Il critico Lucia Bonanni esce con la monografia “Linee esegetiche attorno all’opera narrativa di Lorenzo Spurio”

copertina saggio bonanni su triade narrativa_frontale.jpgIn questo studio monografico il critico letterario Lucia Bonanni studia e approfondisce alcune delle tematiche nevralgiche che legano le tre opere di narrativa (racconti brevi) dell’autore jesino Lorenzo Spurio pubblicate nel corso degli ultimi anni: La cucina arancione (TraccePerLaMeta, Sesto Calende, 2014), L’opossum nell’armadio (PoetiKanten, Firenze, 2015) e Le due valigie e altri racconti (Waugh, Viterbo, 2018). Il volume, dal titolo Linee esegetiche attorno all’opera narrativa di Lorenzo Spurio è edito da Photocity Edizioni (disponibile qui e nelle prossime settimane su tutte le Librerie online) e si focalizza su tutti quei mondi inusuali, realtà scaturite da situazioni patologiche, forme di inerzia e abbandono psicologico, luoghi emotivi dove è il paradosso a fare notizia e accelerare il cedimento comportamentale, di cui Spurio parla a livello di fiction. Con grande maestria, senso critico, impegno e competenza culturale l’autore dei racconti indaga fenomeni sociali e di costume, facendo prevalere il complesso di quelle funzioni psichiche, caratterizzate da sintomatologie anomale, disturbi della personalità, relazioni interpersonali e atteggiamenti che determinano fenomeni morbosi. Senza mai scadere di tono e con l’uso di un linguaggio mai futile e banale, ma sempre coerente e pertinente al rigore concettuale e alla temperanza, anche là dove le tematiche trattate sembrano assumere caratteristiche suscettibili di connotazioni avverse e dispregiative, Spurio offre una raccolta riassuntiva, destinata ad enucleare e informare circa la complessità delle reazioni emotive.

 

Lucia Bonanni (Avezzano, 1951) poetessa, scrittrice e critico letterario, ha pubblicato articoli, saggi e raccolte di poesie oltre a recensioni e prefazioni per testi poetici e narrativi. In volume ha pubblicato le sillogi Cerco l’infinito (2012) e Il messaggio di un sogno (2013); ha all’attivo varie pubblicazioni in antologie poetiche, raccolte tematiche e riviste di letteratura. 

Lorenzo Spurio (Jesi, 1985), poeta, scrittore e critico letterario. Per la poesia ha pubblicato Neoplasie civili (2014), Tra gli aranci e la menta (2016) e Pareidolia (2018). Per la narrativa tre raccolte di racconti, qui analizzate. Fertile nella critica letteraria ha pubblicato vari saggi in volume, rivista, siti e in collettanee, principalmente sulla letteratura straniera, prestando attenzione anche alla letteratura regionale per la quale ha pubblicato Convivio in versi (2016, 2 voll.).

Lucia Bonanni su “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio

LA CUCINA ARANCIONE di LORENZO SPURIO

Recensione di LUCIA BONANNI

 

cover_frontArancione: né rosso, né giallo.

Arancione: un miscuglio di rosso e di giallo

Rosso il colore della passione. Giallo il colore della follia.

I colori sono la manifestazione dell’energia e l’arcobaleno rappresenta sia il flusso di energia della terra sia quello del corpo umano. Nell’arcobaleno umano esistono colori fisici e chimici, equilibrio, cromatismo, mescolanza, fissazione, trasmissione.

Nella teoria sull’uso del colore Kandinskij dice che il colore può avere effetti sullo spettatore: un “effetto fisico”, basato su sensazioni momentanee, e un “aspetto psichico”, dovuto alla vibrazione che tocca le corde dell’interiorità. Sempre secondo il pittore, l’energia del giallo è prorompente, irrazionale e indica eccitazione mentre l’energia del rosso è consapevole e può essere incanalata.

A sua volta l’arancione esprime energia, movimento e più è vicino al giallo e più è superficiale.

Nella logica delle cinque W che riguardano la narrazione, nel who dei racconti di Spurio, oltre ai vari personaggi, può essere annoverato anche  il colore nelle sue allusive accezioni e simbologie e figure di significato: l’arancione della cucina, il nero dei capelli e dell’abbigliamento di Stella, l’ocra del cappotto della vecchia, il blu del desktop del computer, il carminio del rossetto, il bluette dei fili elettrici, quello del muro scrostato che l’autore lascia solo immaginare, il rosa acceso della casa al mare, il giallo della camicia dell’uomo di colore, il bouquet di fiori blu e gialli, quello dei vetri rotti della bottiglia, la tonalità “abbaiante” dei capelli e della carnagione del bambino…
Come afferma il personaggio principale del racconto “L’alfabeto numerico”,”La vita è un’espressione algebrica che può essere risolta in varie maniere”. Ma dico io!come si fa a vivere in una cucina arancione! In un ambiente dove, anche per gli arredi, non esiste altro colore, se non quello  enunciato e la gamba stecchita del tavolo non serve soltanto a sostenere il piano su cui si appoggia un vassoio con la zuccheriera e una tazzina da caffè, di color arancione, naturalmente!

Secondo J. Lacan l’inconscio è strutturato come un linguaggio; esso è una combinatoria di elementi discreti. La struttura di tale linguaggio emerge nelle funzioni dell’inconscio e, se manca un significante, allora il linguaggio divine espressione di trauma in quanto il linguaggio dell’inconscio si svolge su due assi: l’asse della sincronia che è quello della metafora, e l’asse della diacronia che è quello della metonimia. Esistono quindi vari registri: reale, simbolico, immaginario come esistono lo stadio dello specchio e quello simbolico.

“La cucina arancione” non è altro che un grande contenitore, uno scatolone in cui sono riposti tutti i disagi dell’affettività in relazione a comportamenti devianti, ansie, paranoie, allucinazioni, ossessioni, alienazioni, fissazioni, perversioni, manie, che i personaggi come le persone incontrano nel loro essere tali. Come afferma G. Bufalino, “Molti diventano personaggi perché non sanno essere persone” e i personaggi di Spurio sono persone reali e incarnano quella realtà che si dimostra la più abile dei nemici con i suoi attacchi inattesi e sorprendenti dove anche  “Il diavolo è un ottimista, se pensa di peggiorare gli uomini”.  

La sessualità è energia che si esprime sotto forma di pensiero, di movimento, di sentimento, di passione perché “C’è qualcosa di profondo e terribile nelle potenzialità della sessualità che costringe la società a tenerla separata dalle altre sfere in quanto sembra ed è puro gioco, ma scatena razioni che si svolgono sul registro del tutto e del nulla, della vita e della morte. Anche un semplice sguardo può mettere in moto desideri sfrenati, amore, odio, vendetta” ( F. Alberoni).

La women in dark, e forse avrebbe fatto meglio ad essere una women in red, “eccentrica, non particolarmente bella”, dallo sguardo smorto e le labbra tinte di carminio, se ne va in giro con un paio di scarpe così fuori tempo da risultare desuete anche nella vetrina di un punk o di un metallaro. E poi quel nome a richiamare brillantezza e fissità, persino affidabile ed attraente, una vera calamita come le sue forme arrotondate, si rivela un ossimoro col suo modo di essere. L’ingenuo avventore la crede la “Morte in persona” mentre al bancone del bar già chiede un “generoso rabbocco” non  solo di Jim Beam, il suo whisky preferito, insieme ad atteggiamenti ambigui e   parole frammentate.

