“Dialetto e musica del Salento: Officina Zoè e Antonio Castrignanò”, articolo di Stefano Bardi

Articolo di Stefano Bardi 

Salento, terra dall’arcaica storia e dall’arcaico dialetto come per esempio quello leccese in continua evoluzione e molto parlato ancora oggi. Dialetto che è usato nella letteratura popolare fatta di musica e di parole da gruppi locali come Briganti di Terra d’Otranto, Tamburellisti di Torrepaduli, Zimbaria, Alla Bua, Manekà, I Calanti, Lu Rusciu Nosciu e il gruppo Officina Zoè nato nel 1993. Questo gruppo è formato attualmente da Cinzia Marzo (voce, flauti, tamburello, castagnette), Donatello Pisanello (organetto diatonico, chitarra, mandola, armonica a bocca), Lamberto Probo (tamburello, tamborra, percussioni), Giorgio Doveri (violino, mandola), Luigi Panico (chitarra, mandola, armonica a bocca), Silvia Gallone (tamburello, tamborra, voce) e Laura De Ronzo (danza). Le sue produzioni si basano su musiche tradizionali con testi in salentino trattanti temi legati al lavoro in campagna ma anche temi amorosi, etici, sociali e altri ancora.

0006206_terra-officina-zoe_550 (1)Il 1996 è l’anno dell’album autoprodotto Terra, che sarà poi ripubblicato nel 2005 da Anima Mundi. Terra, qui, intesa sia come Salento in cui far fiorire magici amori sia come campagna, in cui possiamo vedere la sua carne lacerata, con addosso ferite che versano per l’eternità. Lettura quest’ultima che è rappresentata dal forte utilizzo musicale del tamburello salentino che musicalizza i dolorosi aneliti, gli straziati battiti spirituali e i laceranti pianti della campagna salentina.

Una prima tematica è di stampo religioso attraverso la figura di San Paolo, ovvero, il protettore celeste delle vittime tarantate che sono da esse purificate attraverso la sua dolce voce in grado di uccidere la demoniaca tarantola e di riportare l’amore nel cuore della tarantate. Parole, quelle del santo, che sono simboleggiate dal suono del tamburello, non costruito da mani umane, ma nato dal puro spirito divino e in grado di scatenare nelle carni delle tarantate un’intesa eccitazione, che le obbligherà a compiere un ballo liberatorio.

Una seconda tematica è legata alla terra e, più nel dettaglio, alle lavoratrici di tabacco considerate come inutili cerature da umiliare nella canzone “Fimmine fimmine”, alle contadine viste come schiave nella canzone “La tortura” e alle contadine malpagate e sfruttate nella canzone “Lu sule calau calau”.

Una terza tematica riguarda l’amore, dal gruppo salentino musicato come una ragazza dalle divine carni, dai magici e luminosi sguardi, dalle tenebrose e chimeriche chiome, dalle ubriacanti movenze fisico-corporali e dal cuore divoratore di uomini.

Una quarta e ultima tematica riguarda la mitica origine del mare salentino nella canzone “Lu rusciu de lu mare”, dove le cristalline acque sono le dolorose lacrime versate dalla figlia di Nettuno, a causa delle umane cattiverie nel Mondo.

Il 2000 è l’anno dell’album Sangue vivo pubblicato da CNT-Cantoberon. Sangue che è inteso come l’ardente sangue dei salentini tutti, ma anche come resurrezione allo stesso tempo. Sangue letto attraverso il tema del vento nella canzone “Jentu”. Vento sanguinante di passioni che ci abbeverano l’aspra bocca, ci quietano lo straziato spirito, ci riscaldano la bocca di affettuosi baci, ci immergono in elisiache primavere e ci fanno consumare la Vita in nome della frenesia. Vento e sale attraverso la canzone “Sale” che ci allontana dalle luminose esistenze del Padre Celeste per tuffarci in false materialità terrene. Sangue dai toni ancestrali nella canzone “Mamma la luna”, poiché come la luna muove il mondo e i suoi abitanti, lacera le carni e lo spirito e infine, ci affoga nell’eterno sonno per farci poi rinascere come creature ultraterrene dal candido, vergineo e cristallino spirito. Un sangue infine dal passato storico, attraverso la canzone “L’America”, che racconta la partenza dal Sud di molti ragazzi per raggiungere la nuova Terra Promessa, ovvero, l’America. Stato questo in cui si trovava la fortuna e allo stesso tempo però ci si scordava delle proprie mogli, che, ormai da anni senza più notizie dei loro mariti, si rifacevano una nuova vita.

Il 2004 è l’anno dell’album Crita pubblicato da Polosud Record. Un primo tema è sviluppato nella canzone “Ferma ferma”, dove l’erotismo è visto come un lussurioso gioco carnale e come il motore che anima i piaceri, le spiritualità, le luminose gioie, gli inebrianti profumi e i divini amori del Mondo. Erotismo che, però, si basa sull’amore qui musicato nelle canzoni “Anima bella” e “Allu sciardinu”. Nella prima canzone è rappresentato con le sembianze di una dolce fanciulla vista a sua volta come un dolce e caloroso sogno, come una divina ombra da osannare e come un prezioso tesoro da proteggere dalle cattiverie. Nella seconda canzone, invece, è concepito come un magico giardino dalle elisiache atmosfere. Album con tematiche dai magici toni, attraverso le canzoni “L’acqua ci te llavi” e “Tambureddu meu”. Nella seconda canzone, il tamburello salentino è concepito come un magico strumento in grado di creare frenetiche melodie, di accendere l’erotica passione nel cuore dei ragazzi. Album questi affiancati da altri album in studio e live del gruppo salentino, senza però che nessuno degli altri possieda la stessa potenza poetico-musicale di quelli da me analizzati e che rappresentano ad oggi, il testamento poetico-musicale degli Officina Zoè.

Sempre per rimanere nella tradizione e per iniziare un discorso di innovazione, dobbiamo occuparci del cantante e tamburellista salentino Antonio Castrignanò (Galatina, 1977). Il 2010 è l’anno dell’album Mara la fatìa prodotto da Felmay, composto, musicalmente parlando, da pizziche e da tarantelle che musicano il maro, ovvero, l’amaro e aspro universo dei mezzadri salentini. Universo questo trattato nelle canzoni “Mara la fatìa”, “Lu Sule Calau” e “Tremulaterra”. Una canzone, la prima, dove la fatica mezzadra è vista come una necessità economica imposta da altri sulla propria pelle, come un massacrante sforzo psico-fisico, come una straziante lacerazione delle carni e come un universo animato da irreali e spettrali amicizie. Una fatica, che, come ci viene mostrato nella seconda canzone, è regolata dal sole visto come un padrone che tutto decide e che regola la Vita contadina, non tenendo conto delle gioie e dei dolori umani. Campagna infine vista nella terza canzone, come una creatura che si nutre del sudore e del sangue dei braccianti. Sangue e sudore, che sono i principali alimenti delle giovani ninfe partorite dalla campagna salentina. Tematiche queste affiancate da quelle riguardanti la figura del carrettiere e la figura della donna. Carrettiere trattato nella canzone “Cantu a trainiere” dove è visto come una creatura dall’infernale voce, in grado di lacerare le carni, di creare fantastiche storie e di trasportare gli Uomini in chimerici universi. Donna infine poetizzata attraverso la canzone “Signora Madama” e che ci mostra la donna salentina come una schiava del proprio marito, ma anche, come una creatura avara, passionale, focosamente erotica e pia.

antonio-castrignano-fomenta.jpgIl 2014 è l’anno dell’album Fomenta prodotto da TUK Record. Termine fomenta in italiano come infiammazione e che rimanda, alle emozioni che ardono, infiammano, consumano e bruciano lo spirito attraverso canzoni tematicamente forti e accompagnate da tradizionali musiche salentine contaminate da sonorità balcaniche, zingaresche e arabo-gitane che rappresentano l’innovazione poetico-musicale di Antonio Castrignanò. Una prima tematica la possiamo trovare nella canzone “Core meu”, dove il padre e la madre gli vengono nel sogno, il primo con parole colme di sangue e la seconda con parole colme d’amore. In particolar modo attraverso il ritornello, la madre è rappresentata come una creatura colma di amore, bontà, luminosità, dolcezza e come una saggia consigliera per quello che riguarda l’eterna giovinezza, dall’artista salentino riprodotta attraverso il suono del tipico tamburello salentino in grado di salvare gli Uomini dalla terrena Morte e farli vivere, in un universo animato da dolci nostalgie e commoventi reminiscenze. Una seconda tematica la troviamo nella canzone “Fomenta”, dove la Vita è vista come la taranta, ovvero, come un’ardente, passionale ed erotica danza all’interno di una Vita composta da laceranti dolori, da sofferenti croci esistenziali, da oscure brume spirituali e popolata infine da Uomini che muoiono e rinascono ogni giorno. Dolori e sonni eterni che possono essere curati attraverso la pizzica vista come una creatura dalla divina voce, in grado di farci rinascere come paradisiache creature dai dolci aneliti, dalle leggiadre carni, dalle ubriacanti movenze, dall’ardente sangue e da un candido spirito che profuma di libertà. Il tutto musicato da sonorità salentine e gitano-zingaresche realizzate da violini, fisarmoniche e tamburelli a sonagli che simboleggiano gli umani singhiozzi colmi di sofferenza e di lacrime. Una terza tematica è racchiusa nella canzone “Li culuri te la terra” dove l’amore è concepito come una tavolozza dai mille colori simboleggianti dolci reminiscenze, amare ombre esistenziali, accecanti allucinazioni paradisiache e ardenti amori passionali come la melodia della pizzica, le parole della taranta e le sanguigne lacrime della campagna salentina.

