“Ponte poetico / Most poetycki”: poesia italo-polacca, volume antologico a cura di Izabella Teresa Kostka

Segnalazione di Lorenzo Spurio

La talentuosa e prolifica poetessa e scrittrice polacca Izabella Teresa Kostka, da tanti anni residente e attiva nel nostro Paese, ha recentemente curato un volume antologico bilingue italiano-polacco intitolato Ponte poetico / Most poetycki edito dalla Kimerik Edizioni di Patti (ME).

Il volume, come ricorda la Kostka nella nota introduttiva, è l’ulteriore segno evidente di un programma di iniziative e scambi culturali, volti al confronto e all’arricchimento collettivo, da lei inaugurato nel 2015 nel capoluogo meneghino con i primi riusciti e seguitissimi incontri del “Verseggiando sotto gli astri di Milano”. I numerosi appuntamenti che, nel tempo, si sono tenuti sotto questo importante evento hanno visto partecipare, al Centro di Ricerca e Formazione Scientifica “Cerifos” di Milano, un gran numero di poeti mediante la formula del reading ma anche di vere e proprie presentazioni di libri. «Il mio obiettivo» – annota la Kostka – «era quello di unire tutti i campi dell’arte, mostrare le diversità culturali e molte tendenze stilistiche spesso opposte». Aperta e particolarmente affine alle nuove tendenze stilistiche e contenutistiche della poesia contemporanea, la Kostka si è distinta, nel corso degli anni, quale una delle più attente sostenitrici del movimento letterario denominato realismo terminale, ideato e curato dal poeta Guido Oldani e teorizzato, tra gli altri, dal prof. Giuseppe Langella, docente dell’Università Cattolica di Milano.

L’antologia Ponte poetico / Most poetycki rappresenta, dunque, la realizzazione compiuta del sogno personale della Kostka, vale a dire quello di far interloquire – mediante i versi di numerosi poeti scelti – le due lingue, l’italiano e il polacco, le due culture, le due storie, i due mondi. Un progetto ardimentoso, dunque, ma necessario e particolarmente amato dalla Kostka, come spesso avviene quando – con esperimenti analoghi – si cerca di mettere su carta alcune delle sfaccettature identitarie della nostra persona. La Kostka, che è nata a Poznań (Polonia), dal 2001 risiede in Italia. Poetessa, scrittrice e promotrice culturale, ha conseguito la Laurea Magistrale in pianoforte classico con qualifiche pedagogiche presso l’Università Accademia di Musica di Poznań. Ha pubblicato dieci raccolte di poesia in lingua italiana e in versione polacca. Dal 2015 fa parte del movimento del realismo terminale e dal 2019 è ambasciatrice e portavoce ufficiale del medesimo movimento per la Polonia.

Ponte poetico / Most poetycki presenta al suo interno, dopo le prefazioni di Guido Oldani e Giuseppe Langella, una serie di poeti italiani (Giusy Càfari Panìco, Igor Costanzo, Sabrina De Canio, Tania Di Malta, Massimo Silvotti, Antje Stehn, Luca Ariano, Lorenza Auguadra, Umberto Barbera, Lucia Bonanni, Margherita Bonfilio, Gabriele Borgna, Maria Giuliana Campanelli, Pasquale Cominale, Rosa Maria Corti, Maria Teresa Infante, Gianfranco Isetta, Giuseppe Leccardi, Veronica Liga, Roberto Marzano, Massimo Massa, Raffaella Massari, Giacomo Picchi, Barbara Rabita, Maria Teresa Tedde, Tito Truglia, Patrizia Varnier assieme ai due prefatori e alla curatrice stessa del volume) le cui opere sono tradotte in polacco dalla Kostka e una serie di poeti polacchi (Daniela Karewicz, Teresa Klimek Janota, Katarina Lavmel (Katarzyna Nazaruk), Anna Maria Mickiewicz, Jolanta Mielcarz, Olaf Polek, Krzysztof Rębowski, Marian Rodziewicz, Bogumiła Salmonowicz, Eliza Segiet, Alex Sławiński, Izabela Smolarek, Józefa Ślusarczyk – Latos, Tadeusz Zawadowski) che, al contrario, sono riproposti nella nostra lingua sempre grazie all’operazione interpretativa e di traduzione del testo operate dalla curatrice. In totale nel volume sono raccolte le esperienze letterarie di quarantaquattro poeti.