“La fascinazione è sempre un invito e un rifiuto, in definitiva una sfida. Per questo (il personaggio) ha un effetto conturbante, inquietante, perché fa intravedere una modalità di esistenza beata” ( F. Alberoni). Ed anche quella volta la foga di Stella aveva avuto la meglio come pure il colore arancione. “È stata colpa dell’arancione della cucina”. Si scusò l’uomo, quando Stella gli disse che doveva andarsene da casa perché  come il suo primo marito “aveva superato i limiti della violenza”. Il poveretto, oltre alle sbronze,  le lasciò  i quadri, l’assegno di mantenimento, i soldi ricavati dalla vendita della casa, come risarcimento per quella carenza di stile e di gusto che l’aveva condotto alla violenza. Prese a fare il barbone e non fece alcun reclamo perché era certo che lei l’avrebbe denunciato per stupro. (dal racconto La cucina arancione).

La numerologia è una scienza esatta. Ogni numero ha un significato ben definito. E come il sette, somma del tre e del quattro, diviene tratto d’unione tra la Terra e il Cielo, il ventisei identificava una vecchia. Anche la smorfia napoletana parlava chiaro. Occorreva giocare subito quel numero a lotto! “… il coltello nella mano destra. Glielo infilai più volte nel petto. La lama entrò dentro come quando si taglia un formaggio molle”.  L’ossessione onirica si era trasformata in delitto, ma il protagonista del sogno piombò nel più cupo sconforto allorché si rese conto che si era soltanto illuso di averla uccisa e di essersi finalmente liberato di quegli incubi che lo  tormentavano. Quando si avvicinò al portone di casa ebbe soltanto il tempo di “vedere (la) moglie dietro la finestra che piangeva e singhiozzava.” (da racconto La vecchia col cappotto ocra).

“Crescendo e imparando a conoscere anche la famiglia di qualche sua amica, aveva capito che non erano le famiglie degli altri ad essere strane o preoccupanti, ma era la sua che non si uniformava alla Normalità. La povera Mariastella “allora cominciò a vergognarsi” e “saltuariamente le (sue) emicranie si presentavano con dei dolori lancinanti” e “pesante senso di vertigine. “Il grande armadio si stava spostando verso di lei, baldanzoso, con le ante aperte e ciondolanti per fagocitarla”. Ancora una volta vaneggiava e  sperimentava una “realtà distorta, irreale, frutto di un’alterazione psichica”.

A Michele non piaceva “sporcarsi le mani”. Lui  “era il dio del computer”. “All’aspetto non era brutto… era da escludere che avesse una relazione seria con una donna… e varie volte aveva preso delle  ferie abbastanza lunghe per andare in vacanza in sud America…”. “ Michele accese il computer e sorrise al bambino che si era seduto sulla poltrona per vedere la tv. Mentre era impegnato a diagnosticare il problema del computer, gettava sguardi interessati verso il bambino e… fu in grado di vederlo sotto un’altra prospettiva”Quando gli agenti suonarono alla porta per arrestarlo” pensò che “la gravità dell’episodio non stava in ciò che aveva commesso, ma nel suo dover  fare a meno del  pc”. Quando gli fu chiesto cosa avesse fatto al bambino,  rispose semplicemente che “doveva installare un software di base”. ( dal racconto Software di base).

E se nell’espressione poetica Spurio va dritto al cuore di chi legge, offrendo come sunto una forma didascalica come chiave di lettura del componimento, nell’espressione narrativa lo spiazza del tutto, lo disorienta e lo lascia persino dubbioso con i possibili significati di senso, lasciati all’ultima riga del racconto. Il metodo usato è sempre lo stesso: mostrare ciò che in effetti non è e sorprendere con ciò che in effetti è. Oppure disseminare indizi, ravvisabili anche negli stralci d’autore, tra cui I. McEwan, D. Campana, J. Josè Millás, C.M. Pemán, G. García Marquéz,   inseriti nella prima pagina del racconto,  per sorprendere e lasciare nel lettore anche un senso di incalzante smarrimento di fronte ad avvenimenti che talvolta destano stupore,  sdegno  e raccapriccio. “Quegli agenti erano stai una benedizione, tutto sommato”, “Ora la zia aveva una vita rovinata”, “L’indomani se ne andò a comparare un altro manichino”, “telefonai al sarto dicendogli di non dimezzare più gli altri indumenti”, Di sicuro anche lui è un fedele compagno di Alex Portnoy”.

Un libro di non facile lettura, quello di Spurio, considerando i dinamismi della personalità, il rapporto che essi hanno  in rapporto al modo con cui l’individuo si relaziona con il mondo, permettendo, se pur in forma narrativa,  un’analisi comparativa di casi clinici in cui si notano cambiamenti evidenti di comportamento rispetto ai così detti comportamenti “normali”.

Non c’è nulla di magico o di divinatorio nei racconti di Spurio. Solo realtà. Realtà cruda, realtà di personaggi che sono persone e come persone soffrono quel “male di vivere” che spesso sfocia in patologie conclamate, conflitti e devianze, del tutto avversi alla vita  e alla sua stessa natura.

Non c’è nulla di magico… solo un’approfondita conoscenza da parte dell’autore, non solo per quanto concerne i generi letterari, ma anche per quelle che sono le scuole psicologiche come la Gestalt ed altre per cui il testo “La cucina arancione”, oltre che letterario può essere considerato un vero e proprio saggio narrativo. 

Ad maiora

Lucia Bonanni

 

San Piero a Sieve, 10/11/14

Raffaella Amoruso su “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio

LA CUCINA ARANCIONE
Di Lorenzo Spurio
TraccePerLaMeta Edizioni, 2013
 
COMMENTO DI RAFFAELLA AMORUSO

Biella 3 settembre 2014

DSC00500Lorenzo Spurio è senza dubbio un autore fantastico e capace,  che sa rivelare interamente senza reticenze, con ironia e coraggio con schiettezza e semplicità, l’essere Umano.  Interessante e inusuale romanzo “La cucina arancione” dove il lettore viene trasportato in storie diverse; dove i protagonisti sgomentano, incuriosiscono, appassionano.
Racconti fantastici, ma non troppo, per altrettanti stati d’animo che albergano nella profondità dell’Uomo, rispecchiando in fondo, la vita.
Perché non vi è nulla di “normale”, nulla di lineare; la vita di ognuno di noi è fatta di momenti, paure, angosce, manie, desideri. Siamo tutti un po’ folli : “La follia è solo una maggiore acutezza dei sensi – diceva Alda Merini”. Alda Merini”.
Tutti noi possiamo banchettare tranquillamente, nella cucina arancione … da leggere!

Raffaella Amoruso

Lorenzo Spurio: riflessioni di un autore “eretico”. Intervista di Iuri Lombardi

Intervista a cura di IURI LOMBARDI

pubblicata nel libro “L’apostolo dell’eresia”, Faligi Editore, Aosta, 2014.

Lorenzo, tu sei un critico letterario e uno scrittore di racconti, uno studioso delle lettere e, per chi ti conosce, lasciatelo dire, un interventista; nel senso che vivi la letteratura in tutte le sue forme possibili, al punto di organizzare eventi che vanno da presentazioni a concorsi letterari, ora secondo te, prendendo in considerazione le tue due attività: qual è quella che maggiormente ti coinvolge?