Una quarta tematica, la possiamo leggere nella canzone “Furtuna” dove è trattato il dolore spirituale dell’io costretto a consumare i suoi giorni, all’interno di una società insensibile alle emozioni e all’amore. Una quinta tematica, la possiamo ascoltare nel brano strumentale “Terraferma” dove la musica salentina e arabo-gitana simboleggino il cammino migratorio degli Uomini fatto di dolore, lacrime, sangue e morte. Un cammino quello umano che vuole condurre i suoi figli, a una nuova Terra Promessa dove poter vivere nella pace psico-fisica, nell’amore spirituale e nella purificazione carnale. Una sesta e ultima tematica, la rintracciamo nella canzone “Luna otrantina” dove la luna di Otranto è vista come uno specchio riflesso, dove vediamo immagini riguardanti l’esistenza di questa città animata da fatiche marittime, da dolci e amari sogni e da interminabili notti.     

STEFANO BARDI

 

Discografia di Riferimento: 

Officina Zoè, Terra, autoprodotto 1996 e ristampa Anima Mundi, Otranto, 2005.

Officina Zoè, Sangue vivo, CNT-Cantoberon, 2000.

Officina Zoè, Crita, Polosud Record, Napoli, 2004.

Antonio Castrignanò, Mara la fatìa, Felmay, Torino, 2010.

Antonio Castrignanò, Fomenta, TUK Record, 2014.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

 

 

 

 

Recensione di “Cetti Curfino” di Massimo Maugeri a cura di Gabriella Maggio

Recensione di Gabriella Maggio

Andrea Coriano, protagonista del romanzo, è un trentenne giornalista free-lance che stenta ad  affermarsi perché ancora non ha trovato la storia da raccontare. Intanto vivacchia in casa della zia Miriam che l’ha amorevolmente accolto sin dalla nascita, assumendo il ruolo della  madre morta di parto. La  sua vita  scorre  monotona, scandita dalle modalità di gestione della casa amorevolmente imposte dalla zia, che, sebbene accettate, lo avviliscono, finché non s’imbatte nella storia a lungo cercata, quella di Cetti Curfino, rea confessa di un grave delitto, adesso in carcere.

La storia ha avuto  una immediata eco mediatica, ma poi è stata dimenticata. Andrea decide di incontrare la donna in carcere, di parlare con lei per portare alla luce quello che ancora non è stato rivelato, l’elemento di mistero, l’enigma  che si nasconde dietro al crimine.

download.jpgDal primo incontro Andrea resta affascinato non soltanto dalla bellezza sfolgorante della quarantenne, ma dall’incanto ferale che emana. Cetti potrebbe essere una donna fatale, ma le manca la consapevole perversione del ruolo, perché, al contrario, lei cerca di sminuire e occultare la sua bellezza, di cui conosce il pericolo. Ha fatto esperienza  di quanto sia difficile mantenersi salda su onesti  principi. Cetti, facciamo le cose regolari, Cetti, che chi non le  fa poi la piglia in quel posto, le diceva sempre il marito prima che morisse. Ma non è facile per Andrea portare avanti il progetto del libro anche se condiviso da Cetti, perché La donna è il negro del mondo….è la schiava degli schiavi dice J. Lennon in Woman is the Nigger of the world, canzone  citata nell’esergo del libro e  indicata dall’autore come colonna sonora del romanzo.

La narrazione scorre fluida lungo i trentasette capitoli che alternano la  lingua italiana di Andrea e zia Miriam e altri personaggi al dialetto siciliano, che aspira a un’italianizzazione precaria e scorretta, usato da Cetti nel  suo inconsapevole percorso di autoanalisi nelle lettere scritte al  commissario Ramotta per racconta tutta la sua storia. Cetti si fa scudo delle sue esperienze per migliorarsi, per uscire  al più presto dal carcere, attuando una condotta irreprensibile, per imparare ad esprimersi correttamente con la speranza di riabbracciare il figlio e costruirsi una vita migliore. In questa sua scelta è autentica e determinata.

La storia di Cetti, che come s’intuisce da un solo indizio è ambientata a Catania, viene contestualizzata in temi di forte attualità, quali la condizione femminile, la situazione carceraria, la difficoltà dei giovani a trovare una condizione economica adeguata, la delinquenza, il lavoro in nero. La lotta della donna per trovare uno spazio vitale in una società maschilista appare ancora lontana dal successo, ma è guardata con interesse dallo scrittore che con chiarezza esprime il suo sostegno.

La storia di Cetti  ha già attratto Maugeri che l’ha raccontata in “Ratpus”, pubblicato nella raccolta Viaggio all’alba del millennio edita da Perdisa; ma la ripresa in forma di romanzo matura quando il regista Manuel Giliberti traspone il testo in un monologo interpretato da Carmelinda Gentile. Si può cogliere un una linea di continuità del romanzo Cetti Curfino con la precedente prova narrativa di Maugeri Trinacria Park, edita da e/o nel 2013 nella tema siciliano, lì affrontato in maniera esplicita dal punto di vista dell’immobilismo dell’isola: E vui, biddizza mia, durmiti ancora, canzone siciliana che fa da colonna sonora alla narrazione; mentre in Cetti Curfino la Sicilia appare in maniera più sfumata, non soltanto per la focalizzazione su un  personaggio, ma per una volontà di dare alla storia un significato più ampio in cui ogni lettore può riconoscersi.

GABRIELLA MAGGIO

 

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Una società diversa: ricordi di una Trapani trascorsa, viva nel ricordo fulgido e costante. Recensione di “Spigolature” di Vittorio Sartarelli

A cura di Lorenzo Spurio

Vittorio Sartarelli è nato a Trapani nel 1937 da una modesta famiglia. Ha seguito studi umanistici e poi si è laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Palermo. Nel 1958 venne assunto dal settimanale politico trapanese “Il Faro” dove operò a diverso titolo per quattro anni. Nello stesso periodo collaborò anche con altre testate sino a che nel 1963 venne assunto in un istituto di credito dove è rimasto sino alla data del suo pensionamento.

Come autore ha esordito nel 2000; scrittore attento al dettaglio, insaziabile pittore di vicende vissute e nostalgico nel recupero di memorie che hanno contrassegnato i suoi anni passati, Sartarelli si mostra versatile per i suoi interessi verso la prosa autobiografica, memorialistica e descrittiva con particolare attenzione anche alla descrizione degli ambienti nei quali si percepisce l’attaccamento per Trapani e le affascinanti manifestazioni etno-culturali della sua terra.

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Uno scorcio della città di Trapani

Tra le varie pubblicazioni si segnalano “Territorio e motori” (2006), un volume tascabile, una sorta di guida con informazioni sugli aspetti storico-culturali, tradizionali della capoluogo siculo in cui è nato con particolare attenzione anche allo sport. Allo sport, in particolare, Sartarelli è stato legato, in modi e in età diverse sia con il ciclismo (di cui era molto affascinato in età giovanile rimanendo affascinato da Bartali) che dall’automobilismo, seguendo la capacità meccanica e creativa del padre, meccanico arguto, che nel 1951, dopo aver creato un auto da corsa fiammante, “vinse nella sua categoria la XXXVI Targa Florio, classificandosi anche sesto assoluto nella classifica generale” (90). Quest’ultima vicenda è contenuta in particolar modo nel volume “Francesco Sartarelli” (2000) da lui definita la “biografia di un campione trapanese degli anni ‘50” ma se ne parla abbondantemente anche nel racconto “Mio padre” presente in “Spigolature” nel quale l’autore traccia la vicenda esistenziale del genitore paterno ripercorrendo alcuni degli episodi d’affetto più incisivi che li hanno visti legati sino al sopraggiungere della malattia del padre che l’autore percepisce come una “mutilazione” (91) parlandone in questi termini: “Esisteva ancora, era vicino a me ma, era diventato un’altra persona, lontana anni luce da quella che mi aveva seguito con affetto paterno e condividente durante la mia vita, il faro che costituiva per me un punto di riferimento e di orientamento costante si era spento” (91).

Il sentimento di comunione, il fascino e la completa sintonia con il contesto ambientale, sempre ben radicato nelle sue narrazioni, sono meglio esaltati in “Cara Trapani” (2007) che si configura come una sorta di almanacco dotto e utile, ricco di informazioni e nutrito di ricerca bibliografica, frutto della volontà di contenere in un libro elementi di storia, etnologia e tradizioni della sua magica città. Chiaramente non si tratta di una prosa fredda e clinica, atta a descrivere storicamente con un linguaggio critico e umanamente impassibile, al contrario nell’elencazione arguta delle nozioni storiche, geografiche, culturali è unita in maniera indissolubile una carica viva e spontanea che sgorga dal sentimento coinvolto.

