizio prendendo un pezzo di legno, posso anche avere un’idea di ciò che mi piacerebbe rappresentare ma poi, in base alle venature e da come il legno si mostra nelle sue peculiarità, quel progetto iniziale può anche essere abbandonato a favore dell’essenza stessa del legno. Seguo i suoi lineamenti, le linee sinuose o circonflesse che in esso sono impresse e mi lascio trasportare dall’esigenza di ascoltare la materia per com’è. La venatura non va spezzata perché la materia non va oltraggiata e l’anima non va offesa. S’instaura, infatti, tra me e il materiale un rapporto quasi simbiotico nel quale entrambi necessitano e reclamano libertà e giustizia.

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L.S.: Quali sono, in termini pratici, le fasi che contraddistinguono questo meticoloso lavoro di scavare il legno con lo scopo di dargli una forma distinguibile?
L.L.: Il grande dell’operazione che compio è dato dall’uso dello scalpello. Si parte con uno scalpello grande per passare via via, in maniera consecutiva, a scalpelli di dimensioni sempre più ridotti che possono provvedere all’elaborazione di tagli più precisi e ponderati. Si compiono poi le rifiniture – sempre molto importanti – per mezzo di un frullino pulitore. La lucidatura viene prevista mediante l’utilizzo di una gommalacca; talvolta reputo interessante dar una tinta distinta ad alcuni elementi della scultura e allora posso anche impiegare delle tinture per legno come ad esempio il rosso mogano.

L.S.: Ci avviciniamo ora a un’opera in particolare, quella che hai intitolato appropriatamente “Sognando la libertà”. Si tratta di una delle opere all’interno di questa bottega che hanno la dimensione maggiore e si snoda in una forma sinuosa che si estende all’esterno con alcune propaggini curiose che risultano difficilmente comprensibili a una prima vista. Puoi approfondire il significato di quest’opera?
L.L.: Si tratta di un’opera fatta nel 2015 in circa un mese e mezzo di tempo. È stata scavata a partire da un pezzo di legno che trovai abbandonato in una campagna di Tabano e il proprietario acconsentì a donarmela. Il significato ha a che vedere con la libertà agognata dalle genti e che non riescono a raggiungere. È anche un’opera che ho pensato come anelito di persone emarginate quali gli extracomunitari o altre persone che vivono in condizioni di sottomissione e di mancato ascolto. C’è alla base una mano aperta intagliata che è sormontata da una lunga e articolata proiezione mentale di foggia astratta. Secondo me quest’opera contiene e trasmette un messaggio non diverso da una preghiera.

L.S.: Qual è il tuo rapporto con la costruzione della forma?
L.L.: La gran parte delle opere possono essere definite figurative, vale a dire è possibile percepire, senza tante difficoltà o abbagli, quelli che sono i contorni che ci delineano oggetti di nostra conoscenza. Ci sono poi anche opere più astratte la cui fisionomia sfugge e che andrebbero interpretate personalmente. Quasi sempre, però, il figurativo e l’astratto confluiscono in una stessa opera.

IMG_20171107_172746.jpgL.S.: Restando nella componente figurativa delle opere quali sono i soggetti principali?
L.L.: C’è il mondo degli animali (cavalli, ali di imprecisati animali, lupi), ci sono volti e busti (soprattutto di figure femminili), forme di imprecisate persone come quella dell’opera intitolata “Re bizantino” in cui una donna in miniatura è ritratta al di sotto di questo sovrano orientale e sembra trattenerlo, forse per difenderlo o semplicemente perché fortemente innamorata di lui.

L.S.: Il busto di un personaggio costernato ricorda l’iconografia di San Sebastiano Martire. Come mai questa rappresentazione?
L.L.: Devo dire che si assomiglia molto a San Sebastiano, ma io non avevo questa idea di rappresentazione. Il titolo dell’opera è “Libero di buttarsi”. Ci sono anche altre opere che a ben guardare e a detta di molti hanno un rimando o rappresentano una chiara immagine di personaggi cristologici (Cristo, la Madonna, etc.) in realtà non era mia intenzione creare personaggi religiosi. Si tratta di opere che possono anche essere lette e interpretate in questa maniera, ma è una lettura indiretta e personale.