 

I miei due ambiti di scrittura, che come tu dici sono essenzialmente quelli che mi vedono da una parte critico letterario e dall’altro scrittore, sono quanto mai differenti tra loro per intenzioni, forme espressive e finalità. Questo, però, non significa che siano antitetici o, per dirla in parole più semplici, che uno scrittore debba/possa essere soltanto un romanziere. Egli può essere anche un poeta, un critico o un saggista (la differenza tra critico e saggista è per lo più una sfumatura, ma significativa al tempo stesso). Il critico fa essenzialmente qualcosa di più dello scrittore perché è in grado di calarsi in una dimensione (de)soggetivizzata (che anche nel romanzo è possibile adottare, ma non a questo livello), assumendo una prospettiva tendenzialmente neutra e asettica scevra da intenzioni di sorta. In questa luce il critico non giudica, ma osserva, non descrive ma analizza, non spiega ma interpreta. E la differenza tra le varie antinomie citate non è minima, ma è sostanziale. 
Non è solo una questione di linguaggio, di tecnica o di conoscenza della storia della critica letteraria di un determinato periodo che permette di definire uno scrittore come critico, ma anche e soprattutto una sua certa predisposizione nel sapersi allontanare dal concreto per vederlo da distante prima con un cannocchiale e via via sempre più vicino fino a sondarne minuzie, dettagli e quello che è l’ordito di un testo. Il critico non colloquia con i personaggi di un romanzo, ma li de-struttura, li smonta, li viviseziona e li interpreta alla luce della storia, dello spazio, della società, etc.
Quanto alla tua domanda posso dire che a livello di coinvolgimento probabilmente è la narrativa che mi dà maggiori possibilità e realizzazioni, perché sono io a creare un personaggio, ad animarlo e magari a decretarne la sua tragedia come un invisibile burattinaio. La scrittura di un saggio, al contrario, non nasce da una volontà di rappresentazione, re-creazione (e magari mistificazione) di una vicenda, ma dal desiderio di carpire il legame tra significato e significante, tra la parola scritta e i concetti, per un approfondimento tematico, concettuale, monografico dove la penna finisce per essere penna e diventa bisturi.

 

Che salute gode oggi la critica letteraria – intendo quella avanguardistica e non settoriale o accademica?

 

Per critica letteraria “avanguardistica” credo tu voglia intendere non tanto quella che fa riferimento a scuole di pensiero particolari, a tendenze di un certo tipo, ma un tipo di critica che nasce piuttosto come forma d’espressione legata al singolo che adotta un certo tipo di studio e di approfondimento su certi autori o tematiche in particolare. Quello che mi sento di dire a riguardo è che i più grandi critici italiani del ‘900 vengono principalmente ricordati e menzionati nei manuali di storia della letteratura non in quanto critici, ma in quanto esponenti di altri generi letterari che possono essere ad esempio la poesia o la narrativa. Leonardo Sciascia, ad esempio, oltre che romanziere, fu un ottimo saggista e microfono del sistema di malaffare e corruzione radicato nelle terre di Sicilia che pure trattò nei romanzi (Il giorno della civetta, per fare un esempio concreto); Italo Calvino a suo modo in una serie di saggi trattò le problematiche legate alla speculazione edilizia e alla cementificazione ed esempi di questo tipo se ne potrebbero fare a decine. I due autori restano però principalmente noti per una serie di scritti di fiction e non di critica vera e propria. A questo punto si potrebbe parlare di come e quanto la società con le sue problematiche e deficienze ispiri o abbia ispirato certi scrittori e quanto il tema sociale, l’impegno civile, sia importante, ma per ritornare alla tua domanda devo osservare che la critica, per quanto possa risultare disturbativo ai più, è uno dei generi fondanti del sapere letterario che viene tenuto di poco conto e viene spesso stigmatizzato. Esistono ottimi critici che si sono occupati con serietà ed acume ad alcuni autori/fasi letterarie arricchendo notevolmente le pagine della nostra letteratura, ma l’opinione che domina oggi è quella di considerare il critico principalmente quello che scrive in un qualche quotidiano una striminzita mezza colonna su un libro appena uscito dando un giudizio per lo più scialbo e slavato. Reputo importantissime, invece, qualora vengano curate con attenzione e con profonda conoscenza del testo/autore, le note preliminari ai testi, i commenti critici, le prefazioni e tutto quello che solitamente possiamo catalogare sotto “apparato critico”. Esso, lungi dall’essere uno strumento che vuole mostrarsi pedante, tecnico e apparentemente inutile, è uno strumento importantissimo ed essenziale per fornire una lettura di quello che ci si appresta a leggere. Perché va ricordato che quello che il critico scrive, attesta, dichiara, verga sulla carta, non è la verità assoluta alla quale bisogna assoggettarsi, ma semplicemente un commento che, pur evitando soggettivismi, implicazioni amicali/sentimentali, forze empatiche, è una interpretazione di quello che ha letto e analizzato secondo il suo bagaglio culturale e la sua particolare prospettiva. È stupido oggi fare una cosa che è stata fatta per troppo tempo nel passato, anche vicino, cioè quella di cercare di inserire il critico per la sua impostazione, tendenza, formalismo, cliché all’interno di una particolare branca o sezione della critica perché questo è un procedimento insulso, illiberale e del tutto inaccettabile che non rispetta la dignità del singolo.

 

In secondo luogo, ma non per ordine di importanza, si diceva prima che tu sei anche un narratore e hai avuto la possibilità di cimentarti nel genere del racconto (con non poche polemiche da parte dei moralisti), ora secondo te: che importanza ha il racconto nel panorama delle lettere italiane? E perché non hai sentito l’esigenza di un romanzo almeno sino ad adesso?

 

Ho avuto varie occasioni per parlare del racconto come genere sottolineando un certo timore e incomprensione per come venga considerato nel Belpaese dove sostanzialmente è assimilabile a letteratura di serie B, se non addirittura di serie C. Sulla condanna alla poca fortuna (e poco rispetto, aggiungerei) del racconto in Italia va subito detto che non è dovuto, neppur lontanamente (e chi lo sostiene è un ignorante o fa una analisi semplicistica)- alla mancanza di validi propugnatori e utilizzatori di questo genere: si pensi a Buzzati, Calvino, Sciascia, Camilleri (i cui romanzi brevi possono a ragione esser definiti anche racconti, quelli che nel gergo inglese sono short story o novellas). Questo per scartare dunque la prima falsa ipotesi che vede nella letteratura italiana principalmente un esercito di romanzieri con poche espressioni di narrativa breve. Le ragioni per cui il racconto come genere non ha mai attecchito nel panorama della scrittura in Italia a mio modo di vedere non è tanto legato con le preferenze della massa di lettori, ma piuttosto con quella del monopolio del romanzo attuato da sempre da parte dei marchi editoriali, famosi o non che siano. Si riconosce nel romanzo una maggiore professionalità nella scrittura, una più chiara ed esaustiva elaborazione del plot e dei personaggi, un artificio letterario impareggiabile, un’orchestrazione delle vicende più complessa con trame secondarie, storie collaterali che si intrecciano e dunque un prodotto finale più appetibile, ricco e interessante. Ovviamente tutto questo può essere (ed è) presente anche nel racconto.
Il racconto non è un romanzo in miniatura, né il romanzo è un’estensione di un racconto: i due generi pur affini hanno caratteristiche completamente diverse. Il racconto –o per lo meno questo è come la penso io- ha i suoi punti di forza nella freschezza del linguaggio, nella sintesi, nell’inconsapevolezza degli eventi che si descrivono e in questa brevità (che si badi non è sinonimo di semplicità perché sa che la grande capacità scrittoria del narratore è in grado di far capovolgere la storia anche con due misere righe, piuttosto che con interi capitoli di centinaia di pagine l’uno. Il racconto è stato visto come una forma espressiva incompleta, poco organizzata e curata, come una sorta di esperimento letterario, ma in realtà non è così e questo è dimostrato dal fatto che all’estero, dove addirittura è il genere prediletto o se lo contende con il romanzo (si pensi all’Inghilterra e ai paesi anglofoni) i più celebri scrittori di racconti (Patricia Highsmith, Flannery O’Connor, Raymond Carver e il recente premio Nobel per la letteratura  Alice Munro) hanno sì sperimentato anche il romanzo, ma restano celebri perché “masters of short stories”. 