Quella di Sartarelli è così sia una narrativa documentaristica (le branche del sapere che lo coinvolgono sono varie, dalla scienza all’enologia, dalla storia all’archeologia e mai coniugate tra loro con forza o in maniera improvvisa) e al contempo una prosa personale, intima, familiare, ricca di aneddoti personali, vicende proprie, memorie di momenti vissuti con parenti o di incontri, come quello con lo zio d’America, contenuto nel volume “Spigolature” (2017), una prosa che, per certi versi, fa ricordare il Sciascia narratore degli esordi.

Altre opere dell’autore sono “I racconti del cuore” (2008), un saggio di carattere sociologico “La famiglia, oggi” (2009) e un excursus dell’intero periodo lavorativo in “Memorie di un bancario” (2009).[1] Vittorio Sartarelli è anche blogger, recensore di critica letteraria, saggista. Nel volume antologico sulla poesia e cultura siciliana curato dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi che uscirà il prossimo anno l’autore ha collaborato con una recensione-documento all’opera nel dialetto locale “Petri senza tempu” del poeta trapanese Nino Barone. Collaboratore di vari giornali e riviste di cultura e letteratura tra cui “Il Salotto Letterario” (Torino), “Progetto Babele”, “Euterpe”, “Il Club degli Autori”, è risultato vincitore in numerosi premi letterari nazionali ottenendo premi da podio, premi speciali, menzioni e altri riconoscimenti che ne attestano le indiscusse capacità letterarie e comunicative. È accademico dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” di Catania e Socio ordinario dell’Ass. Culturale Euterpe di Jesi (AN).

A spiegare il titolo della raccolta “Spigolature” (Elison Publishing, Lecce, 2017) è lo stesso autore che, nella presentazione al libro, così scrive: “Spigolare chiarisce la sua definizione come un’azione antica […] di raccogliere ogni spiga rimasta sul terreno dopo la mietitura per cui ogni singola spiga di grano poteva fare la differenza; […] spigolare può avere anche un significato che ai più appare recondito, ma che è ormai entrato nel comune linguaggio culturale, come raccolta o scelta privilegiata di concetti” (3). Dunque un volume che raccoglie una crestomazia di testi, un florilegio particolare, una selezione particolarmente significativa per l’autore, dunque non un semplice compendio che agglutina la produzione, ma un testo che propone una scelta ponderata e motivata dei componenti che lo contraddistinguono, nella sua totalità, come opera unica e compatta.

9788869631405_p0_v1_s550x406.jpg“Spigolature” – “libro eclettico”[2] – si compone di una serie di racconti di diversa lunghezza nei quali l’autore rievoca momenti particolari della sua storia passata, spesso è una semplice immagine, come quella del mare nell’omonimo racconto, a riallacciare al passato: l’autore ci racconta del rapporto di amore-odio verso il mare e ce ne spiega le ragioni e, a seguire, con evidente orgoglio della sua sicilianità, passa in rassegna agli aspetti più tipicizzanti della città natìa di Trapani: da narrazione biografica[3] si passa così, senza cesure nette, a una prosa scientifica, di documentazione storica e sociale quando ci parla delle saline e delle tonnare, particolarmente presenti nella zona di Trapani (visitai qualche anno fa la Salina di Paceco e ne conservo uno splendido ricordo e, sull’isola di Favignana, la guida ci spiegò che la tonnara lì presente aveva smesso da anni di funzionare ma che una volta l’attività era frenetica e determinante per l’intera economia dell’isola). Respiriamo, leggendo queste pagine di Sartarelli, un’aria a noi diversa, che è quella calda e speziata della terra di Sicilia. Emanuela Riverso nella sua recensione a “Cara Trapani” dell’autore ha osservato questa capacità di Sartarelli di dar sapore e colore, anche sulla carta, ai suoi amati spazi toponomastici: “Il racconto della storia e dei luoghi di Trapani si fonde con le suggestioni personali dei mille ricordi legati alla città […] Il raccontare la città si identifica con il raccontare se stesso. […] Trapani nel corso della storia, dalle origini ai giorni nostri e destano molta attenzione anche le pagine più personali, lì dove ci si accorge che il racconto di una città non può essere disgiunto dal racconto della vita di chi la abita e la vive”.[4]

La narrazione si presta anche come fine documento storico nei tanti rimandi alle varie fasi di buio e di sviluppo della nostra nazione dall’età della Ricostruzione, che fa seguito al secondo conflitto bellico di cui Sartarelli parla nel racconto “La maestra della Scuola Elementare”, alla venuta dello “zio d’America” nel 1947 dopo un lungo periodo nel quale a causa delle “operazioni belliche non era stato possibile comunicare” (40) porta in Sicilia il progresso americano rappresentato dai nuovi beni di consumo quale la cioccolata, il chewing-gum e altri beni d’utilizzo per la famiglia. Dello zio d’America l’autore ha un ricordo duplice: grande gioia e aspettativa prima della sua venuta e curiosità di conoscere il parente che vive e ha costruito una sua famiglia dall’altra parte del mondo e, di contro, un uomo leggermente freddo, ormai avulso da quella realtà di provincia siciliana che, decenni prima, l’aveva visto nascere. L’autore così riflette: “Non riuscivo a comprendere, tuttavia, come mai uno zio che, per trenta anni era rimasto lontano dal suo Paese e dall’affetto dei suoi cari, una volta ritornato tra loro, non riuscisse a manifestare almeno esteriormente una maggiore affettuosità” (43).

Sempre a livello storico e proseguendo in forma cronologica, Sartarelli dedica un intero capitolo, o racconto, a “Quei favolosi anni ‘60” nei quali ci parla del rinato clima di benessere a seguito del boom economico che permetterà per un periodo una vita migliore, anche grazie a misure di sostegno giunte, a conclusione della seconda guerra mondiale, da parte degli Usa. È il periodo del cosiddetto “miracolo economico” nel quale l’Italia sembra incanalarsi verso una stagione diversa e, sulle ceneri di una ricostruzione lunga e non priva di un malcontento psicologico, si proietta verso un futuro pregno di nuova speranza. Arrivano così gli elettrodomestici quali il frigorifero e, per la prima volta viene introdotta la televisione, mezzo di comunicazione e svago, ma anche collante sociale che ha, tra le sue primarie funzioni, quella di permettere una standardizzazione della lingua ufficiale italiana incentivando, dunque, anche il sentimento di coesione nazionale. La televisione, come osserva l’autore, “avrebbe trasformato oltre che la cultura italica, anche le tendenze e il modo di pensare, avrebbe sicuramente modificato il sistema di vita delle famiglie” (55).

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L’autore, Vittorio Sartarelli

Ci sono pagine amare nel ricordo di vicende antipatiche come la rottura dell’amicizia con un ragazzo da sempre considerato un buon compagno, di vero dolore nell’apprensione che si nutre dinanzi al tremendo terremoto del Belice nel gennaio del 1968 dal nostro ricordato nel brano dal titolo “Quando la Terra trema” e dell’infarto subito in periodo più recente, qualche anno fa, del quale Sartarelli ci trasmette una cronaca puntualissima. C’è poi il mondo del lavoro, come funzionario in un istituto di credito, del quale si è accennato in precedenza e di cui ha avuto modo di parlare ampiamente in un’altra precedente pubblicazione. Nel racconto “L’Onorevole” contenuto in “Spigolature” ci narra, grazie a un sistema di consigli e raccomandazioni tra uomini influenti diffuso ancora oggi, della sua possibilità di accedere a un colloquio di lavoro che poi gli avrebbe consentito di lavorare in quella stessa sfera per molti anni sino al pensionamento. L’autore, senza riserbo alcuno con la finalità di non macchiare quel realismo onesto di cui è peculiare esponente, scrive: “La politica quindi, grazie alla raccomandazione, esercitava una nobile funzione sociale, favorendo il benessere e il miglioramento economico e sociale delle famiglie” (67) mettendoci al corrente di un sistema diffuso di mutuo sostegno e di ‘piaceri’, di collaborazione e influenze tra “poteri”, diffusa e consentita, ma che, com’è questo il caso, ha dato frutti preziosi rappresentato dall’encomiabile impegno professionale e dedizione di Sartarelli nel suo lavoro.