* * *

Sono stato ancora a parlare con Leonardo delle sue sculture e la conversazione è stata particolarmente piacevole. Leonardo mi ha spiegato che le sue sculture sono mosse sempre da una profonda spiritualità interiore, che non ha da essere confusa con la religiosità di cui, invece, si dice estraneo. Opere che riflettono sulla società e le difficoltà sulle quali sono imperniate (“L’urlo della madre terra” è esemplificativo di questo sfogo dinanzi a una contemporaneità desolante) ma anche fautrici di una dimensione spersonalizzata e alienante come lo sono gli orologi fusi e dalla conformazione a fiamma pendente che fanno ricordare l’inesattezza temporale e l’incongruità del reale espressa dal surrealista Dalì coi suoi orologi che praticamente si liquefanno.
Leonardo è proiettato a un’arte che sappia parlare a chi se ne appropria e sa contemplare l’esterno con criticità; la sua opera è tesa a raggiungere quel traguardo comune che dovrebbe essere il completamento dell’amore, l’ottenimento di un’autostima considerevole, da giungere a vivere il mondo non come contesto che accoglie le nostre azioni ma come anima pulsante della nostra stessa esistenza. Così – mi spiega – l’opera del pugno chiuso che si staglia dal basso verso l’alto non ha per niente a che fare con la forza, con un’energia distruttiva e pericolosa, ma è forma di presa di posizione, di scelta legittima ad esserci, un pugno saldo che racchiude con orgoglio una salda certezza individuale.
IMG_20171107_181725.jpgCome gli orologi che si squagliano nella bottega ci sono anche altre opere curiose come è il caso di quella intitolata “Noi stessi” che Leonardo mi consiglia su come è possibile vederla e concepirla. Opera unica che racchiude una triade di dimensioni: donna, uomo e bambino. Della donna il seno prominente, accentuato (un unico seno), dell’uomo, il muscolo ben tirato del petto, del bambino lo sguardo pacioso e ridanciano, quasi. Opera anfibia e in sé assai compatta che consacra l’esistenza dell’uomo nelle sue varie forme: dalla genitrice, al pater familias, all’infante. Ciclo di vita e rinascita che Leonardo Longhi sintetizza in un’opera di indubbia presa ed efficacia. Leonardo si dice d’accordo con me quando gli parlo di “sentimento di universalità” provato dinanzi a un’opera così complessa e onnicomprensiva nella quale il contenuto si fa contenitore e l’immagine dell’uno diventa contesto e proiezione dell’altro.
Anche gli animali divengono in parte irrazionali e non definibili a tutto tondo. Mi spiega Leonardo che, dove ho intravisto il becco di un pennuto o, ancora, un profilo di un coccodrillo, in realtà lui ha voluto scolpire altro. Trova curiosa questa pluri-forma che l’attento visitatore crea nelle sue opere che, in effetti, finiscono per avere le mille vite che le persone intendono dar loro. Tra le altre opere che destano interesse figurano “Cancro del mondo” (figurativamente la rappresentazione di un osso) e quello che – per la loro vicinanza di collocazione – ho definito “il trittico dei busti” composto dal pregevole “La donna col mantello” (dove la parte superiore della testa della donna è coperta da un velo rosso a significare un velo che copre e maschera le ipocrisie), “Il dio del tempo”, inteso dall’artista come una negazione del mostro dell’egoismo e l’impressionante “L’urlo della madre Terra” in cui la bocca spalancata della figura in un grido infinito e straziante, non solo metaforico, è emblema di uno sfogo lancinante contro i vari mali del mondo contemporaneo.

Jesi, 07-11-2017

 

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