La poetessa e critico letterario fiorentino Lucia Bonanni – che figura antologizzata nel volume – ha recentemente redatto un lungo testo critico di analisi e approfondimento su questo progetto della Kostka dal quale risulta utile citare alcuni estratti a continuazione per meglio comprendere il taglio, le peculiarità e la forza espressiva di tale lavoro. In merito all’azzeccata quanto chiara scelta del titolo del lavoro della Kostka, quella del ponte, che evoca l’idea dell’avvicinamento e della coesione, la Bonanni ha scritto: «Nell’immaginario collettivo il ponte rappresenta un qualcosa che unisce unità tra loro distanti, ma distinte ossia rimanda al concetto metaforico di quanto l’Uomo è riuscito a costruire per andare oltre, questo anche nella dimensione interpersonale e in quella psichica in considerazione di vari punti di vista come ad esempio quello antropologico, archetipico, letterario e dialogico nonché l’attrazione verso l’altro da sé l’oltre, l’ignoto, lo sconosciuto e il diverso in modo da poter usufruire di questo spazio di transizione, attuando la comunicazione e l’incontro. […] questo Ponte poetico fa da collegamento tra il passato e il futuro di una nuova identità artistica, divenendo memoria di interazione culturale».

Particolare attenzione è stata posta da Bonanni alla poesia “La favola” di Guido Oldani che «narra della cementificazione selvaggia che ha invaso le zone liminari dei centri abitati, distruggendo le realtà rurali e con esse la flora e la fauna». Il tema ecologico – importante all’interno del volume – viene ripreso anche dal prof. Langella nella sua poesia “Il business dell’eolico”. Alcune liriche sono dedicate al dramma del terremoto, vi sono anche componimenti che rimembrano la tragedia nucleare di Černobyl con la distruzione di Pripyat e la tossicità diffusa su mezza Europa, l’edificazione massiccia, l’inquinamento, l’azione distruttiva e malevola dell’uomo sull’ambiente. Temi importanti e inscindibili dalla poesia quali l’amore, la memoria, il recupero dell’infanzia, lo scorrere del tempo, la solitudine e il silenzio (l’incomunicabilità e la disattenzione), la vanità, la durezza del lavoro nei campi, l’emarginazione dei mendicanti e dei disadattati in generale, ampliano la ricca trama di contenuti di questo lavoro corale e internazionale.

Lorenzo Spurio

Jesi, 03-12-2020

“Lettere mai lette” di Susanna Polimanti, recensione di Lorenzo Spurio

Lettere mai lette
di Susanna Polimanti
Kimerik, Patti (ME), 2010
Pagine: 71
ISBN: 978-88-6096-548-6
Costo: 12 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

  

Ma la vita ti riserva grandi gioie e grandi dolori e per ogni momento felice che ci regala ce ne riserva altrettanti tristi. (p. 59)

 untitledSusanna Polimanti, amica, bibliofila e scrittrice, ha esordito nel mondo della letteratura attiva con la pubblicazione di “2 Cuori…una cuccia!!” (Lulu, 2009) ed ha pubblicato poi “Lettere mai lette” (Kimerik, 2010) e il romanzo ampiamente autobiografico “Penne d’aquila” (Kimerik, 2011).

“Lettere mai lette”, di cui mi occuperò in questa recensione, è un libro particolare nel senso che sembrerebbe un tentativo dell’autrice di rompere il legame tra privato e pubblico nel suo percorso di crescita. L’opera, infatti, si costituisce di una serie di lettere che Susanna ha scritto in diversi momenti della sua vita ed indirizzate a varie persone dalle quali traspaiono sentimenti, tormenti interiori, una profonda solitudine, ma anche l’amore per la vita, per la semplicità, per gli affetti sinceri. Chiaramente i destinatari non sono indicati espressamente, ma chi ha conosciuto da vicino Susanna non farà difficoltà a comprendere a chi erano dedicate queste missive.

