“Voce” di Elisabetta Bagli, recensione di Lorenzo Spurio

Voce

di Elisabetta Bagli

Ilmiolibro, 2011

Pagine: 64

Costo: 9€

 

Recensione di Lorenzo Spurio

 

 

Non ho più desideri,

non posso più amare,

non voglio più vivere.

(da “Anima perfetta”)

 

Elisabetta Bagli, italiana trapiantata nella capitale spagnola, esordisce nel mondo della scrittura con questa densa silloge poetica, sebbene il suo amore per la letteratura l’abbia sempre contraddistinta. E questa doppia appartenenza Italia-Spagna si evince da numerose liriche qui contenute; sono numerose le tracce spagnole a cominciare dalla lirica dedicata a Carmen Laforet (1921-2004), l’omaggio al capoluogo della regione Cantabria in “I fuochi di Santander” e i numerosi colori e odori di una natura florida e spontanea di tipo chiaramente mediterraneo. Dall’altra parte, invece, estremamente pittoresca è l’immagine di Trastevere in un momento di goliardia presente in “Festa de ‘noantri” mentre  in “Garbatella” la poetessa rievoca non senza nostalgia l’infanzia lì vissuta.

Le liriche scorrono veloci sotto i nostri occhi ma le sensazioni che la poetessa evoca –frutto di suoi momenti realmente vissuti- rimangono come sospesi nell’aria, a circondarci e a regalarci un mondo variopinto di stati emozionali comuni ad ogni mortale ma che Elisabetta Bagli ha steso sulla carta con maestria. Un senso di leggerezza pervade l’intero libro quasi che una leggera brezza lambisca le pagine mentre lo stiamo sfogliando, inoltrandoci nel cuore della silloge. E’ per questo, forse, che la poetessa ha scelto un’immagine edenica nella foto di copertina dove due angeli –uno maschio e uno femmina sembrerebbe, anche se gli angeli non hanno sesso- si abbracciano lievemente e si baciano, quasi a costituire un tutt’uno. Le ali dispiegate dei due che riusciamo a intravedere solo in parte “sollevano” lo spettatore verso l’alto con una chiara volontà di innalzare il testo qui contenuto a una ricchezza lirica degna d’analisi.

Del titolo, Voce, colpisce l’utilizzo del singolare che, però, è subito chiarito nella prima e omonima poesia: è la voce-anima taciuta della poetessa equiparata al lento e indistinto fluire di un corso d’acqua del quale con difficoltà si riesce a percepire il rumore che “mossa da un nuovo impeto,/  con vigore, / si rivela a tutti”.

In “Scrivere” Elisabetta Bagli affronta dal suo punto di vista il senso della poetica: “scrivere per comunicare […] scrivere per rappresentare la tua vita […] scrivere per dare un senso ai tuoi sogni […] scrivere per sfogare la tua rabbia […] scrivere anche quando non vuoi […] scrivere per toccare l’esistenza più alta della tua vita”. Il messaggio della poetessa è chiaro: la scrittura, in questo caso la poesia, è un’eterna amica che ci sostiene sempre e alla quale si deve ricorrere come sostegno, riparo e confidente anche nei momenti nei quali la rabbia, la disperazione o la noia ci assalgono.

Nella coloratissima “Chi sono” si respirano profumi variegati e la poetessa si ritrova e si riscopre parte della natura in un’atmosfera panica, circondata dalla Madre Terra di cui è parte che la porta a scrivere: “Sono l’odore della terra/ dopo il temporale, forte, acre”. Perché anche l’odore della terra può cambiare, ci insegna Elisabetta Bagli a seconda della temperatura o delle condizioni meteo. Ma più che questi fattori fisici credo che ciò che la poetessa intenda dire è che gli odori sono e non sono come li percepiamo, a seconda di come ci troviamo, di come ci rapportiamo e sperimentiamo il mondo. La natura è celebrata ampiamente in tutta la silloge come in “Neve”, “Luna piena” o in “8.46”, cronaca di un parto dove il senso di maternità e di forza generatrice riconducono direttamente alla più ampia accezione di natura.

Ci sono versi amari in “Bulimia” dove la poetessa annota “Una dopo l’altra,/ due dita penetrano nella mia gola/ si muovono, insistono sulla lingua,/ scendono ancora più giù./ Finalmente tutto esce,/ come cascata esce. / Mi libero soddisfatta”. Questa poesia non intristisce la raccolta che è pervasa, invece, da un animo profondamente vitale ma serve piuttosto a delineare anche le debolezze del corpo umano, i sistemi che attentano al naturale sviluppo dell’essere. Ciò che colpisce della lirica in questione è la consapevolezza della soddisfazione – oserei dire quasi gioia- dell’atto meccanico e malato che porta l’io poetante a un certo comportamento lesivo per se stessa. Nella lirica la bulimia viene connessa al desiderio di “morire magra” piuttosto a quello di vivere con un aspetto filiforme, ma non credo che la poetessa abbia voluto mandare un messaggio allarmistico. Dalla bulimia si può uscire, con convinzione però.

La poesia di Elisabetta Bagli è positiva, naturalistica, spontanea e molto piacevole. In essa si riscontra anche un invito all’attivismo, a guardare avanti perché alla fine di ogni percorso ce n’è sempre uno nuovo che ci aspetta: “Devo fare di più/ scoprire fin dove posso arrivare”, scrive in “Limiti”.

 

 

Lorenzo Spurio

(scrittore, critico-recensionista)

 

Pamplona 08/10/2012

 

 

 

Chi è l’autrice?

Elisabetta Bagli, classe ‘70, è romana ma risiede a Madrid. Ascolta la sua voce poetica da poco più di due anni. Nonostante i suoi studi accademici di formazione economica-giuridica, ha sempre amato la letteratura, spaziando dai classici italiani e stranieri ai contemporanei e moderni.

La sua esperienza di vita, che l’ha portata a vivere lontano dalla sua terra natale, l’ha spinta a riflettere sulla sua condizione di donna che, in merito a scelte fatte in accordo alle proprie esigenze, ha perduto il contatto diretto con il suo mondo di origine. Ma lo ha portato dentro di sé. Vive la sua realtà aperta ad accogliere le novità della vita senza dimenticare mai che “è quel che è soprattutto perché è stata”.

Espansiva e cordiale con quanto la circonda, dopo aver cresciuto i suoi due figli fino all’età scolare, ha avuto più tempo per poter ascoltare la sua voce, per alimentare la sua analisi introspettiva, per poter descrivere le sue emozioni, i suoi dubbi, la sua identità mai perduta sui fogli bianchi di quel quaderno che, come una premonizione, le è stato regalato nel giorno della sua laurea. Ora ha deciso di farsi conoscere. Offre al pubblico la sua prima raccolta di poesie con la speranza di poter riuscire a prendere per mano i suoi lettori e portarli all’interno del suo mondo, fatto di vita, di amore, di sguardi.

 

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE E/O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

Intervista a Ivan Pozzoni, a cura di Lorenzo Spurio

 Intervista a Ivan Pozzoni
Autore di “Mostri”
Limina mentis, Villasanta, 2009,
ISBN: 9788895881126

 

a cura di Lorenzo Spurio

Blog Letteratura e Cultura

  

LS: Come dobbiamo interpretare il titolo che hai scelto per la tua ultima opera pubblicata?

IP: Con Mostri cerco di dare soluzione concreta alle difficoltà esistenziali dell’artista, definendone il ruolo sociale e muovendo dalla chiave narrativa della nozione ambigua (vagueness) di «mostruosità»: a] mostruosità terrorizzante (attività di creazione di dolore) da mostro/1 (attore di dolore), volta ad eternare i nessi di dominanza/ controllo esistenti, mediante discriminazione, e b] mostruosità terrorizzata (attività di sottomissione al dolore) da mostro/2 (vittima di dolore), destinata a mantenere, senza reazione, i nessi di dominanza/ controllo, mediante «marginalizzazione». Ognuno di noi, in fondo, nel senso etimologico del termine (monere) è mostro, un «[…] avvertimento della volontà degli dei […]», come registra Festo.

LS: Un autore negherà quasi sempre che quanto ha riportato nel suo testo ha un riferimento diretto alla sua esistenza ma, in realtà, la verità è l’opposto. C’è sempre molto di autobiografico in un testo ma, al di la di ciò, il recensionista non deve soffermarsi troppo su un’analisi di questo tipo perché risulterebbe per finire fuorviante e semplicistica. Quanto c’è di autobiografico nel tuo libro? Sei dell’idea che la letteratura sia un modo semplice ed efficace per raccontare storie degli altri e storie di sé stessi?

IP: Non esiste niente di non auto-biografico: tutto ciò che facciamo, e scrivere è un fare (poiein), è auto-biografia. Ogni forma di atto culturale / artistico ha, tra i suoi fondamenti, il contesto auto-biografico dell’autore dell’atto. Essendo autopsia, l’arte non riesce mai ad essere anti-auto-biografica.

LS: Quali sono i tuoi autori preferiti? Quali sono le tendenze, le correnti italiane e straniere e i generi letterari che più ti affascinano? Perché?