Se in “Spigolature” Sartarelli ha raccolto “il grano migliore” della sua produzione, i suoi progetti non terminano qui e, forse un po’ più ambiziosi, si spingono oltre nell’arrivare a pubblicare un volume unico, una sorta di opera-omnia o, comunque una pubblicazione che, ordinatamente e in forma completa, contenga tutta la sua intera attività scrittoria, di narrativa breve, romanzi, articoli, saggistica, recensioni e quant’altro. Così, in un’intervista rilasciata a “Recensione Libro.it” ha osservato: “Ho allo studio la realizzazione della raccolta di tutte le mie opere che vorrei lasciare come ultima testimonianza della mia attività letteraria, ma è ancora presto per poterne parlare e scrivere in modo definitivo”. Dette opere, la cui ideazione nasce da motivi sempre pregevoli che mostrano una grande concretezza dell’uomo che le propone, spesso sono poco attuative non perché tecnicamente difficili o azzardate ma semplicemente perché è preferibile scrivere all’istante, la vita d’oggi o ciò che essa riflette del passato, badando – nella stessa vividezza che sostiene l’autore – al dedicare attenzione a ciò che ha per noi senso. Difficile concepire un’opera completa e finale quando ancora – com’è il caso di Vittorio Sartarelli – c’è ancora tanto da raccontare ed esprimersi, narrare e studiare, affrontare indagini, ricercare il senso delle cose e di sé, in quell’ambiente folto di pensieri e custode di dolci melodie di età andate, nel materiale, eppure ancora così vive.

 

Lorenzo Spurio

Jesi, 15/10/2018

 

NOTE

[1] La recensionista Nicla Morletti sottolinea lo spettro meno felice di sentimenti provati dall’autore (sofferenza e delusione, finanche scoramento e insoddisfazione) in relazione ad alcune vicende accadute, nel corso degli anni, sul suo luogo di lavoro scrivendo che lì “Emergono la malvagità, la cattiveria, la superbia, la sete di denaro, l’arrivismo e la prevaricazione da parte di altre persone”, in Nicla Morletti, “Vittorio Sartarelli: 35 anni da bancario”, «Il Molinello».

[2]  Così viene definito nella breve recensione dal titolo “Di cosa parla il libro “Spigolature” di Vittorio Sartarelli” apparsa in internet sul sito «Recensione Libro». Lo stesso autore, in un’intervista concessa dallo stesso sito citato, ha definito “Spigolature” in questi termini: “uno Zibaldone, un revival, un vademècum”.

[3] L’autore in un’intervista rilasciata al sito «Il Giallista» ha confessato al riguardo: “Non ho bisogno di ispirazione artistiche per i miei scritti ma solo ricordi reali e i miei libri non hanno trame inventate o romanzate ma solo descrizioni di realtà avvenute, in un passato prossimo o purtroppo, ormai remoto ma vero e non inventato”, in “Intervista a Vittorio Sartarelli, autore di “Spigolature”, «Il Giallista», 9 Gennaio 2018.

[4]  Emanuela Riverso, “Vittorio Sartarelli e la sua cara Trapani…”, «Luoghi d’Autore», 8 Gennaio 2015.

 

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

“Dal profondo del cuore. Diario ed esilio di un cardiochirurgo” di Ciro Campanella – segnalazione volume

“Dal profondo del cuore. Diario ed esilio di un cardiochirurgo” di Ciro Campanella, Di Renzo Editore, 2017

 

I_COP_Campanella_200dpiSinossi:

“La sicurezza non deriva dal posto, ma da qualcosa che nasce in se stessi: dalla consapevolezza di conoscere il proprio lavoro. Questa consapevolezza del conoscere e conoscersi crea una libertà pratica ed emotiva, che ti permette di muoverti nel mondo – attraverso diversi paesi – semplicemente facendo quello che sai fare. Insomma, tutto il contrario del posto sicuro, che ti rende invece prigioniero e ti lega nelle tue aspirazioni di andare altrove”. Un libro che con la sua franchezza arriva al cuore del problema: non si può fare il medico pensando ad altro che non sia il paziente; la politica e la medicina sono mondi avversi, con finalità opposte; la burocrazia uccide l’etica. Luci e ombre di una difficile missione: salvare vite.

L’autore:

Ciro Campanella è un cardiochirurgo di fama internazionale. Allievo di Christiaan Barnard, ha diretto per quasi trent’anni l’unità cardiochirurgica della Royal Infirmary di Edimburgo e ha operato, formando generazioni di nuovi chirurghi, in tutto il mondo. È tra i 20 cardiochirurghi più quotati a livello internazionale e a lui si deve l’attuazione di alcune nuove tecniche in chirurgia cardiaca mini-invasiva, oggi ampiamente diffuse. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, gli ha conferito l’Ordine di Commendatore per alti meriti scientifici. Poi un giorno Campanella ha deciso di tornare in Italia. E se ne è pentito.

 

E’ uscito “La ragazza di nessuno” di Daniela Bonciani

bonciani_la_ragazza_di_nessuno_cov_5.25x8 (5).jpgLA RAGAZZA DI NESSUNO   è un romanzo ambientato in Italia dai primi anni settanta alla metà degli anni novanta del secolo scorso e narra la storia di quattro amiche e dei loro destini intrecciati. Le sorelle adolescenti Teresa e Emilia sono costrette a trasferitesi, per motivi di lavoro del padre, in una cittadina della Toscana vicino a Firenze. Qui conoscono le loro coetanee Anna e Claudina e tra di loro si instaura una profonda, autentica amicizia.

Le protagoniste attraverseranno insieme l’adolescenza, la giovinezza e parte della maturità, condividendo piccoli e grandi eventi, gioie e dolori, speranze e delusioni, amori e tradimenti, avvenimenti divertenti e tristi, momenti di vicinanza e di conflitto. Un evento inaspettato e terribile spezzerà violentemente il legame di affetto e complicità che le unisce e una altrettanto inaspettata lettera le riunirà.

La vicenda, seppur segnata da eventi dolorosi, è narrata con leggerezza da una delle protagoniste e, attraverso continui rimandi dal passato al presente, entra pian piano nel cuore del lettore e lo cattura.

 

Daniela Bonciani è laureata in lingue, dottore di ricerca in glottodidattica all’Università Statale Pushkin di Mosca, docente di lingua e cultura russa e autrice di testi di metodologia, glottodidattica, linguistica e analisi del testo letterario. Il primo sogno nella lista   dei suoi 101 desideri da realizzare è quello di diventare scrittrice e con questo suo primo romanzo, La ragazza di nessuno, ha deciso di passare dalla parte degli autori che studia: non analizzare le storie scritte da altri, ma scriverne una lei.

“Morte di Stato” di Ruben Trasatti: segnalazione del libro

Scheda tecnica del libro:

Titolo: Morte di Stato
Autore: Ruben Trasatti
Pubblicato: 19 novembre 2017
Genere: Fantapolitico / Distopico
Pagine: 496 (disegni inclusi)
Prezzo: 4,99 Euro (digitale) / 14,98 Euro (cartaceo)

Sinossi:

COVER finale MDS europaseries-vers JPEG (1).jpgRoma, 2030. Nicola Balestrieri è un impiegato dell’Agenzia per il Controllo del Cittadino Europeo, ente nato a seguito della creazione di uno Stato Unito d’Europa per mettere in pratica le sue nuove leggi. Il turnover generazionale è favorito dalla “morte statale”, un processo obbligatorio che pensiona in anticipo i lavoratori costringendoli a morire una volta compiuti 70 anni. Chi non rispetta il patto viene considerato un emarginato e ricercato per essere ucciso. La Nuova Europa è anche lotta contro lo straniero: le frontiere chiuse si spostano in mare per bloccare i migranti e i musulmani europei rischiano di ripercorrere il destino degli ebrei della Seconda Guerra Mondiale. Col passare del tempo, Nicola si rende conto di essere dalla parte sbagliata della storia: costretto ad accompagnare alla morte suo padre e a vivere i primi rastrellamenti, deve decidere se difendere i diritti dei cittadini o essere un servitore dello Stato.

L’autore

Ruben Trasatti è nato il 26 settembre 1992 ad Ascoli Piceno. Da tre anni collabora per il settimanale milanese Telesette occupandosi di programmazione televisiva. E’ un grande appassionato di videogiochi e per molto tempo ha fatto parte della redazione del sito MondoXbox. Per Epic Games ha gestito la community italiana di Gears of War e ha contribuito come Graphic Designer e Concept Artist per il remake di Unreal Tournament.

