“Il mondo sospeso”, poesia di Giuseppina Vinci

Il mondo sospeso

Poesia di Giuseppina Vinci

Il mondo sospeso e la nostra vita

Il peso del mondo sorretto dal vuoto

Il Tempo, come un dio

Guarda il mondo e il suo andare

Sospirare e gemere

E Lui, indifferente, non passa, non geme

È eterno.

 

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“Sogno di neve”, poesia di Giorgia Catalano, con un commento di Emanuele Marcuccio

SOGNO DI NEVE[1]

di GIORGIA CATALANO

2 ottobre 2010

Lenta,
cade
sull’asfalto bagnata
dalla pioggia.
Non si ferma,
svanisce
sotto la gomma
dell’auto che passa.
Fioccano, fioccano
fiocchi di neve
pura,
pulita
e
fresca.
Bambini che gioiosi
guardano fuori
dai vetri
immaginando
un sogno.
Un camino acceso
in una baita,
calore di famiglia
e un pupazzo di neve.
Ma poi tornano sulla strada,
sull’asfalto bagnata,
i loro piccoli pensieri,
dove rimarranno a guardare il fioccare
dei fiocchi di neve,
fino al prossimo sogno.
 

 Commento a cura di Emanuele Marcuccio

sogno di neveQuesta poesia rappresenta un unicum nella raccolta di Giorgia Catalano, proprio perché si serve di un procedimento stilistico inedito: mette il soggetto (la neve) in ellissi, “Lenta / cade / sull’asfalto bagnata / dalla pioggia” aggiungendo anche un accusativo alla greca “sull’asfalto bagnata”, a ciò si aggiunge, verso la chiusa, l’ellissi del predicato e del soggetto (la neve) con lo stesso accusativo alla greca “Ma poi tornano sulla strada, / sull’asfalto bagnata, / i loro piccoli pensieri,” che è anche uno splendido inciso.

Con questo ritengo “Sogno di neve” la lirica più significativa di “Un passaggio verso le emozioni”, un vero gioiello di raffinatezza stilistico-retorica.

 a cura di Emanuele Marcuccio

 

 

Palermo, 15 febbraio 2013

 

 

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[1] Edita in Catalano, Giorgia, Un passaggio verso le emozioni, Photocity, 2012, p. 14.

“La volontà del mare”, poesia di Giuseppina Vinci

POESIA DI GIUSEPPINA VINCI

imagesIl mare
persegue la sua volontà
rincorre la sua volontà
La volontà del mare
è’ la volontà di Dio
Ecco perché
tutto insegue
tutto raggiunge.

 

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“Némesis” di Marzia Carocci, recensione di Lorenzo Spurio

Némesis
di Marzia Carocci
con prefazione di Fulvio Castellani
Carta e Penna, Torino, 2012
ISBN:978-88-97902-16-4
Pagine: 95
Costo:12€
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

Perché non è finita
finché ritorna il giorno
che limpido c’invita
di nuovo a un altro sogno.
(in “E sarà di nuovo giorno, p. 25)

 

9788897902164Difficile e forse addirittura coraggioso è il recensire il recente libro della scrittrice, poetessa, nonché valida collaboratrice Marzia Carocci, perché la sua attività letteraria, le sue pubblicazioni e soprattutto il suo impegno concreto nel mondo culturale contemporaneo è, oltre che encomiabile e invidiabile, prerogativa per considerarla una delle potesse più valide e amate del nostro tempo. Non si tratta di un’asserzione iperbolica: chi la conosce anche solo di nome per il suo serio impegno sa che sto dicendo il vero, mentre a chi non la conosce inviterei a leggere qualcosa di lei: poesie, ma anche recensioni, perché va ricordato che Marzia Carocci è un anche un attento critico che si occupa di note di prefazioni, recensioni e quanto altro, il tutto all’insegna della promozione di lavori di qualità che, non essendo supportati da grandi case editrici, rimarrebbero nell’ombra se nessuno si assumesse l’onere di promuoverli adeguatamente: in altre parole, il “poeta incompreso” della sua omonima lirica o i “ragazzi spesso non capiti” di “La gioventù” (p. 46). Negli anni ho avuto modo di leggere varie poesie di Marzia, tra quelle che lei pubblicava in Facebook e quelle apparse in varie antologie poetiche e sono stato enormemente contento della sua collaborazione anche alla rivista di letteratura Euterpe che dirigo.