La scrittura si configura –come lei stessa ha modo di osservare spesso nei suoi scritti- come una necessità dominante alla quale non si può sottrarre e questo si evince anche dalla presente raccolta epistolare che, appunto, dimostra quanto il legame tra Susanna e la penna non sia qualcosa di recente, ma di profondamente radicato già a partire dall’infanzia. Chi scrive qualcosa può avere in mente qualsiasi cosa, può trasporre il vero, cioè quello che ha realmente vissuto e sperimentato sulla sua pelle, può trasfiguralo o addirittura fingere, camuffare e inventare di sana pianta. Non è mai dato al lettore sapere quanto l’autore abbia lavorato di fantasia, quanto si sia dedicato alla costruzione di fiction piuttosto che incanalare tra le righe semplici esperienze realmente appartenutegli, dunque questo discorso vale anche per questa opera di Susanna. È senz’altro lecito chiedersi se la Susanna protagonista delle lettere che si caratterizza per grande attaccamento alla figura paterna, sincerità, animo profondamente generoso, adolescenza a tratti sprofondata in momenti di tormento e solitudine, sia manifestazione diretta della Susanna donna. È una questione che al lettore non deve importare più di tanto, ma ciò che deve tenere in considerazione, da subito, da quando cioè apre il libro e si tuffa in questa lettura interessante e senz’altro piacevole, è capire che queste lettere, come indica il titolo dell’opera, non sono mai state lette.

Perché? Perché il momento in cui la protagonista vive non si sente talmente coraggiosa di comunicare certi messaggi agli altri e quello che scrive rimane dunque muto? Perché spesso è preferibile sfogarsi con se stessi, stendere nero su bianco i propri tormenti, per ricavarne un lenitivo e fare pace con se stessi? Oppure non sono state lette nel senso che il messaggio recondito delle missive in realtà è stato mandato a quei destinatari, ma per un qualche motivo non è stato colto? Le possibilità qui evocate possono coesistere e, ad ogni modo, ciò che preme sottolineare è che queste lettere, mancando del destinatario, finiscono per essere delle pagine di un diario personale di cui l’autrice ci fa confessione.

Tra le varie lettere ritroviamo l’amore indiscusso per il padre, il dolore per la perdita dell’amica e anche per quella dell’amico a quattro zampe Strauss, a cui è dedicato interamente il primo libro di Susanna, alcuni episodi della vita universitaria e lettere d’amore, altre di rifiuto a proposte d’amore. Tra le righe si legge una grande devozione a Dio e la considerazione della famiglia quale ricchezza terrena e baluardo di difesa; l’amore e l’amicizia sono le torri imperscrutabili dell’universo di Susanna sulle quali si ergono due vessilli che sventolano con forza: la generosità e il vitalismo.

A questo punto chiedo al lettore di scusarmi se posso sembrare contraddittorio con quanto ho testé detto, ma posso assicurare che entrambi questi vessilli che sventolano alti in questo cielo metaforico non sono altro che due delle sfaccettature dell’animo di Susanna. È in quel cielo che a tratti sa essere terso, altre volte nebbioso o addirittura in rivolta, che la protagonista-autrice anela a perdersi: “Vorrei essere un’aquila per volare più in alto, per far piovere su di te la mia calda energia, piena di affetto per te” (47). E l’aquila, che pure ritroviamo –non a caso- nell’ultima produzione letteraria di Susanna, il romanzo dal titolo “Penne d’aquila” (Kimerik, 2011), è forse immagine-metafora della stessa autrice, una donna forte e dalla tempra battagliera, che è lì in alto, ad osservare imperscrutata, a volteggiare nel cielo godendosi la sua libertà.

L’operazione fatta da Susanna con la raccolta di missive è coraggiosa ed encomiabile, perché queste lettere, ripulite da nomi dei destinatari, riferimenti toponomastici e date, tornano a vivere e a trasmettere significati e sentimenti che sono universali.

Riaprire un cassetto e ripescare qualcosa del passato è sempre un’azione positiva. Il processo intellettivo della memoria, azionato da immagini e suggestioni, è in grado di far strada battuta al veloce carro delle emozioni.

 

Lorenzo Spurio

-scrittore, critico letterario-

  Jesi, 18 Agosto 2013

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONFERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

Intervista a Susanna Polimanti, a cura di Lorenzo Spurio

INTERVISTA A SUSANNA POLIMANTI

autrice del romanzo “Penne d’aquila”

a cura di LORENZO SPURIO

 

 

LS: In questo libro si ripercorrono le vicende della protagonista Virginia a partire dalla sua infanzia fino alla maturità soffermandosi in maniera particolare sulla psicologia del personaggio. C’è sempre una grande attenzione alla componente psicologica, intimista, di Virginia, e si evince la tua volontà di dirci in maniera esatta in che maniera il personaggio ha vissuto/sperimentato determinate esperienze. In questo –ma posso sbagliare- ho intuito un’ampia volontà di auto-rappresentazione, quasi come una sorta di diario trasfigurato in fiction. E’ così o sono sulla strada sbagliata?