L’antologia “I poeti e la crisi” di Giovanni Dino presentata a Firenze il 23-11-2015

SULLE TRACCE DEL FRONTESPIZIO

Periodico quadrimestrale

organizza la presentazione del volume

I poeti e la crisi

(Fondazione Thule Cultura)

a cura di Giovanni Dino

COP_poeti_crisi SETTEMBRE  2015 (1)-page-001

Interventi di:

Giovanni Dino

don Vincenzo Arnone

Mariella Bettarini

Paolo Ragni

FIRENZE  

* Convento di San Marco *

Sala Chiostrini, Via della Dogana 3 r

Lunedì 23 novembre 2015 ore 16.30

Interventi musicali di

Giacomo Panicucci (voce, chitarra, violino)

Gabriele Cavallini (voce, flauto, chitarra)

E’ uscita l’antologia “I poeti e la crisi” a cura di Giovanni Dino

I poeti e la crisi

a cura di Giovanni Dino – Introduzione di Rita Cedrini

Fondazione Thule Cultura, Palermo, 2015

Lettera di GIOVANNI DINO

COP_poeti_crisi SETTEMBRE 2015-page-001La poesia in quanto arte può contribuire a fare qualcosa contro la crisi economica?  I poeti, come comuni mortali ma anche come uomini dotati di estro e di particolare sensibilità, possono fare qualcosa contro la crisi?    Questi sono le domande che mi pongo da alcuni anni e che solo da alcuni mesi mi hanno spinto a proporre una nuova antologia d’impegno civile.    Credo che mai come adesso sia il momento di dare la parola all’anima dei poeti perché esprimano, al riguardo, la propria visione.    Da tempo è in corso, in lentissimo e quasi invisibile stillicidio, un processo inteso a svuotarci di quegli elementi di certezza ai quali fino, fino ad ora, avevamo fatto sicuro riferimento, a principiare dal posto di lavoro a da quella, anche piccola, sicurezza economia che ne deriva e che ogni singola persona o le famiglie avevano avuto modo di procurarsi. Lo stillicidio è stato così perfettamente studiato e con raffinato acume che risulta quasi difficile credere che tutto sia stato teorizzato più di 30 anni fa da  menti diaboliche, con dottrine truccate di virtù, trovando terreno fertile in Europa e in certe politiche comunitarie. Alcuni studiosi (filosofi, economisti e ricercatori vari) dispongono di  dati e di nomi di fautori di questo piano, ma anche di nomi di politici che hanno segretamente appoggiato questa colossale truffa.    Mentre solo ora, a distanza di quasi venti anni dall’avvento dell’Euro,  è agli occhi di tutti che si siano scesi parecchi gradini all’indietro, che non se ne sia avvantaggiata la dignità dell’uomo,  che sia stato favorito l’impoverimento economico sia individuale che familiare. Fino a pochi anni fa appariva difficile accorgersi del percorso a passo di gambero che era iniziato e che ancora continua, verso lo svuotamento e l’impoverimento. Oggi è tutto leggibile da chiunque: è  vita quotidiana. Nessuno deve spiegarci che le grandi schiere di lavoratori e di pensionati, le masse  popolari, le braccia che spingono la ruota della grande macchina economica, i settori primari e secondari delle attività produttive, si trovano in ginocchio e non certo per pregare. Solo oggi ci si accorge che  un lavoratore con il suo normalissimo stipendio (di bidello, di guardia giurata, di poliziotto, di operaio edile o di fabbrica etc.),  che  fino a metà degli anni ’90 riusciva a mantenere dignitosamente la propria famiglia (con affitto o mutuo da pagare e tutto quello che potesse occorrere per il fabbisogno di una casa), oggi non riesce ad arrivare a fine mese, vivendo con la febbricitante angoscia di non farcela.     Può immaginarsi quale possa essere la situazione di quelle famiglie in cui non esiste un reddito sicuro, come uno stipendio. Si pensi ai cassintegrati, in mobilità, che stanno “come foglie in autunno sull’albero”,  pronti a perdere lavoro, buonuscite, liquidazioni. Quante sono in Italia le famiglie che vivono al limite della povertà? Mi riferisco a quelle persone e famiglie che non sono state mai povere, perché hanno potuto avvalersi di un lavoro col quale dignitosamente gestire il proprio bilancio familiare; queste, fino a meno di quindici anni fa, non avevano alcun problema poiché su quel lavoro era puntata la loro esistenza, mentre ora fanno parte del lungo elenco degli impoveriti. Quante sono in Italia le persone che vivono nello squallore più terribile percependo  modesti sussidi di povertà?    Forse non è compito del poeta occuparsi di crisi, essendo piuttosto il politico  deputato ad essere garante, portavoce e intermediario dei bisogni del popolo. Ma se il politico sonnecchia o segretamente porta al suo mulino chiare  fresche dolci acque, gli intellettuali che fanno? Forse le problematiche della crisi vanno combattute con le grida della contestazione, con petizioni  o con i ragionamenti filosofici o con i colori, con la musica, con il cinema, con i quali si riesce meglio a coinvolgere e istruire meglio le masse. Se nessuno fa qualcosa di concreto contro la crisi è meglio per il poeta tacere o intervenire? E allora è meglio “esprimersi e morire, vivere o rimanere inespressi” (prendo in prestito una famosa frase di Pier Paolo Pasolini). Di sicuro non  sarà la poesia a debellare la corruzione, il ladrocinio cannibale dei nostri politici ed amministratori o a fermare le grandi potenze internazionali che hanno stravolto e corrotto gli equilibri dell’economia mondiale e della nostra Nazione,  ma è certo che la voce del poeta,  attraverso il suo intervento anche di  pochi versi,  non sarà del tutto inutile.    Concepisco quest’antologia d’impegno civile come un implicito manifesto di protesta, ma anche e soprattutto come un messaggio di speranza per il cambiamento Una lotta  fatta con una pacifica e democratica ribellione, un documento di denuncia, una coraggiosa testimonianza di civiltà, di  democrazia e di cultura, in cui vengono rivendicati i diritti  a una vita vivibile  a misura umana, secondo categoria d’appartenenza e delle leggi della democrazia e del buon vivere.  Un’operazione culturale per poeti desti e coraggiosi, che possa intervenire significativamente, con l’incisività dell’espressione artistica, per suggerire possibili soluzioni ai così gravi  problemi del presente.

Poeti antologizzati: Ennio Abate, Massimo Acciai, Nino Agnello,  Domenico Alvino, Filippo  Amadei,  Giovanni Amodio, Brandisio  Andolfi,  Amedeo  Anelli,  Sandro  Angelucci, Cristina  Annino,  Lucianna  Argentino, Vincenzo  Arnone,   Andrea   Barbazza,  Antonella   Barina,  Arnaldo  Baroffio,   Maurizio Barracano,  Mariella Bettarini,  Gabriella  Bianchi,  Donatella Bisutti,  Rino Bizzarro, Silvana  Blandino,  Paola  Bonetti,  Anna Maria Bonfiglio, Marisa Brecciaroli, Lia  Bronzi,   Ferruccio Brugnaro,  Luigi Bufalino, Franco  Campegiani,  Caterina   Camporesi,  Maria  Cannarella,  Domenico Cara,   Maria Licia Cardillo in Di Prima,  Mariella Caruso, Franco Casadei,  Maria Gisella  Catuogno,   Augusto  Cavadi,  Viviane   Ciampi,  Grazia  Cianetti, Domenico  Cipriano,   Pietro Civitareale,  Carmelo Consoli,  Anna Maria  Curci,   Salvatore D’Ambrosio,   Antonio  De Marchi Gherini, Jole  de Pinto, Luigi De Rosa,  Marco Ignazio de Santis,  Adele  Desideri,   Rosaria  Di Donato,  Felice  Di Giacomo,    Carmelo Di Stefano,  Emilio  Diedo,  Giovanni Dino, Angela  Donna, Antonella Doria,  Gianfranco  Draghi,  Germana Duca, Pasquale Emanuele,  Gio  Ferri,  Giovanni  Fighera,   Luigi Fioravanti,  Zaccaria  Gallo,  Sonia  Gardini,  Serenella Gatti Linares, Daniele  Giancane,  Mariateresa Giani, Eugenio Giannone, Filippo Giordano, Agnese  Girlanda, Elio Giunta, Enza Giurdanella, Grazia  Godio,   Eugenio  Grandinetti, Maria Luisa  Gravina,   Francesco Graziano, Diego Guadagnino, Gianni  Ianuale   Alfio  Inserra,   Carmine   Iossa,   Gianfranco Isetta, Giuseppe  La Delfa, Stefania La Via,  Giuliano Ladolfi,   Alessio  Laterza,  Enrico Mario  Lazzarin,  Maria Grazia Lenisa, Maria Lenti, Aldino  Leoni,  Giacomo Leronni,  Salvatore Li Bassi, Nicola  Licciardello,  Stefano Lo Cicero, Gianmario Lucini,  Francesca  Luzzio,  Mauro  Macario,  Annalisa  Macchia, Marco Giovanni Mario  Maggi, Roberto Maggiani,  Gabriella  Maleti,  Angelo  Manitta,  Nunzio  Marotti,  Sara  Martello,  Viviana  Mattiussi, Vito Mauro, Senzio Mazza,  Anita Menegozzo, Alda Merini, Giancarlo Micheli, Alena Milesi, Ester  Monachino,  Marina  Montagnini, Ardea Montebelli, Alberto Mori, Maria Pia Moschini, Lorenzo Mullon, Antonio  Nesci, Clara Nistri,  Sergio Notario, Guido Oldani, Claudio Pagelli,  Giacomo Panicucci, Nazario  Pardini, Ezio Partesana,  Guido Passini, Edoardo Penoncini, Guglielmo Peralta, Rosanna Perozzo, Mariacristina Pianta,  Andrea Piccinelli, Laura Pierdicchi, Domenico Pisana, Marina Pizzi, Giorgia Pollastri, Paolo Polvani, Davide  Puccini,  Paolo Ragni, Alessandro Ramberti, Enzo Rega, Gianni Rescigno,  Flora Restivo, Alain Rivière, Nicola Romano, Mario Rondi, Angelo Rosato, Ottavio Rossani, Ciro Rossi, Pietro Roversi, Stefano Rovinetti Brazzi, Marcella Saggese, Anna Santoliquido, Loredana Savelli, Marco Scalabrino, Maria Teresa Santalucia Scibona, Antonio Scommegna, Liliana Semilia, Giancarlo Serafino, Luciano Somma, Italo Spada,  Antonio Spagnuolo, Santino Spartà, Marzia Spinelli, Lorenzo Spurio, Fausta Squatriti, Gian Piero Stefanoni, Anna Maria Tamburini, Luigi Tribaudino, Carmela Tuccari, Luca Tumminello, Adam Vaccaro, Mario Varesi, Anna Ventura,  Emanuele Verdura, Anna  Vincitorio, Ciro Vitiello,  Fabrizio Zaccarini, Carla Zancanaro, Adalgisa Zanotto,  Guido Zavanone,  Lucio Zinna

Per info e ordini del volume, si forniscono i seguenti contatti

Giovanni Dino

Mail: giovannidino@alice.it

Tel. 3409378202

“Precariopoli” di Fabio Lastrucci

  • Formato: Formato Kindle
  • Dimensioni file: 184 KB
  • Lunghezza stampa: 52
  • Editore: Milena Edizioni (2 settembre 2014)
  • Lingua: Italiano
  • ASIN: B00N9BZE1C

Sinossi

Un giovane disoccupato s’imbatte per caso in un bando di concorso elusivo e misterioso quanto una loggia massonica. In palio c’è un solo posto come titolista di film porno.La prospettiva è irresistibile, ma che conseguenze può comportare? È quello che scopre a sue spese Mariotti Mario, precario, timido e incline al disfattismo, non appena decide di concorrere al lavoro della sua vita.Trovandosi circondato da una cerchia di amici improbabili e marginali come lui, Mario deve difendere la segretezza del suo progetto, sfuggendo ai giudizi taglienti del Filosofo e alle avventurose strategie lavorative dello Sbadante, per dimostrare a se stesso e al mondo di poter riuscire. Solo che l’impresa non è affatto semplice e richiede l’aiuto di un peso massimo della materia, il portiere esperto di trash Signor Borrelli, l’uomo senza nome e senza pudore che diventerà il suo trainer.In una narrazione immersa nel quotidiano, si dipanano situazioni grottesche e surreali, per seguire gli sforzi di un ragazzo qualunque, immerso nei meccanismi di un mondo più difficile di quanto non desideri. Una vicenda impossibile, che può essere una metafora del nostro rapporto con la vita ai tempi della crisi.È una maniera di sorridere, senza cinismo e con un pizzico di speranza, sulla realtà giovanile e le sue grandi sfide.

NOTE BIOGRAFICHE

Fabio Lastrucci nasce a Napoli nel 1962. Scultore e illustratore, ha lavorato per le principali reti televisive nazionali, il teatro lirico e di prosa con i laboratori Golem Studio, Metaluna e Forme mentre attualmente porta avanti il progetto artistico Nuages – morbidi approdi con il fratello Paolo. Nel 1987 disegna l’albo a fumetti La guerra di Martìn, su testi del drammaturgo Francesco Silvestri. Come autore di testi ha messo in scena lo spettacolo teatrale Racconti Salati(con Fioravante Rea e Fulvio Fiori), inoltre ha pubblicato numerosi racconti in riviste e antologie edite tra gli altri da Il Foglio Letterario, CS_libri, Perrone, Montag, DelosBooks, Ciesse e Dunwich. Nel 2012 presenta con le Edizioni Scudo il saggio I territori del fantastico, una raccolta di interviste semiserie con autori italiani e stranieri. Nel 2014 pubblica gli ebook di fantascienza Max Satisfaction (con le edizioni La mela avvelenata) e Utopia Morbida(con Asterisk edizioni). Con Milena Edizioni pubblica il suo primo romanzo Precariopoli – come trovare lavoro a Napoli mentre cerchi di svignartela senza pagare il conto. Con Dunwich edizioni pubblica l’horror L’estate segreta di Babe Hardy. Collabora con interviste e articoli con le riviste «Delos Science Fiction» e «Rivista Milena».

“Deltaplano” di Michele Miano. Recensione di Lorenzo Spurio

Deltaplano
di Michele Miano
Introduzione di Davide Foschi
BastogiLibri, Roma, 2014
ISBN: 9788898457595
Pagine: 43
Costo: 8€
 
Recensione di Lorenzo Spurio
 
 
 
Un oceano di silenzio è muro
di queste illusioni
cassa ridondante di echi ormai lontani. (14)
 

Se è vero che qua e là nella poetica di Miano si ravvisano immagini in qualche modo funeste, collegate a un cupo sentire il dolore e la morte, come avviene nella lirica “Primavera” in cui la nuova stagione che si caratterizza per la rinascita dell’ambiente è collegata a immagini dure quali i “morsi di gelo”, le “profonde solitudini” e il tagliente “filo di vento”, non è mai un dolore che deprime o che angoscia il Nostro né il lettore che ne sperimenta la lettura perché mitigato dall’esperienza e fautore della costruzione di immagini. Michele Miano è un maestro nel plasmare la materia; ed è così che l’infinità della volta celeste diventa un mare in cui le stelle finiscono per annegarsi, per perdersi, fluttuare un po’ difficilmente, prima di inabissarsi completamente in quel blu denso e fagocitante (“Verso sera”, p. 7)

Il vento nelle liriche del Nostro non è mai portatore di una forza distruttiva o di un soffiare imperterrito, ma piuttosto è un residuo di vento, una ventilazione languida come il “filo di vento” (8), “un alito di vento” (9), “l’aria tiepida” (9) che ne caratterizza la mitezza degli ambienti e descrive questo aerare come lieve, appena percettibile. Gli spazi vengono descritti sempre da chi li abita, ed ecco allora che si incontreranno colombi, farfalle, ma anche germogli che lentamente crescono, proprio come le strilla di un ragazzino che gioca.

L’impiego nel lessico di una dimensione dicotomica o ossimorica è prevalente nella scrittura di Miano dove, come già detto, troviamo primavere di dolore, o “amaro miele” (11) ed ancora la sonnolenza di un’esistenza vissuta (s)regolatamente (“in bilico sul baratro”, 13) alla quale segue una nuova alba, fonte di un rinnovato auspicio e motivo di compiacimento con la natura tutta.

Non c’è nelle liriche di Miano la criticità che ci si aspetterebbe in un autore erudito che osserva il mondo e lo descrive vagliato dalla sperimentazione di certi sentimenti; ne consegue che non è propriamente esatto parlare di ermetismo della sua poetica perché non vi ravvedo il pessimismo di fondo; le immagini, laddove sono gravate di un sentimento esistenziale che potrebbe essere improntato alla desolazione, finiscono invece per essere impiegate come da contro-canto allo sviluppo della lirica e delle suggestioni sulle quali essa si regge.

La temporalità degli eventi nella poesia di Miano sembra essere sospesa e pare che l’autore l’abbia volutamente tale poiché non ci si sofferma mai con precisione e si configura come una sospensione del tempo; il Nostro è convinto che quando il ricordo è vivido e quando il sentimento è eternante, allora le categorie temporali non esistono e c’è un interscambio continuo ed efficace tra passato e presente: “E il giorno è come la notte/ la notte è come il giorno” (15).

Nel volume c’è anche spazio per un Miano indignato che denuncia le ambiguità del presente, le storture della vita contemporanea dove il Natale, emblema di pace, condivisione e speranza, ha una doppia natura: felice e agiato per i “ricchi e i grassi” e indecente e una giornata sventurata come tante per i “poveri e [i] reietti” (10). Il poeta è anche espressione del tempo in cui vive del quale non manca di osservare una certa delusione nei confronti della disagiata condizione sociale del presente, tanto morale quanto economica (parla di “clienti insolventi”, 20; di “paese di morti di fame”, 24; di “[persone] aggrovigliat[e] nella lotta per il boccone quotidiano”, 25). Non è sufficiente –sembra dirci Miano sussurrando all’orecchio- perseguire alacremente solo i propri interessi personali e fondare una ideologia del sé quando il mondo è società, senso di comunità e bisogno di condivisione. E’ così che dedica dei versi anche a tutti coloro che per mille ragioni non hanno voce –vuoi perché silenziati o censurati, vuoi perché perseguitati, massacrati od uccisi-: “Per frantumare il silenzio/ è necessario il coro degli angeli,/ grido senza voce dei condannati,/ gemito dei non nati./ Filastrocche mai cantate dagli uomini” (22).

Nella mente dell’io lirico c’è vita in tutto e per queste ragioni è possibile percepire la voce anche delle cose, dell’immateriale e dell’astratto, laddove siamo capaci di costruire un saldo legame con l’atto esperenziale e l’epifania del sentimento e vivificare in questa maniera immagini (illusorie) ed emozioni (evanescenti); il poeta è in grado di cogliere il “mormorio delle cose e dei ricordi” (18).

E’ così che Miano afferra e viviseziona il “nervo delle cose” (17) e istituisce quel necessario patto con il concreto, con la vita di tutti i giorni, fatta di intervalli di pace e delusioni che lui consacra sinteticamente nell’ “armistizio con la realtà” (26). Armistizio che è possibile solo laddove si abbia reale coscienza del proprio stato e una confidenza con se stessi che renda capaci di osservare il mondo che ci circonda con giustizia e curiosità nelle sue tante disparità e degenerazioni. Solo in questo modo è possibile, allora, scoprirsi uomini e donne completi che posseggono la fioca fiamma di una lanterna per svelare il difficile “sillogismo dell’esistenza” (17).

Un libro che offre validi spunti di riflessione e di autoanalisi, assieme a un insegnamento profondo che arricchisce la coscienza e la denuda nei confronti del reale: “Questa strada senza sole/ afflitta di nubi, dal frastuono della sera” (31) che è la vita, è il percorso che ci è stato dato e che dobbiamo onorare a chi ci ha voluti nel mondo, in questo “tempo balordo” (35) dal quale l’autore spera si risolleverà.

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 28.10.2014

“Fornarino” di Diego Vian, recensione di Lorenzo Spurio

Fornarino
di Diego Vian
Albatros, Roma, 2011
ISBN: 9788856739589
Pag. 323
Costo: 17,50 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

copUn libro interessante e leggermente fuori dai canoni formali della letteratura che si produce oggigiorno, questo di Diego Vian che, sotto il titolo simpatico quanto enigmatico di Fornarino, condensa un’intera storia generazionale.

Lo sfondo delle vicende ha chiaramente un riferimento storico-antropologico alla vita nella campagna veneta tra la fine degli anni ’40 ed i primi anni ’50. A Croce del Campo, un paesino del trevigiano, prendono piede le vicende iniziali di questo excursus dell’esistenza del protagonista dell’intero romanzo: il giovane Vanni. Assistiamo al difficile scenario della cronaca di guerra di quegli anni terribili con il conseguente razionamento dei beni alimentari e una vita di austerità e incertezza che poi lascerà il posto all’età della ricostruzione, momento delicatissimo della storia del nostro Paese. All’interno di questa cornice che Vian descrive con attenzione e meticolosità nei dettagli abitudinari della gente popolana in quel periodo, del mondo fatto dalle piccole cose vissuto alimentando una sempre più fervida speranza di un mondo di pace, le vicende della storia biografica di Vanni vengono ad intessere quella che ben presto si svelerà come il tema predominante attorno al quale tutto (eventi, personaggi e momenti di riflessione) finisce per allacciarsi.

In questo esperimento Vian dimostra una particolare enfasi emotiva nel dipingere la realtà popolare di un mondo di provincia, arretrato ma felice del suo poco avere, dove sono spesso i pregiudizi, le dicerie e la considerazione degli altri a rappresentare degli spauracchi con i quali misurarsi giorno dopo giorno. Ci capacitiamo della difficoltà delle condizioni alimentari e anche di quanto complicato potesse essere in una “famiglia di sole donne” vivere aspettando il ritorno di un fratello, di un figlio o del marito; dal punto di vista medico si tratteggia brevemente anche l’alta incidenza in questo periodo della mortalità infantile e delle donne partorienti. Come in ogni storia di paese ci troviamo in uno mondo retrogrado ma genuino nel quale sembra instaurarsi una sorta di contrasto tra natura e cultura che possiamo vedere ad esempio nell’uso del dialetto e della lingua standard, nella grande massa di analfabeti e dall’altra nella presenza limitatissima di persone acculturate (il dottore e il parroco) la cui cultura viene resa a disposizione della comunità tutta.

Della famiglia di Vanni si tratteggiano gioie e dolori, il più grande dei quali è la morte della sorella Gisella pochi giorni dopo della nascita, episodio che il Nostro personaggio sentirà in un certo senso quasi come colpa privata, benché non ne esistano le ragioni.

L’allontanamento di Vanni dall’universo prettamente domestico-familiare si realizza solamente nel momento in cui abbandona la scuola e comincia a lavorare nella bottega di Beppone, il prepotente e cinico fornaio della città. Lì Vanni imparerà a sfruttare una dote segreta con la quale era nato, un’eccezionalità del personaggio che non mi sento di svelare in questo contesto ma che è di certo il motore dal quale l’intera narrazione prende le pieghe. Da inesperto, Vanni passa a conoscere con piacere, entusiasmo e praticità i misteri che regolano la produzione di un buon pane, ottenendo anche una segnalazione di merito a una sorta di kermesse per i fornai che vengono da tutta Italia. L’occasione di un nuovo lavoro, questa volta non più in Provincia e non più vessato e sfruttato da Beppone, consente l’ulteriore evoluzione e miglioramento del personaggio che, una volta a Venezia grazie a quella che ben presto si convertirà nella sua sincera benefattrice, gli è finalmente riconosciuto il valore della sua persona le capacità professionali.

Ed è in questa maniera felice, ma per nulla banale (chi leggerà il romanzo se ne renderà ben conto) che mi piace chiudere questa mia riflessione sulla storia di un povero ragazzo, sfortunato e bistrattato, che grazie alla fede in sé stesso e mediante dei buoni consiglieri è capace di scegliere la sua vita e prendere atto del suo cammino percorso. Una sorta di moderno Lazarillo de Tormes che giunge a compimento di un itinerario difficile e dominato dal dramma della morte della sorella. In tutto ciò Vian ha reputato necessario inserire una folta componente misterica che rende alcune parti del romanzo leggermente più noir, psicologiche, riflesso di un mondo a tinte fosche dove domina il maleficio, la maledizione con accenni qua e là più espliciti a un personaggio femminile reietto dalla comunità e da tutti considerato come pericolosissima strega, capace, però, nell’ostica realizzazione delle vicende di Vanni, di anticipare piccole verità e, soprattutto, di far riflettere il giovane.

Ne consiglio la lettura soprattutto a quelle persone che credono in scritture-cocktail come questa, come mi piace definire questo esperimento di scrittura in cui forme  strutturali diverse della narrativa (il romanzo con una cornice storica, il romanzo di formazione, il romanzo di suggestione-misterico) vengono coniugate con abilità in un unicum con la finalità di permettere, da più punti di vista e secondo varie prospettive interpretative, la comprensione della vera natura psicologica di Vanni.

 

Lorenzo Spurio

 

 Jesi, 03-09-2014

Lorenzo Spurio sulla raccolta poetica “Articolo 1. Una Repubblica AFfondata sul lavoro”

Articolo 1 – Una Repubblica AFfondata sul lavoro: un’amara indagine poetica della situazione occupazionale in Europa

 

A cura di LORENZO SPURIO

 

COP_500La radice del lessema “lavoro” (una delle parole che per ovvie ragioni ha la più alta incidenza di utilizzo nelle conversazioni e nei rapporti interpersonali da sempre) è di origine latina e ha la sua genesi in labor, termine che ci ricorda la celebre regola programmatica dei benedettini, ora et labora, i cui capisaldi della filosofia morale erano intessuti prevalentemente sull’impegno in una fervida preghiera e contemplazione, affiancata da una regolare applicazione di mansioni differenziate a seconda dei propri ambiti di interesse. C’era in effetti all’interno dell’universo monastico chi si dedicava all’orto e alla vendita dei prodotti, chi invece si occupava dei capi di allevamento, chi ancora si dedicava ai servizi connessi alla biblioteca e così via. Questo per dire che il concetto di lavoro è sempre stato connotato nella sua definizione quale campo esteso dalla strutturazione variegata di compiti e di competenze.

Se si effettua un’analisi di carattere più marcatamente filologico del termine in oggetto e prendiamo in considerazione le lingue “sorelle” dell’italiano, ossia le lingue romanze, si può vedere come nell’evoluzione delle lingue neolatine ci sia stato uno sdoppiamento lessicale a partire dal concetto di lavoro (cosa per nulla anomala in quanto fu un procedimento abbastanza comune e che si ebbe per numerosi altri termini). Il latino, infatti, contemplava due diverse forme per intendere il lavoro, con due accezioni leggermente differenti, ossia labor (con il senso di ‘fatica’) e tripalium (con il senso di ‘tortura’, ossia un lavoro visto e vissuto come forma di soggiogamento). Con l’evoluzione delle lingue neolatine i lessemi esprimenti il concetto di lavoro che si sono imposti e diffusi nelle varie aree geografiche sono stati differenti: in italiano si è deciso di partire dal lessema originario labor per derivare la parola “lavoro”, mentre nell’area franco-iberica si è data discendenza al vocabolo tripalium: travail (francese), trabajo (spagnolo); traball (catalano), traballo (galiziano) e travalho (portoghese).