Il libro in questione, Némesis, edito nel 2012 dall’Associazione Carta e Penna di Torino ci immette da subito in un’ambientazione di difficile collocazione: l’immagine di copertina, la foto di una bambola scheggiata della quale risalta, però, il rosso delle labbra sensuali sembra trasmettere un senso d’incertezza e al contempo di paura, come se qualcosa –che non ci è dato sapere- è appena successo e che quell’espressione di spavento, quelle cicatrici sul volto siano, dunque, il “risultato” di qualcosa. Il titolo, Némesis, che potrebbe far venir in mente a un recentissimo romanzo del grande americano Philip Roth, sta a significare quei momenti difficili del passato che vedono poi un momento di “rivelazione” che in pratica li fanno risollevare, una sorta di epifania o come viene detto in Wikipedia, come “una compensazione”. Parlare di “nemesi”, dunque, presuppone considerare la realtà liquida nella quale il nostro essere si trova  come un immenso vivente dominato da forze imperscrutabili, ingovernabili che, in una certa misura, dettano a nostra insaputa le nostre azioni, in altre parole di fatalismo. Una nemesi, dunque, presuppone un prima e un dopo, un periodo di tristezza, un altro di rappacificazione, un tramonto e un sorgere. Ma l’attenzione non è tanto su questi due elementi, quanto sul processo di cambiamento stesso, sul momento “rivelatore” che consente appunto di passare dal prima al dopo.

La silloge si apre con la lirica intitolata “8 marzo 1908”, già letta e contenuta in Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile edita da Agemina (2012) nella quale la poetessa affida tutto al ricordo di quella data dolorosa nella storia dell’umanità: il rogo che si diffuse in una fabbrica americana producendo una grande quantità di vittime donne portò l’attenzione sulle cattive condizioni di lavoro e sullo sfruttamento (tanto lavorale che non) della donna nella società. La festa della donna nasce per ricordare il sacrificio di donne con la “D” maiuscola che soffrirono le ingiustizie della storia e la prepotenza degli uomini sulla loro pelle. Della lirica i versi più belli sono quelli che affondano la loro essenza nel vivo cromatismo: “ricorda che quel fiore profumato/ è rosso sotto un giallo camuffato/ del sangue delle donne forti e fiere/ che vollero lottare per cambiare” (p. 7).

foto-24653_36823_24049Ci sono liriche dolorose, ma al contempo ricchissime dal punto di vista dei sentimenti e sono principalmente quelle che hanno un qualche legame al tema del tempo come in “A mio padre” dove l’uso continuo di quel condizionale “vorrei” ci dice che la poesia non è altro che un sogno ad occhi aperti, un qualcosa di illusorio, una sorta di tentativo di voler riconquistare quello che in un tempo andato non si è potuto fare o non si è avuto il tempo di fare. Ed è forse proprio il tempo, quel gigante invisibile e sempre presente, a rappresentare la “nemesi”, quello stacco lucido da un prima a volte doloroso o che si ricorda con nostalgia al presente che, invece, è immancabilmente diverso dal prima, addirittura differente da come ce l’avremmo immaginato: “La vita ci conduce dove vuole/ ma niente può nascondere e occultare/ i sogni ed i ricordi sono eterni/ bagaglio di un’essenza da cullare”, scrive la poetessa in “Ad un caro amico ritrovato” (p. 9). Come per dire: siamo noi stessi solo perché abbiamo avuto un passato (privato e collettivo) e perché abbiamo ricevuto e dato emozioni. Una vita senza affetti, infatti, si ridurrebbe a niente: desolazione e senso di nullità. La Carocci sottolinea in queste liriche quanto l’amore, l’amicizia, l’affratellamento e le piccole cose possano alimentare quella ragion d’esserci nel presente e quella forza motrice per andar avanti e non lasciarsi scoraggiare. La morte di un genitore, allora, non è solo vivido manifesto di un dolore che mai più verrà colmato, ma anche un sorriso incantato sul viso della poetessa.

In “Amore immortale” scopriamo la poetessa-madre in una lirica d’amore verso i suoi figli nella quale, come spesso accade nelle liriche della Carocci, fa capolino il tempo, quasi fosse un ospite non gradito, un nemico indissolubile. La riflessione sul tempo è chiara ed espressa in termini facilmente comprensibili a tutti: “Sfugge poi il tempo e scorrono gli anni” scrive, per concludere in un chiaro encomio all’amore che salva e che unisce anche oltre la morte: “Non sarà il tempo, trascorso e andato/ che arresterà questo mio amore” (p. 11).

Il tempo ritorna in tutte le possibili manifestazioni in questa silloge d’inestimabile valore: le rughe (p.12, 45,46) segno fisico della giovane età ormai sfiorita, il ritardo (una dilazione, improvvisa, nel tempo che solitamente provoca scoraggiamento e che nella lirica “Agape” dedicata al marito, invece, è diventato ormai segno di “ritualità”), la stanchezza fisica che il “peso del tempo” (p. 13) arreca, il “come allora” dell’omonima poesia; i “bimbi già vecchi” in “Dolore” (p.23) , cresciuti troppo velocemente e privi di una dolce infanzia a causa della violenza della guerra e i “giorni usurati” (p.42). Stupenda la poesia “Assorta” in cui la poetessa osserva la madre a distanza cercando di capirne i pensieri, i ricordi più o meno felici del suo passato, e tituba se avvicinarsi o no quasi da sentirsi invadente o inopportuna, ma poi è la forza di un gesto, quel “prendere la mano” che apre il cuore della poetessa e lo avvicina a quello della madre.

Ma una delle cose più curiose di questa silloge è che, anche se la poetessa parla sempre di questo duello perenne con il tempo o del tempo che divora il presente per condurre l’uomo alla vecchiaia e alla fine dei suoi giorni, lei non parla mai di morte. Non usa questa parola troppo dura, fredda, che annulla le speranze e preferisce descriverla con versi più elaborati che ci trasmettono un’immagine di eleganza e ci fanno pensare alla morte come una danza che corteggia l’uomo: “[il] traguardo d’un tempo/ codardo e impietoso/ che in fondo ci attende crudele” (in “Anche io avrò il tuo tempo”, p. 13). In “Come allora” la morte è semplicemente “la via de non ritorno” (p.19).

In “Carnevale” la poetessa affonda in un momento di colori e travestimenti, qual è appunto quello della festa di Carnevale e durante la quale “[fingerà] per non farsi scoprire” (p. 17). C’è da una parte un’insaziabile sentimento fanciullesco e ludico che torna a galla, quasi con la volontà di sfidare se stesso e gli altri, dall’altra, però, c’è la volontà della poetessa di osservare, travisata, gli altri e il mondo, senza esser vista né riconosciuta. Il bisogno di cambiare prospettiva, di indossare gli abiti di un altro e di sentirsi un po’ questa persona e soprattutto la necessità di celarsi al mondo, è forse rivelatrice di come la poetessa consideri importante il tema dell’identità passata. Mascherandoci e ritornando bambini possiamo illuderci di rivivere quei momenti andati per sempre e di rinverdire ricordi ormai appassiti: “Di domani non voglio parlare,/ la mia maschera ride perenne,/ cosa importa se dietro io vivo,/ altri mondi, altri sogni per me” (p. 17).

Il tempo che divora e che consuma non viene mai insultato, offeso o vezzeggiato dalla Carocci, ma è esso stesso oggetto di riflessione dei suoi pensieri; parlare di esso significa cercare di conoscerlo, respirarlo e farselo amico. La Carocci dialoga con esso, quasi volesse delle risposte che puntualmente non giungono. Non si scoraggia e lo richiama, lo interpella, lo chiama in causa. E’ lui che comanda tutto e l’uomo deve prenderne atto.

Non si sfugge dal tempo, non si annulla, non possiamo dilatarlo: “Ma niente contro lo scandir/ degli anni io posso”, scrive in “Madre” (p. 54).

Possiamo viverlo, però, mitigarlo, sfidarlo o, come ci dice la Carocci, “trasformarlo”:

 

Non sono più bambina,
né giovane ragazza
ma il tempo che è passato,
lo voglio trasformare.
(in “E sarà di nuovo giorno”, p. 24)

 

La sensibilità di  una poetessa come la Carocci è così variegata ed eccelsa proprio perché parte da un’attenta esegesi sul tempo e sul ruolo che esso svolge nelle nostre vite e, soprattutto, nelle nostre riflessioni. Così il ricordo della nonna e i giochi dell’infanzia sembrano a prima vista essere perduti e sostituiti da quei “nostalgici giorni” (p. 33) del presente, un tempo in cui la malinconia, la tristezza e la continua lotta con la dimenticanza, scrivono le ore, ma il passato non è perduto perché rivive nei sogni dove la poetessa ritrova quei tempi e riscopre momenti passati, re-incontra i suoi cari e quasi dialoga con essi. Così la mamma, il genitore premuroso che ha dato amore e cresciuto il figlio, una volta anziano diventa come un infante a cui il figlio da’ amore, premure e attenzioni cantandogli una dolce ninna nanna (“Ninna nanna”, p. 61).

 

Lorenzo Spurio
(scrittore, critico-recensionista)

Jesi, 19-02-2013

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“Mare della tranquillità”, poesia di Emanuele Marcuccio, con un commento di Cinzia Tianetti

MARE DELLA TRANQUILLITÀ[1]

(poesia di Emanuele Marcuccio)

 

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Giacomo Leopardi,
da «Canto notturno
di un pastore errante dell’Asia»

 

Tien la luna vecchie strade

a separar gli ammassi oceani

alla superfice

mari la solcano

in prosciugata tranquillità.

 (17/1/2013)

Commento a cura di Cinzia Tianetti

Imare tranquillitatisl momento di completezza espresso in quel volto illuminato dalla luce del sole, pallida visione dell’esplosione di luce dell’astro solare, freddo calore argenteo che non può non ispirare ammirazione, ha da sempre movimentato l’animo umano di visioni e proiezioni fantastiche, come l’amore implorante che ti tiene rivolto all’amata facendola desiderare, regala spiragli d’amor corrisposto; ed ecco quella luminosa e placida dea, espressione di mute richieste che non puoi non accogliere, suscitare preghiere per appagare, nell’illusione, entrambi; nell’abbozzato respiro del compiuto un sospiro liberatorio.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna? Cantava Leopardi.

“Tien la luna vecchie strade” dice Emanuele Marcuccio nella sua poesia, spingendosi a dare una risposta che nulla toglie al poeta, all’amante, al notturno uomo che sonnambulo sognerà per quelle vecchie strade senza curarsene.

Nei suoi versi, direi di filosofia del concreto, ad alleviar l’angoscia della sospensione della domanda,  si costruisce un’azione perpetua che esula dal preoccuparsi del destino umano e realizza il suo discreto ordine, la sua legge perenne, e quell’intrigante e bello aspetto che ha sempre fatto dubitare e ipotizzare.“[…] a separar gli ammassi oceani /  alla superfice […]”.

Così da leggere tra le espressioni lunari per i suoi secolari abbozzi di sorrisi, lamenti, dubbi, per tutte le scale cromatiche dei sentimenti umani, da lei abbracciati, cullati, nascosti, attraverso le sue fasi cicliche che tutto accoglie e tutto ispira, come un grande magico specchio d’immaginazione e creatività; il suo andare, tra quel che è e il suo apparire di  dea “terrea” inesorabile ed eterna, in cui in una voce di speranza ultima si ritorna per quella tanto sospirata pace così lontana dal tempo di oggi e dalle pretese quotidiane: “mari la solcano /  in prosciugata tranquillità”.

 a cura di Cinzia Tianetti

 

 

16 febbraio 2013

 

 

 

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[1] Ispirato da una zona della luna, denominata appunto “Mare della Tranquillità”, situata sull’emisfero del satellite sempre rivolto verso la Terra. Il termine “mare” è stato scelto a causa del colore scuro che contraddistingue queste regioni dai territori circostanti, in realtà si tratta di pianure basaltiche.

“Quel plenilunio perenne”, poesia di Lorenzo Spurio

QUEL PLENILUNIO PERENNE
POESIA DI LORENZO SPURIO
 
1111111111111Quel plenilunio perenne                                                              
 si rispecchiava
 in abbracci di plastica
 mentre il mondo ruggiva.
 
 Fumavo paure ricorrenti,
 nel cielo zigzagante
 i miei pensieri di creta
 correvano.
 
  
LORENZO SPURIO (c)
Jesi, 13-02-2013
 
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“Come un sogno”, poesia di Emanuele Marcuccio

COME UN SOGNO

(poesia di Emanuele Marcuccio)

Amore_e_Psiche_by_EudonCome un sogno,
il tuo dolce sorriso
si spande e si perde
nell’immensità.
Come il mare,
il tuo bel viso
si adagia e si rasserena:
il mio andare disperso
si placa, e non chiedo nulla:
trovo alfin la pace,
la pace serena dei tuoi occhi.

(8/1/2000)

(da Marcuccio, Emanuele, Per una strada, SBC Edizioni, Ravenna, 2009)

L’immagine riproduce un particolare del gruppo scultoreo “Amore e Psiche” di Antonio Canova.

  

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La solitudine in poesia vista attraverso l’immagine del volatile: “il passero solitario” di Leopardi, il gabbiano Jonathan Livingston e l’albatro

Il passero solitario
di  Giacomo Leopardi
 
commento di Giuseppina Vinci

Grande fascino desta il primo verso ‘’d’in su la vetta della torre antica’’ la vetta, le altezze,  si allungano verso il cielo, come guglie di una cattedrale che si elevano verso l’infinito, altri spazi, altri mondi; colui che sta su una vetta non può non essere che diverso dagli altri, colui che ha desiderato raggiungere la vetta aspira a una vita differente perché è differente, aspira all’infinito, a una esistenza ‘’elevata’’.

ps_jpgpassero solitarioIl passero dalla vetta della torre può ammirare un paesaggio bello ricco di luce perché la primavera ha illuminato la campagna e intenerito i cuori, il nostro Poeta ammira la natura e la sua bellezza, non può non ammirarla perché essa ‘’intenerisce il cuore’’. La Torre simboleggia la durezza del carattere, l’impenetrabilità del dolore,  la corazza di una personalità triste, melanconica,  sente di essere forte perché se ne sta in disparte; solitario ha scelto la solitudine e crede di poter vivere da solo. Non può ammirare e gioire delle bellezze della natura come tutti gli altri passeri, come tutti gli altri giovani. Scegliere la solitudine è la Scelta della sua vita, della sua breve vita. Perché rinunciare alla gioia? Breve ma pur sempre viva e presente.

La brevità della gioia dovrebbe impedire di abbandonarsi alla solitudine. Egli si è abbandonato alla Solitudine.Pur breve, la gioia  va vissuta anche se seguita dall’inevitabile dolore. Antica, par ricordare l’ ‘’antico’’ marinaio del poeta inglese Coleridge. Antico, remoto, non vecchio, quasi intoccabile,antico come il Dolore che è sempre stato e sempre sarà, ricorda Keats ( the pain that has been and may be again)  nella sua celeberrima urna greca. Condizione comune a tutti gli esseri umani, non puoi evitarlo. Dolore silenzioso, orgoglioso, remoto come ho scritto in una mia breve composizione. Il passero canta la propria solitudine e alla fine del giorno accetta la fine. Il Poeta sente di rimpiangere i momenti non vissuti, momenti che avrebbero potuto riscaldare il cuore. Anche Jonathan  Livingstone sceglie la solitudine, ma vola, sui mari, sui monti, si stacca dal gruppo, dalla esistenza fatta di obbedienza alle regole stabilite dal capo. Il  gabbiano Jonathan gioisce, spazia, soprattutto perché lontano dal gruppo che non ama volare come lui. Volare è la vita per Jonathan, ma il passero, il Poeta non vola, si stacca dal gruppo non per volare, spaziare, librarsi, gioire ma per rimanere immobile nella solitudine e dunque nella sofferenza.

Il gruppo punisce Jonathan per non essersi adattato, per aver trasgredito, ma lui non cambia, rimarrà lo stesso, amerà volare e continuerà a volare, ossia a vivere.

Il gabbiano di Baudelaire, schernito e annientato, è il Poeta condannato per essere diverso, per essere incompreso, per essere genio. Tutti ciò che appare diverso deve essere annientato. La norma è l’istituzione, e dunque, se fuori dalla norma, deve essere emarginato.

gabbIl poeta, incompreso perché geniale deve essere mortificato e dunque morire. Qui il Nostro, forse schernito dalla comunità recanatese, deliberatamente sceglie di non condividere la sua vita con altri giovani e giovinette del paese. Avrà molto sofferto. La sua adolescenza sarà stata simile a quella di tanti altri giovani, non amati soprattutto nell’ambiente familiare; niente che possa intenerire il suo cuore; durante quegli studi matti e disperati, si affanna a trovare una causa al dolore causa che difficilmente troverà. Un Thomas Hardy che non accetta la  necessità del dolore. Una Natura, le stelle che brillano, fredde e luccicanti rappresentano una Volontà indifferente alla sorte delle umane genti.

Una Volontà immanente, non soltanto indifferente ma che scherza con gli esseri umani deboli e fragili ‘’destinati’’ alla sofferenza. Non un Dio, ma ‘forze oscure’’ come Hardy le definiva, oscure perché ne sconosci l’origine, si accaniscono per far sì che l’uomo soffra e gioiscono della sua infelicità. Raggiungono la meta, il fine. Tess perirà a Stonehenge, condannata per aver assassinato Alec, ma Tess non è altro che simbolo dell’umanità,  vittima di forze oscure. Simbolo della umanità senza speranza, condannata alla morte, alla Fine. Anche Hardy si chiederà il motivo di  tanto dolore. Non saprà mai darsi una risposta. Se non quella di credere alla grande solitudine dell’uomo e alla sua inevitabile sorte di dolore e abbandono. Il nostro Poeta, come il passero perirà, si rammaricherà della vita, della propria vita trascorsa nel rifiuto, Nessuno mai l’ha consolato,  ‘all’apparir del VERO tu misera cadesti’’ dell’altra nota poesia ‘’A Silvia’’, le illusioni che avrebbero potuto confortarlo sono illusioni; la speranza nelle illusioni è anch’essa perita.

Solo il Nulla non perirà.

 

Giuseppina Vinci

Docente di Lingua e civiltà inglese al Liceo classico Gorgia di Lentini.

“Recanati”, poesia di Giuseppina Vinci

Recanati

POESIA DI GIUSEPPINA VINCI

city_recanatiRecanati,

quando nacque non sapevi

che il  tuo figlio più insigne

ti avrebbe eternata

Recanati patria dell’infinito

del dolore e della morte

Recanati  oggi

devo renderti onore

devo inchinarmi ai Suoi versi

alla immortalità della Poesia

alla Speranza della Poesia.

DI GIUSEPPINA VINCI

QUESTA POESIA VIENE QUI PUBBLICATA SU GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.

La poesia rosa in unplugged: Liliana Manetti e Giuseppe Giulio a Roma

wGiovedì 21 febbraio alle ore 18:30 presso il teatro Giovanni Paolo II (GP2) avrà luogo una serata incantata e magica dedicata alla poetica e al mondo femminile. La voce elegante e l’interpretazione passionale di Sarah Mataloni, presenteranno La mia Arpa dell’autrice Liliana Manetti con la partecipazione di Rosalba Anzalone, madre spirituale dell’autrice, la quale leggerà alcuni suoi versi in lingua portoghese. Liliana Manetti è co-protagonista dell’incontro insieme con Giuseppe Giulio, autore e creatore dello spettacolo teatrale “Brontë: i nostri più antichi segreti” che presenterà alcune delle poesie scritte in lingua inglese, incluse nella raccolta inedita dal titolo Little Women.

La mia arpa di Liliana Manetti è l’espressione dell’anima, in cui l’autrice si scopre con le sue problematiche, e con i suoi amori più nascosti, tra questi: la natura e le emozioni che trasmette, che come definisce l’autrice: le emozioni che mi danno le stagioni sono cosi diverse ma cosi complementari. L’amore emerge molto nelle sue poesie, velate sempre dal romanticismo che traspare nelle parole dell’autrice. La sinossi termina con una frase, che racchiude l’essenza e la passione, che vedremo protagoniste sul palco del teatro GP2,  il prossimo 21 febbraio: Le corde mute della mia anima se le ascolti in un giorno di settembre dall’aria frizzantina come questo sapranno suonarti una melodia bellissima: ma solo se vuoi, solo se le rispetti e le ami profondamente, altrimenti come dico nei miei versi, giaceranno nel loro dolore.

imagesVenti poesie inedite, scritte in lingua inglese, per raccontare per la prima volta in prosa temi sociali, al centro della società odierna. Dalla Fede, alla femminilità, dal genocidio siriano allo sfruttamento minorile, dall’omosessualità alla morte, questi sono solo alcuni dei temi affrontati nella raccolta poetica dal titolo Little Women. Il titolo s’ispira al celebre romanzo dell’autrice statunitense Louisa M. Alcott, ma anche dal profondo desiderio personale, di trasformare le poesie come se fossero delle piccole donne, che passo dopo passo, raccontano la storia della nostra società, viaggiando nell’inconscio di ognuno di noi, tra le città passando anche tra continenti più remoti del nostro pianeta.  Una raccolta che per la prima volta mette nero su bianco un inedito manifesto letterario, in cui la società, per la prima volta, si racconta attraverso la poesia di oggi, semplice, cristallina e soprattutto scritta in un linguaggio, oggi divenuto universale.

Una serata all’insegna della femminilità e della creatività, della passione e del talento. Ancora una volta queste caratteristiche appena elencate salgono sul palco del GP2.

 

Prima Ragunanza del 28 aprile 2013 di letture poetiche

La POESIA che sarà da Voi scritta, dovrà ricordare i dettami dell’Arcadia, il valore della natura, filtrati dagli eventi attuali che coinvolgono, modificano, distruggono i quattro elementi della nostra madre Terra e lo spirito di tutti coloro che si prodigano per la salvezza ed il recupero dell’ambiente.

È questo l’intento e l’obiettivo della rinnovata “ragunanza” nell’ambiente bucolico di Villa Pamphilj, Roma, a ricordo dei raduni organizzati da S.A.R. Cristina di Svezia.
 
REGOLAMENTO per la “Prima ragunanza del 28 aprile 2013 di letture poetiche”
La partecipazione è aperta a tutti coloro che dai 16 anni in su, per i minorenni è necessaria l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci, senza distinzioni di sesso, provenienza e cittadinanza, ritengono di aver compreso lo spirito dell’inno poetico alla natura che ci accoglie.
cristinaLa POESIA che sarà da Voi scritta, dovrà ricordare i dettami dell’Arcadia, il valore della natura, filtrati dagli eventi attuali che coinvolgono, modificano, distruggono i quattro elementi della nostra madre Terra e lo spirito di tutti coloro che si prodigano per la salvezza ed il recupero dell’ambiente.
È questo l’intento e l’obiettivo della rinnovata “ragunanza” nell’ambiente bucolico di Villa Pamphilj a ricordo dei raduni organizzati da S.A.R. Christina di Svezia.
 
Art.1 Si richiede per la sezione POESIA, il testo di massimo 30 versi su un unico foglio scritti in Times New Roman, a carattere 18.
 
Art.2 I testi, che devono essere inediti, vanno inviati alla redazione Liber@arte via mail aliberarte2013@gmail.comindicando in oggetto “Prima ragunanza di letture poetiche” e per conoscenza a: zanarellamichela@gmail.com
 
Art.3 Le modalità espressive dei testi non devono essere offensive né ledere la sensibilità e/o la dignità del lettore, dell’ascoltatore e della persona chiamata in causa a leggere;
 
Art.4 La partecipazione è GRATUITA;
 
Art.5 La scadenza per l’invio dei testi è fissata a lunedì 4 marzo 2013;
 
Art.6 Il giudizio della giuria è insindacabile;
 
Art.7 La partecipazione al concorso comporta l’accettazione di tutte le norme del presente regolamento ed il partecipante dovrà essere presente il giorno della ragunanza per la lettura della sua poesia di fronte agli astanti;
 
Art.8 I partecipanti i cui testi siano stati selezionati per la lettura in pubblico saranno informati sui risultati delle selezioni mediante mail personale e segnalazione sul sito del gruppo Facebook Liber@arte.
 
Art.9 Le POESIE scelte saranno presentate e lette al pubblico DOMENICA 28 APRILE 2013, dalle ore 10,30 alle ore 18,30 all’interno di Villa Pamphilj nel Teatro all’aperto o, in caso di mal tempo, nel salone della vecchia Vaccheria.
A tutti i selezionati sarà inviato l’invito per la partecipazione al reading con largo anticipo.
Le poesie che saranno lette nel Teatro all’aperto e idonee all’evento, saranno inserite nella silloge antologica pubblicata dalla Arte Muse Editrice.
 
Art. 10 Nel file d’invio includere dati personali, indirizzo postale, indirizzo e-mail, telefono, breve nota biografica e, in calce al testo, la seguente dichiarazione firmata:
 
“Dichiaro che i testi da me presentati a codesto concorso sono opere di mia creazione personale e inedite.
Sono consapevole che false attestazioni configurano un illecito perseguibile a norma di legge.
Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi della disciplina generale di tutela della privacy (L. n. 675/1996; D. Lgs. n. 196/2003) e la lettura e la diffusione del testo per via telematica e nei siti di Cultura della Poesia e dell’Arte, nel caso venga selezionato, dai giurati di Liber@arte.”
 
Referente concorso:
 
Michela Zanarella,
 
 
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“La tendenza alla nullificazione del prodotto poetico. Diamoci una spinta, prima che la poesia si estingua” di Ninnj Di Stefano Busà

di Ninnj Di Stefano Busà

                                               

Un discorso sulla Poesia torna opportuno oggi più che mai…visto che la stessa si muove incerta per difficili sentieri, impedita da lassismi libertari e fuorvianti, mode e linguaggi sconclusionati, culture e  capricci della moda votati a portare avanti la parte più deteriore e rivoluzionaria del prodotto linguistico, quella che risente di forme più o meno imbarbarite o troppo progressiste: come informatica, rampe satellitari, video games, che distolgono l’attenzione dalla poesia, divenuta obsoleta e fuori tempo. Questa mia nota, altro non è che una proposta, un invito a pensare, a discutere, a promuovere iniziative atte a diffondere la Poesia e portarla tra i giovani: la poesia può appartenere a chiunque la ami.

L’evoluzione delle forme poetiche nella storia della cultura è stata continua e costante. Anche nei periodi bui di stagnazione e di regressione o in altri di avanguardia o di pseudoavanguardismo estremo, di rinnovamento forzato, quasi traumatico perché sotto dettatura di impellenti bisogni scardinatori della lingua, ha mantenuto (per fortuna) alcune categorie universalizzanti che fanno della parola poetica una realtà necessaria, non del tutto superflua per l’uomo e la sua specie.

Oggi il mondo dell’arte subisce i contraccolpi di quasi due secoli di rivoluzioni e controrivoluzioni ed è travagliato e stritolato dalla pretesa del tutto moderna di un giovanilismo rinnovatore quanto anarcoide che scambia l’arte col capriccio e l’arbitrio, la libertà di scelta e d’ispirazione nel momento creativo, con una sorta di soggettivismo-individuale impazzito, di relativismo assolutizzato, quanto esasperato, che rifiuta non solo ogni canone esterno, ma anche ogni più elementare regola derivante da un fondamentale sentire estetico, che viene non solo negato, ma forzato, ripudiato e violentato da mode più libertarie.

Diciamolo, subito, che non esistono due linguaggi: uno per la Poesia surreale, magico, ermetico, inaccessibile ai molti, e uno feriale, per i comuni mortali. La poesia può vibrare ovunque in maniera del tutto naturale, anche nelle lasse di un’espressione lontana dalla ipertrofia delle metafore o dalle ambiguità emergenti dall’inconscio, dagli assurdi e dagli arbitrii delle avanguardie ad ogni costo. E <per ogni costo> s’intenda anche quello di inquinare il linguaggio, impoverirlo e strumentalizzarlo in modo deleterio e anarcoide.

coverantologiaD’altra parte bisogna riconoscere che il linguaggio comune non è certo meno efficace di quello colto, o immaginifico, che anzi il suo fondo realistico-logico, sentimentale può essere ben compreso, ma notevolmente più apprezzato, ammettiamolo, sarà il linguaggio ricco di ambivalenze, di metafore, di tensioni allusive proprie di una discorsività che ha varianti emozionali ricercate e volutamente sensazionali. È necessario avvertire chi mi legge che la nostra epoca è dominata dalla pianificazione, dagli orologi, dai computer, dalle costrizioni collettive, dai network, dai condizionamenti psicologici, dai modi ambigui, dalle persuasioni occulte e, pertanto, la Poesia  non può porsi in funzione di antidoto e di corroborante della personalità, nello stesso tempo in cui esprime lo sdegno per un mondo nel quale l’industria e la tecnologia hanno fatto il loro guasto, riducendo l’uomo a realtà <minima>, a manovratore di pulsanti, a robot senz’anima né coscienza, registratore meccanico di impulsi e pulsioni interni ed esterni, frammenti ormai di un “essere” decapitato e privato dalla dignità di pensiero e di coscienza.

Si devono altresì tener presenti le condizioni nelle quali la poesia si è trovata ad operare, all’interno della realtà sociale creata dall’industria e dalla massificazione intellettuale della cultura, che ha livellato gli strati meno abbienti dell’intellettualità, riducendoli a meri contenitori privati di pensiero.

L’industrializzazione ha finito per colpire e dissolvere le strutture, i canoni, gli schemi e le categorie estetiche di un sapere logico, massificandone gli strati di una società in sviluppo che non si è trovata alla pari con l’evoluzione dei tempi tecnologici. Così mentre le forme storiche della vita pratica, politica, economica tendevano alla pluralizzazione di codici diversificati, la cultura artistica (soprattutto poetica) s’incamminava verso un destino nebuloso e asfittico.

La comunicazione si orientava ad una sorta di omogeneizzazione o omologazione monodica, in netto contrasto con la varietà dei canoni estetici, delle forme poetiche e dei generi letterari che s’ispirarono ad un modulo linguistico meno sofisticato, più totalizzante e massificato, fondato quasi esclusivamente sull’informazione nuda e cruda, in contrasto con gli elementi pedagogici che avevano costituito i poli della comunicazione del passato.

La comunicazione di oggi appare un modello standardizzato con una fondamentale tendenza a tradurre in evasione pura e in libertà arbitraria quello che prima era la comunicazione, il linguaggio tra le genti. Inoltre si deve denunciare il divorzio che nel frattempo si è andato consumando tra Poesia e Scuola. Tale divorzio ha provocato un lassismo linguistico, una sproporzionata condizione di arbitrio lessicale e di costumi, un allontanamento dal “bel parlare”.

La proposta della letteratura finisce col percorrere un sentiero sterile, inadeguato e non in linea con le esigenze spirituali dell’individuo che, nel suo dispiegamento anarcoide, rifiuta volentieri la domanda culturale (in particolare la Poesia) per intraprendere sentieri tortuosi di un linguismo più depauperato, banalizzato e frustrato che non dà nulla in termini di elevazione culturale.

Questo  — consuntivo — oggi non ha la pretesa di essere “il vangelo”. Si presenta con l’intraprendenza e il rischio di un tentativo di storicizzare la produzione meritevole di essere trasferita alla pagina della Storia della Letteratura, sintetizzare, (magari in modo opinabile) un referente storico che intende essere un censimento dei poeti dell’ultimo ventennio, una sperimentazione “in limine” una sorta di indicazione che pone il fattore lirico a livelli di Storia e di percorsi epocali, includendo le varianti, gl’innegabili riferimenti sul piano ricostruttivo delle neoavanguardie linguistiche fino ai ns. giorni. Nell’introduzione di questo copioso documento storico avrò l’opportunità di proporre e indicare alcune tra le massime espressioni dell’oggetto poetico, e questa mi appare una generosa offerta di quanto la realtà del momento può disporre.

NINNJ DI STEFANO BUSA’

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