SP: Hai colto nel segno, Lorenzo. Questo romanzo è una biografia romanzata. Affidare la narrazione ad una terza persona, la protagonista Virginia per l’appunto, è stata volutamente una mia scelta. Ritengo che Virginia possa rappresentare ogni donna, in ogni fase del suo vissuto. In realtà la vita di Virginia è semplice e complicata, esattamente come la vita di tutti noi. Il vero messaggio, l’essenziale è nascosto dietro ogni evento, in particolare “come” e “cosa” determinati avvenimenti generano nell’interiorità di ogni individuo.

  

LS: Il viaggio, inteso come momento di pausa e come intrattenimento, o come esperienza universitaria vissuta fuori di casa, o come trasferta lavorativa o, ancora, -e forse più importante di tutti- come ritorno alla città natale, sono espressioni di graduali momenti di ricerca e al contempo di forme di esperienza che consentono la crescita e l’acquisizione di una più concreta conoscenza del mondo. Quanto sono effettivamente importanti i viaggi per Virginia? E quanto lo sono per Susanna?

SP: I viaggi sono molto importanti per la protagonista Virginia, l’immaginazione si ferma laddove una valigia si posa, perché toccare le altrui realtà vuol dire divenire “consapevole” dell’esistenza di un intero universo che non si limita all’orticello di casa nostra. Io Susanna, ho sempre viaggiato molto e spero di poterlo ancora fare in futuro.

 

LS: La tua città natale, Foligno, nel romanzo è volutamente non nominata con il suo nome, ma nel riferimento al suo fiume Topino è facilmente individuabile. Conosco abbastanza bene la città dato che quando studiavo a Perugia ho spesso perso la coincidenza del treno ed ho così avuto occasione di visitarla, passeggiarci e rimanere incuriosito dal dialetto del luogo. Quanto sei legata alla tua città natale? Vivendo da molti anni nel sud delle Marche, ti senti più umbra o marchigiana?

SP: È molto difficile rispondere a questa domanda, perché le mie origini sono sia umbre che marchigiane. Mia madre è umbra e mio padre era marchigiano, eppure, senza ombra di dubbio più di una metà del mio cuore appartiene all’Umbria. Vivo nelle Marche ormai da anni, ad essere sincera di questa regione amo il suo mare e i tanti paesini dell’entroterra, in particolare il paese natio di mio padre.

 

imagesLS: Il finale del romanzo, chiaramente aperto e possibile alle interpretazioni, lascia il lettore con un velato senso di incompletezza, nel senso che si auspica un suo seguito o una sorta di chiarimento di quel paragrafo finale che –credo- hai espressamente voluto caricare di ambiguità. Parlando della metamorfosi nel temperamento avvenuta nel corso degli anni e dei vari avvenimenti vissuti da Virginia, nel romanzo concludi con un animo pacificato: “Qualcuno stava traghettando la sua zattera del labirinto della mente a quei luoghi appartati della sua anima per mostrare il coraggio, la saggezza, la consapevolezza e ogni altra risorsa interiore per superare qualunque sfida”. Mi sono arrovellato su quel “qualcuno”: esso è da intendere con Dio, con una ritrovata forza interiore o, invece, è personificato ed è rappresentato da un nuovo “ingresso” nella vita della protagonista?

SP: Quel “qualcuno” è unicamente la presenza divina nel quotidiano di Virginia, il nostro stesso io spirituale, che s’identifica con tale presenza. Dietro una finta realtà oggettiva esiste molto di più, Virginia arriva a comprendere il valore del suo vissuto complicato, si affida e continua il suo viaggio terreno, in attesa di raggiungere l’evoluzione finale che, con l’aiuto della sua fede riuscirà ad elevarla e condurla verso l’unica vera vita, dove solo il cuore e la sua anima si sentiranno finalmente liberi.

  

LS: Nella nota introduttiva al romanzo viene sostanzialmente spiegato il significato dell’aquila che hai voluto nel titolo, quale espressione di un animale maestoso ed intelligente che nelle varie culture ha avuto le più ampie accezioni. Un primo richiamo al volo è presente a pagina 23 quando Virginia afferma “ero sicura di aver volato già”. Questo “volo” io l’ho inteso anche nel tipo di prospettiva utilizzata nel tipo di scrittura che hai adottato: da una parte sembrerebbe esserci una tecnica modernista con una grande attenzione ai sentimenti e agli stati d’animo, dall’altra, invece, ho intuito una esplicita componente descrittiva, paesaggistica, ritrattistica (di città, paesi) come se la narrazione avvenisse dall’esterno e addirittura dall’alto. Aerea, insomma. Che cosa ne pensi?