IP: Ogni mio tentativo di «parossisticizzazione» della mass culture è attivato col mezzo formale, cinico, di un barocchismo decostruzionista, con un occhio rivolto a Luis de Góngora y Argote, fatto di calembour, ironie, facezie, cadute di stile, abbassamenti di registro, sulla stessa strada dell’insurrezionalismo scanzonato, mai aristocratico, di un Cecco Angiolieri, di un Burchiello, di un Villon, e dell’umorismo medioevale o novecentesco (riviste); al di là di anacronistici riferimenti a Marx e marxismi, miei riferimenti culturali, nell’ostinato tentativo di dare un senso, vivente, alla vuota nozione moderna di «democrazia», sono i francesi (Deleuze – Foucault – Lyotard – Derrida – Guattari – Artaud – Bataille – Barthes), Badiou e Debord, i sociologi (da Bauman a Sennet), oltre all’impianto metodologico della filosofia analitica americana.

LS: So che rispondere a questa domanda sarà molto difficile. Qual è il libro che di più ami in assoluto? Perché? Quali sono gli aspetti che ti affascinano?

IP: Leggo moltissimo: fisiologicamente sono costretto a dimenticare quasi tutto, trattenendo in me alcune influenze inconsce. Di norma, amo ciò che, al momento, sto studiando. Poi me ne dimentico, e amo altro. L’amore non ha confini.

LS: Quali autori hanno contribuito maggiormente a formare il tuo stile? Quali autori ami di più?

IP: Non ho uno stile. Più che uno stile, ho uno stílo, con cui incido versi/frasi nelle carni e nella roccia.

LS: Quali libri hai pubblicato? Puoi parlarcene brevemente?

IP: La zattera della mia iniziativa artistica, intesa come «non-poesia» e come nuova forma di resistenza etica / estetica interessata a combattere vecchie e nuove forme di dominanza, naviga sulle distese marine della «liquidità» tardo-moderna, muovendosi nei limiti di una weltanschauung artistica totalmente democratica e attenta a sollecitare, nella vita di ogni uomo / artista, la fabbricazione di sistemi di valore idonei a rifondare un dialegesthai comune; l’atto stesso di scrivere versi sottende, in me, una cartografia razionale molto articolata, mai distaccata dalla ulteriore mia attività di storiografia filosofica e letteraria e basata sull’introduzione di una serie di tre cicli metodologici (poetica storiografica – poetica teoretica – poetica sociologica):

1] Poetica storiografica: a] Underground: storiografia in versi del romanticismo; b] Riserva Indiana: storiografia in versi del simbolismo; c] Versi Introversi: storiografia in versi dell’ermetismo; d] Mostri: storiografia in versi del realismo; e] Galata morente: storiografia in versi del post-modernismo.

2] Poetica teoretica: a] Lame da rasoi: teoresi della disintegrazione; b] Carmina non dant damen: teoresi della flessibilità; c] Scarti di magazzino (in uscita 2013): teoresi dell’emarginazione.

3] Poetica sociologica (antologie): a] Retroguardie: sociologia della sconfitta artistica; b] Demokratika: sociologia della democrazia lirica; c] Triumvirati: sociologia della costruzione di interazioni comunitarie;  d] Tutti tranne te!: sociologia dell’esclusione; e] Frammenti ossei: sociologia della frammentarietà; f] Labyrinthi (seriale): manuale sociografico su voci nuove e/o marginali.

La storia della filosofia, dell’etica e del diritto sono un’altra cosa, un’altra storia.

LS: Collabori o hai collaborato con qualche persona nel processo di scrittura? Che cosa ne pensi delle scritture a quattro mani?

IP: Penso che sia estremamente difficile scrivere a quattro mani. Se avessi quattro mani, in ogni caso, con due scriverei, con le altre due avrei l’opportunità di grattarmi, esplorare oggetti, fare altre cose istruttive.

LS: A che tipo di lettori credi sia principalmente adatta la tua opera?

IP: Il lettore non esiste. Nessuno legge davvero «poesia», se non è costretto a farlo.

LS: Cosa pensi dell’odierno universo dell’editoria italiana? Come ti sei trovato/a con la casa editrice che ha pubblicato il tuo lavoro?

IP: Litigo, con affetto.

LS: Pensi che i premi, concorsi letterari e corsi di scrittura creativa siano importanti per la formazione dello scrittore contemporaneo?

IP: Odio ogni forma di concorrenza: la cultura è un processo collaborativo (coi morti), mai agonistico; detesto readings e premiazioni, mezzi consumistici costruiti ai fini di solleticare il narcisismo dell’autore tardo-moderno. L’artigiano non ha bisogno di corsi e concorsi: vive su corsi e ricorsi.

LS: Quanto è importante il rapporto e il confronto con gli altri autori?

IP: È importante, sopratutto, mantenere rapporti con le altre autrici.

LS: Il processo di scrittura, oltre a inglobare, quasi inconsciamente, motivi autobiografici, si configura come la ripresa di temi e tecniche già utilizzate precedentemente da altri scrittori. C’è spesso, dietro certe scene o certe immagini che vengono evocate, riferimenti alla letteratura colta quasi da far pensare che l’autore abbia impiegato il pastiche riprendendo una materia nota e celebre, rivisitandola, adattandola e riscrivendola secondo la propria prospettiva e i propri intendimenti. Che cosa ne pensi di questa componente intertestuale caratteristica del testo letterario?

IP: Non ne ho idea. Difficilmente leggo «poesia». Mi annoia da morire.

 

Lorenzo Spurio

scrittore, critico-recensionista

Blog Letteratura e Cultura

Per una strada di Emanuele Marcuccio, Recensione di Luciano Domenighini

Per una strada di EMANUELE MARCUCCIO

Sbc Edizioni, 2009, pp. 100

ISBN: 9788863470314

Recensione a cura di LUCIANO DOMENIGHINI 

La raccolta di poesie “Per una strada” di Emanuele Marcuccio, raccoglie il meglio della sua produzione poetica dal 1990 al 2006. In un arco di tempo così lungo è ravvisabile una evoluzione, soprattutto formale, nel senso della acquisizione di un linguaggio poetico più originale.

Lo stile:
Le poesie di Marcuccio, specie quelle dei primi anni, hanno uno stile composito, con vaghi richiami stilnovistici, epico-rinascimentali, neoclassici, leopardiani. Questo eclettismo, però, è privo di ostentazione; le citazioni e i modi sono sfiorati con leggerezza. Vale la pena, ad esempio, di osservare come il poeta ricorra, e frequentemente, all’elisione. Solitamente, l’elisione è motivata da urgenze metriche, mentre in Marcuccio il suo uso è assolutamente gratuito è un vezzo, una scelta fonetica puramente ornativa.

Le figure retoriche:
La poesia di Marcuccio, avendo, come detto, carattere eclettico ha una certa ricchezza di figure retoriche, anche se prevalgono nettamente figure di soppressione-sottrazione ( ellissizeugma), o di soppressione-accumulazione (asindeto) oppure di accumulazione, specie quelle reiterative (anaforaepistrofeparonomasia). Lo schema più frequente è il vocativo, seguito da asindeti o polisindeti multipli, pure associazioni di parole ad effetto “impressionista” in senso descrittivo o elegiaco. Le sequenze in asindeto, hanno effetto subentrante-perfettivo e sono composte da sostantivi, sostantivo-aggettivo, aggettivi o sequenze di verbi transitivi e intransitivi come nel bellissimo “vedi, vive, canta, sussurra.” L’impiego di queste figure di accumulazione può avere, come detto, effetto variante-specificante o descrittivo oppure più squisitamente oratorio-enfatizzante, realizzando una “gradatio” emotiva, un vero e proprio climax.

La metrica:
È un poetare libero, polimorfo, ma senza urgenze o scrupoli di ordine metrico. In qualche modo è un poetare istintivo, d’ispirazione, di prima mano. Anche quando l’eloquio poetico si coagula in disticiterzine o persino tetrastici riconoscibili e strutturati in rime o assonanze o paromeosi, sovente il computo delle sillabe, cresce o difetta e la disposizione degli accenti è disritmica. Il tentativo di rima dantesca (“Amor”) è sostanzialmente fallito. Altre volte invece il verso è di eccellente struttura metrica (cfr. gli endecasillabi ”dolce mi viene all’anima, /cantando” oppure “dell’universo immenso meraviglia”). Ma ciò, quando avviene, avviene per caso, o meglio non avviene intenzionalmente quasi che il poeta seguisse unicamente una sua musicalità del momento.

I contenuti:
Accanto alle numerose composizioni, di impronta prevalentemente moralistica, dedicate a personaggi storici o letterari (notevoli i quattro “omaggi” a Garcia Lorca) i temi prediletti da Marcuccio sono quello paesaggistico-descrittivo, quello amoroso e la poesia civile. Riguardo a quest’ultima merita di essere menzionata “Urlo”, dedicata alla tragica fine del giudice Falcone. Con toni rutilanti, epici e tribunizi, il poeta si abbandona sdegnato a una denuncia-condanna senza appello, ricorrendo a un’enfasi tragica quasi omerica, eppure mantenendo, nel messaggio, una chiarezza lampante e inequivocabile.