Questa breve introduzione di carattere meramente epistemologico sulla tradizione di sviluppo della parola “lavoro” è funzionale per introdurre il tema di fondo che ha motivato la nascita di questo sapiente libro, un’antologia poetica organizzata dalla Rome’s Revolutionary Poets Brigade pubblicata da Albeggi Edizioni. Il volume, che porta il titolo di Articolo 1, fa immediatamente riferimento al punto primo della carta costituzionale italiana, che tutti ben dovrebbero conoscere, e che recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Intitolare un libro con Articolo 1 presuppone necessariamente e doverosamente il riferimento diretto al contenuto dell’articolo e non è questo un qualcosa di banale, perché nel libro in oggetto, che è specchio diretto del clima di inquietudini e mancanza di speranze del nostro oggi, non è che una chiara attestazione di più voci della gravosa situazione politico-economica nella quale il nostro paese e l’Europa in generale è affondata da almeno cinque o sei anni. Compongono il libro una serie di poesie che parlano del lavoro, ma che lo fanno in maniera acuminata, fredda, dura e disperata e non potrebbe essere diversamente nel nostro hic et nuc dove tutte le statistiche decretano che il nostro Paese ha un tasso di disoccupazione pari al 12,7% e che quello giovanile arriva addirittura al deprimente 42,7%.

In questo libro si parla di lavoro o forse sarebbe meglio dire della mancanza di lavoro, della sua incertezza e difficoltà, della durezza e illeceità del lavoro (laddove le leggi impediscono una facile acquisizione del lavoro da parte del cittadino è chiaro che la sfiducia, l’insoddisfazione e la voglia di andar avanti motivino e incentivino forme di lavoro non legalizzate, che appartengono al mondo sommerso, che minacciano il lavoro legalmente riconosciuto).

Non c’è solo amarezza tra i versi che compongono questo libro, c’è vera e propria disperazione che motiva in certi punti un odio (che ci auguriamo resti sulla carta e non sia motivo di veicolo di programmi eversivi perché l’utilizzo della violenza va sempre rigettato) contro le istituzioni, contro chi, ricco perché i suoi commerci vanno bene, non riesce più a reprimere quel livore che giorno dopo giorno lo distrugge.

Ed ecco allora spiegato il senso di quel motto che una ragazza porta scritto sulla fronte nella foto in bianco e nero che troviamo nella cover, “Mortacci”, un chiaro atto d’indignazione verso il potere e le sue forme, contro la casta politica che è asettica ai problemi veri della gente, una blasfemia di popolo che giustamente rivendica i propri diritti (quelli per l’appunto dell’articolo 1) e che si dice indisposta a continuare nella logica del soggiogamento imposta dai padroni, “assassini che continuano/ a pisciare sui […] diritti negati/ sulle […] tombe dimenticate” (scrive Marco Cinque in “Morti bianche su orizzonti neri”, 21). Questo libro è un atto d’accusa, è un frullato di notizie di cronaca dove non mancano suicidi per licenziamento, depressione per la precarietà, insoddisfazione per il non vedersi riconosciuto il valore morale e culturale che ognuno di noi costituisce, è una preghiera laica che non solo intende smuovere le coscienze (cosa per altro abbastanza difficile nel mondo egocentrico e capitalistico dell’oggi votato al culto della personalità e del potere), ma denuncia senza mezzi termini, con forza e coraggio, le ingiustizie provate e perpetuate sulla propria pelle in un paese come il nostro dove regnano indiscussi il nepotismo, il collaborazionismo, il ricatto, il favoritismo, l’attaccamento alla poltrona, l’insensibilità, la spietatezza dei cuori e tutto ciò che possiamo circoscrivere all’interno di una logica antidemocratica, mafiosa e del malaffare.

E’ il popolo a farne le spese. A soffrire in silenzio, a riunirsi in piazza, a decretare l’insostenibilità della situazione. Questa contenuta nel libro è proprio la voce del popolo, urlata e che non vuol più essere messa a tacere, di quella gente che si incazza e che ha il coraggio di dirlo e di spiegarne il motivo. E’ una contestazione poetica per lo più pacifica, senz’altro argomentata e costruttiva, che reclama risposte che non siano parole di circostanza ma mettano in moto procedimenti concreti nel breve termine.

Nella poesia “Apocalypse Now” di Alessandra Bava dove allude al complesso industriale ILVA di Taranto, “il mostro [che] soffia aliti di morte” (9), si sottolinea proprio questo: l’esigenza che il cambiamento avvenga in tempi ragionevolmente brevi perché la situazione è oramai divenuta insostenibile. Alessandra Bava scrive “Di lavoro si muore” ed è questo un fatto che i mezzi di comunicazione giornalmente non fanno altro che attestare di continuo con una cruda e spietata veridicità: si muore sul lavoro per la mancanza di sistemi di protezione efficaci e a norma (soprattutto in quel lavoro in nero di cui si diceva dove l’uomo è costretto a rifugiarsi per guadagnare un minimo per garantire la sopravvivenza a se stesso e ai suoi cari a rischio della propria vita), si muore per il lavoro per l’aver maneggiato/respirato per anni sostanze inquinanti che decretano poi la comparsa di tumori e altre malattie inguaribili, si muore per la mancanza di lavoro, per l’angoscia che si nutre l’indomani del licenziamento, del fallimento della propria ditta, dell’incapacità economica di portar avanti un’impresa ammorbata da debiti che ne marciscono la speranza.

Il lavoro, che dovrebbe nobilitare l’uomo, renderlo fiero, dargli una sicurezza economica e morale nel mondo, è invece lì pronto per tormentarlo, fagocitarlo, deriderlo, minacciarlo, svilirlo e incitarlo al delirio, all’autolesionismo, a farla finita. E nei versi in cui Alessandra Bava scrive “l’orrore, l’orrore!” (9) non può non venir in mente le parole che Kurtz in Cuore di tenebra di Joseph Conrad, opera denuncia del colonialismo inglese, pronuncia in punto di morte. Quell’orrore sul quale la critica tanto ha dibattuto non è altro che il male che il personaggio (alter ego della classe dominante inglese di quegli anni) ha procurato sul popolo indigeno in Africa, sfruttandolo e denigrandone la dignità. Sembra che Alessandra Bava con questo cameo letterario voglia in un certo senso sottolineare la gravità e la disperazione del povero uomo disoccupato o di colui che si ammala gravemente per aver lavorato tanti anni a contatto con uno spazio inquinato mentre “lo Stato sta a guardare” (10). Una denuncia della politica nazionale e locale che, letta alla luce della citazione di Conrad in cui si condanna in extremis i mali dell’imperialismo, si inserisce nella critica al sistema economico di tipo capitalista votato alla sovrapproduzione al costo della salvaguardia della salute e della qualità della vita dell’uomo.

In “Dust Bowls” Alessandra Bava mitiga leggermente la speranza parlando di un tema attualissimo quale è l’emigrazione nei paesi dell’Ovest (gli USA ma soprattutto l’Australia e la Nuova Zelanda in testa metaforizzate quali “Californie lontane”, 12) dove sembra che le opportunità di lavoro siano senz’altro maggiori rispetto alla Vecchia Europa: “Si viaggia verso/ Ovest alla ricerca del lavoro/ come cercatori d’oro,/ in mano setacci/ di speranza” (11). La speranza oramai è qualcosa di utopico che si setaccia finemente e pazientemente alla ricerca fortuita, proprio come quella dell’oro in fiumi torbidi tanto improbabili quanto impossibili.

Ed è così che l’esistenza dell’uomo in questo presente di crisi, privazioni e disagi non è che un momento nel quale si preferirebbe chiudere gli occhi, serrarli e non riaprirli più dato che il mondo non offre altro che “[una] merda di futuro atipico” (Marco Cinque da “Morti bianche su orizzonti neri”, 21), concetto reso in maniera più ricercata da Marco Lupo nella poesia “Liquirizie” quando annota “facevo domande al futuro/ ma non trovavo posto nel sonno” (49). C’è da chiedersi allora perché ci sia tanta ingiustizia nel mondo e perché le leggi che i nostri padri costituenti e i legislatori continuano ad apportare per legittimare la società finiscano poi per essere inattuabili e tanto distanti dai reali bisogni della società e perché, sia nel lavoro che in ogni altro sistema di approvvigionamento (del cibo, del sapere, delle informazioni, delle possibilità, della garanzia delle libertà) ci siano squilibri schifosi e ingiustificabili che possiamo evocare con dei versi lapalissiani di Angelo Zabaglio & Andrea Coffami che nella lirica “Branzino” osservano: “tra sarte licenziate e attori direttori di fotografia strapagati mentre i produttori leccano i culi, ma sono i buchi dei culi sbagliati” (67).

Nessuna irriverenza, ma tanto odio dentro, che la poesia da arte suprema è in grado di tramandare con acmi d’intensità ineguagliabili per denunciare l’insolubile sopportazione.

 

Lorenzo Spurio

 Jesi, 01.05.2014

 

Titolo: Articolo 1
Sottotitolo: Una Repubblica AFfondata sul lavoro
Autore: AA.VV.
Curatori: Alessandra Bava e Marco Cinque
Prefazione: Agneta Falk
Editore: Albeggi Edizioni, 2014
ISBN: 9788898795031
Pagine: 74
Costo: 10 €