SP: È esattamente come tu stesso hai interpretato: Virginia si evolve giorno dopo giorno, scopre di avere un dono che le permette di guardare ogni realtà intorno a lei dall’alto, con gli occhi della sua anima e non più con il solo sguardo umano. L’incontro con il suo più intimo io le permette di valutare gli eventi, le persone e ogni paesaggio intorno, dall’esterno. Virginia riesce a far tacere la mente affidandosi unicamente alle sue percezioni e cercando la risposta ad ogni perché, solo dentro il suo cuore. Siamo tutti troppo abituati a credere che il nostro cervello sia la chiave di tutto ma l’essere umano non è costituito di solo cervello, l’anima e lo spirito sono le parti più antiche, è lì che risiede la vera conoscenza.

  

LS: Quali progetti legati al mondo della letteratura attualmente ti vedono coinvolta? Stai lavorando a una nuova pubblicazione? E se sì, puoi gentilmente anticiparci qualcosa?

SP: Ci sto lavorando, purtroppo, vari impegni lavorativi e familiari mi concedono poco tempo per dedicarmi alla stesura del mio prossimo romanzo. Posso soltanto anticipare che si tratterà di un romanzo ambientato in un castello. Non abbandono mai la scrittura anche se finora ho soltanto scritto e terminato racconti vari. Ho molto materiale da parte e troverò senz’altro il modo di organizzarmi in futuro. 

Sono parte attiva di varie associazioni culturali e, leggendo molto, mi dedico volentieri a recensioni di vari autori. M’interessa tutto ciò che ha a che fare con cultura e tradizioni.

 

 

Grazie per avermi concesso l’intervista.

Lorenzo Spurio

06-06-2013

 

 

 

“Una leggenda, una storia e un sogno” di Elena Maneo

Una leggenda, una storia e un sogno di Elena Maneo

Kimerik Edizioni, 2010, pp. 79

ISBN: 9788860965790

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

Una delle scene più belle del romanzo Alice nel Paese delle Meraviglie l’abbiamo verso il termine del romanzo, quando la giovane ragazza, che ha dovuto sottostare a mirabolanti comportamenti umani ed animali e ad una logica strampalata e bizzarra, si fa forza e riesce a sconfessare che tutti quei personaggi, non sono che qualcosa di fantastico e di inesistente. Mi riferisco alla scena del processo al fante di cuori, imputato dalla crudele regina di cuori di aver rubato delle crostate di marmellata. In quella sede viene chiamata in giudizio anche Alice che viene sottoposta a una serie di domande nonsense, trabocchetti, veri e propri controsensi e, ad un certo punto, si alza in piedi e si mette ad urlare contro la corte: “Non siete altro che un mazzo di carte!”. Questo episodio può essere d’interesse per leggere e analizzare, ad esempio, alcune delle opere più recenti della scrittrice Elena Maneo dove, in vari racconti, è solita inserire personaggi o riferimenti che rimandano proprio al mazzo di carte da poker (In Una leggenda, una storia e un sogno è contenuto un racconto dal titolo “Il fante di cuori” mentre in La regina, la forza e l’amore, abbiamo un racconto dal titolo “La regina di Picche”).

Le carte (sia da poker, che d’altro genere) sono, forse, assieme ai dadi, uno dei giochi da tavola e di momento conviviale-ludico più antichi ed è curioso come Carroll le abbia impiegate all’interno del suo romanzo più famoso come veri e propri personaggi. Sta a significare, forse, la constatazione semplice e al tempo stesso originalissima che è possibile proiettarsi in un mondo altro che, pur non avendo niente in comune con la nostra razionalità e fisicità, rappresenta un universo da poter scoprire. Lo stesso avviene, ad esempio, nel proseguo del libro di Carroll in cui Alice passa attraverso lo specchio o, addirittura, nella famosissima partita di scacchi. Il gioco, suggerisce Carroll, è un ottimo modo per svagarci non solo nel senso di allentare le nostre preoccupazioni ma ci permette di estraniarci dal “qui ed ora” per colonizzare spazi e vivere avventure nuove, sregolate, prive di leggi e regolamenti.