La seconda domanda che mi fai, dunque, potrebbe essere risposta con le varie cose a cui ho accennato: non è detto che chi ha scritto dei racconti o ha esordito la sua carriera letteraria con questo genere evolva poi nel romanzo (e secondo me non si può neppure parlare di evoluzione perché il passaggio dal racconto al romanzo non è da intendere come miglioramento o sviluppo delle conoscenze). Essi sono due mondi a parte ed è quanto mai ridicolo e riduttivo sostenere che il racconto sia qualcosa di inferiore al romanzo.

 

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Una delle tue raccolte di racconti, La cucina arancione (TraccePerLaMeta Edizioni, 2013), ha destato molto scandalo, in parte è stata censurata, per le tematiche che affrontano i singoli racconti: ora in relazione a questo, per te la letteratura oggi che ruolo ha? In altre parole, può essere ancora un’arte di intrattenimento o deve essere altro? Parlo di una letteratura di denuncia ad esempio.

 

La cucina arancione come giustamente osservi è una raccolta di racconti pubblicata quest’anno e che ha generato qualche iniziale malumore non tanto per come i temi vengono proposti, ma per i temi stessi. La raccolta fornisce un’analisi ampia di personaggi che si trovano alle prese con delle problematiche di varia natura (patologie, manie, perversioni) che mettono in luce delle esistenze disagiate e minacciate dal gruppo umano nelle quali sono inserite. Sono personaggi che spesso sono privi di una dimensione affettiva, familiare ed amicale, ma il messaggio che intendo mandare non è allarmistico e non è che si diventa pericolosi per sé e per gli altri nel momento in cui si diventa soli ed emarginati. Il procedimento è piuttosto il contrario e lo sguardo, anche se sembra essere puntato principalmente su queste esistenze che convivono (o addirittura sopravvivono alle loro difficili anomalie mentali e psicologiche), in realtà è puntato sulla società, sulla massa, sul gruppo umano, su quel senso di comunità che dovrebbe eleggere a suoi fondamenti l’amore verso l’altro, il perseguimento della fratellanza, la condivisione e la certezza nel sistema giudiziario a garanzia del bene comune. Il libro non critica né giudica la società, ma la osserva con attenzione da distante, ne sbircia il funzionamento, senza stigmatizzare i comportamenti umani perché se questi sono di una certa natura hanno di certo un legame alla società e al suo grado di progresso. Non sempre, infatti, quelle che crediamo essere delle realtà progredite ed evolute dal punto di vista economico e culturale (la presenza di biblioteche e università consentono di definire un paese una realtà culturale?) lo sono a livello umano, solidaristico, umanitario. Raramente. Il libro non allarma, ma indaga. Non critica, ma guarda l’altro. Non disprezza, ma cerca di trovare una comprensione ad ogni realtà, ad ogni atteggiamento, pur perverso e sregolato che sia.
Per ritornare al tuo quesito sul ruolo della letteratura, è difficile dirlo. Sicuramente la letteratura non deve essere strumento di commercio come invece la logica del marketing editoriale dà manifestazione ormai da decenni, inseguendo il calciatore o la soubrette che hanno scritto un libro sulla propria vita. La letteratura non deve neppure commiserarsi, deprimersi, esprimere la sua nullità nei confronti della risoluzione di questioni pratiche, contingenti e materiali. Non è vero infatti che con la cultura (all’interno della quale inseriamo la letteratura) non si mangi (ossia non si possa guadagnare e farne quindi il proprio lavoro), anche se è giusto osservare che per i motivi sopra detti, proprio per gli sconsiderati atteggiamenti dell’editoria, la strada sembra esser per lo più sbarrata.
La letteratura, la nuova letteratura, non deve essere studiata con coercizione e ripetuta a voce alta, né verificata con obbrobriosi test a risposta multipla, ma va espressa, interpretata, ricercata eprodotta negli spazi ad essa più inconsueti. La letteratura per il suo proprio benessere deve abbandonare gerarchie e caste (che purtroppo pervadono anche le Giurie dei premi letterari sui quali, pure, ci sarebbe tanto da dire) e deve rifiutare a priori la sua considerazione di sapere “morto” perché in-concreto. La letteratura deve fornire domande e permettere all’uomo di scervellarsi, addirittura fino a logorarsi, per cercarne possibili risposte.
Chiaramente l’elemento di fondo deve essere la denuncia sociale, l’attenzione verso le condizioni disagiate e depresse, le realtà sommerse e borderline, evitando accenti di populismo e stando bene attenti anche a non sfociare nel marcato campanilismo. La letteratura deve rigenerarsi di continuo e questo non necessariamente deve essere fatto partendo dagli autori a noi contemporanei (a cui però è bene dare preminenza), ma può essere fatto anche proponendo una propria rilettura o rivisitazione di un classico intramontabile. Perché finché ci sarà qualcuno in grado di dire qualcosa di nuovo su un’opera e di saperlo fare con professionalità dimostrando acume e sapienza, allora la letteratura non perirà  mai.

 

Il sesso e le perversioni sessuali e mentali sono sempre presenti nelle tue opere e anche come critico ti sei cimentato in studi di certi autori, certi romanzieri che hanno affrontato in passato – con tanto di polemiche- certe tematiche. La domanda che sorge spontanea è quindi: parlando in termini freudiani e psicanalitici del termine, attraverso certe perversioni o certe attitudini sessuali, volendo quasi fare una storia del sesso e di come questo è mutato nel corso del tempo, tu cerchi di leggere la storia di un paese?

 

La critica su Alberto Moravia ha osservato che la gran parte delle sue opere si centralizzano attorno a due temi-sfere semantiche importantissime che sono causa degli eventi delle sue storie; questi sono sesso e soldi. Si ricordi ad esempio le vicende contenute in Gli indifferenti (1929) suo romanzo d’esordio e uno dei miei romanzi preferiti. Questo per dirti che non è possibile sviscerare le vicende umane e quelle fittizie (trasposte in letteratura) scantonando la componente sessuale. Parlare di sesso non significa parlare di amore, non sempre per lo meno. Dici bene quando affermi che mi sono dedicato ad autori che hanno dato particolare attenzione nelle loro storie a episodi che coinvolgono espressioni varie di sessualità (non sempre consentite dalla Legge né dalla morale comune) quali Ian McEwan, ma anche John Irving, Charles Bukowski e in parte anche Nabokov. Chiaramente ogni autore ha una sua idea ed interpretazione sul
tema del sesso, ma da critico è interessante indagare non tanto la mera repertazione delle citazioni magari un po’ più forti, ma il perché l’autore tratti certi argomenti e come li presenti. Nella mia analisi su McEwan in particolare si è osservato come il tema del sesso (spesso deviato) incida profondamente sulle storie da lui narrate e come sia impossibile eludere questa componente. Non sono completamente d’accordo su quanto chiedi, ovvero che l’analisi del tema del sesso possa essere anche un mezzo per dare una lettura del periodo storico narrato o vissuto dall’autore. Se le perversioni sessuali nella letteratura possono essere considerate un fenomeno abbastanza recente (si veda il grande e preoccupante successo della saga di Mr. Grey in America) non è vero che non si sia parlato di questo in passato. Lo si è fatto, ma si è censurato, le opere sono andate perse o si sono volutamente celate e quindi dimenticate anche nei successivi lavori documentaristici. Però non significa che non si sia parlato di cose che oggi sono scottanti e repellenti (ma neppure tanto) nel passato: basterà leggere degli stralci del Decamerone, dei romanzi di De Sade e della storia del libertino Casanova per rendersene conto.
Il sesso è stato da sempre al centro della vita degli uomini, uno dei motori trainanti nei rapporti sociali (e di dominio), ma è nella nostra contemporaneità che, grazie a un sistema di espressione completamente democratico e libero, può aver voce senza veli né recriminazione. Esiste ed esisterà sempre qualcuno che si scandalizzerà nel leggere qualcosa o che in pubblico si dirà disgustato per aver letto qualcosa, ma non è questione di morale. Scrivere di sesso e di perversioni non significa essere un maniaco né tanto meno non avere un proprio giudizio su quelle cose, ma è interessante come l’uomo possa rendersi protagonista (e spesso colpevole) di atteggiamenti e situazioni che vengono mossi proprio dal modo di vivere la sessualità.
Posso aggiungere che Federico García Lorca fu chiaramente omosessuale, ma non per questo negli anni ’30 venne stigmatizzato e allontanato da altri uomini di cultura. Tutti lo apprezzarono per la grande integrità intellettuale e capacità di saper parlare alla gente. I franchisti lo fucilarono con disprezzo sparandogli dei colpi anche nel sedere per la colpa di essere omosessuale (il biografo Ian Gibson riporta vari riferimenti di questo drammatico episodio).Non è parlare di sesso o avere una certa inclinazione a portare problemi e a instaurare ruggini tra gli uomini, ma è la prepotenza e la mancanza di uguaglianza. Ieri, come oggi.

 

Da critico e quindi da studioso di letteratura, mi potresti dire se la letteratura oggi può essere ingabbiata da un genere? O deve e può essere solo di genere?

 

È evidente, alla luce di quanto detto sin qui, che la risposta è negativa. La letteratura oggi non può e non deve essere ingabbiata in un genere, o corrente o movimento che dir si voglia, perché in questo modo si attuerebbe una analisi storico-cronologica che non possiamo permetterci di fare perché noi viviamo il presente e non possiamo inserirlo in un comparto stagno in sé definito e conosciuto in toto. Le categorie sono sempre state utilizzate e sono sempre state strette a tutti. Difficile riconoscersi solo in una categoria e non avere legami o collegamenti con altre categorie. John Donne, il grande poeta metafisico inglese, sosteneva che “nessun uomo è un’isola” intendendo che il senso di comunità deve necessariamente esser vissuto al plurale, in condivisione e che nessuno può arroccarsi nella sua torre d’avorio. Si rischierebbe l’emarginazione indotta, l’auto-esclusione, il vittimismo, il ripiegamento su se stessi. Tutto questo deve essere evitato.
Le categorie possono avere una loro utilità pratica e mnemonica per i ragazzi delle scuole primarie e secondarie nel legare un personaggio a un periodo storico, ma non debbono essere utilizzate in maniera pretestuosa. In Dino Campana, creatore dei Canti orfici che sono considerati espressione di frammentismo e quindi di una nuova letteratura, sperimentale e anti-classicistica, si ravvisa tra le strofe anche una certa fascinazione per uno stile che non ha nulla di avanguardistico. Govoni, che ebbe una fase crepuscolare e futurista, viene ricordato anche per la fase del “ritorno all’ordine” e all’utilizzo di una scrittura di recupero dei canoni novecenteschi. Ergo, le etichette in letteratura debbono essere scollate per sempre, permettendo al materiale letterario di essere analizzato in maniera ampia, polifonica e variegata.
Sono dell’uomo gli opposti, i contrari, gli ossimori e ciò è valido anche per la letteratura. Una stessa persona può essere un poeta romantico, un narratore gotico, un attore tragico, un saggista vittoriano, un pensatore esistenzialista. Le cose, tra loro distanti e apparentemente contrastanti, possono convivere in un’unica persona che ha prodotto più opere. Centrale in questo discorso è tutta quella componente della critica letteraria che, partendo dal concetto di intertesto elaborato da Julia Kristeva, ha permesso gli studi sulla meta-letteratura, il rapporto tra letteratura e vita, l’utilizzo del pastiche e via dicendo.

 

Da organizzatore di eventi, girando per tutta Italia, ti sarai reso conto che una nuova avanguardia si sta affacciando sempre più nel panorama letterario italiano: ora secondo te che importanza hanno i laboratori, i gruppi letterari?

 

Parlare di avanguardia è azzardato. Abbiamo conosciuto in Italia e in Europa due importanti periodi di avanguardia letteraria e artistica che sono stati fondamentali per traghettare dal prima al dopo e che hanno significato dei crocevia importantissimi. Mi riferisco alle avanguardie storiche di primo ‘900 al cui interno si trova il futurismo il cui apporto fu importante nella letteratura italiana e quelle di secondo ‘900, meno note e poco considerate: il gruppo ’63, i “novissimi”, il gruppo Beta, etc. A loro modo furono dei momenti di cesura che proposero una rottura con i vecchi schemi classicisti (la avanguardia storica) o che proposero un nuovo approccio alla letteratura proponendo vie concettuali diverse (la nuova avanguardia). Chiaramente nelle scuole (e ahimè anche alle università ci si sofferma sulle prime avanguardie, perpetuando l’ignoranza sulle seconde avanguardie che poi sono quelle a noi più vicine e interessanti da investigare).
Dicevo che parlare di avanguardia oggi è tendenzialmente sbagliato perché si rischia di adottare in questa maniera un’etichetta di definizione. Ovviamente oggi il clima letterario, sviscerata la componente editoriale chiaramente volta a un mero guadagno- è variegato e difficile da classificare. Ci sono autori che propongono idee apprezzabili e che, pur non avendo alle spalle grandi marchi editoriali che gli garantirebbero una ampia diffusione, si accontentano (lo scrittore è per sua natura un passivo da non intendere in senso negativo) di medie case editrici che offrono una diffusione scarsa o addirittura illusoria. Il fenomeno internet è chiaramente una delle anime della nuova letteratura per mezzo di siti, blog letterari, riviste digitali scaricabili, forum e quant’altro. L’errore che si fa quando si utilizzano mezzi con praticità, facilità e gratuità è quello di abusarne e va dunque detto che esistono molti spazi internet che dicono di dedicarsi alla letteratura o alla scrittura ma che lo fanno con mancanza di conoscenza, con improvvisazione e poco spessore. Molti ad esempio si cimentano nella scrittura di recensioni (la recensione è un testo critico che, di pari passo al racconto, ha poca importanza in Italia, a differenza dell’Inghilterra), ma una recensione non è una sintesi della trama, cioè una sinossi, né un commento personale che si riduce a “bello, perché…” o “non mi piace quando”. La recensione come forma testuale ha una sua fisionomia particolare che dovrebbe esser tenuta da conto perché una recensione neutra o mal fatta, oltre a non dar nessuna soddisfazione a chi la scrive, non avrà nessuna utilità per l’autore del libro. Come conclusione posso dire che la qualità fa sempre la differenza e peggio per noi se non fosse così!

 

Infine, ci potresti dire se secondo te il romanzo (intendo quello vero, non quelli che ci propinano ed è solo robetta da poco) è ancora vivo? E a che punto di crescita e consapevolezza si trova la narrativa in Italia e in Europa?

 

Per non ripetermi dirò semplicemente che il romanzo gode di vita propria nel panorama letterario italiano e la mia considerazione sul romanzo è abbastanza positiva nel senso che è forse l’unico genere che ha sempre mantenuto interesse nei lettori italiani, a dispetto della poesia che negli ultimi decenni (forse a causa della crescita esponenziale dei poeti) sta perdendo il suo seguito o radicalizzando l’interesse solo su alcune figure in particolare. La storia della letteratura italiana è percorribile benissimo attraverso la storia del romanzo, un genere che ha sempre avuto fiducia nei lettori, riscosso entusiasmo e animato ad esempio anche registi per la realizzazione filmica delle storie in esso contenuti. Si tenga presente che il fenomeno della telenovela non è altro che una rappresentazione cinematografica di una storia romanzesca che viene proposta allo spettatore diluita, fruita in piccole dosi, con una modalità seriale. I primi romanzi inglesi del ‘700 (ma ancora anche nella prima metà del ‘900) venivano pubblicati a stralci su delle riviste, proposti serialmente, proprio come una arcaica telenovela ante litteram. I punti di forza del romanzo che gli hanno concesso la sua diffusione e il mantenimento di interesse e successo sono essenzialmente due: 1) la possibilità che la storia narrata possa evolvere sempre in meglio, in una forma ideale (che poi magari non viene raggiunta), 2) il coinvolgimento del lettore che arriva ad immedesimarsi in alcuni personaggi.
Il futuro del romanzo, tanto in Italia che in Europa, lo vedo altrettanto roseo, come lo è sempre stato.

La poetessa Elisabetta Bagli su “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio

La cucina arancione di Lorenzo Spurio
TraccePerLaMeta Edizioni, 2014
Recensione a cura di Elisabetta Bagli

 

“La cucina arancione”, la nuova raccolta di racconti di Lorenzo Spurio, è un libro da leggere piano e da rileggere in modo ancor più accurato per soffermarsi su quei particolari sfuggiti a una prima lettura, che altro non sono che indizi indispensabili alla creazione di riflessioni profonde sulla psiche umana e le sue ragioni che spesso non ha. Proprio da qui l’abilità dell’autore di addentrarci, con il suo stile diretto e di forte impatto, nella nostra mente alla scoperta di quel che siamo o pensiamo di essere. “La cucina arancione” è il luogo dell’infinito, uno spazio aperto e vivo, dotato di una forte complessità, un luogo nel quale l’indagine non si limita solo a quel che è visibile, ma scava nel profondo dell’anima umana, esaltandone la necessità di riflessione ed esternazione.

cover_frontLorenzo Spurio, con la sua scrittura fluida e coinvolgente, riesce a costruire situazioni e personaggi dalle caratteristiche ben diverse. Tutti sono accomunati da un unico filo conduttore: il desiderio dell’uomo di sperimentare, di vivere passioni e fantasie in modo irrazionale e folle, così da poter individuare i limiti da superare e quel che si prova spingendosi oltre essi.

L’arancione, il colore forte e acceso che nel libro domina l’uomo, rappresenta la sua paura verso l’ignoto e la consapevolezza che, solo oltrepassando il mistero, potrà capire se quel che cerca nell’azione è davvero l’unica cosa che possa dare un senso alla sua vita.

L’uomo, anche nella sua apparente inerzia, muove il pensiero e lo spinge a riflettere, a “rotolare” come una palla nella sua mente, per sentirsi mobile, per agire e combattere i suoi conflitti interiori come avviene quando sentirà di essere diventato un nano e non potrà più fare quel che fanno tutte le persone “normali”, schiavo della sua condizione mentale (“La mezza vita”).

Ma dove risiede la normalità? Forse nei sogni abitati da “La vecchia col cappotto ocra”, talmente reali da condizionare l’intera vita del protagonista? O, forse è nella realtà di Giovanna, la “Regina Rossa” che si sentiva morta e rifiutava la sua presenza nel mondo? O risiede nello scetticismo della vita e delle sue girandole di chi vive, muore, ama e di chi, invece, si lascia vivere senza decidere (“Scettico”)?

In questi racconti c’è paura e desiderio di superarla e c’è la Morte e il desiderio millenario dell’uomo di maltrattarla, di violentarla fino a volerne la sua stessa “morte”, come a esorcizzare l’impotenza dell’essere umano che nulla può nei suoi confronti. E, proprio come accade  nel racconto “La cucina arancione” che dà il titolo alla raccolta, la colpa di tutto è da ricercarsi nell’irrazionalità dell’arancione.

L’uomo è figlio del mistero e per tale motivo ne è da sempre attratto. Cosa c’è nell’al di là? Come possiamo continuare a mantenere l’incandescenza e l’energia della nostra vita oltre la morte?

L’essere umano è contraddittorio per natura, si affanna a vivere e diventa folle nell’impresa di superare le sue ossessioni, diventa perverso nelle sue azioni; non si rassegna a salire quotidianamente sulla stessa giostra, a percorrere la strada che gli viene indicata dagli altri o sulla quale si trova senza averlo veramente desiderato. Per natura, l’uomo è nato libero, scevro da catene, anche mentali, per questo non riesce ad accettare i conformismi sociali che lo allontanano dalla sua vera essenza. L’essere umano ha il desiderio di continuare a perseverare la sua esistenza oltre la morte e Lorenzo Spurio, grazie alle intuizioni e ai tormenti che animano i suoi personaggi e le sue storie, riesce a donarci spaccati di vissuto interiore che aprono gli occhi della mente.

“La cucina arancione” è una raccolta nella quale la dimensione visiva è dominante e la capacità dello scrittore di renderla è tale da penetrare negli occhi del lettore in modo invitante e seducente tanto che lo stesso non potrà fare a meno di credere che gli eventi che si sviluppano all’interno della raccolta siano accaduti nella realtà. E ciò avviene anche quando si affronta ironicamente e con molta commozione il tema dell’ibernazione (criogenizzazione) in “Tra quattrocento anni”: le affinità con l’arte visiva, specialmente su pellicola, sono estremamente evidenti.

L’attenzione al sociale di questa raccolta è ben visibile e l’universalità dei temi trattati in essa può dirsi tangibile, considerando che le problematiche della psiche analizzate nei racconti sono vissute da molte persone quotidianamente. Molto spesso, però, accade che le persone portatrici di tali sintomi non solo non sono in grado di attribuire a esse un nome, ma non sono neanche in grado di riconoscere i propri disagi.   

Attraverso la scrittura di Lorenzo Spurio, il lettore viaggerà nei sogni e negli incubi dell’uomo con la giusta dose di furore e osservazione, di incertezze e percezioni, di fuoco e poesia, inscindibilmente incarnati nel mistero della vita.

E’ davvero una voce originale quella di Lorenzo Spurio, di uno scrittore raffinato e colto che emerge per fantasia e imprevedibilità e che ha fatto della libertà di mente il suo modus vivendi.

 

ELISABETTA BAGLI

03-08-2014

“La cucina arancione” di Lorenzo Spurio presentata a Porto San Giorgio

locandina

Lo scrittore jesino Lorenzo Spurio, attivo da anni nella scrittura di fiction e della critica letteraria (ha all’attivo già vari saggi e studi su autori prevalentemente anglosassoni) presenterà la sua ultima opera letteraria a Porto San Giorgio (FM) presso il Parco La Cascina il prossimo 25 Luglio 2014 a partire dalle ore 21,15.

L’evento, patrocinato dalla Regione Marche, dalla Provincia e dal Comune di Fermo, è inserito all’interno del programma letterario-musicale organizzato da Nunzia Luciani e denominato “Di Villa in Villa” volto a promuovere autori ed artisti fermani e marchigiani in generale.

La presentazione sarà introdotta da Gian Vittorio Battilà e sarà condotta interamente da Susanna Polimanti (scrittrice e recensionista) che presenterà l’autore, l’opera “La cucina arancione” e colloquierà con l’autore. Ad impreziosire la serata ci sarà la voce di Daniela Agostini (attrice, interprete) che leggerà passi scelti dall’opera di Spurio, una raccolta di venticinque racconti che indagano la psiche umana in maniera innovativa e interessante.

Ci saranno  altresì intermezzi musicali di Federico Bracalente (violoncello) ed Eleonora De Angelis (pianoforte).

 

Chi è l’autore?

Lorenzo Spurio è nato a Jesi nel 1985. Si è laureato nel 2011 in Lingue e Letterature Moderne all’Università degli Studi di Perugia con una tesi di letteratura inglese.

Ha pubblicato racconti e saggi di critica letteraria su riviste, antologie e in volume. Collabora con le riviste Sagarana e Le Reti di Dedalus e dirige la rivista di letteratura Euterpe, da lui fondata nel 2011. Intensa la sua attività di critico con un’ampia stesura di recensioni, prefazioni e note critiche per autori esordienti e non.

Per la narrativa ha pubblicato le raccolte di racconti La cucina arancione (2013) e Ritorno ad Ancona e altre storie (2012). Per la critica letteraria ha pubblicato Ian McEwan: sesso e perversione (Photocity, 2013), Flyte & Tallis (Photocity, 2012), La metafora del giardino in letteratura (Faligi, 2011, co-autore Massimo Acciai) e Jane Eyre, una rilettura contemporanea (Lulu, 2011).

E’ stato ed è membro di giuria in vari concorsi letterari. Preside il Premio Letterario Nazionale di Poesia “L’arte in versi” ed è Presidente di Giuria del Premio di Letteratura “Ponte Vecchio”.

 

 

L’ingresso è libero e tutta la cittadinanza è invitata a partecipare.

A conclusione della manifestazione seguirà un buffet.

Per maggiori info:

www.divillainvilla.it –  info@divillainvilla.it

348.0691303

 

 

Le prime serate della kermesse letteraria “Di Villa in villa” a Porto San Giorgio (FM)

La kermesse letteraria-musicale “Di Villa in villa” ideata da Nunzia Luciani e patrocinata dalla Regione Marche, dalla Provincia di Fermo e dal Comune di Fermo è stata inaugurata lo scorso 25 giugno a Fermo a Palazzo Caffarini Sassarelli (Prefettura) con una serata dal titolo “Passato, presente e futuro delle missioni internazionali di pace” al quale hanno preso parte eminenti rappresentanti del mondo diplomatico del nostro Paese.

Le prossime due tappe della rassegna “Di Villa in villa” si svolgeranno entrambe a Porto San Giorgio secondo questo programma. Giovedì 17 luglio nell’affascinante cornice di Villa Bonaparte il critico d’arte e insegnante Nunzio Giustozzi terrà una serata dal titolo “Mostri, creature fantastiche della paura e del mito” che sarà allietata dalla performance pittorico-visiva dell’artista Cristina Lanotte, da una taiko performance e dalla presenza dello scultore Imelde Corelli Grappadelli.

A seguire, la settimana successiva, al Parco La Cascina si terrà la presentazione un evento dal titolo “La cucina arancione: la scrittura di riflessione” in cui la scrittrice e recensionista Susanna Polimanti presenterà il libro dell’autore jesino Lorenzo Spurio. L’autore risponderà alle domande dell’intervistatrice e Daniela Agostini (interprete, attrice teatrale) reciterà alcuni brani del suo libro. Gli intermezzi musicali di questo evento saranno di Federico Bracalente (violoncello), Eleonora De Angelis (pianoforte). In questo caso seguirà un rinfresco dopo lo spettacolo.

Entrambe le serate saranno presentate da Gian Vittorio Battilà e l’orario di inizio di entrambi gli appuntamenti è le 21,15.

Per maggiori informazioni si rimanda al sito della kermesse e al suo profilo Facebook.

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Patrizia Stefanelli su “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio

Recensione a “ La cucina arancione” di Lorenzo Spurio

A CURA DI PATRIZIA STEFANELLI

 

Patrizia StefanelliSpazio mentale fuori dall’ordinario nel mondo intimo che vive in ognuno di noi. Specchio che senza giudizi si racconta, “ci” racconta. Non nascondo che “ La vecchia col cappotto ocra”  mi ha presa per giorni. Ricordo che da piccola, chissà perché, avevo paura di una vecchia donna che viveva ai margini della società. Quei “margini”  sono nelle storie di confine border – line, narrazioni che  Lorenzo Spurio, porta in modo semplice all’attenzione del lettore, scorrevole a tal punto che le parole spessissimo si fanno immagini. Trionfano portando sempre un segreto, una sorpresa e la voglia di arrivare alla fine della storia che…ricomincia con volti e nomi diversi nella storia successiva. Procede, in “Gutron”, per analessi, ottimo viaggio per il lettore e per il personaggio che diventa narratore di se stesso e dell’impotenza in cui spesso, ogni malato si trova a vivere.

Territori, percorsi, città , equiparati a percorsi interiori, come un sogno, da riconsegnare al commissariato quasi fosse un portafogli con documenti importanti.

In fondo, Lorenzo ci porta, attraverso le storie, alle mancanze della vita di ognuno. Di salute, di affetti, di autostima, di sicurezza, d’amore ( Mariastella e l’armadio, in “ L’armadio mi mangiava” e ne “ La regina Rossa”) nella continua agnizione del Sé.

Saggiamente, la matematica poi, insegna filosofia di vita: il potere di una divisione attraverso la sineddoche. Situazioni di disagio interiore che si presenta nella solitudine esistenziale, in cui presenze “malate” sono le componenti dell’unica persona. Affrontare i mostri che abbiamo dentro, riconoscerli, è l’unica via di sopravvivenza.

E’ “Goldfish” ( titolo emblematico), di un cinismo disarmante nel suo impegno a trattare un argomento scottante, quello della pedofilia.

Disagi sessuali che ricorrono in varie sfumature fino all’arancione, alla “cucina arancione”.

Visioni, che si chiudono e si riaprono nelle “possibilità” a me tanto care. “Possibilista” non so se può essere sinonimo di ottimista, ma di sicuro, non esclude nulla.

E’ scomoda  “La cucina arancione”, una porta da aprire, in fondo ad un corridoio immaginato, attraversato dalle luci che di soppiatto sferzano, dalle fessure, in basso, delle varie stanze del vivere.

 

Con stima, Patrizia Stefanelli

 

Sabato 17 maggio “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio a Civitanova Marche

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Iuri Lombardi su “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio

        La cucina arancione: quando la de-costruzione diventa un atto di verità

Di IURI LOMBARDI

 

 

cover_frontLa cucina arancione, la raccolta di racconti di Lorenzo Spurio edita nel 2013 da Tracce per la meta edizioni, oltre ad essere un libro interessante, pieno di spunti e di riferimenti, oltre ad essere una netta e chiara (inequivocabile) indagine di un mondo minuto, emarginato, nascosto, che alberga in noi oltre che ai margini prestabiliti dal sociale, è sopratutto un’opera post-moderna in cui Lorenzo (anche in questo caso chiamo per nome lo scrittore perché gli sono amico) si colloca a pieno in un filone preciso della letteratura contemporanea (a mio avviso l’unica possibile): quella del post-moderno. Filone che se in apparenza un critico può nutrire perplessità nel definirlo, ha tuttavia dei connotati precisi che di seguito vorrei esprimere in termini storiografici.

In primo luogo, la caratteristica principale del post-moderno è sicuramente la de-costruzione di ogni classica funzione che per secoli ha avuto la letteratura. E in primo piano, la de-costruzione del classico (de-mode e anti-storico) mette in luce non solo un mutamento di rotta sulla lingua (non più conservatrice), non solo nello stile, che diventa per forza di cose un catalizzatore di eventi linguistici e ipertestuali, ma compie una rivoluzione – e consentitemi di affermare gobettiana- nel porre come protagonista della propria storia l’emarginato, il prossimo del quotidiano, volendo l’uomo medio gonfio di solitudine e di paranoie, di paure e di fobie.

Questa è in primo luogo la caratteristica della Cucina arancione. Un libro rivoluzionario – in termini, ripeto, gobettiani della parola- che mai come adesso nel panorama editoriale italiano s’era visto. Infatti, in luce di quanto sostenuto sino ad ora, l’opera di Spurio è una indagine diretta, quasi un punto di osservazione continuo, una sequenza di storie apparentemente lontane dalla normalità che quasi al lettore medio creano scandalo.

Lorenzo si cala nei panni di un viaggiatore di un mondo sconosciuto, da noi tutto saputo ma celato per timore del pregiudizio, in cui lui stesso da scrittore è costretto, vuoi per piacere della scrittura, vuoi perché curioso, a narrarci questa realtà costituita solo da muri, da alte saracinesche di paure e fobie, di paranoie e di ripetizioni. Ripetizioni di gesti, di riti quotidiani che andando ad oggettivare la materia d’indagine diventano interessanti spunti su di un contesto o più contesti sommersi alla maggioranza delle persone. E la ripetizione dei gesti, delle paure che si rinnovano regolarmente in un tempo x sono parte integrante di una nostra forma mentis che il più delle volte allontaniamo da noi per paura. L’indagine di Spurio (notevole critico letterario e studioso di un certo tipo di letteratura psicologica) fonda sulla ripetizione la propria poetica, quasi avesse assorbito in pieno e in modo positivo e costruttivo la lezione dei funzionalisti francesi, in particolare di Deleuze e Derrida. Infatti tra le righe della cucina arancione si possono cogliere una serie di spunti che legano, volente o non, la narrativa alla questione del linguaggio psicanalitico. E questo viene fuori, emerge come un relitto dalle acque profonde del mare, quasi portato a galla dalle correnti di una volontà remota, non solo nei contenuti (in cui il protagonista è l’anti-eroe), ma in particolare nella lingua.

Una lingua che nell’atto della descrizione si fa distante e riesce ad oggettivare la cosa narrata quasi come se l’autore non volesse intaccare l’oggetto conferito con la propria emozione o personalità. Esperimento questo che somiglia molto alla lezione del romanzo scientifico dei naturalisti francesi, del Verga e del Capuana per un contesto agreste e italiano, per il teatro somigliante all’epicità di Brecht.

In altre parole, si tratta di una lingua diretta, senza inflessioni emotive, che racconta il narrato con scientificità e rigore assoluto, dando al lettore la possibilità di interagire all’interno della storia come figura protagonista. Figura che ha il compito di ultimare il racconto attraverso una riflessione che trova con l’ipertestualità del testo una propria alchimia. E questo è tipico del post-moderno.

 

Altro aspetto, direi non marginale, è il discorso dello spazio/tempo come nel racconto Jonny, in cui una realtà cela e si sovrappone ad un altra, per cui il tempo e lo spazio diventano un disegno teatrale, drammatico della nostra vita. Spazio/ tempo che si annida e si esplicita in più tempi e in più spazi attraverso riti quotidiani, paure, cose non dette. Questo aspetto svela in Spurio una cultura sociologica del vedere la letteratura, nello specifico la narrativa, in cui il pensiero di Durkheim[1] e di Debord[2] trapela come interrogativo mai risolto sul nostro tempo.

Quel senso di morte (fisica e simbolica) che si respira in Durkheim pare lambire, albergare nei personaggi della Cucina arancione, come se la vita di questi si alimentasse di uno spazio/tempo proprio, fosse costellata di suicidi violenti sia verbali che fisici. Si tratta in sostanza, di attentati verso il proprio essere continui che pare non trovino soluzione.

In secondo luogo, il contesto calato in un contesto altrettanto drammatico, allude o può ricordare la famosa società dello spettacolo di Debord, in cui l’idea dell’altro e della propria persona è minacciata dall’equivoco costante e continuo dei giornali e delle immagini. Ed eccoci al punto: la cucina arancione, pur essendo un libro di racconti, è una sequenza di scene drammatiche in cui la realtà di noi tutti trova il suo naturale palcoscenico. Si tratta di una scena dolorosa, piena di traumi e paure, di muri invalicabili, in cui l’osceno non avendo più pudore di sorta (e dico in termini letterari giustamente) balza in primo piano facendo dell’opera un teatro alla Artaud[3]. Si tratta della narrativa del crudele: dello svelamento della verità. Di una verità dolorosa, antipatica, sofferente che alberga nell’uomo, ad ogni livello o estrazione sociale, che fa della vita una esistenza ferita[4].

 

27.02.2014

                                                                                   Iuri Lombardi


[1]Durkheim, Il suicidio, Bur, 2013

[2]Debord, la società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, 2011

[3]Artaud, il teatro e il suo doppio, Einaudi, 2000

[4]Moravia, l’esistenza ferita, Feltrinelli, 1999