Conclusioni: 

Nella pressoché assoluta libertà di impiego di moduli stilistici e soluzioni lessicali, nel lasciarsi guidare dall’ispirazione e dallo spontaneo sgorgare della parola poetica; nel tendere l’orecchio insomma alla musicalità del verso come spontaneamente gli proviene dal cuore e dalla mente, e nel saperla tradurre in versi limpidi e carichi di emozione, sta la caratteristica principale di questo poeta, per conoscere il quale la raccolta “Per una strada”, opera prima, pur nella sua varietà stilistica e nella inevitabile impronta esperitiva, rappresenta una fonte preziosa ed esauriente.

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LUCIANO DOMENIGHINI

RECENSIONE PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTORE DELLA SILLOGE DI POESIE E DEL RECENSIONISTA. E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO SENZA IL PERMESSO DEGLI AUTORI

Rosa d’inverno, Intervista a Jasmine Manari

INTERVISTA A JASMINE MANARI

Autrice di Rosa d’inverno

Book sprint edizioni, 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Qual è stata la genesi di questa silloge poetica? Da dove è partita l’idea di collezionare una serie di liriche sotto un unico testo?

JM: Rosa d’inverno è una silloge iniziata nel giugno 2009 e conclusa definitivamente nell’aprile 2011, anno in cui è stata stampata. L’origine della raccolta è stata un voto d’Amore e il titolo, infatti, è il nome della mia prima poesia, la stessa con cui si apre la silloge, dedicata alla persona grazie a cui ho imparato a guardarmi dentro, la persona per cui ho fatto tutto ciò che ho scritto e scrivere, oggi, è tutto ciò che mi è rimasto: la fine, dunque, è il principio nel mio caso.

LS: Nella tua silloge ci sono molte citazioni in epigrafe di autori classici e in maniera particolare mi ha colpito un frammento di Saffo e un sonetto di Shakespeare. Quanto sono importanti secondo te questi due scrittori? Perché?

JM: Ritengo ambedue i poeti mie fondamentali fonti d’ispirazione: essi non parlano degli artificiosi atteggiamenti dell’Amore ma di quell’Amore che sconvolge una vita, più repentino d’un battito d’ali e più profondo dell’oblio. In primo luogo, tengo a dissolvere l’idea di Saffo come emblema dell’Amore omosessuale poiché quando si tratta d’Amore, come afferma Benigni, tutto diventa grande, finisce la mediocrità e il solo fatto di classificarlo non può che svilirne l’importanza agli occhi del mondo sebbene la sua essenza rimanga intatta. E quando parlo d’essenza intendo le radici inconfondibili che germogliano in ogni individuo, sia esso uomo o donna: questo non conta poiché nessuno può fare a meno di nominare Amore, sia pure soltanto per denigrarlo. Lo stesso William Shakespeare, il sommo scrittore decantato come indiscusso poeta dell’Amore, scrisse una silloge di ben 154 sonetti, dedicando i primi 126 ad un giovane di cui si conoscono le iniziali (Sir W. H), il suo fair youth e soltanto i restanti 28 li compose per la più citata dark lady, una donna di cui il poeta evidenziava spesso gli aspetti negativi (si ricordi, a tal proposito, il sonetto 130 “My Mistress’ eyes are nothing like the Sun”) mentre, per il suo primo destinatario, compose il celebre sonetto 18 con cui consacrava eternamente il giovane in virtù del suo Amore infinito e indefinibile: “Devo paragonarti a una giornata d’estate?”. Dunque, per rispondere alla domanda, l’importanza dei due poeti risiede nel modo limpido e atavico con cui entrambi parlano del proprio sentimento che coincide con l’esistenza ed è immortale. E, comprendendo questo, chi potrebbe avere la presunzione di definire omosessuale il poeta dell’Amore?

LS: Il titolo della silloge, Rosa d’inverno, è in realtà il titolo di una delle tante poesie contenute nella raccolta. Perché hai scelto proprio questa come titolo dell’intero libro?

JM:  Come dicevo prima, la fine è il mio principio. Appena ho concluso la mia prima poesia dal titolo “Rosa d’inverno”, non ho più smesso di scrivere. Pasolini riteneva che la scrittura avesse un valore esistenzialistico e io condivido questa sua opinione: il bisogno di esprimersi, la tendenza a esporre il proprio pensiero equivale, per uno scrittore, a riconoscere la propria esistenza trovandole un senso nell’assoluto non senso della vita. Si può dire, pertanto, che Rosa d’inverno sia il nome di battesimo del mio essere scrittrice, il nome proprio che io attribuisco alla scrittura.

LS: C’è una poesia alla quale sei legata in maniera particolare? Perché?

JM: Premettendo che ogni componimento contenuto in Rosa d’inverno non è soltanto un esperimento semantico, un abile gioco con le parole come pure è stato definito, ma una realtà che ha toccato le corde più intime della mia sensibilità, posso dire che una delle tante poesie che ancora oggi rileggo, nonostante le ricordi tutte per il mio modo, (ammetto maniacale) di ricercare la scorrevolezza e la fluidità del verso nella  musicalità delle parole, è “I passeggiatori di cani”. Il tema ivi contenuto è quello dello scontro generazionale giovani – adulti: ho cercato di trasmettere quel senso di assoluto che domina nel ragazzo sin da “cucciolo”, quando è ancora ben tenuto al guinzaglio. Egli odia quella catena poiché rappresenta il compromesso dell’età adulta a cui è costretto e, dunque, si trova fra due antipodi: combattere fino in fondo per ciò in cui crede senza lasciarsi guidare verso la strada della ragionevolezza che è soltanto una scorciatoia per le future e mondane convenzioni, oppure cedervi imparando a vedere “il boccale mezzo pieno e mezzo vuoto” e, accogliendo ipocrisie e buona creanza, divenire l’adulto che prima tanto criticava e disprezzava. Per rimanere giovani, dunque, spezzando questa catena di accordi, bisogna considerare il modo in cui ci si approccia alle idee: con coerenza, senza negare che esistono le famose sfumature, ma ricordando sempre che la decisione è comunque una e può essere o bianca o nera. Il giovane questa logica dell’assoluto l’impara, ed è il momento in cui è più ostile al mondo degli adulti, e poi la disimpara proprio perché è costretto ad accedere a quel mondo, dolorosamente o meno, dipende dalla sensibilità di ognuno (perchè di certo c’è chi la considera, con pacata accettazione, solo un’utilità).

LS: Nella raccolta sono riscontrabili facilmente alcuni temi dominanti che tu proponi e riproponi sotto varie vesti e cornici, senza finire per essere banale né ripetitiva. Uno di questi è il tema dell’infanzia. Come mai molte delle tue liriche più che proiettarsi in un futuro prossimo o inconoscibile guardano invece, quasi in maniera conservatrice e nostalgica, verso il passato?

JM:  L’infanzia è la stagione dell’incoscienza: il passato, come ho scritto in una delle mie poesie, si muove. Molti s’impongono di non guardarsi più indietro, addirittura di provare indifferenza per ciò che è stato ma non è più, io invece ritengo che il passato ci accompagni e noi, per andare avanti, fingiamo di non vederlo ma non ci è indifferente: lo consideriamo inesistente o, per lo più, un fantasma insonne che non trova pace e, dunque, gli dobbiamo indifferenza perché non dia fastidio. Dell’infanzia, il passato più remoto a cui posso rivolgermi data la mia giovane età, rimpiango la schiettezza e la spontaneità e, come ho detto prima, l’incoscienza: il bambino, quando qualcosa lo infastidisce, si ribella apertamente, non fa “finta di niente”. Per quanto concerne il futuro, invece, lo considero come l’alter ego del presente: abbiamo un’infinità di alternative frutto di un continuo decidere e non dobbiamo, a mio avviso, chiederci come andrà domani; mentre scrivevo Rosa d’inverno dicevo che sarebbe stata pubblicata ma questo non lo consideravo parte del futuro: era una meta raggiunta ogni giorno nel continuo scorrere del mio presente.

LS: Quanto di autobiografico c’è in queste poesie?

JM: Ogni componimento è autobiografico, anche quello socialmente impegnato. Tutto ciò che è stato scritto è accaduto: questo è stato il mio modo di non dimenticare e, in un certo senso, come afferma Audrey Hepburn, di guarire dalla medicina.

LS: A conclusione della raccolta c’è un consistente brano in cui abbandoni il metro poetico per meglio adattare i tuoi pensieri che vertono principalmente sul difficile raggiungimento della felicità umana. In quest’affascinante percorso esistenzialista connetti spesso la felicità alla pace come ad affermare che se manca una delle due, viene a mancare necessariamente anche l’altra. E’ così? Potresti spiegare meglio questo tuo pensiero?

JM: Ne “La felicità in un palazzo di cristallo” ho parlato della ricerca continua dell’uomo dello stadio più alto del proprio essere, ossia la felicità e, allo stesso tempo, il suo perenne bisogno di pace; tuttavia, riconoscendo la felicità quale ossessione umana per eccellenza, ho messo in evidenza quanto sia vero che l’uomo non possa trovare pace nel suo perenne cercare: infatti, ho scritto «(…) la pace non è per l’uomo che non è destinato né all’eternità né al riposo: tutto ciò che gli spetta è una tregua di tanto in tanto, ma la pace non lo riguarda affatto poiché l’uomo vive tormentato ed è proprio la felicità la sua ossessione». Finchè l’uomo non trova pace, è convinto di non aver trovato neppure la felicità; io, invece, ritengo che la felicità consista nel raggiungere il nostro punto più alto, accettando anche di doverlo abbandonare: è un continuo movimento che riguarda il nostro modo di vivere la vita come un’infinita ricerca, invece “la pace” che spetta all’uomo consiste in una tregua fugace nel momento stesso in cui arriva allo stadio più alto per cui ha lottato. Ricominciando a cercare, quindi, prosegue il percorso che la felicità ha tracciato. «(…) è possibile? Perdere e realizzare di esserne stati fieri? Dipende dagli occhi di chi guarda. Per questo la felicità è per chi di noi sa trovarla, per chi trova il punto in cui guardare, non necessariamente il punto per eccellenza. Un qualche punto: il nostro».

LS: La tua poesia fa ampio utilizzo di immagini ossimoriche, antipodali, contrastanti, che si basano su di una serie di opposti: chiaro-scuro, memoria-oblio, solo per citarne alcuni. Come mai quando parli di un elemento spesso ti senti quasi “in obbligo” di chiamare in causa anche il suo esatto contrario?

JM: La risposta di fondo è che l’Amore, di per sé, è neutrale. È un essere androgino: non semplicemente un punto d’arrivo fra gli opposti, ma entrambi gli opposti condensati in uno soltanto. L’esistenza di un elemento, secondo la legge dei contrari, determina l’esistenza del suo opposto ed è da ciò che nasce l’armonia. Amore è armonia e coincide con l’individuo che, da sé, è una contraddizione vivente. Fondamentale, riguardo l’esistenza degli opposti, è che fra loro sono interscambiabili e, dunque, nessuno al mondo può dire di essere una cosa soltanto, sebbene tutto il suo essere si riassuma in un solo corpo. Lo stesso Shakespeare, inoltre, definisce Amore attraverso gli ossimori “lucido fumo”, “gelido fuoco”, “insonne dormire”, “pesante leggerezza” e molti altri; così, considerando che per ogni elemento esiste il suo contrario, s’impara a mio avviso anche ad accettare la diversità.

LS: Quali autori della letteratura classica e contemporanea (sia poeti che romanzieri) ti affascinano di più? Perché?

JM: Per quanto concerne la letteratura classica, Saffo e Catullo sono i poeti che mi affascinano maggiormente, sono quelli che ho avuto modo di studiare quest’anno e, in particolare Saffo, rimane l’autrice con cui mi identifico di più: in primo luogo poiché si tratta di una poetessa dall’animo forte e dirompente e in secondo luogo perché la sua travolgente espressività riesce a dar voce al proprio dissidio interiore, a discernere ogni emozione e sensazione provata nel momento dell’incontro con la persona amata: infatti, “A me pare uguale agli dei”, è un componimento in grado di spogliare il lettore dalla scialba veste del pudore per metterlo di fronte a se stesso, come se potesse osservarsi nel momento in cui guarda la persona che Ama, dovendo ammettere che quelli che prova sono i sintomi di un morbo che, in altra sede, Saffo definisce “dolce amara invincibile belva”.  Altri due poeti a cui sono legata appartengono all’età definita “Maledettismo” in Italia che, in sostanza, coincide con il secolo del Romanticismo: si tratta di Charles Baudelaire e, primo fra tutti, Arthur Rimbaud; di quest’ultimo venero la ribellione contro tutto il prestabilito e la volontà di gridare al mondo la propria esistenza marcando l’impronta. Ciò che mi colpisce è che la sua straordinaria produzione poetica abbraccia l’età dell’assoluto: l’adolescenza ed egli non se ne separa mai, continua a vivere al massimo grado ogni esperienza attraverso il suo “lungo, immenso e ragionato “sregolamento” di tutti i sensi”. La poesia, come è evidente, conquista il mio interesse ma ciò non sminuisce l’attenzione che rivolgo al romanzo o al racconto: difatti, apprezzo la letteratura ottocentesca, quella di Goethe e Hugo, e m’innamoro delle opere di Oscar Wilde, catturata soprattutto dalle sue vicende personali. In sintesi, posso affermare che degli scrittori sopra citati mi appassionano l’abilità semantica e quella di fare in modo che il lettore assapori la dolcezza della parola regalandogli immagini coronate dal filtro dell’emozione, altresì mi affascina la loro esperienza di vita poiché scrivere non è mai soltanto un gioco di parole.

LS: Attualmente stai continuando a scrivere delle liriche e hai qualche altro progetto in mente per il futuro? Se sì, puoi anticipare qualcosa?

JM: La mia intenzione è quella di scrivere un racconto trattando de “Il gioco del fuoco”  partendo da un aforisma di Oscar Wilde. Considero diversamente l’argomento dimostrando, attraverso la narrazione, che non c’è modo di evitare questo gioco, che, in un certo senso, si è costretti a giocare. Voglio parlare di un ragazzo, capace di far “rimbalzare” i sentimenti su se stesso, contemporaneamente, per non accorgersi di uno più di un altro e, dunque, continuare il suo gioco. Si parla sempre del disadattato sociale e, per lo più, con commiserazione o pietà. Io voglio parlare del ragazzo che da disadattato diviene adattato, anzi del troppo adattato che, tuttavia, prende tale scelta consapevole del motivo profondo che lo spinge a tutto questo e che lo lega inevitabilmente al disadattato sociale che tanto biasima: la necessità di sfuggire al dolore, il desiderio di felicità che, così fragile, si affida alla contentezza.

 

Ringrazio Jasmine Manari che mi ha concesso questa intervista.

Lorenzo Spurio

13 Luglio 2011


E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO-INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE

Rosa d’inverno di Jasmine Manari – Prefazione a cura di Lorenzo Spurio

Rosa d’inverno di Jasmine Manari

Book Sprint Edizioni, 2011

Prefazione a cura di Lorenzo Spurio

Ho accolto con piacere la richiesta di Jasmine Manari, giovanissima poetessa abruzzese che esordisce il suo percorso letterario con un’ampia e interessante silloge poetica. Mi sono molto interpellato sul titolo, Rosa d’inverno, su quale potesse essere il significato che la Manari volesse abbracciare per le sue liriche. Mi è sembrato a prima vista enigmatico, ma questo non ha offuscato neppure minimamente la mia attenzione nei confronti di questa raccolta di poesie. L’ho interpretato, inizialmente, mediante una figura retorica, quella dell’ossimoro: una rosa, espressione di colore e della vita e l’inverno, espressione di toni grigi della malattia e della morte. Ho concluso così che le liriche avrebbero trattato principalmente di storie d’Amore e storie di morte, temi che spesso nella poesia sono speculari o che finiscono per costituire un tutt’uno.

La Manari ha utilizzato una variegata scelta di citazioni colte che esplicitano il suo Amore nei confronti della letteratura, di una letteratura che potremmo definire classica, fatta dai grandi.  Ci sono varie citazioni in epigrafe tra cui una curiosa definizione del veggente/poeta maledetto Arthur Rimbaud, estratti di conversazioni di Ungaretti e Oscar Wilde e un frammento di Saffo. Questi riferimenti intertestuali iniziali non sono ridondanti e, anzi, incanalano il lettore verso l’oggetto di questa raccolta: l’Amore e le sue varie sfaccettature, i diversi modi di amare, il dolore e la sofferenza che dall’Amore scaturiscono.

E’ sufficiente la prima poesia della silloge per comprendere quale sia il senso che la Manari vuole trasmettere attraverso il suo titolo: la rosa, con le sue varie fasi di crescita (lo sbocciare, il crescere), non è altro che metafora di un Amore che, ugualmente, nasce e si sviluppa. Ma la rosa bianca della Manari non appassisce, non conosce fine e così dobbiamo interpretare che l’Amore, alla stessa maniera, non deperisce né si consuma ma rimane eterno.

La raccolta di poesie verte principalmente su alcuni temi dominanti: l’Amore, la felicità, la vita e la morte, il senso di abbandono e il ricordo di un’età ormai passata, l’infanzia. Nelle liriche della Manari si fa infatti spesso riferimento a un tempo passato che si evoca a volta con nostalgia come in “Bambina” mentre altre volte ci si domanda quali siano i limiti tra ricordo ed oblio. E’ un percorso difficile, questo che la poetessa affronta con un linguaggio semplice ma allo stesso tempo altamente simbolico. L’infanzia è celebrata un po’ ovunque nella raccolta e in “Ci chiamiamo grandi” la poetessa osserva che gli adulti, in fondo, non sono altro che bambini che non fanno più cose spontanee come quelle di un bambino. La vita, dunque, sembra suggerire che è un’infanzia perenne. E in quel presente liquido e spesso difficile la poetessa ricava ricordi positivi di un passato andato ma che in un certo senso è ancora presente perché ricavato da frammenti di ricordi che si impongono nel “qui ed ora”, nella vita di tutti i giorni: «Somigli tanto a una bambina che conoscevo» in “Quale è il tuo nome”. La silloge celebra così i tempi passati, un’infanzia felice e spensierata che viene ricordata con nostalgia e alla quale, paradossalmente, si vorrebbe ritornare, annullando il normale corso del tempo.

La protagonista delle liriche, che intuitivamente mi viene da immaginare abbia un riferimento autobiografico nella stessa Manari, è una donna che sa soffrire ma che sa anche ribellarsi per non lasciarsi soggiogare, come nella brevissima lirica “Rivoluzionaria” che si chiude proprio con la volontà di fare della propria vita una battaglia. E’ una donna forte e decisa, che non manca di evocare idee discutibili e che la Chiesa definirebbe immorali, come il suicidio in “Osceno paradiso d’indolenza” per «chi, egoista con se stesso, non vuole più sperare». Parlare della vita significa innegabilmente trattare anche quegli aspetti meno belli che però fanno parte di essa: la vecchiaia, la malattia e la morte. Il ritratto complessivo che la Manari trasmette con questa opera è complesso ed articolato e non manca di trattare questi temi languidi, tristi e crepuscolari come nella brevissima poesia “Alzheimer” che va letta tutta d’un fiato e che condensa una serie di tragedie: la malattia, la sofferenza per un congiunto malato e incurabile e la decisione di porre fine a quelle sofferenze per liberarsi da entrambi i mali. La Manari non parla di eutanasia ma di matricidio. E’ questo a trasmettere una cupissima presenza su tutta la lirica, lasciando drammaticamente sorpresi per la vivezza e allo stesso tempo per il laconismo con il quale fotografa una realtà difficile e disperata. Il linguaggio è semplice e spesso usa immagini forti, come volesse suscitare un qualche effetto nel lettore. La poesia “Non appartengo a voi indecisi, sono un poeta maledetto” ha tutte le caratteristiche della poetica del bohemien, che si riallaccia alla citazione iniziale di Rimbaud. C’è in un certo senso anche un riferimento, consapevole o no non saprei dirlo, a Palazzeschi e alla sua poesia “E lasciatemi divertire” dove il poeta abbatteva i canoni poetici tradizionali riconoscendo una poetica tutta nuova, bizzarra e strampalata ma che almeno, lo lasciasse divertire. La Manari si auto considera un poeta maledetto, di quelli che non le mandano a dire e che non hanno paura di parlare di niente: « Se sono un verme che si dimena appeso a un amo, certo di durare meno e poco più».

Spesso prevalgono i toni grigi e cupi e un’amara analisi della vita come quando in “Il consigliere” scrive: «No figliuolo, le persone non vogliono la verità, loro non sanno che farsene: la odiano. È troppo pericolosa, meglio la menzogna… si può fare molto di più con la menzogna». Non si tratta però di un pessimismo fine a se stesso ma ricalca, in maniera quanto mai fedele, la società nella quale viviamo. Verso la conclusione della raccolta è presente un brano che abbandona il metro poetico per adattare i pensieri, quasi in maniera plastica, impiegando la prosa. In “La felicità in un palazzo di cristallo” la poetessa affronta temi difficili, le canoniche questioni dell’essere: cos’è la felicità e, se esiste, come si raggiunge? E la pace? Lo fa in maniera lucida e schietta ma è difficile non riconoscere un certo tono cupo ed esistenzialista che, per certi aspetti, richiama addirittura il poeta recanatese, Leopardi: «l’uomo vive tormentato ed è proprio la felicità la sua ossessione: egli non la possiede, eppure può renderla sua. Per questo la felicità non è nella morte e nemmeno nella pace». Ma la conclusione che la Manari trae non è altrettanto negativa, c’è possibilità di speranza: la felicità è intorno a noi, dobbiamo saper riconoscerla, è dietro l’angolo, dobbiamo saperla individuare: «Dipende dagli occhi di chi guarda: per questo la felicità è per chi di noi sa trovarla, per chi trova il punto dove guardare, non necessariamente il punto per eccellenza».

Una raccolta di liriche affascinante che va letta in profondità e che è arricchita nel suo ampio contenuto già altamente ricco simbolicamente da un sonetto di Shakespeare il quale, proprio come ha fatto la Manari, nelle sue poesie ha sempre parlato anche degli aspetti meno felici dell’Amore e della transitorietà del genere umano. Non avevo sbagliato di molto nella mia iniziale interpretazione del testo a riconoscere già nel titolo la presenza di un ossimoro di cui, in effetti, la silloge è strapiena: vita-morte, felicità-sofferenza, ricordo-oblio, miracolo-condanna, presente-passato, alba-tramonto e addirittura il titolo di una poesia, “Il buio bianco”. Non è un caso che la Manari citi Shakespeare, poeta neoplatonico che nelle sue liriche utilizzò spesso l’allegoria del chiaroscuro, che la poetessa nella sua opera sintetizza in maniera mirabolante in questo modo: «il sole c’è ma non si vede».

LORENZO SPURIO

05-07-2011                                                                            


E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE  SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Saffo, Intervista a Gianluca Paolisso

INTERVISTA A GIANLUCA PAOLISSO

Autore di Saffo

Albatros Editore, Milano, 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Com’è nata l’idea di scrivere questo libro? C’è stata una particolare genesi?

GP: L’idea o, per utilizzare un termine forse più appropriato, l’ispirazione di un qualsiasi tipo di storia nasce quasi sempre dalla vita quotidiana, dalle emozioni che giornalmente viviamo grazie alla nostra particolare sensibilità, o grazie agli altri: Saffo, nonostante sia un’opera prima, è stata accompagnata fin dalla sua nascita dalla sofferenza, dalla consapevolezza di un amore rifiutato, da ciò che inevitabilmente si perde sulla strada della vita. Questi temi ricorrono nel romanzo, e spesso caratterizzano la stessa personalità dei personaggi. Credo che sia impossibile “eclissarsi” completamente dalla narrazione, secondo metodi “verghiani”: una storia, benché nata dalla fantasia, affonda le sue radici nel presente o nel passato che sempre si è vissuto, nel bene o nel male.

LS: E’ interessante come hai utilizzato un personaggio realmente vissuto, sebbene mancano attendibili riferimenti biografici, come personaggio principale del tuo romanzo, adattandone temi e caratterizzazioni che fuoriescono dalle sue liriche. E’ stato difficile il processo di scrittura? Se sì, perché?

GP: Le uniche fonti storiche rimaste sulla straordinaria poetessa di Lesbo sono una produzione frammentaria di liriche, e alcune leggende narrate dal lessico Suda e dal Marmor Parium (Saffo si sarebbe gettata dalla rupe di Leucade perché rifiutata dall’amore di Faone ). Tutto ciò mi avrebbe permesso di “inventare” episodi, situazioni, dialoghi, eppure fin dall’inizio volevo che questa storia mantenesse un substrato storico quanto più possibile reale, tralasciando influenze fantastiche o mitologiche. Volevo raccontare un personaggio vero all’interno di un contesto storico vero: per far questo non sono mancati gli approfondimenti storici (d’altronde in un romanzo del genere sarebbe sacrilego non farli!) e studi riguardo il “modus vivendi” di uno dei popoli all’epoca più ricchi del Mar Egeo (VII – VI sec. A.C.). Fatto questo potevo concedermi una piccola interpretazione su ciò che mai la storia ci ha tramandato (la quotidianità del Tiaso, i rapporti familiari), e con ciò ricostruire la storia di una donna e di una poetessa meravigliosa. Nonostante la mancanza di fonti, non è stato un lavoro nato dal nulla, dalla pura e semplice fantasia e interpretazione narrativa, ma da uno studio scrupoloso, attento, privo di condizionamenti.

LS: Quali autori italiani e stranieri ti piacciono di più e perché?

GP: Sarebbe scontato affermare che adoro le letture classiche (Euripide, Marco Aurelio, Epicuro, Cicerone, Seneca). Queste pagine immortali rappresentano il tipico “rumore di fondo”, per dirla alla Calvino, che sempre risuonerà melodiosamente nella mia vita. Tra gli autori contemporanei ho molto ammirato Giulia Avallone (Acciaio), libro in cui l’autrice ha tratteggiata realisticamente una realtà troppo spesso dimenticata; Murièl Barbery (L’eleganza del riccio), libro di profonde riflessioni filosofiche e poetiche; ma soprattutto i libro di un grande autore e amico, Adriano Petta: in “Ipazia”, vita e sogni di una scienziata del IV sec.”, “Assiotea”, la donna che sfidò Platone e l’Accademia”, e “Roghi Fatui”, oscurantismo e crimini dai Catari a Giordano Bruno, ho trovato alcuni spunti interessanti per la mia Saffo. Lo ringrazio tantissimo per i suoi consigli e la sua sincera amicizia umana e letteraria.

LS: Credo che nei Sonetti di Shakespeare si ritrovino molti dei temi che Saffo tratteggiò nelle sue liriche. Ad esempio il tema del destino ineluttabile, il tempo che rovina e che passa velocemente, il tema dell’amore verso una persona dello stesso sesso.. Che cosa ne pensi?

GP: Saffo fu la prima a gettare le basi della poesia nel senso moderno del termine: in un passato molto lontano il leggendario Omero aveva cantato le gesta eroiche di grandi personaggi quali Ettore, Achille, Ulisse; eppure nell’Iliade e nell’Odissea scorgiamo versi poetici privi di partecipazione emotiva da parte dall’autore, e una mancata descrizione dei sentimenti che inevitabilmente costituivano la psicologia dei vari personaggi. «Con Saffo nasce nella poesia del mondo l’interiorità» affermò anni fa il grecista Enzo Mandruzzato. Ed è proprio l’interiorità la grande rivoluzione delle liriche di Saffo: la poesia non come racconto oggettivo, ma come proiezione dell’anima di chi la compone. Se non fosse esistita Saffo, probabilmente non sarebbero nate le grandi opere poetiche successive (La Divina Commedia, Il Decameron, le tragedie di Shakespeare, i meravigliosi versi di Foscolo e Leopardi ), proprio perché sarebbero mancate le basi da cui partire per sviluppare un pensiero o una semplice emozione. Sia lode a Saffo per questo!!!

LS: E’ affascinante il riferimento al Tiaso, questo universo di sole donne pensato da Saffo come momento culturale e di apprendimento volto ad istruire le giovani donne al matrimonio. Non è curioso il fatto che sia proprio lei, che ama le donne, a istruire quest’ultime al matrimonio, a una celebrazione della vita che riguarda l’unione della donna con l’uomo?

GP: Il Tiaso nasce in opposizione all’Eteria di Alceo, circolo ad esclusiva composizione maschile, ed è facile poterne intuire le ragioni: in un mondo in cui l’uomo la faceva da padrone, la donna cercava un suo spazio, ma soprattutto una propria valenza a livello sociale. Il Tiaso permetteva alle donne di conoscersi, di scoprirsi nelle loro molteplici attitudini e capacità, ma soprattutto di imparare tutte le arti richieste dal matrimonio. Finito questo apprendistato, le ragazze tornavano al mondo esterno, pronte ad affrontare la vita al fianco di un uomo, nella speranza di divenire buone custodi del patrimonio familiare. Negli anni di formazione la Signora del Tiaso spesso si concedeva alle sue allieve, ma non per un puro e semplice appagamento sessuale, ma per educarle all’amore che un giorno avrebbero dovuto esercitare nei confronti di un uomo. Il rapporto omoerotico inteso come vera e propria educazione al futuro.

LS: Secondo te l’aggettivo ‘saffico’ che oggigiorno viene utilizzato come sinonimo di ‘lesbico’ e che fa riferimento alla grande poetessa di Lesbo è in un certo senso troppo limitativo e fuorviante se si tiene conto della persona di Saffo? Ad esempio aggettivi come ‘manzoniano’, ‘leopardiano’, ‘shakespeariano’ non hanno una connotazione prettamente sessuale né negativa. Perché con Saffo è stato utilizzato questo procedimento?

GP: Credo sia estremamente riduttivo definire la personalità di Saffo all’interno di una misera classificazione sessuale: tutto ciò non poteva esistere in una società come quella greca, nella quale non solo il rapporto omosessuale era permesso, ma addirittura costituiva un privilegio! Solone affermava nelle sue Leggi che agli schiavi tutto ciò doveva essere proibito, perché l’amore disinteressato (Platone, Simposio) avrebbe elevato il loro spirito al livello dei loro padroni. Tutto ciò non poteva essere permesso! Poi, con l’avvento e l’ascesa del Cristianesimo, furono introdotti principi falsamente moralistici che imbrigliano ancora oggi l’umanità nella paura della morte, del peccato, e conseguentemente di tutto ciò che è “fuori natura” (omosessualità). Non solo: nel 391 a.C., il vescovo Teofilo e i suoi monaci paraboloni distrussero la Biblioteca figlia di Alessandria, e bruciarono oltre 700.000 volumi, tra i quali erano annoverate opere scientifiche di grandi atomisti quali Democrito e Leucippo, ma anche opere poetiche, tra le quali spiccavano gli Epitalami (canti nuziali) di Saffo. In poche ore andarono persi oltre 1.200 anni di progresso e cultura. Forse aveva ragione Nietzsche quando affermava che «Tutto il lavoro del mondo antico per prepararci a una civiltà scientifica e libera ci è stato defraudato dal Cristianesimo». Naturalmente la figura rivoluzionari di Gesù Cristo non può essere annoverato in questo scempio.

LS: Potremmo considerare Saffo, così come la descrivi, un’eroina d’altri tempi, una precursore ante litteram del femminismo: non solo propugna l’amore per la donna ma verso l’umanità tutta. E’ espressione di un sentimento rivoluzionario e innovativo per i tempi che si scontra con la società patriarcale e sessista incarnata ad esempio dalle leggi di Solone o nello spregevole Cleone. E’ così? Che ne pensi a riguardo?

GP: Assolutamente: Saffo rappresenta l’amore nei confronti della donna, nostra unica speranza per un futuro migliore, ma soprattutto un personaggio rivoluzionario che non accetta i limiti e gli ostacoli imposti dalla società e dalla cultura greca, una donna che lotta per la libertà, per l’uguaglianza dei sessi, per una giustizia che sia dura e non crudele nei confronti dei condannati, per una vita imperniata sull’amore e non sul cinico dispotismo tipicamente maschile. Forse se alle donne fosse permesso di salire alle più alte soglie del potere politico, il mondo sarebbe, per dirla alla Eduardo “ un po’ meno tondo, ma un poco più quadrato!”.

LS: Leggendo l’intero romanzo ho trovato che le parti più belle e affascinanti fossero localizzate proprio all’inizio e alla fine. Il passare del tempo, la presenza ossessiva e imperscrutabile delle Moire e l’avvicinarsi dei riti di Thanatos ci immettono direttamente nel clima da tragedia greca. Diversamente, non c’è niente di tragico in quanto scrivi, anche la morte di Saffo non trasmette nessun dolore ma, anzi, è per il lettore un elemento di rassicurazione per il ricongiungimento con Attis. Quando hai iniziato questa storia già sapevi come l’avresti conclusa? Perché hai deciso di concluderla con la morte di Saffo?

GP: La struttura ad anello adottata in Saffo aveva un preciso intento: far comprendere come una vita può rinascere in un’altra vita, come il passato a volte ritorna nell’eterna unicità di un sorriso, come l’amore sia inspiegabile e non classificabile. Saffo, al termine del romanzo, sa che le sue certezze radicate sull’amore sono crollate da tempo; sa bene che la sua vita è arrivata al termine, eppure vive negli occhi di un nuovo personaggio che poco prima aveva donato nuova luce al suo cuore. Guardando l’orizzonte, spera di ritrovare ciò che un giorno ha perduto, ma questa è solo una speranza … Mi piace pensare ad un finale che lasci spazio all’immaginazione di chi legge. E’ come voler dire:” Ho raccontato fin qui, ora tocca a voi!” Sono certo che i miei lettori sapranno trovare finali migliori di quanto avrei potuto fare io. Non avevo ben presente la modalità di conclusione del romanzo: non amo stabilire ogni minimo particolare della narrazione: nella maggior parte dei casi le idee vengono scrivendo!

LS: La visione patriarcale, di dominio dell’uomo nei confronti della donna fuoriesce a due livelli: a livello politico (leggi di Solone, Cleone) ma anche a livello familiare (Carasso, fratello di Saffo). A queste figure maschili però fa eccezione Scamandro, il padre di Saffo. Come mai hai deciso di tratteggiare il personaggio di Scamandro in questa maniera in un universo di patriarchi?

GP:  Volevo che in questo romanzo ci fossero dei contrasti dal punto di vista sociale e culturale: da una parte Cleone, uomo crudele e assetato di sangue innocente, dall’altra Scamandro, uomo saggio appartenente alla vecchia generazione che però non disdegna il presente nelle sue molteplici manifestazioni. Il padre di Saffo rappresenta la comprensione paterna, l’amore filiale, ma soprattutto l’umanità che non cede di fronte alle ingiustizie; l’umanità che volontariamente lascia tutto ciò che ha per riappropriarsi di ciò che giustamente le appartiene. Oggi dovrebbero esserci molti Scamandro, eppure vediamo sempre più Cleoni in giro!!!

LS: Hai in mente un nuovo lavoro? Stai scrivendo qualcos’altro? Puoi anticiparci qualcosa a riguardo?

GP: Il mio prossimo romanzo, che a breve inizierò a scrivere, tornerà nella società greca, questa volta nel V sec. A. C.: racconterò il declino di Atene e della civiltà d’oro di Pericle vista dagli occhi di un grande tragediografo, le cui opere ancora oggi commuovono e fanno riflettere. Sarà una storia più lunga, elaborata, ma certamente ricca delle stesse emozioni che hanno accompagnato la straordinaria figura di Saffo!!!

Ringrazio Gianluca Paolisso per avermi dato la possibilità di fare questa interessantissima lettura e per avermi concesso questa intervista.

LORENZO SPURIO

16 Luglio 2011


E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO-INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

New Yorker’s Breaths, Intervista a Maurizio Alberto Molinari

INTERVISTA A MAURIZIO ALBERTO MOLINARI

Autore di New Yorker’s Breaths

LietoColle,  Faloppio (Co), 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Qual è stata la genesi di questa silloge di poesia? Com’è nata l’idea?

MAM: L’idea è nata per caso lungo le strade di New York… Viaggiavo con la mia Canon digitale tascabile e nel frattempo, senza accorgermene, al secondo giorno avevo già scritto 6 o 7 poesie sul mio fedele Moleskyne. Mi rendevo conto però che ad ogni momento della giornata rischiavo di perdermi qualcosa… Allora ho avuto l’idea di cominciare a “rubare” fotografie in ogni luogo, decidendo che al mio ritorno in Italia avrei completato il lavoro scrivendo direttamente le mie emozioni già fissate nelle immagini.

LS: Hai dovuto fare una cernita del materiale da pubblicare oppure hai incluso nella tua raccolta di poesie tutte le liriche che avevi scritto e che riguardassero New York?

MAM: La cernita in realtà l’ho fatta ma sulle foto (ed è stata dura sceglierle…), tuttavia non volevo che la quantità delle immagini e delle relative poesie fosse troppo alta. Sono convinto che il taglio migliore per un volume di poesie debba aggirarsi  intorno ai 50/60 pezzi. Nel mio caso, con la presenza delle poesie visive, sintetizzate attraverso una parola in lingua inglese per ogni rappresentazione, richiedeva a mio avviso, non più di 25 sezioni abbinate. La difficoltà maggiore era rappresenta dal fatto trovare un Editore, di esclusivo taglio editoriale poetico, disposto a pubblicare un volume così diversamente sinergico.

LS: Come mai hai scelto New York come sfondo delle tue liriche? Hai fatto un viaggio in questa città e ne sei rimasto particolarmente affascinato? Quanto di autobiografico c’è in questa raccolta?

MAM: Il libro, come anticipato nella prefazione, è nato appunto dal mio primo viaggio in questa fantastica metropoli. Questo viaggio presenta tra le altre cose un retroscena piuttosto particolare. Il 12 di settembre del 2001 mi accingevo a confermare la prenotazione per la mia vacanza di 5 giorni nella Grande Mela, sfruttando e allungano il previsto ponte di novembre. Ho rinunciato con la morte nel cuore e negli occhi, tuttavia, in quel preciso istante, decisi che sarebbe stato solo rimandato, cosa avvenuta infatti nel Giugno del 2009. New Yorker’s Breahts non è da considerarsi una silloge autobiografica, semmai va scandagliata in ogni sua “parentesi” che si apre in esso e, nel contempo, dentro la città di New York. La silloge nasce con la precisa volontà di trattare temi importanti e quotidiani, troppo spesso defilati nel rapporto dell’idea di un viaggio, in particolare all’interno di una metropoli così vasta e unica nel suo genere.

LS: Hai scelto un titolo in lingua inglese che in un certo senso abbracciasse la tua intera collezione di poesie. Perché hai utilizzato la parola “breaths” (respiri) nel titolo e qual è il senso giusto che dobbiamo attribuire a questo titolo?

MAM: La scelta è avvenuta in maniera naturale, semplicemente. Nel momento stesso in cui ho avuto l’ispirazione avevo già deciso i contenuti, la struttura e la proiezione (perché nei sogni il libro non finisce in questo modo). La genesi di NYB è stata pensata per essere ambivalente, in un percorso che associasse la lingua italiana e quella inglese/americana, come pure il contrario (ma questo per il momento è ancora un sogno nel cassetto… ). Per quanto concerne “Breaths” rappresenta lo spirito stesso del libro, è il respiro di quelle persone, viaggiatori anche di soli pochi giorni, che entrano in contatto “fisico” con questa incredibile megalopoli, che toccano con mano le pulsioni quotidiane di questa città, del suo incredibile crocevia di emozioni e di culture interrazziali. E’ per questo motivo che quando mi è stato offerto di fare un’intervista in video Milano-New York, in diretta via Skype, ho accettato con entusiasmo e con la certezza che avrei potuto in parte raccontare con il mio viso e le mie parole, questa superba emozione e vicinanza.

LS: C’è una lirica che mi ha creato alcuni problemi di interpretazione. In parte è compito dello scrittore, e in questo caso del poeta, di insinuare il dubbio, di far nascere quesiti che consentano al lettore di interrogarsi sul significato che l’autore vuole trasmettere. La lirica in questione è “Riccioli in attesa” corredata, per altro, da una bellissima fotografia. Ho circoscritto alla parola ‘attesa’ il senso centrale della lirica ed ho immaginato che stessi parlando di una prostituta magari della periferia newyorkese. La mia interpretazione è sbagliata o può essere una delle tante possibili in base a quanto hai scritto?

MAM: Hai centrato la mia intenzione, ma solo in parte. Lo scopo predominante era quello di “fotografare” l’attesa di questa afroamericana, che in quel momento rappresentava un certo tipo di origine e ceto sociale, bellamente seduta in Times Square a rimescolare nella sua borsetta, rigorosamente taroccata, come se fosse in attesa non solo di un incontro. Sembrava stesse aspettando NY… e forse quello che la città avrebbe deciso di regalarle nell’immediato futuro. Mi aveva anche colpito il fatto che avesse un tattoo sulla spalla (sul retro non visibile sulla foto), che io avevo inspiegabilmente associato a un nome che mi era frullato nella testa: Rose. Da questa sensazione è nata la sintesi testuale di Rose’s Tattoo, che pone in evidenza anche questa pratica dei segni sul proprio corpo, ormai diventata linguaggio e parte integrante di un certo tipo di generazione.

LS: La decisione di corredare ciascuna lirica con una foto è sicuramente molto azzeccata perché le poesie si caratterizzano per essere molto evocative dal punto di vista descrittivo e per avere quindi un’altissima carica visuale. La scelta del bianco/nero delle foto credo che, più che derivare da scelte tipografiche ed editoriali, derivi da una tua esplicita volontà. E’ così? Perché?

MAM: In questo devo contraddirti, mio malgrado, perché il suggerimento mi è stato fornito da Diana Battaggia, Direttrice Editoriale di LietoColle, con cui ho discusso verbalmente di questa particolare struttura e che mi ha risposto con un semplice: perché no? Fammi vedere qualcosa… L’idea di rielaborare tutte le immagini al computer, attraverso l’utilizzo di filtri e di una serie di passaggi, è stata mia e necessaria. Il motivo principe è stato quello di poter trattare temi importanti, con immagini a volte “rubate”, che rapidamente potessero introdurre e trattare l’argomento, senza il rischio di ledere l’altrui sensibilità. Il lavoro più duro è stato proprio quello di selezionare, rielaborare e preparare la sintesi testuale all’interno dell’immagine. Quest’ultima parte è stata realizzata con il prezioso aiuto del mio collega di lavoro Mattia Ferrari, che ovviamente ringrazio. La scelta del bianco e nero si tagliava particolarmente bene con il profilo della silloge. Sentivo infatti che questa opera doveva rimanere all’interno del contesto poetico (ho richiesto e ottenuto che potesse essere inserita nella collana Erato di poesia di LietoColle).

LS: In un libro in cui si parla di New York ci si aspetterebbe di leggere della statua della Libertà, di Wall Street o di Central Park, tutti spazi che possono essere considerati come dei grandi assenti. Come mai non figurano in nessuna lirica?

MAM: Come credo di averti già accennato, mi sono trovato di fronte ad una scelta personale. Trattare la metropoli come l’avrebbero presentata tutti o scandagliarla e renderla viva di nuove sfumature, in parte solo nascoste? La decisione finale, con grande mia soddisfazione, è stata NYB, esattamente la seconda opzione. Ho preferito aprire finestre su vari temi, sull’arte (rubata, come con il carro etrusco al Metropolitan Museum, ne “Il Carro riemerso”), sulla Musica e il Teatro (in “Carnegie Hall”), sulla condizione disagiata di alcuni involontari e disperati spettatori di eventi (“NYC Homeless” – che tuttavia tratta anche il tema della solidarietà), sul dolore e sul ricordo (“The Sound of Silence”, “Fire’s men hearts still living”, “Walking on pain”), sul tema dell’amore (nella secondo me bellissima “Simply Lovers” – un amore in Times Square) e molti altri ancora. Alcuni di quei simboli che sono stati non selezionati, si ritrovano in parte in altre Poesie ed immagini, sia pure non in forma diretta e, siccome è mia ferma intenzione tornare a New York, non escludo di creare un seguito a questa silloge con una trama e una forma magari diversa. Why not?

LS: Le liriche che aprono la raccolta fanno riferimento alle stragi dell’11 settembre 2001 ma lo fanno in una maniera attenta, moderata, evitando di dare nomi o di indicare date, colpevoli o ad esempio cifre. Per qualsiasi lettore sarà facile intravedere l’ombra minacciosa di quei gravosi incidenti che, oltre a provocare un gran numero di vittime, rese evidente quanto l’uomo contemporaneo è esposto alla violenza e quanto è perennemente in pericolo. L’11 Settembre ha, in un certo senso, marcato due età distinte: quella dell’America da tutti vista come forte e imbattibile e quella dominata dalla paura, dal dubbio, dal terrore, tutti sentimenti circoscrivibili in una parola, ‘paranoia’. Qual’è stata la tua esperienza personale quando sei venuto a conoscenza degli attentati e in che maniera, in che cosa, hai percepito negli americani, in New York, il marchio di questa indelebile offesa all’umanità?

MAM: Come scritto all’inizio dell’intervista, il giorno successivo all’11 di settembre 2001 avrei confermato il mio primo viaggio a New York, previsto per il ponte di novembre. Gli attentati ci hanno trovato semplicemente al lavoro… Abbiamo ricevuto le prime informazioni via radio e immediatamente ci siamo collegati via web ai telegiornali e abbiamo visto quasi in diretta quello che stava succedendo, lasciando aperte anche le informazioni che giungevano via etere. In agenzia abbiamo smesso di lavorare, non sapevamo cosa dire, ci guardavamo increduli e nel frattempo ci raggiungeva la notizia di un aereo caduto sul Pentagono, un altro diretto sulla Casa Bianca, un altro caduto non si sapeva bene come e dove, abbiamo avuto la netta sensazione di essere di fronte al Terzo conflitto mondiale. Nel frattempo le immagini delle Twin Towers cominciavano a diventare il nuovo sangue della democrazia. Il momento delle implosioni lo abbiamo vissuto in diretta e le lacrime miste alla rabbia hanno colorato il nostro pomeriggio. Oltre ad annullare il mio previsto viaggio, l’attentato ha posto in evidenza un fatto basilare per la nuova società: l’America non aveva mai fatto guerre sul proprio territorio, per la prima volta altri portavano “la guerra” sul suolo americano. E’ una differenza fondamentale se ci pensate, è quello che ha generato la sorpresa, è quello che in un istante ha sconfitto una potenza mondiale, quella che si sentiva talmente al sicuro da non pensare a conflitti vissuti in casa propria. Questa credo sia stata la cosa più sconvolgente per il popolo americano. Per quanto mi riguarda, rinnego con forza qualsiasi tipo di violenza, tuttavia, le immagini che in quei giorni mi hanno portato più dolore, oltre ai morti in diretta delle Twin Towers, è stato vedere ciò che faceva The USA President mentre i suoi figli (e anche i nostri) cadevano come martiri della democrazia affidata a mani sbagliate.

LS: In varie poesie fai riferimenti al melting pot, a quest’attitudine tutta americana (forse anche londinese) che si basa sulla pacifica convivenza e solidarietà tra persone di etnie, razze e religioni diversi. La componente razziale nera in America e nella stessa New York è molto importante. Hai potuto constatare direttamente quando sei stato a New York questa “amalgama riuscita” oppure nella realtà dei fatti non è poi così tale?  Può dunque New York essere preso come modello compiuto di società plurietnica?

MAM: Sono un amante dei viaggi da sempre e durante questi anni ho visitato diverse “capitali del mondo” ma in nessuna di queste ho avuto la stessa netta sensazione che ho sentito a NY, un luogo in cui le razze sono realmente parte dell’essenza stessa della città. Anche a Londra e a Parigi le etnie si mescolano in quantità, sia pure per motivi diversi (coloniali in particolare), ma in queste ultime rimane saldo il sapore indigeno delle popolazioni. Vorrei però sottolineare un dato che in parte viene ancora poco evidenziato. E’ la presenza della colonia cinese presente ormai in tutto il mondo, New York compresa, che possiede una capacità di estensione da tenere in grande considerazione, poichè esporta la propria presenza senza troppi clamori, confinandosi abilmente tra le pieghe della società.

LS: Complimenti per la tua silloge. E’ un’opera davvero prelibata. Hai altri progetti di scrittura in cantiere? Stai lavorando a un nuovo libro? Se sì, puoi anticiparci qualcosa a riguardo?

MAM: Ti ringrazio Lorenzo, è stato un piacere essere tuo ospite in questa intervista, ho particolarmente apprezzato la tua recensione e i commenti che hanno dato il giusto rilievo a questo progetto articolato e particolare. La scrittura è la mia grande passione per cui ti posso garantire che non sono mai fermo. Al momento ho in mente altre cose, una in particolare che potrebbe svilupparsi con lo stesso profilo di NYB ma dedicato alla natura e con fotografie non mie. Ma altro ho in cantiere non solo in poesia, magari scritto a quattro mani e, dal momento che non disdegno la narrativa, un progetto di romanzo breve (che possiede già una sua bene definita struttura), ma questo solo quando troverò tutto il tempo necessario, evitando operazioni di editing non richieste…

Ringrazio Maurizio Alberto Molinari per avermi concesso questa intervista.

LORENZO SPURIO

14 Luglio 2011


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Sensualità. Poesie d’amore d’amare, di Michela Zanarella

Sensualità – Poesie d’amore d’amare di Michela Zanarella

Sangel Edizioni, 2011.

Recensione di Lorenzo Spurio

Devo confessare che non conoscevo Michela Zanarella, giovane poetessa originaria di Padova ma attualmente residente a Roma fino a che non mi ha contattato. Il suo invito a leggere la sua ultima raccolta di poesie mi ha trovato entusiasta e, benché  sia un grande amante di narrativa piuttosto che di poesia, mentre snocciolavo un’attenta lettura delle sue liriche, mi sono trovato sorpreso io stesso. La prima volta ho letto l’intera opera tutta d’un fiato, costruendo nella mia testa una serie di topos che la poetessa ha utilizzato e che, riassunti, possono servire per dare un’analisi dell’opera nella sua interezza. L’aspetto più bello di una silloge poetica, a mio modo di vedere, è quello che non dobbiamo seguire un determinato ordine di lettura ma che possiamo iniziare dalla poesia che chiude la raccolta per poi tornare all’inizio e seguire zigzagando all’interno del testo. Devo confessare che una sola lettura non mi è stata sufficiente non tanto perché ho trovato le liriche difficili ma semplicemente perché ho sentito il bisogno di rileggerle in profondità. Varie liriche mi sono sembrate così, a una seconda lettura, strettamente legate l’un l’altra nei loro temi e nelle suggestive immagini evocate.

Michela Zanarella è una sensibilissima compagna in questo vivido viaggio nel mondo amoroso, dipinto con grande attenzione mediante un’ampia aggettivazione, soprattutto quella che si riferisce ai colori. Non solo nella poesia “Altro colore” incontriamo un affascinante e poliedrico cromatismo, ma un po’ in tutte le varie poesie: dominano il rosso e il blu, ma anche il bianco viene evocato frequentemente.

E’ una poesia calda e sensuale, addirittura focosa nel caso di “Il colore che s’affaccia” ma l’erotismo non è reso mai banale e fine a se stesso ed è invece capace di evocare quasi una dimensione superiore, quel senso d’infinità che la Zanarella spesso evoca. Così «l’aula del desiderio» e «le musiche appiccicose della femminilità», immagini allegoriche molto curiose e raffinate, finiscono per essere altamente evocative, pur conservando un’altissima carica metaforica.

E’ un amore quanto mai realistico e vivo, per nulla romanzato, che, come nella realtà, è irrimediabilmente esposto al «dolce aggredire del tempo» (in “L’amore intatto”) e alla lontananza tra gli amanti vissuta con sofferenza: «La vita è misera come un secco ruscello d’agosto senza il tuo fiato accanto» (in “Chi ama”).

Non da ultimo, una delle immagini più ricorrenti nella silloge che mi ha affascinato, è la presenza del destino, quell’entità che nulla ha a che vedere con Dio e che pone ogni cosa in uno stato di transitorietà, dubbio, insicurezza, in una condizione vacillante, di calma apparente. E’ il dubbio che aleggia su tutto, con il quale la Zanarella mostra di fare i conti nelle sue liriche d’amore: «siamo l’ombra di un destino» dice la poetessa in “Anche se non basta”. Non è il destino ad essere una sorta di ombra, un involucro indistinto alla nostra persona ma piuttosto il contrario. Siamo noi l’ombra, la proiezione del destino, di qualcosa che non è tangibile. Ma anche quando viene evocata questa dimensione fatalistica della realtà essa è sempre funzionale per presentare il tema amoroso: «mentre il cuore sorseggia il destino» (in “Un brivido di chilometri”).

Gli scenari di questi quadretti d’amore, per nulla banali, spesso richiamano il mare o l’acqua in generale (la rugiada, il fiume, il torrente), elemento naturale che rinvia direttamente al genere femminile, alla donna generatrice di sostanze fluide: le lacrime, gli umori, la saliva, ma anche l’acqua amniotica e il latte durante la maternità. La silloge descrive un affascinante universo fondato sui sensi e sulle sensazioni, tutte viste dal sensibile animo femminile della Zanarella. Ma è l’uomo, sembra suggerirci la poetessa, a rendere la donna consapevole della sua condizione: «te, che continui con cura a farmi donna e insieme un’isola». Ancora una volta ritorna il tema dell’acqua nell’immagine dell’isola, porzione di terra circondata dal mare. E sono proprio l’universo dominato dall’acqua, il senso del bagnato e la fertilità della donna che costituiscono il leitmotiv di questa incantevole silloge poetica.

MICHELA ZANARELLA è nata a Cittadella (Padova) nel  1980 ma vive attualmente a Roma. Ha iniziato a scrivere poesie nel 2004 e personalità di cultura e enti locali si sono subito accorti del suo talento di scrittura in versi. Ha vinto alcuni premi di poesia nazionali ed internazionali, oltre alla pubblicazione di suoi pezzi in antologie di poesia a tiratura nazionale. Ha pubblicato le raccolte di poesia Credo, Risvegli e la raccolta di racconti Convivendo con le nuvole. Tutti i suoi lavori hanno trovato un buon accoglimento da parte di critica e pubblico. Il suo ultimo lavoro è una silloge poetica, Sensualità, poesie d’amore d’amare. E’ attualmente alle prese con la scrittura del suo primo romanzo. Cura i siti internet:  www.apostrofando.it , www.screensoda.it , www.iltrovaevento.it .

LORENZO SPURIO

Jesi, 25-06-2011

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