Il procedimento che la Maneo fa è probabilmente sulla scia di tali considerazioni e questo breve libro si legge con molta celerità, non solo per la sua brevità ma perché nella lettura siamo portati a fagocitare parola dopo parola, pagina dopo pagina. Il mondo fantastico che la Maneo propone è, però, alquanto composito e abbraccia tradizioni fantasy che fanno riferimento a filoni e generi diversi tra loro: abbiamo così personaggi che sono dei vampiri che interagiscono direttamente con degli alieni. Una singolare accoppiata di folklore rumeno con idee di vita su un pianeta diverso dalla Terra. La breve silloge di racconti è compatta e ha una sua unità, il filo rosso è proprio questo genere fantasy che si sviluppa in varie forme a cui il titolo fa riferimento: La leggenda, una storia e un sogno; un vampiro, un alieno, il Diavolo e un giallo di difficile soluzione ci tengono coinvolti nella lettura sino all’ultima pagina.

Lorenzo Spurio

25-11-2011

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“La rosa nera”, racconto di Elena Maneo – commento critico

“La rosa nera”

racconto di Elena Maneo

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

Nella nostra cultura la rosa nera viene considerata come una variante floreale rara e introvabile, un fiore che spesso (tranne quelli che offrono invece un’operazione di tintura dei petali) nessuno ha mai visto in forma originale.  Porta dunque con sé un senso di mistero e segretezza, oltre ad evocare un fascino distinto, una cerimoniosità austera ma elegante.  Tutto ciò si respira leggendo il breve e omonimo racconto di Elena Maneo contenuto nella silloge La regina, l’amore e la forza (Kimerik Edizioni, 2011, ISBN: 9788860967046).  La storia che ci viene presentata è semplice e propone un tema sociale importante:  quello della sofferenza, dello stato di incompletezza di una donna a seguito della consapevolezza di non poter avere figli. Il tema è comune ma la Maneo è abile nel maneggiarlo, inserendolo in una storia breve che ha tutte le caratteristiche di una fiaba. Di una di quelle storie che fanno sognare i bambini, in cui i personaggi sono re e regine, gli spazi regge e parchi fantastici e in cui si inizia con un avvenimento doloroso per poi passare a un veloce happy ending. La formula è efficace e attuale per questo tipo di storia. La contessa Angelina, pur vivendo in una sontuosa reggia e disponendo di tutte le ricchezze che desidera, è infelice e fortemente turbata a causa dell’impossibilità di avere un erede. Alla sterilità biologica della donna (o forse del marito?) si unisce un’ulteriore sterilità che è quella dei buoni sentimenti, soprattutto nel coniuge della donna, il conte Oscar Odd. Il racconto si incentra sul tema della difficoltà nel raggiungere la felicità che niente ha a che vedere con il possesso di ricchezze.  Il problema è sentito molto profondamente dalla donna tanto che la sua salute arriva a risultare gravemente minacciata dal suo stato di depressione e di crisi emotiva. L’immagine che ci facciamo del conte Oscar è quello di un uomo poco attento ai sentimenti che, stranamente, neppure è preoccupato per la sua discendenza nobiliare.

La storia prende una piega diversa quando il conte, pensando di far un gradito omaggio alla moglie che riesca a risollevare il suo stato, le regala una bambina nera come serva personale. L’episodio fa pensare direttamente all’antica pratica della tratta degli schiavi basata sulla compra-vendita di schiavi e il loro impiego coatto all’interno dell’universo domestico del signore.  Ma quella che per il conte è semplicemente una “bambina negra” (notare l’utilizzo di “negra” al posto di “nera”, che porta con sé una connotazione esplicitamente razzista) per la contessa diviene il motivo di gioia e di abbandono delle sofferenze. La donna, infatti, finisce per provare sentimenti per la bambina e la adotta, liberandola dai vincoli lavorativi e di subordinazione che il marito aveva previsto per lei.

Quella che era una schiava (un’orfana, senza identità né casa) finisce così per essere considerata dalla contessa come “la rosa nera” a cui il titolo del racconto fa riferimento, come un’entità rarissima, insolita, preziosa. Non esiste in natura una varietà di rosa nera e, quella che più le rassomiglia, la Baccara, non è altro che una rosa color rosso scuro tendente al nero. La contessa, avendo con sé una rosa nera, unica ragione del suo rinsavimento, di fatto ha qualcosa che non esiste se non nella forma di un surrogato. Come la felicità stessa, appunto.

Lorenzo Spurio 

E’ SEVERAMENTE VIETATA LA RIPRODUZIONI DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE