“Mare dentro”, la nuova raccolta poetica della poetessa bolognese Martina Lelli

Domenica 14 aprile a partire dalle 16:30 presso il Museo di Arti e Mestieri di Pianoro Nuova (Bologna) sito in Via del Gualando n°2 si terrà la presentazione al pubblico della silloge poetica Mare dentro (Kanaga, 2024) di Martina Lelli.

Oltre all’Autrice interverranno Cheikh Tidiane Gaye (poeta, scrittore e direttore responsabile di Kanaga Edizioni) e i poeti Stefano Baldinu e Franca Donà. L’incontro sarà moderato da Dolores Prencipe (insegnante e pittrice) e sarà allietato dalle letture della Compagnia Teatrale “L’Essere” nonché dalle musiche a cura di Massimo Pinzuti e Maurizio Speciale.

Mare dentro è la seconda opera della poetessa bolognese classe 1994. La prima – uscita nel 2014 – aveva come titolo Mosaico… di emozioni. Martina Lelli è laureata in Scienze Statistiche (2016) e in Statistica, Economia e Impresa (2019) presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. In campo letterario numerose sono le sue attività: poetessa, prefatrice e recensitrice, è membro di Giuria nel “Prix International de Poésie Léopold Sédar Senghor” dal 2021, collabora come recensitrice con Pianeta Poesia, Associazione Novecento Poesia – Centro di Studi e Documentazione di Firenze dal 2022 e fa parte dei Giurati del Premio Letterario Nazionale “Benabe – cuore a cuore” di Savona. Vincitrice di numerosi riconoscimenti letterari a livello nazionale e internazionale tra cui “PoetiInSanremo – Omaggio ad Angelo Barile” (2014), “Città di Cattolica” (2015), “Città di Corridonia” (2014, 2015, 2021), “Città di Recanati” (2015, 2017, 2019), “Giglio Blu di Firenze” (2019, 2020, 2022), “Città di Arcore” (2019, 2021, 2023), “Narda Fattori” a Gatteo (2021, 2023), “Premio Firenze” (2021), “Il dono del vento” a Castelbellino (2023), “Ubaldo Giacomucci” a Pescara (2023).

Nella prefazione a Mare dentro, a firma di Cheikh Tidiane Gaye, si legge: «L’autrice propone una visione di scrittura e una lirica fortemente percepite nell’animo. Ogni strofa invita il lettore a decodificare il messaggio del poeta; una lettura profondamente sentita nel cuore e nella ragione aiuterà a decifrarne il canone lessicale. […] Ciò che colpisce in ogni poesia, sfogliando la silloge, pagina dopo pagina, è la capacità della nostra poetessa di mettere insieme senso e ritmo che sfociano in un’estetica ammirevole».

Il poeta bolognese Stefano Baldinu nella sua attenta nota di lettura al testo ha rivelato: «La poeta ha saputo instaurare nel corso della sua vita un legame così profondo con l’elemento marino da far sì che questi potesse divenire il luogo privilegiato demandato all’accoglienza e all’ascolto di ogni suo più recondito pensiero, ogni suo infinitesimale sentimento. […] [Q]uesto percorso intrapreso da Martina lo potremmo assimilare a ciò che avviene durante la gravidanza nel grembo materno: la vita, immersa nel liquido amniotico, prende forma, cresce e “matura” fino a vedere la luce».

Due poesie estratte dal volume:

Non potrò mai dimenticarti

Non posso lasciarti andare a quelle domeniche di periferia,

nel lungomare svuotato a fermare il tempo, a zittire l’amore

in una camera a ricordi, aggirandolo ad inspirare la notte,

la nuvola di un vaporetto verso altre rotte, altri progetti:

nuovi cieli sotto cui invocherò randagia solo il tuo nome.

Non posso lasciarti andare a quei brevi tramonti invernali

che si stringono alla sera, che si assottigliano all’orizzonte

senza avere più un filo di voce in questo pezzo di cuore,

mare smorzato da una banchina che tira all’infinito,

alla tenerezza, a noi due: respiri mai divenuti vento.

Non posso lasciarti andare nei sottoscala di quella città,

nelle sue volte impregnate d’azzurro, di passi al domani

e di baci oltre il coprifuoco, oltre i codici di stelle bloccate

al buio, ad un muro di sassi, di addii che nascondono il porto

e l’illusione di vederci insieme per ridurre il mondo a una biglia.

Non voglio lasciarti andare dai miei passi sul vialetto di casa,

dai nostri vecchi sogni legati alla siepe, incatenati al lampione

che li salva dall’oblìo delle prossime estati, delle loro luci spente

in notti al profumo di pino marittimo, di pelle di un’altra vita

che, nell’ombra, tenterà silenziosamente di riportarmi a te.

*

D’oltre e d’azzurro

Nel tocco vago di una poesia

c’è una cesura di novilunio,

forse un ordine folle

in cui cogliere un sospiro,

un senso d’infinito

a cui sussurrarsi tra i venti.

Tu eri il mio tempo, la mia costellazione

di amori e inchiostro: tutta la mia nostalgia

per una vertigine d’altrove

e per chissà quale altra sete di stelle.

Io ero il tuo garbino, l’infuso dolceamaro

del mare che ci teneva in ostaggio

come fossimo uno sgarbo del finito:

ancora mi chiedo lo strano suono della mia vita

cosa avesse dipinto senza di noi che siamo d’oltre

e d’azzurro.

Sarai la mia sostanza immortale,

         le mie minuzie d’immensità

gemmate tra labbra fuggiasche,

quasi l’ubiquità di un’anima breve

che vibra nottetempo, sapendosi Musa.

N.E. 01/2023 – “Per l’alto mare. Una rilettura del canto XXVI dell’Inferno”. Saggio di Diletta Follacchio

Jorge Luis Borges affermò, in una delle Conversazioni con Osvaldo Ferrari,[1] che maggiori sono le letture che si danno di un’opera e più cresce in ricchezza tale opera. Ogni epoca, in qualche modo, ci ritrova qualcosa di suo e certamente uno dei libri che più ha subito tale processo è la Commedia di Dante, la cui lettura si potrebbe protrarre all’infinto. Lo stesso Borges nei suoi Saggi danteschi propone una rilettura del canto XXVI dell’Inferno e in particolare del racconto che Dante fa pronunciare a Ulisse nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, dove si puniscono i consiglieri fraudolenti. Dante non vuole conoscere i peccati che hanno destinato Ulisse, insieme all’inseparabile compagno di inganni Diomede, all’inferno – peccati peraltro ricordati da Virgilio quando spiega chi si nasconde nella fiamma a due punte che tra le altre aveva catturato l’attenzione del suo discepolo. Dante è curioso di conoscere i particolari dell’ultimo e fatale viaggio compiuto dall’eroe greco e da quei pochi compagni, come lui ormai «vecchi e tardi»,[2] verso Occidente, oltre lo Stretto di Gibilterra, dopo Ceuta e Siviglia, verso il Golfo di Cadice dove, secondo la geografia dell’epoca e le sue fonti,[3] erano poste le Colonne d’Ercole, che all’epoca simboleggiavano il limite del mondo conosciuto e dunque il divieto di proseguire oltre.[4] Il racconto del naufragio di Ulisse, che alcuni commentatori considerano una digressione dell’autore o un ornamento accessorio, è giudicato da altri il racconto di un viaggio sacrilego che in qualche modo permette di sottolineare per contrasto l’importanza dell’umiltà assunta da Dante e del sostegno che egli possiede della grazia divina, in quanto il suo viaggio è un viaggio voluto da Dio, rispetto al viaggio che Ulisse compie con le sue sole forze umane. Mettendola su questo piano, i due personaggi del canto XXVI dell’Inferno hanno qualcosa in comune, ma poi le loro strade si separano e, mentre Ulisse andrà incontro al fallimento,[5] Dante, che pure insegue il desiderio di conoscere i tre regni dell’Aldilà, solitamente negato agli uomini, riesce nella sua impresa poiché antepone al suo ingegno la virtù.

Non è così per Borges, il quale afferma: «L’azione di Ulisse è indubbiamente il viaggio di Ulisse, perché Ulisse altro non è che il soggetto di cui si predica quell’azione, ma l’azione o impresa di Dante non è il viaggio di Dante, bensì la realizzazione del suo libro».[6]

La Commedia ha in comune con la tradizione epica classica dell’Odissea e dell’Eneide la centralità del protagonista nella storia – Dante, come Ulisse, come Enea, occupa il posto principale della narrazione –, ma al tempo stesso possiede una novità rivoluzionaria, la narrazione dei fatti è in prima persona ed è affidata al protagonista: narratore e protagonista coincidono. Ma c’è di più, il nome del protagonista risponde a quello di Dante e Dante Alighieri è anche lo scrittore. A questo punto, dobbiamo distinguere un duplice piano richiamato nel canto dal verso 19 «Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio»: quello del Dante agens, agente, colui che agisce, il protagonista della storia che viaggia nell’Aldilà per risolvere la sua crisi spirituale e che simboleggia il cristiano qualunque che tra le tante debolezze cerca la salvezza (Allor mi dolsi), e quello di Dante auctor, autore, il personaggio storico che fisicamente si è messo a scrivere l’opera indicando la via della salvezza, avendo già superato la crisi vissuta da Dante agens (e ora mi ridoglio).

Se, dunque, a confronto poniamo non i due personaggi della Commedia, ma all’Ulisse infernale accostiamo il personaggio storico, lo scrittore Dante Alighieri, vediamo come i due non prendono strade diverse di fronte al bivio del superare o meno il limite. Poiché, così come Ulisse che con l’«orazion picciola»[7] convince i suoi compagni a proseguire il viaggio e punta verso «l’alto mare aperto»[8] oltrepassando le Colonne d’Ercole e «il limite che un dio aveva segnato all’ambizione o all’ardire»,[9] così Dante autore con la sua opera rischia di macchiarsi di una colpa, dal momento che: osa modellare i misteri appena accennati dallo Spirito Santo, osa anticipare le sentenze del Giudizio Finale, osa giudicare le anime dei suoi contemporanei e dei personaggi storici, osa elevare una donna comune, Beatrice Portinari, quasi all’altezza di Gesù e della Madonna.[10]

Nel suo saggio Borges isola l’aggettivo “folle”, ovvero “insensato”,[11] in ben tre passi dell’intera opera, non soltanto in relazione alla folle impresa di Ulisse, il «folle volo» appunto, che tanto richiama il letterale folle e audace volo di Icaro[12] (a cui pure Dante dedica qualche verso specifico nel canto XVII dell’Inferno), e che ritroviamo nel XXVII canto del Paradiso proprio in riferimento al «varco folle d’Ulisse».[13] Nella selva oscura Dante personaggio chiede a Virgilio se «la venuta non sia folle»,[14] cioè se il viaggio nei tre regni dell’Aldilà a cui Dante sembra essere destinato non sia una follia, un’insensatezza, un viaggio rischioso, audace, pericoloso, che possa portare delle conseguenze in termini di colpa.

Tutto questo nella storia del viaggio ultraterreno raccontata dall’autore, ammettendo dunque la veridicità del racconto per un patto di immaginazione stretto tra narratore e lettore,[15] ma non nella vita realmente vissuta da Dante Alighieri, che più volte si sarà interrogato sulla necessità o meno di scrivere prima e pubblicare poi un’opera totale[16] come la Commedia e sulle conseguenze che tale pubblicazione avrebbe portato alla sua già sventurata esistenza.

Continua Borges, il dialogo messo in scena nel II canto dell’Inferno tra Dante personaggio, che afferma «Io non Enëa, io non Paulo sono»,[17] e Virgilio, che lo rassicura riportando le parole di Beatrice, Santa Lucia e Maria, deve essere nella realtà avvenuto nella coscienza di Dante autore che ha affrontato i suoi dubbi sulla legittimità non del viaggio, ma della scrittura, sulla legittimità cioè di quell’«alto passo»[18] che Ulisse varcò fallendo e che Dante personaggio attraversò con successo sostenuto dalla grazia divina, dall’umiltà e dalla virtù. Dante autore poté affrontare i suoi timori soltanto a seguito di un conflitto mentale, tra la paura della vendetta dei suoi nemici e di essere bandito da tutte le altre città, oltre che da Firenze a causa dell’esilio, e la necessità di dire la verità che, sola, avrebbe tra l’altro garantito lunga vita al poema tra i posteri. Evidentemente Dante sciolse i suoi dubbi con le parole che poi mise in bocca all’avo Cacciaguida: «Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, / tutta tua visïone fa manifesta; / e lascia pur grattar dov’è la rogna»,[19] inscenando nel dialogo tra l’antenato e il protagonista ciò che era già avvenuto nella sua coscienza.

Così Dante autore, come il suo Ulisse, scrivendo e pubblicando la Commedia navigò per acque nuove e sconosciute, oltrepassando il limite dell’«alto passo», del passaggio difficile, pericoloso, il confine sacro tra il mondo degli uomini e il mistero che sta al di là delle possibilità umane. Ulisse mette al primo posto la conoscenza, rinunciando agli affetti più cari, per «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore»,[20] cioè per conoscere a fondo l’uomo, e riconoscere il bene (il valore) e il male (i vizi) che si annidano nell’animo umano. Dante sceglie la verità, rinunciando alla paura delle conseguenze, e la verità risiede nella discesa all’inferno per conoscere il male e poi nell’ascesa al paradiso per abbracciare il bene. Le due figure coincidono quasi alla perfezione: «Dante fu Ulisse».[21] Potremmo allora leggere l’episodio dell’eroe greco come una manifestazione delle paure e dei timori dello scrittore medievale di naufragare, di fallire come il suo Ulisse, di fronte alla realizzazione di un’opera ardita come la Commedia. In entrambe le figure si nasconde un desiderio di affermare in grandezza il più alto grado di umanità e conoscere a fondo la natura umana, il desiderio di affermare pienamente sé stessi, ciò che arde dentro, l’ardore di Ulisse, ma anche di Dante, il quale non è affatto uomo che si abbandona a concezioni fatalistiche, ma è pienamente consapevole che il proprio destino occorre giocarselo su questa terra attraverso libere scelte, e in questo risiede l’alto messaggio etico della sua opera.[22]

Ecco che allora i celebri versi pronunciati da Ulisse, «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»,[23] costituiscono un invito a migliorare e a crescere in umanità, quell’umanità che secondo Leopardi si esprime anche attraverso il desiderio di infinto, un infinito solo sognato, ma non raggiungibile se non con il pensiero («io nel pensier mi fingo»[24]), proprio perché l’uomo, anche se può contenere dentro di sé l’infinto, è un essere finito, e da questo scarto ovviamente la delusione e l’infelicità. Ma al tempo stesso proprio nell’immaginazione di questa dimensione altra, nel desiderio di infinito, sta la grandezza umana e l’infinito si può raggiungere nella propria mente proprio a partire da un limite, simboleggiato dalla siepe, il limite in cui Leopardi vede la porta verso l’altro mare aperto di Ulisse, cioè questo alto passo, il passaggio difficile verso quegli interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete[25] che sono al di là della siepe o delle Colonne d’Ercole e che permettono al poeta non a caso di naufragare dolcemente, quel naufragio che distingue gli uomini dai bruti.

Tale ragionamento potrebbe essere frainteso e letto come un invito all’autorealizzazione senza scrupoli. Per evitare tale equivoco, ci rifacciamo al grande umanesimo della scrittrice belga Marguerite Yurcenar (1903-1987) e alla sua duplice visione dell’uomo, da un lato grande di per sé in virtù della sua singolarità e unicità rispetto a qualunque altro individuo, dall’altro però così umile e piccolo se paragonato all’umanità intera, intesa in senso lato come l’insieme che al di là del tempo e dello spazio tiene uniti in una rete senza confini tutti gli uomini. Forse ognuno di noi, riconoscendosi anello della grande catena dell’Essere,[26] può decidere dove collocare le proprie Colonne d’Ercole e stabilire il giusto equilibrio tra la piena affermazione di sé e il rispetto dell’altro e degli altri, tra il desiderio di elevare la propria umanità affermando ciò che sente dentro di sé per distinguersi dai bruti e la necessità di non danneggiare l’altro e gli altri, ricordandoci che non siamo singole unità le une accostate alle altre, come è facile credere nell’individualismo dominante della società contemporanea, ma siamo pezzi fondamentali di un Tutto.[27]

E così a distanza di secoli la Divina Commedia è ancora lo specchio nel quale trovare il nostro io, nelle innumerevoli interpretazioni che arricchiscono il testo in quell’infinita borgesiana[28] lettura.

BIBLIOGRAFIA:

J.L. Borges, O. Ferrari, Conversazioni, Bompiani, Milano 2011.

Id., Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2021.

Dante Alighieri, La Commedia. Inferno, a cura di Bianca Garavelli, supervisione di Maria Corti, Bompiani, Firenze 2001.

Id., La Divina Commedia. Purgatorio, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 2002.

Id., La Divina Commedia. Paradiso, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 2002.

Ezio Raimondi, Letteratura italiana. Leggere, come io l’intendo…, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2009.


[1] Cfr., J.L. Borges, O. Ferrari, Conversazioni, Bompiani, Milano 2011, pp. 208-209.

[2] Dante Alighieri, Inferno XXVI, v. 106.

[3] Cfr., Ezio Raimondi, Letteratura italiana. Leggere, come io l’intendo…, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2009, pag. 463.

[4] Maria Corti fa notare come nella tradizione greca non esiste alcun cenno a un tale divieto, ma che i navigatori ellenici avevano instaurato una fitta rete di scambi commerciali al di là delle Colonne d’Ercole con i popoli degli attuali Portogallo e Isole di Capo Verde e che furono invece Arabi a partire dal VII secolo a inventare questo divieto per liberarsi da scomodi concorrenti e pericolosi nemici. Cfr., Dante Alighieri, La Commedia. Inferno, a cura di Bianca Garavelli, supervisione di Maria Corti, Bompiani, Firenze 2001, pag. 451.

[5] Ulisse e i suoi compagni, dopo aver oltrepassato le Colonne d’Ercole, navigano per cinque mesi prima di avvistare una montagna dai connotati familiari, ma si tratta della montagna del Purgatorio, il cui accesso è negato ai vivi, è per questo il naufragio è ormai garantito: «Tre volte il fé girar con tutte l’acque; / a la quarta levar la poppa in suso / e la propra ire in giù, com’altrui piacque, / infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso», Inf. XXVII, vv. 139-142.

[6] J.L. Borges, Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2021, pag. 47.

[7] Dante Alighieri, Inferno XXVI, v. 122.

[8] Ibid., v. 100.

[9] J.L. Borges, op. cit., pag. 43.

[10] Cfr., ibid., pag. 47.

[11] Cfr., ibid., pag. 45.

[12] Cfr., Ovidio, Metamorfosi, libro VIII, 183-235 e Virgilio, Eneide, libro VI, 30-33.

[13] Dante Alighieri, Paradiso XXVII, vv. 82-83.

[14] Id., Inferno II, v. 35.

[15] Cfr., J.L. Borges, O. Ferrai, Conversazioni, Bompiani, Milano 2011, pag. 209.

[16] Cfr., ibid., pag. 204.

[17] Dante Alighieri, Inferno II, v. 32.

[18] Ibid., v. 112: «Prima ch’a l’alto passo tu mi fidi» e Inferno XXVI, v. 132: «Poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo».

[19] Dante Alighieri, Paradiso XVII, vv. 127-129. Cacciaguida ordina a Dante di rivelare e scrivere quanto ha veduto e udito nell’aldilà («tutta tua visïon fa manifesta», Par. XVII, v. 128), ribadendo e completando l’investitura profetica già pronunciata da Beatrice nel paradiso terrestre.

[20] Dante Alighieri, Inferno XXVI, v. 98-99.

[21] Cfr., J.L. Borges, Nove saggi danteschi, op. cit., pag. 48.

[22] Cfr., G.M. Anselmi, Letteratura e civiltà tra Medioevo e Umanesimo, Carocci, Roma 2011, pag. 47.

[23] Dante Alighieri, Inferno XXVI, v. 119-120.

[24] G. Leopardi, L’infinto, v. 7.

[25] Cfr., ibid., vv. 4-6.

[26] Cfr., M. Yourcenar, Ad occhi aperti. Conversazioni con Matthieu Galey, Bompiani, Milano 2004, pp. 190 e 196.

[27] Cfr., ibid.

[28] L’aggettivo borghesiano è qui utilizzato con il significato di “relativo a Borges”, e non nel significato che si è diffuso di concezione della vita come storia (fiction), come menzogna, come opera contraffatta spacciata per veritiera.

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“Itaca nel cuore” di Stefania Pellegrini, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Vorrei

giungere in vista di Itaca,

sentire la tua mano sulla guancia,

come rugiada nel cuore d’una rosa (97).

Di recente pubblicazione è la nuova raccolta di poesie di Stefania Pellegrini, autrice nata in terra d’Irlanda e da tanti anni residente nei pressi di Aosta. Non si tratta della sua opera prima e numerosi suoi testi sono già apparsi in rete, soprattutto sul suo sito personale «Parole Nomadi», su varie uscite della rivista di poesia e critica letteraria «Euterpe», nonché su antologie di premi letterari.

Il nuovo volume, edito per i tipi di CTL di Livorno, porta il titolo di Itaca nel cuore e già da questa definizione che richiama il mito classico – e con esso il mistero del viaggio – compendiamo che il percorso che la Nostra ci propone d’intraprendere immergendoci nelle sue liriche ha qualcosa d’analogo a un itinerario odeporico vale a dire di quella letteratura di viaggio che non è semplice cronaca di trasbordi e viaggi fisici quanto – ben più spesso e in forme ancor più profonde – di carattere esistenziale e interiore.

La Pellegrini ha deciso di suddividere il copioso materiale poetico che qui trova posto in varie sotto-sezioni che, in realtà, appaiono più come delle vere e proprie micro-sillogi che possono essere concepite, lette e dunque fruite nella loro singolarità: sono autosufficienti ai contenuti e complete e non necessariamente debbano trovare riflesso e collegamento con le altre sezioni. Ed è la stessa Autrice a chiarire nella nota introduttiva del volume quella che è stata la sua intenzione alla base di questa necessaria e ben condotta cernita di titoli e relativa catalogazione in sottogruppi. C’è una prima sezione che porta il titolo “La forma dei giorni”, enunciato nel quale non facciamo difficoltà a percepire l’intenzione della Nostra di volersi riferire a quegli aspetti della vita odierna, agli ambiti colloquiali e transeunti dell’uomo contemporaneo, in balia tra pensieri e ossessioni, a volte ostaggio di incomprensioni, altre pervaso da moniti di fuga e sempre – comunque – fortemente attraccato alla vita concreta nella quale la Nostra ritrova il senso delle cose in circostanze di meditazione, pausa, riflessione, ricerca di sé e attribuzione di significati all’essenziale che ci contraddistingue.

A rivelare questo (possibile) atteggiamento sono i titoli stessi delle poesie che si trovano contemplate in questa prima parte: “Sono così oggi”, “Cambiare prospettiva”, “Mia solitudine”. Sono, in effetti, testi particolarmente intimi in cui l’interiorità della Nostra viene offerta al lettore non tanto perché ne faccia testamento proprio quanto perché, senza difficoltà né superfetazioni, può ritrovarcisi egli o ella stessa. Pensieri, dubbi, divagazioni, riflessioni e rievocazioni, ma anche memorie, ricordi che riaffiorano, promesse, visioni incantate o comunque piacevoli (non sempre in linea con l’animo dell’io lirico) fanno da sfondo a questi componimenti. Penso anche a testi quali “E nasce il giorno” e “Il mare”.

D’altro canto non possono – né devono – passare inosservati gli scambi lirici nei quali la Nostra tematizza la vita nella forma del percorso, tramite l’allegoria del viaggio, metafora nota del cammino dell’uomo, viandante in terre che non conosce, scopre, caratterizzato da continue dislocazioni per ragioni dettate da aspetti pratici della vita. Si pensi ai componimenti “La locomotiva”, “Andata-ritorno” ma anche “In quell’andare” e “Il viaggio” dove questo si fa particolarmente palese.

Noto è il mito di Ulisse che ritorna ad Itaca dopo numerose peripezie di varia natura di cui Omero dà di conto in una delle epiche più studiate e affascinanti dell’intera letteratura mondiale. Eppure al suo ritorno Ulisse non viene riconosciuto da chi l’ha visto nascere e crescere (con eccezione della nutrice Euriclea oltre che del cane Argo s’intende), dal suo popolo e questo elemento – che vedrà la sua agnizione nel momento che il personaggio considera valevole di far cadere il mondo di impostura e tradimento che per i tanti anni di sua assenza si è creato – ha dato spazio alle considerazioni critiche e alle interpretazioni più varie, a partire dalle più banali per affrontare circostanze situazionali e logiche in effetti che non hanno nulla di inferiore a un chiaro esperimento sociologico. Credo che il non riconoscimento di Ulisse al suo approdare su Itaca non derivi dal semplice fatto che lui è di molto cambiato, invecchiato, barba incolta e travisato da mendicante, e dunque restituisce un’immagine assai differente da quella che tutti hanno di lui, ma attiene anche all’impossibilità di saper cogliere l’essenziale, l’incapacità di scorgere l’autentico, la miopia e la faciloneria che portano l’uomo in senso generale ad essere connaturatamente più propenso al giudizio (e al pregiudizio) che al ragionamento e al collegamento meditato. È pur vero che Ulisse è diverso, ma non solo fisicamente, dunque nel mero aspetto, è un uomo formato, completamente maturo, temprato dalle fatalità della vita, le cui vicissitudini lo hanno ispessito e reso saldo in una maniera da averne fatto un uomo essenzialmente diverso da com’era. Eppure si mantiene in lui la compassione e l’amore che nella scena con la ritrovata Penelope – l’unica sofferente della sua assenza – risalgono in superficie. Ecco, la poesia della Pellegrini ha qualcosa di analogo a questo comportamento ambiguo di Ulisse: al di là del fascino arcaico verso il mare visto sia come ecosistema puro ma anche come elemento di attraversamento verso spazi diversi e lontani dai propri, nelle poesie della Nostra sembra di percepire, pur diluiti in contesti emozionali introiettati ed esperiti come propri, i motivi del viaggio e dell’evasione, dell’allontanamento e della crescita interiore e morale, dell’asperità della vita, della condizione di esule, ma anche del ritorno, del recupero di quel che si credeva perso e di cui, non senza difficoltà (proprio come la memoria dei nostri cari ormai sottratti al tempo), possiamo riappropriarci.

Un’illustrazione del ritorno ad Itaca di Ulisse

La seconda sezione del volume, dal titolo “Oltre le pagine sporche”, con un sottotitolo inciso che recita “Incontri”, ha a che vedere con la dimensione spiccatamente civile della Nostra, di cui sulle pagine della rivista «Euterpe» si è già avuta, più volte, dimostrazione. La Pellegrini abbraccia l’arma della poesia per parlare di drammi, situazioni di difficoltà, condizioni di vita marginali e di sopraffazioni, contesti di violenza, infanzia negata, situazioni d’indecorosa indifferenza e di crudeltà umana. Sono testi mossi – in taluni casi – da episodi concreti, partoriti da una cronaca efferata e iterata, così dolorosamente colpevole di riempire l’informazione che ci giunge da angoli reconditi del mondo. Ma, altrettanto spesso, anche da situazioni e contesti della nostra Provincia, che accadono poco distanti da noi, nell’indifferenza e nell’incomprensione dei più, mix deleterio che impoverisce il senso di concordia umana che andrebbe rinsaldato e protetto. Doverosamente preponderante appare il tema del fenomeno migratorio: “Fiore del deserto / vertigine bronzea di vellutata pelle, / occhi grandi incrostati di sale / colmi di mistero, e di passione, / dalla furia del mare sgranati di terrore” (53) si legge nella poesia “Amàli” che apre questa sezione del volume. Il tema ritorna in “Alya, Alya” che ci narra di un altro naufragio divenuto eccidio: “Brucia le labbra l’acqua salata, / ostile, ansiosa di tenermi con sé. // […] // L’acqua sale, le labbra, gli occhi bruciano” (58-59).

Tra le altre rievocazioni di sciagure umane che la Pellegrini richiama quali motivi trainanti di un duro affondo di sgomento e denuncia vi è la shoah con un ricordo relativo a undici giovani fucilati a Nus, in provincia di Aosta e dove l’Autrice risiede, nel luglio del 1944. “Non piangere madre, / un tempo c’è stato, e non è stato vano” (55) recita l’explicit, in un singulto di dolore che non svanisce con gli ultimi versi della lirica e che, invece, pare raggrumarsi come uno spiacevole nodo alla gola. C’è una grande partecipazione dell’io lirico in questi testi, lo si nota dal grande garbo verso una materia spesso abusata e maltrattata – anche in poesia – fatta oggetto di facili utilizzi, quando non addirittura di indecorose strumentalizzazioni. Nelle poesie della Nostra si riscontra un pathos la cui intensità risulta difficilmente configurabile a parole. Alto è il senso di pietas della Pellegrini, di quell’ascolto gratuito e doveroso verso l’altro che, anche nella circostanza di episodi ormai lontani e consegnati alla Storia, non dovrebbe venir meno. C’è il senso dell’umanità, trafitta dalle sofferenze, ma anche il monito a non dimenticare per non cadere in baratri analoghi. Se la Storia è testimonianza di vita, diviene doveroso e imprescindibile per l’uomo d’oggi farsi testimone per le nuove generazioni.

Sguardo attento anche verso l’esodo del popolo curdo sottoposto al continuo esilio da una terra che lo rende “appeso al filo della speranza” mentre vive disperato, sospeso, tra “un lembo di terra nomade” e “un recinto di filo spinato” (61), all’infanzia negata dei bambini siriani con “i sogni impigliati sul filo spinato” (63), finanche a un meno noto genocidio degli indiani Sioux noto come il “massacro di Chivington” che vide come scenario il Colorado nel 1864: “Agnelli al suolo sacrificati, / sciabole sguainate, corpi come grano / mietuto sui campi” (66). La Nostra dedica un componimento anche per coloro che, avendo commesso reati, si trovano “relitti ai margini del vuoto, / chius[i] nel grigiore delle ristrette mura” (67), quelle degli istituti penitenziari. Storie di profughi, di immigrati che muoiono nel loro tragitto che dovrebbe condurli in un pase dove cercano pace e futuro, spose bambine, violenze assolute, bambini soldato (“Perdona mamma muoio, / preme un’ombra nera / sulla coscienza”, 75), infanti martoriati nel corpo e assopiti nell’anima, esuli in cerca di uno spazio che possa accoglierli, deportati nei lager, donne stolkerate e abusate (“la voce melliflua che ti adula / con parole spacciate per amore / […] / ti viola insistente”, 78), manovalanza straniera soggiogata e vilipesa da avidi caporali, sono i nuovi martiri contemporanei.

Si riscontrano anche invocazioni e tentativi di dialogo con la luna: “Parlaci / delle nostre imperfezioni” (11), promesse (non facili) fatte a sé stessi, dettate da un’altalenante convinzione dell’esistenza di motivi di forza atti a imprimere un segno di cambiamento o a fortificare meccanismi di resilienza: “Vincerò le stupide paure / […] / Per affrontare / le rotte del mare sconosciuto // […] // e troverò il coraggio / per superare gli ostacoli” (15), convincimenti entusiastici dinanzi a un’avvincente scoperta: “Ma oltre / lo sguardo mira, / verso quel mare che tutte le contiene. / Ancora salperò!” (19), finanche il riconoscimento di una vulnerabilità data dalla carenza di presenze amorose e rassicuranti: “Posa la polvere e lame di luce / l’odore dei ricordi, / aleggia tra le finestre e il comò, / con il passo silente della sera, / e il marchio doloroso delle assenze” (24) mente l’insicurezza diffusa della condizione instabile e logorante del dubbio crea ansia: “Cresce – prolifica / in cerca d’attenzione / come gramigna nell’orto, / e insinua / granelli d’incertezza, / un tarlo nella mente / che rode fin dentro il cuore” (28).

Con l’ultima sezione del volume, “L’impronta del tempo”, è come se si completasse quel percorso circolare che la Nostra ha intrapreso e concesso a noi lettori di intraprendere con lei. Ritornano, infatti, ma in maniera ben più sentita e in forma quasi opprimente, i temi dell’infanzia (“Mi guardo, mi riguardo / cercando la ragazza nella foto / […] / Scopro a illudermi, / a abortire il ricordo”, 88), dei ricordi (“sola mi rifugio / tra le pieghe del ricordo / […] / mentre andavo incontro all’anse / del grande mare, / incurante dei venti contrari”, 98), dell’inesorabilità del tempo che porta la Pellegrini a ragionare su questioni supreme, d’impossibile decodifica per l’uomo, eppure temi impellenti, ricorrenti, a tratti dolorosi, necessari, che svelano un’accentuata dote intellettiva e cogitante: “E mi chiedo perché, / nell’essere non è il rimanere” (89) scrive nell’affascinante testo che porta il titolo “Sfoglia il tempo la mia vita”. Grumi di nostalgia in quel “suono dei tuoi passi andati” (100) si assommano a un senso di vera angoscia dettato dal sentimento dell’assenza (“Ti cerco – non ti trovo, / […] // Queste ore a contare / il tuo ritorno”, 101) e trovano compimento, nell’adesione alla prepotenza della realtà, che smentisce veli e smantella illusioni: “Cede la foglia il suo stare, / da un fiato di vento si lascia rapire. // […] // Vedi? / Niente resta lo stesso” (105).

L’acqua, lo scivolare, lo scorrere, il fluire, divengono in questa sezione del volume tutte sfaccettature di quell’andamento sorgivo e impetuoso improntato al divenire e, in quanto tale, irrefrenabile: immagini e riflessioni di un tempo che cambia perché progressivamente s’allontana da quel passato che ha impresso le nostre esistenze. Tale percorso – come già accennato – non sempre si mostra di facile accettazione per l’uomo perché, adombrato da meccanismi inconoscibili e restio a conformarsi alle sue precipue volontà, produce sperdimento e incomprensione: “non trovo risposte / ai miei richiami” (91), scrive l’Autrice.

LORENZO SPURIO

Jesi, 07/05/2021

Note: La riproduzione del presente testo, sia in formato integrale che di stralci e su qualsiasi tipo di supporto, non è consentito se non ha ottenuto l’autorizzazione da parte dell’autore. E’ possibile, invece, citare dall’articolo con l’apposizione, in nota, del relativo riferimento di pubblicazione in forma chiara e integrale.

“La Quinta Dimensione di Corrado Calabrò, il poeta che strizza l’occhio alla scienza”, a cura di Lorenzo Spurio

Saggio di Lorenzo Spurio 

 

Sono una barca spogliata di vela

che anela inutilmente al mare aperto (54)

Esprimersi in termini critici sull’opera poetica di Corrado Calabrò, per quanto si cerchi di adoperare quell’onestà di sabiana memoria e ci si appelli a un’umiltà di giudizio che ne descriva in maniera congrua gli stilemi cardine, è questione ardua. Un’impresa, si dovrebbe dire, dalle dimensioni titaniche. Lo è per ragioni di varia natura, alcune assai palesi e sotto gli occhi di tutti, altre di appartenenza alla schiera letteraria e a chi, con strenuo impegno e competenza, ha fatto suo il percorso di scavo, approfondimento esegetico e d’interpretariato concettuale. Tali ragioni hanno senz’altro a che vedere con l’influente portata di Corrado Calabrò intellettuale (che è ciò che deve prioritariamente interessare il critico, conscio, però, della sua notevole carriera nel campo della Magistratura), uno dei maggiori poeti della scena nazionale e non solo, se si tiene in considerazione che le sue opere sono state tradotte in decine di lingue (non solo europee) e che per la sua formidabile e riconosciuta attività letteraria gli sono stati attribuiti, tra i tanti premi ed encomi, riconoscimenti accademici quali la Laurea Honoris Causa rispettivamente dell’Università Mechnikov di Odessa (Ucraina) nel 1997, dell’Università Vest Din di Timişoara (Romania) nel 2000 e dell’Università Statale di Mariupol (Ucraina) nel 2015. Ricordo anche uno dei recenti successi in una lingua straniera ovvero il libro Janelas de silêncio (Vasco Rosa, Lisbona, 2017) in lingua portoghese, arricchito dalla prefazione della poetessa e scrittrice Fabia Baldi[1], presentato a Salone Nobile dell’Istituto Portoghese di Sant’Antonio a Roma il 29 novembre 2018. Sempre nel mondo lusofono va ricordato l’importante riconoscimento attribuitogli nel 2016 dall’Università di Lisbona ovvero la preziosa Medaglia “Damião de Góis”.

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Il poeta Corrado Calabrò

L’altra ragione che motiva una certa inibizione e sbandamento nell’approcciarsi alla sua ingentissima opera (decine e decine di opere pubblicate, per cui non faremo qui l’elenco) attiene all’elevata gamma di eminenti critici, accademici o meno, che nel tempo hanno scritto di lui e della sua opera. Si dovrebbero (solo per citarne alcuni) richiamare i nomi di Domenico Rea, Carlo Bo, Maria Grazia Lenisa, Luigi Reina, Mario Luzi e Maria Luisa Spaziani che, senza specificazioni di sorta, ben mettono in luce l’importanza, finanche la completezza e la profondità di Corrado Calabrò. Tra gli altri, un corposo volume monografico a cura del critico Carlo Di Lieto, docente di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, pubblicato da Vallardi Edizioni nel 2016 col titolo di La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò. Testo che risulta avere una sua centralità e dal quale non si può prescindere se decidiamo di voler conoscere da più vicino e con un adeguato mezzo informativo, orientativo e di accompagnamento alcuni dei temi-simbolo della poesia di Calabrò.

978880470871HIG.jpgL’antologia Quinta dimensione (Mondadori, 2018)[2], che compendia un percorso selezionato[3] di poesie pubblicate nel sessantennio 1958-2018, è stata presentata a Roma, Milano e a Torino riscuotendo particolare successo. È, come ebbe a dire Pasolini nel caso dei Cantos di Ezra Pound, una poesia «enormemente vasta»[4]: per quantità, calibro, spessore e intensità. Ad aprire il volume una chiosa di Eraclito, poeta del divenire, che recita testualmente: «Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo». A questa fa seguito l’apertura con un incisivo poemetto dal titolo Roaming introdotto da Senofonte, testo nel quale, in esergo, Calabrò cita Thomas Stearn Eliot, il modernista allucinato, richiamando i Quattro quartetti.

Il lettore di questo libro e dell’intera opera di Calabrò, dovrebbe cautelarsi dinanzi alla materia che gli viene offerta e rendersi consapevole di questo arricchimento continuo. Le copiose citazioni, versi richiamati, echi, camei, rimandi intertestuali ad altrettante opere di letteratura, filosofia e scienza, sono preziosissime e vanno raccolte saggiamente. Esse ci consentono non solo di ricostruire fedelmente il prezioso mosaico che è la stessa campionatura di versi del poeta calabrese, ma anche d’iscrivere questa sua fiorente produzione all’interno del grande mare della letteratura di ogni tempo, dunque della nostra storia e del senso di abitare questo mondo.  Tra i suoi innumerevoli maestri, padri putativi e fonti, vanno senz’altro enucleati gli esponenti di spicco della cultura europea, greca, romana, della classicità letteraria nazionale (Dante, Ariosto, Leopardi), dei poeti melanconici (Rilke[5]), civili (Lorca, Neruda), simbolisti (Baudelaire) e metafisici (Eliot).

Roaming si presenta composito, con una sapiente intersecazione di spazi e cornici temporali, volutamente inteso a divagare e far confluire storie, significati, vicende di uomini d’allora e perplessità d’oggi. La ricchezza dei contenuti e la vistosità delle prese di posizione – soprattutto nei riguardi di alcuni costumi o tendenze diffuse nella nostra età – ci permette di concepirlo anche come sorta di Manifesto – non di una poetica – semmai del travaglio odierno, dove i sentimenti risultano ingabbiati dalle logiche e dalle azioni automatizzate.

L’autore, anche se vive nella Capitale[6] da vari decenni, è nato a Reggio Calabria nel 1935 ed è chiaro ed evidente il suo forte legame a quella terra, per mezzo di una serie di figure quali il mare e ogni riferimento a tale ecosistema, la madre (incuneata nel ricordo per mezzo della casa), finanche della storia di quelle terre soleggiate.

In Roaming, poemetto «sgorgato quasi in trance» (25)[7] come scrive nella nota che lo accompagna datata settembre 2018, si fa accenno ad una delle tragedie più indecorose della storia della nostra Penisola, vale a dire il terremoto che nel 1909 colpì Reggio e Messina decretando un numero di vittime che lo stesso poeta richiama nei suoi versi: «Trentamila morti solo a Reggio./ Io persi nel crollo della casa/ i nonni una zia e un cuginetto/ che quest’anno avrebbe centun anni. / […]/ Sono abitate dai pesci le case/ sott’acqua» (7).[8] Questo tema ritorna spesso in altre liriche a sottolineare, nel ceppo familiare di Calabrò e nella sua memoria, un incisivo segno di dolore per quegli accadimenti.

Da un tempo a noi lontano, Calabrò, forse l’unico poeta italiano a occuparsi di astrofisica (se non altro con tali felici esiti), anticipa uno dei suoi temi ricorrenti ovvero quello dell’interesse verso i mondi siderali, a-terrestri, della dimensione spaziale in parte sconosciuta e per questo ulteriormente ricca di suggestione e fautrice di idee: «Gli astronomi – alcuni – erano intenti/ a scrutare col nuovo telescopio/ gli spazi siderali per scoprire/ altri pianeti simili alla Terra» (7-8).

Tra questi due scenari si situa la lettura critica e distaccata di quell’oggi che è un misto di monotonia, insicurezza, imprecisione e indifferenza diffusa, dove anche il linguaggio è divenuto servo degli oggetti e degli interessi: «È vero che esiste solamente/ quello che appare in televisione;/ ma si può sempre cambiare programma» (10).[9] Versi lapidari che in qualche modo denunciano la passività dell’uomo odierno che non è più agente, ma ricevente e succube di tutto ciò a cui viene sottoposto. Uomo-automa, uomo-oggetto, uomo de-umanizzato: ciò fa anche pensare al realismo terminale di Guido Oldani che, nel relativo Manifesto programmatico, evidenziò questa fede e immolazione della realtà oggettuale a discapito dell’oltraggio e svuotamento della sensibilità umana.

In Roaming si procede a sobbalzi, per scansioni che rimestano di continuo, una possibile linea cronologica: è un procedere a random, appunto, dove la casualità però non è propriamente tale – non è un flusso disincantato e continuo di pensieri, disarticolati – ma le trame profonde della Calabria, dell’amore e del cambiamento, nutrono le fondamenta del poemetto dandone vigore e rendendolo tecnicamente perfetto e contenutisticamente variegato. Ecco, allora, riaffiorare la guerra: «M’è accaduto più volte da ragazzo/ di sentire il fischio delle bombe/ che scendevano dritte sul rifugio/ ed anche di venire mitragliato/ da un aereo in picchiata» (12) e poi far capolino pensieri di continuo divenire, quale la deriva dei continenti: «il pianeta/ sta per venire meno sotto i piedi» (12) fino a inquietudini d’interesse globale: «E se la terra fosse deragliata/ dalla sua orbita? C’è la deriva/ impercettibile dei continenti/ e c’è quella delle galassie» (15).

Proprio come i versi de La terra desolata sono un continuo campo di citazioni, la poetica di Calabrò è un mosaico di realtà, di mondi diversi e distanti, di età, di scenari e situazioni; essa è il luogo in cui, come in una agorà, si mescolano i saperi, le concezioni, i pensieri, in un interscambio continuo tra parola e arte, poesia e musica, scienza e tecnica e, ancora, erudizione di un pensiero che poggia su fondamenta del mondo greco-romano e gore esistenzialistiche. È senz’altro opportuno richiamare le considerazioni ermeneutiche di una studiosa come Julia Kristeva che tanto si è spesa, in termine d’indagine del testo, su valore e la potenza del mondo intertestuale. Così, tra i tanti “commensali” in questo ampia tavola (rotonda) dove si dibatte e ci s’interfaccia, si respira e si cerca se stessi, si contestualizza e si tenta una fuga in una dottrina che non è così accessibile come sembrerebbe, che troviamo il fisico Steven Weinberg, il poeta irlandese Oscar Wilde, la poetessa per antonomasia, Saffo, anima dei lirici greci e, – non appaia vizioso l’avvicinamento e si apprezzi, invece, la vastità delle fonti -, l’apostolo San Paolo (Prima Lettera ai Corinzi), Guido Cavalcanti, Dante, l’autore delle Bucoliche più volte citato dal Nostro in quelle che son divenute formule idiomatiche del mondo latino (Labentia signa), finanche i cantares populares (Machado, il già menzionato Lorca del quale, pure, il poeta si svela innamorato del celebre Llanto), l’avanguardista esasperato Sanguineti[10] e l’enigmatico Lewis Carroll proiettato verso un oltre invisibile che ammicca. Non è di certo una tavola fredda, semmai un banchetto ricco di portate, se si considerano i requisiti di rimando, le motivazioni per cui Calabrò si serve di tali fonti, a più livelli, per inserire i suoi versi. Si crea, così, una polifonia di suoni e d’interpretazioni, linguaggi apparentemente diversi che viaggiano su binari separati, come quello poetico e quello scientifico, che vengono resi, se non amici e sovrapponibili, per lo meno affini, inter-comunicanti, richiamanti l’un l’altro, decretando la fine di aporie binarie inconfutabili. Ci sono sistemi comunicativi di vario tipo che intervengono quali il codice segreto del linguaggio Morse, l’uso di terminologie in altre lingue, l’adozione di onomatopee che tentano di recuperare il suono di un evento che s’è prodotto e poi tutto l’universo dei richiami, dei bisbigli, dei fragori lenti o ritmati, dei movimenti che, colti nel loro tramestio, trasmettono indelebili movenze di un suono che si forma, s’increspa e scivola via.

L’esperienza-imprinting della fanciullezza a Reggio ritorna a galla, per frammenti, ricordi che luccicano, all’interno dell’intero corpus poetico del Nostro. Reggio sta a Calabrò come Macondo sta a Marquez e Recanati sta a Leopardi, è un luogo dell’anima, è spazio titanico e culla, emblema di legami familiari, contesto dove hanno preso forma i giochi, gli amori, i pensieri. Si riappropriano in maniera netta dei versi queste immagini nitide nel ricordo; il recupero delle immagini è asintomatico, quali pillole di un flusso che, di colpo, complici associazioni di immagini, rimandi pareidolitici e effluvi che si spargono, evidenziano la loro compresenza nel presente: sono già lì, non appartengono a una realtà passata, in quell’asfittico tentativo di scansione di un tempo che è tutto presente perché vivo. Ecco «Le strade a pelo d’acqua di Messina» (36) e «Le piazze dei paesi adagiati sullo Ionio» (40), sembra quasi di percepire il vento che fa ondeggiare le tamerici, lo iodio disperso nell’aria che si respira; così sono presenti anche le isole siciliane: «Da Lipari fino ad Alicudi/ piano piano si fredda/ il mare ch’è un immenso bacile d’olio grigio» (74) e poi Filicudi, Panarea. La Calabria, depositaria delle adorate immagini dei cari, è anche quella campestre: «Ulivi rocciosi di Calabria/ dalle arterie marmorizzate/ contorti sulle radici/ come totem viventi!» (112).

Dei genitori, che sono forme di quell’entità varia che è la terra natia, la Grande Madre, si assiepano memorie, nel tempo che separa alla loro corporeità ormai disillusa: «Solo ora sento che mio padre è morto!/ […]/ Con lui salivo su per le colline,/ […]/Andavo, armato della sua fiducia,/ […]/ Chiudo gli occhi: il tuo volto è un po’ smarrito/ ma il tuo cuore va al trotto sul sentiero/ della mia giovinezza e la precorre/ coi passi svelti di quand’ero piccolo» (195-196). E poi la casa delle origini che s’intravede, non vista nel reale, così presente nell’anima: «Quanto sono vicine le due sponde!/Si può scorgere forse la casa/ con tante stanze in cui mia madre è morta./ Quello ad angolo sembra un suo balcone» (202). La casa che fu embrione e che è testamento, baluardo e memoria: «Ma i luoghi dell´infanzia son soggetti/ anch’essi a un’occulta subsidenza./ Riuscii a dissimulare per un anno/ a me stesso che mia madre non c’era» (166); “È come una barca senza chiglia/ una casa in cui manca la mamma” (49).

La dimensione dell’oltre di cui si diceva, dell’alterità senza limiti o dell’illimite (termine spesso usato dal Nostro) può essere riscontrata nelle tematiche dell’amore (che è un sentimento che non conosce vincoli, ostacoli né dimensioni), come pure nell’immensità del mare, che ricorre ampiamente nelle liriche del Nostro al punto da osservare: «Ho comprato un potente cannocchiale/ con ingrandimento trenta volte.// Non per guardare Roma, io cerco il mare;/ è quello l’orizzonte che mi manca.// Qualche volta la notte guardo il cielo» (61). Mare come elemento ma anche come stato d’animo, con l’andamento ondivago delle sue acque, dei cambi di vento, tra traghettamenti, soste, abbordaggi. «Il mare è un rischio» (31)[11] recita Calabrò in una sua poesia e subito fa seguire quest’altro verso: «Il mare va preso come viene» (31). Immagine acquosa della vita, di un percorso fatalistico dove l’uomo è immerso: il mare è la vita stessa dell’uomo dove pericoli, bonacce, alte maree, riflussi e ancoraggi, ne descrivono il corso: «è religioso/ l’altalenante equilibrio del mare» (174). La sintassi poetica di Calabrò si piega a questo mondo acquatico, dell’universo salino, della navigazione e della pesca: tutto rimanda al mondo dei naviganti e dei marinai, in un sodalizio arcaico e archetipo al contempo uomo-mare: «Davanti agli occhi, a tutto campo, è il mare:/ pista d’acqua che ostenta il suo turgore/ come una mammella palpitante/ e livella il presente e il passato» (32); «La notte sia grande quanto il mare// io vorrei la tua lingua, come il mare/ salata» (98). Nel mare, nella profondità del suo temperamento, si perdono anche intrighi, segreti, silenzi e aneliti di un amore che si è consumato con passione e che alberga le reminiscenze più dolci: «Il senso del mare si ritrova/ in quello che chi l’ama non sa dire» (145). Ricchissimo di evocazioni, sguardi sensuali e connessioni intime, in un affascinante brano contemplativo che ha del metafisico, è il poemetto “Il vento di Myconos (Nostos)” nel quale l’indicibile figura del vento, nelle sue varie sembianze e accezioni, è di impareggiabile resa. Esso va letto con lo stesso andamento delle raffiche e delle sue pause, in un vortice che lambisce e rigenera in cui le parole accarezzano e imprimono in forma inarrivabile un simposio tra natura e meditazione, tra canto e investigazione dell’io. Così si legge: «Il vento, egemone dell’isola,/ il vento che scortica i declivi/ isterilendo le vacche scarnite,/ e manda i maschi a fare i marinai» (163).

Il soddisfacimento che si prova dinanzi a questa comunione con le acque – quasi il Nostro fosse un essere anfibio che le domina, sguazzando e risalendo a seconda del bisogno –, è una sorta di estasi panteistica, di amplesso amoroso dove pure l’acqua che sale all’altezza della gola (lontana da intenzioni di morte per acqua, di cui pure parla Eliot) ha il sapore di un godimento estremo, di una totalità inglobata all’estrema potenza, di energia che si protende, al punto tale da invocare un assopimento nelle acque, tra quelle coperte tumultuose che sono le onde: “Sarebbe bello addormentarsi in mare/ con l’acqua in gola che disseta e nutre/ e, volteggiando, planare sul fondo/ dove s’addensa l´ombra degli assenti” (167).

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Uno scatto della consegna della Targa Euterpe di Socio Onorario dell’Associazione Culturale Euterpe al poeta Corrado Calabrò durante la premiazione della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” a novembre 2018 a Jesi (AN). Das sx: i Consiglieri dell’Associazione Valtero Curzi, Marinella Cimarelli, Gioia Casale, Elvio Angeletti, Oscar Sartarelli, la Presidente di Giuria del Premio Michela Zanarella, il Presidente dell’Ass. Euterpe Lorenzo Spurio, Corrado Calabrò e la poetessa Fabia Baldi.

Come non far riferimento ai versi più vistosamente dichiarativi di un amore forte, pulsante: sono le poesie di Calabrò più effervescenti e aperte all’altro, dotate di un’energia senza pari dove l’io lirico è in una situazione d’infatuazione, coinvolgimento totale, assuefazione dei sensi. Pennellate che raggrumano sensualità, nella ricerca estenuata dell’alterità della coppia: «Seni così saldi,/ candidi picchi aureolati di rosa/ albeggianti nel buio/ al chiarore rossastro della stufa» (48). L’amore è connotato di mistero, ogni qual volta che il Nostro ne richiama il concetto esso è vincolato a immagini perturbanti, che imprimono foga e destabilizzano. Il poeta sembra dilaniato dal peso della lontananza dall’amata, da una solitudine che si auto-amplifica («L´amore è la presenza rimandata/ di un’assenza», 52; «Se esiste una ragione perch’io t’ami,/ ci sei nella misura in cui mi manchi», 143), dibattuto dinanzi alla non catalogabilità di quella relazione, alla sua levità e preponderanza al contempo che lo porta a domandarsi in cosa esso consista. La risposta al quesito non può che essere velata, per lo più insoddisfacente come sempre accade quando ci si approssima a parlare dell’infinito: «L’amore, d’altra parte, è come l’anima:/ nessuno, credi a me,/ nessuno mai l’ha visto». (76)

Attenzione va posta anche sui componimenti dal piglio più direttamente civile. Vale a dire quelle che poesie che fanno risalire a galla la forza della tensione morale, dell’impegno sociale che ogni cittadino dovrebbe sentire proprio e coltivare. Così, con un linguaggio chiaro al punto da fornire visuali d’istantanee, il Nostro ricorda delle sevizie e tribolazioni del conflitto in Cecenia (scenario geopolitico tutt’oggi indefinito, non riconosciuto completamente): «Nere, la luna spinge madri insonni/ tra mucchi di neve alla ricerca,/ ogni notte, in spazi troppo bianchi.// Cercano la loro via alla vita» (221). Ci sono poi testi atti a ricordare (non in chiave elegiaca, ma a ragione di uno sdegno insormontabile, che è quello dell’umanità civile) la paranoia e il senso d’imminente sciagura durante i bombardamenti del secondo conflitto mondiale («Gli americani coi B23/ […]/ binari luminosi intermittenti/ […]/ Centinaia di bengala illuminavano/ a giorno il cielo, il mare e la città/ […]/S’era ormai spento l’ultimo bengala/ quando si sentirono due raffiche/ droppete-droppete/ e il rombo strozzato d’un aereo.// Dopo sei giorni si scavava ancora/ dove il fetore indicava cadaveri/ ma noi andavamo in cerca di bengala/ e aspettavamo la prossima incursione.// …]/ Era tedesco l’aereo abbattuto», 200), la sciagurata disavventura dei nostri connazionali caduti a Nassiriya nel 2003 («ricordo – ad antenna ammainata -/ è una duna di sabbia nel vento/ cui passano accanto i cammelli/ a testa alta», 232), le problematiche e le animosità comuni e i drammi relativi al fenomeno senza controllo dell’immigrazione. Tema di un’attualità perenne e che ritorna, ponendo quesiti di varia natura, utilizzato come discrimine partitico nella questione della gestione del fenomeno. In “Canto senegalese a Lampedusa”, Calabrò presta la voce a uno sconosciuto uomo che si appresta a valicare il Continente: «fammi passare/ […]/ Il mare è aperto/ come il deserto/ quando è piatto/ ci puoi camminare/ […]/ la luna ci vuole accompagnare» (229).

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L’universo siderale rappresenta una sorta di condizione permanente nell’intera produzione del Nostro dove la luna, da satellite della nostra Terra, talvolta personificata nella donna, altre volte richiamata quale prolungamento di uno stato d’animo, segna le direttive di una poetica intrisa di quel fascino illuminato e sapiente di cui tutti i grandi, da Shakespeare a Lorca, passando per Baudelaire, Borges, Yeats sino a Merini (solo per citarne alcuni) hanno parlato. Della luna Calabrò ci parla di ogni forma di accadimento: dalla sospensione («luna ferma nel cielo/ come un dilemma», 76) all’assopimento («la sedazione della luna», 78) sino ad adoperare tale isotopia anche per descrivere una condizione, quella di «allunato» (96), fino a quando esso diviene un campo di possibile nutrimento per la futura vita: «Un fiore assurdo/ è attecchito sulla luna» (95). Descrivendoci le varie fasi: la luna piena (la «luna ecedentaria di giugno», 14), «la luna calante» (47) di quando «la faccia della luna è coperta» (95) con le sue «rivoluzion[i] a fas[i] alterne» (118) e l’accenno alle varie «lunazioni» (117) vale a dire il periodo che intercorre tra il compimento di fasi identiche e successive. La luna ha una proiezione indissolubile nell’universo femminile (il ciclo mestruale è un periodo che ha relazione proprio con le fasi lunari, proprio come gli intervalli di alte/basse maree) e il gioco di sguardi e di svelamento, in una nudità che è recupero dell’arcaico nella dimensione primigenia della Grande Madre, è palesato in versi densi di passione: «Ti svestirò di luna/ sulla grande terrazza» (100). Però è anche una luna filosofica, alla Leopardi, che permette la contemplazione, lo scavo interiore, la confessione con sé e l’interessamento verso questioni universali sulle quali tutti si son dibattuti: dal tempo e il suo scorrere, al senso della vita, alla dimensione del dolore, alla solitudine al punto che la luna è anche una proiezione, ciò che non è ma che rappresenta perché, in fondo, fiabescamente «La luna esiste solo se la guardi» (123).

La Quinta dimensione di Calabrò è transito incorporeo di un passaggio verso un oltre. Cadono categorie logiche di spazio e tempo e ci si sofferma sul senso dell’oltrepassare, di proiettarsi verso una realtà altra: «Bisogna oltrepassare, come Alice,/ la lastra riflettente di cristallo/ e senza aprirla varcare la porta/ per cui s’accede alla quinta dimensione.// Forse da dentro mi aspetti a quel varco:/ recessivi/ sugli estremi planari dell’inconscio,/ come la sorte s’aprono i tuoi occhi» (204). Ciò che compie Alice nel celebre romanzo di Lewis Carroll è, in effetti, una caduta nell’abisso, un risucchiamento in una voragine sconosciuta: un passaggio a un’altra dimensione. L’accadimento, quella della precipitazione nel cuore della terra, non è voluto né è spiegabile: ha la forma di qualcosa di assurdo e per questo motivo crea paura e da esso promana mistero. La giovanetta si troverà in un mondo dove non vige la logica comune, la morale, dove anche le normali consuetudini e conoscenze basilari sono sovvertite e annullate («Noi siamo le nostre abitudini/ se si stravolgono quelle, chi siamo?», 11). È l’introduzione in un mondo illogico, apparentemente pericoloso e ostile, in realtà la ragazzina scoprirà il meraviglioso, si divertirà, si sentirà – cosa che non le era mai accaduto in precedenza – parte attiva di una compagnia di esseri (siano pure strampalati). Il varco, prima rappresentato dal buco nel terreno, poi dalla porta che non subito riesce a valicare e nel secondo capitolo dallo specchio, il cui passaggio ha la forza del compimento di un rito di passaggio, è connotato positivamente (ma ciò potrà avvenire solo al termine della narrazione): Alice per crescere e diventare donna matura deve necessariamente compiere quel tragitto, far esperienza di quella realtà, introdursi nei gangli di una dimensione altra, che non appartiene a nessun altro del suo ambiente. Ed è, proprio per questo, privilegiata, sebbene di tutta prima lei si senta minacciata da quell’ambiente.

La Quinta dimensione di Corrado Calabrò condivide gli stilemi di questo ingresso misterioso ed esoterico in una alterità, un al di là non meglio definibile dove «vivere qualcosa oltre il vissuto» (40), in un passaggio ultra-terreno che rende afasici («Forse mi sono entrate nell’udito/ semplicemente le cose non dette», 84) e confusi («La notte non riesco a stare a letto;/ l’incertezza è l’unica certezza», 11), in parte ammorbati e appesantiti dal troppo presente che non permette, con levità il passaggio verso l’illimite riconducendo l’io agli ingranaggi della razionalità: «È questo il paradosso degli umani:/ solo al buio c’è concesso di vedere/ quel mondo cui il giorno ci fa ciechi./ Ma la notte è incognita a se stessa,/ dinanzi a Lei anche Zeus indietreggia» (21). Chiaramente non è sufficiente tutto questo per accennare alla Quinta dimensione di Calabrò e si deve richiamare la fisica degli universi paralleli. Tenuto conto che la poco richiamata “quarta dimensione” ha a che vedere più propriamente con la durata di qualcosa, ossia l’estensione che nel tempo può avere, che cosa s’intende con “quinta dimensione”? Si deve ricorrere alla Fisica quantistica, di cui ho scarso nutrimento, mi si perdonerà dunque le imprecisioni! Sembrerebbe che essa abbia a che vedere con i “futuri possibili” o i già citati “universi paralleli”, un campo indefinito di possibilità, di diramazioni, di eventualità futuribili non esperibili, una filiazione continua di circostanze che, cosa che più conta, ci vengono forniti in pensiero quale suggestione, in forma di possibile scelta, o per suggestione e influenza da altre persone. Nel blog “Il mondo della mia psiche” Alexia Meli sostiene che «nella quarta dimensione è possibile il paradosso, cioè che ciò che era vero un attimo fa può non essere vero ora. Anche ciò che era falso un momento fa potrebbe non essere vero ora. Non ci sono definizioni rigide per definire le esperienze, ma scegliamo la nostra vibrazione momento per momento»[12]. Questo sembra rispondere a ciò che accade ad Alice nel Paese delle Meraviglie, mentre la quinta dimensione «è il posto, lo spazio e l’energia che si basa sulla consapevolezza di una coscienza unica. […] nella quinta dimensione il tempo collassa. Il tempo è istantaneo, nel senso che tutto (tutte le possibilità) esistono nello stesso tempo nello stesso spazio. Non esistono polarità, condizioni, giudizi, patterns di pensiero».[13]

A completamento di questa bella antologia è uno scritto investigativo di Calabrò nel quale, con un metro critico e obiettivo, affronta varie questioni impellenti e cruciali relative alla poesia, al suo significato, ai suoi linguaggi e potenzialità nella società a noi contemporanea. Pagine di una vividezza disarmante dove Calabrò per un attimo prende la giusta distanza dalla materia poetica per osservare, con lenti potentissime, il fenomeno poetico tra ambiguità e reticenze diffuse, manipolazioni, codici destrutturati, condizioni di liminarità della poesia, ibridismi e antipoesia (è durissimo, per esempio, contro lo sperimentalismo accecante delle nuove avanguardie ma anche con la cosiddetta poesia asemantica) che dominano troppo pesantemente nello scenario d’oggi. La disanima, su questo aspetto e sull’intero universo della cultura d’oggi, è serrato e con una nutrita documentazione e riferimenti ad autori dei loro rispettivi campi d’azione; con un linguaggio chiaro e privo di omissioni di sorta, l’autore esplica assai distintamente le sue convinzioni, non esimendosi di evidenziare criticità, incomprensioni, improntare delusioni e avanzando denunce più o meno palesi, verso ciò che non gradisce, motivandone sempre le ragioni di fondo.

LORENZO SPURIO

 

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

 

[1] La prefazione di Fabia Baldi è risultata primo vincitore assoluto nella sezione critica poetica all’interno della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” la cui cerimonia si è tenuta nella Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni di Jesi (AN) il 10 novembre 2018. Essa è pubblicata, in qualità di opera vincitrice, nell’antologia del premio.

[2] Alcune poesie di Calabrò sono apparse in vari numeri della rivista di poesia e critica letteraria Euterpe nel corso degli anni, ovvero nel 2014 le poesie “La luna spenta” (n°12), “Southern Bug” (n°13), nel 2015 le poesie “Dormiveglia” (n°15), “Né ramo né radice” (n°17), nel 2016 le poesie “Alba di notte” (n°18), “Dov’è tuo fratello?” (n°19), “Ma più che mai…” (n°20), “La verità” (n°21), nel 2017 “Gemellaggio” (n°22), “L’esorcismo dell’Arcilussurgiu” (n°24), nel 2018 “Dov’è tuo fratello?” (n°26) e “Canti senegalesi a Lampedusa” (n°26). Non tutti queste opere figurano pubblicate in Quinta dimensione.

[3] Se si pensa che Calabrò scrive da sempre, dobbiamo concepire questa antologia quale il prodotto finale di un attento processo di selezione, vaglio e cernita che ha decretato l’inserzione di determinati testi, piuttosto che altri. Calabrò ha infatti osservato in precedenza: «Le prime poesie pubblicabili (e poi effettivamente pubblicate da Guanda) le ho scritte tra i quindici e i diciotto anni. Parlavano del mare: alcune figurano ancora nelle mie raccolte antologiche», in “Intervista a Corrado Calabrò” in Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2015.

[4] Cit. in Francesco Kerbaker, Recensione ai Cantos di Ezra Pound (Mondadori, Milano, 2018), “Poesia”, anno XXXII, Aprile 2019, n°347, p. 76.

[5] Il poeta tedesco non è citato, ma viene proprio nominato, nella poesia “Non sei una dea” (93).

[6] Nell’intervista a me concessa da Calabrò nel 2015 il poeta ha rivelato: «Vivo da oltre cinquant’anni a Roma, ch’è una città meravigliosa. Ma ogni mattina, quando appena sveglio apro le imposte, avverto un senso di privazione. Ancora assonnato, ogni mattina non mi rendo conto sul momento di cosa mi manchi. Solo un attimo dopo realizzo: mi manca il mare, quel mare che vedevo da ogni finestra della mia casa nativa. È la mia vita non vissuta che s’affaccia».

[7] Tutte le citazioni, sia delle poesie che dei suoi scritti critici sulla poesia che vengono indicate per numero di pagina tra parentesi, sono tratte da Corrado Calabrò, Quinta dimensione Poesie 1958-2018, Mondadori, Milano, 2018.

[8] Alcuni versi dopo si riallacciano a quanto espresso e recitano: «La morte ci alita addosso e con essa/ si cancella tutto» (20).

[9] Oltre al televisore compaiono, quali strumenti-simbolo di quest’età in cui l’uomo è asservito alla macchina, il computer, il cellulare e l’iPod. Oggetti che sono entrati nella vita quotidiana dell’uomo senza più uscirne, contraddistinguendosi ormai come bisogni primari, proprio come il mangiare e il dormire. Ciò evidenzia il vizio della società e la condizione dell’uomo inabile nella sua primigenia natura, viziato e dipendente da altro, prodotto della sua stessa ricerca. Se tali oggetti sono frutto della scienza, pensati come elementi che consentano il miglioramento dello stile di vita (o permettano il diporto), d’altro canto finiscono per essere dei prolungamenti umanizzati, protesi tecnologiche, arti-cyborg. Il loro utilizzo è continuo, rituale (e maniacale al contempo), ormai fisiologico, come traspare anche da un verso di Calabrò: «di tanto in tanto/ riaccendo il cellulare» (89).

[10] «Privo di senso e saputo,/ come le nonpoesie di Sanguineti,/ è un calendario scaduto» (207).

[11] Proprio come la vita è una scommessa, dopo tutto.

In questo mare che è la vita, dunque tanto il passato, il presente che il futuro, il Nostro si trova spesso a ragionare: «Forse è un imbarco dal quale non torno» (33).

[12]  https://alexiameli.altervista.org/terza-quarta-quinta-dimensione-cosa/ L’articolo è stato pubblicato poi anche sulla rivista Apri la mente il 19/12/2017. http://aprilamente.info/terza-quarta-e-quinta-dimensione-cosa-sono/

[13] Nello stesso articolo si legge anche: «Nella quinta dimensione si è consci di essere consapevoli. Non esistono paura, bisogno di sicurezza, mancanza di fiducia. Le energie femminili e maschili sono fuse insieme in armonia. […] Si interagisce coscientemente con il Creatore e tutti gli Esseri di Luce».

“La terra del rimorso” di Stefano Modeo. Recensione di Stefano Bardi

Recensione di Stefano Bardi

21nNax0z7FL._SX351_BO1,204,203,200_.jpgMare! Tema questo che è stato sempre presente nella poesia italiana dal Medioevo agli anni Duemila e che negli ultimi anni del secondo Novecento è stato usato come specchio della Vita, proprio come è dimostrato dalla raccolta d’esordio La terra del rimorso del giovane poeta Stefano Modeo (Taranto, 1990) del 2018.

Un titolo questo che richiama alla memoria il saggio La terra del rimorso dell’antropologo, filosofo e storico delle religioni Ernesto De Martino (Napoli, 1908-Roma, 1965) seppur comunque con notevoli differenze, volume che tratta il tema del rimorso. Per quanto riguarda il filosofo e studioso napoletano la Terra è il Salento e il rimorso da lui studiato attraverso il fenomeno antropologico e musicale del tarantismo riguarda le ferite storico-sociali arcaiche del Salento, che erano viste da Ernesto De Martino come squarci memorialistici non più riparabili e peggio ancora del tutto estranei all’intera storia del Salento uscendo definitivamente di scena, dalla cosiddetta Questione Meridionale iniziata da Gaetano Salvemini e poi ripresa dopo anni dall’intellettuale napoletano.

Cosa ben diversa è l’opera del giovane poeta Modeo, che può essere considerata come un diario in versi e come una denuncia che riguarda la sua natia Taranto, dove l’antico rimorso è sostituito da quello odierno, ovvero il male che infetta con i sui veleni e le sue impurità questa città fino a trasformarla in un’oscura e mortale città. Un rimorso o un dolore che infetta ogni cosa dell’esistenza cittadina e che viene mostrato dal poeta attraverso il mare, da lui inteso sia come specchio nel quale vedere gli oscuri mali di Taranto, sia come elemento naturale sempre con uno sguardo sociale.

Un primo quadro, ci mostra Taranto popolata dagli offesi o più semplicemente dagli abbandonati figli di Dio che consumano una Vita senza futuro, senza etica, costretti a un’eterna vacuità psico-sociale perché hanno scelto volontariamente di non abbandonare la loro terra natia.

Un secondo quadro ci mostra una Taranto priva di affetto e d’amore, dove le piazze sono un vacuo cuore, animate da esseri umani che sono delle ombre irriconoscibili che non pronunciano più parole d’amore.

Un terzo quadro tratta un tema attualissimo, ovvero quello dei migranti; un quarto quadro riguarda il mare, che può essere visto come elemento naturale e una creatura senza vita a causa delle infezioni industriali e delle ingordigie umane; il mare è anche visto in chiave socio-lavorativa, per mezzo del popolo operaio tarantino che è costretto a lavorare fra nubi tossiche o nelle gelide battute di pesca invernali. Un popolo che a sua volta metaforizza l’intero popolo italiano dei giorni nostri dall’infausti destini, che li priva di qualsiasi ribellione socio-linguistica e che li condanna a vivere fino alla fine i suoi giorni, nell’indigenza e nella povertà.

Taranto
Uno scatto della inquinata città di Taranto. Foto tratta da: https://www.lercio.it/taranto-lilva-tranquillizza-niente-olio-di-palma-nelle-nostre-scorie-cancerogene/

Un quinto quadro riguarda gli operai delle acciaierie, che secondo lo sguardo del giovane poeta sono visti per la società tarantina e per i loro padroni di lavoro come dei numeri produttivi. In mezzo a tutti questi quadri di dolore, patimenti e infausti destini c’è la poesia di luce “XXII” dai toni intimi e reminiscenziali, in cui il giovane Modeo ritorna indietro nel tempo fino alla sua infanzia, per mostrarci una Taranto piena di luce, di gioia, di amore e per fare questo usa la metafora della cartolina dove è racchiusa la Taranto dalla quale un giorno tutto il male che la infetta sparirà. Insomma, un viaggio intimo e spirituale quello fatto da Modeo. Un viaggio e un urlo di denuncia per una società infettata dal male che prende il nome di sfruttamento, razzismo migratorio, droga e malavita.

STEFANO BARDI

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

A Civitanova si parla della poesia dell’Adriatico. L’incontro sabato 27 ottobre alla Biblioteca “Zavatti”

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Sabato 27 ottobre alle ore 17 presso la Sala “Cecchetti” della Biblioteca Civica “Silvio Zavatti” a Civitanova Marche (MC) si terrà la presentazione al pubblico dell’antologia benefica curata dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi dedicata interamente al mar Adriatico. L’iniziativa si terrà con il Patrocinio Morale del Comune di Civitanova Marche e della Provincia di Macerata. Il volume, pubblicato a dicembre 2017 e curato da Stefano Vignaroli, Lorenzo Spurio e Bogdana Trivak, è stato presentato nei mesi scorsi a Pesaro, Ancona, Senigallia, Roseto degli Abruzzi, San Benedetto del Tronto, in eventi dedicati nei quali si è parlato a trecentosessanta gradi del nostro mare Adriatico. Un volume prestigioso, che ha ottenuto i riconoscimenti e i patrocini morali di numerosi Comuni, Province e dell’Ambasciata della Repubblica Albanese in Italia, oltre che dei Comuni croati di Spalato, Sebenico e Pola.

Durante la nuova presentazione, che sarà aperta dai saluti e dalla descrizione del progetto per mezzo di due dei curatori, Lorenzo Spurio (Presidente Ass. Euterpe) e Stefano Vignaroli (Consigliere Ass. Euterpe) prenderà parte il cultore locale Stefano Bardi con un intervento sulla poesia del poeta locale Sandro Bella. Ad impreziosire la serata sarà la lettura del poemetto in dialetto messinese “Addiu Siracusa” scritto da Vincenzo Prediletto. Nel corso della serata si terrà un reading poetico con poeti della zona invitati dall’Associazione Euterpe e la performer Amneris Ulderigi eseguirà alcune letture scelte dall’antologia.

Il ricavato derivante dall’antologia in oggetto, detratti i costi di stampa, com’è avvenuto in precedenza, verrà donato all’Istituto Oncologico Marchigiano (IOM) sezione Jesi e Vallesina che l’Associazione Euterpe, con le sue iniziative, sostiene.

 

L’evento è liberamente aperto al pubblico.

La S.V. è invitata a partecipare.

 

INFO:

www.associazioneeuterpe.com

ass.culturale.euterpe@gmail.com

Tel. 327 5914963

“Sandro Bella e la voce del mare” articolo di Stefano Bardi sul noto poeta civitanovese e la sua produzione dialettale

Articolo di Stefano Bardi

Fin dall’alba dei tempi, il tema del mare è stato sempre prediletto nella letteratura, come è dimostrato da numerose opere a partire dalla Sacra Bibbia e dai Vangeli. Un mare che simboleggia i principali aspetti di Dio, ovvero il castigo (Mosè e la sua attraversata del mar Rosso) e la salvezza (l’acqua battesimale). Mare che sarà poi ripreso dalla letteratura greco- romana e bizantina, dove, come tematica, ricoprirà un ruolo prettamente sacrale visto nell’acqua intesa come energia esorcizzante e antidemoniaca.

Un tema, quello del mare, che sarà trattato anche dalle grandi firme della letteratura italiana dal Medioevo fino ai giorni nostri, passando per la poesia cantautoriale come per esempio il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi, il De Jerusalem celesti e il De Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona, la poesia scherzosa di Cecco Angiolieri, la Divina Commedia di Dante Alighieri, il Dialogo della Natura e di un Islandese di Giacomo Leopardi, la natura sommersa di Salvatore Quasimodo, il mare, anzi l’oceano esistenziale, di Domenico Modugno in Oceano (infinito mare), il mare tombale di Lucio Dalla in Com’è profondo il mare, il mare come luogo magico dove rifugiarsi in Sharazan e il mare come cadavere in decomposizione in Notte a Cerano entrambe di Albano Carrisi. Tanti altri nomi si potrebbero e si dovrebbero fare, ma troppo lunga sarebbe la lista.

Il mare come ambiente e concetto è presente anche nella poesia marchigiana come è dimostrato dal mare scenografico di Elvio Angeletti, dal mare reminiscenziale di Michela Tombi, dal mare civico-umanitario di Marco Bordini, dal mare chimerico e “divino” di Mario Rivosecchi e, in particolar modo, dal mare intimo, nostalgico e cantastoriale di Alessandro Bella (meglio noto come “Sandro”, nato a Civitanova Marche nel 1929) che ci ha lasciato due bellissime opere di poesia marittima, ovvero Quagghiò lo porto (1988) e Li “Portési” (2007). Opere queste, dove al centro c’è sempre la città di Civitanova Marche colma di turismo, arte, inebrianti sapori, popolata da una vasta comunità multietnica. Dire Civitanova Marche o “Citanò”, nell’idioma dialettale locale, vuol dire sopratutto mare e porto, con la sua millenaria storia fatta di rapporti commerciali e con la sua storia moderna, imbevuta da rievocazioni marittimo-culinarie e culturali.

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Il poeta civitanovese Sandro Bella in uno scatto durante la sua pluridecennale attività di barbiere

Un’opera, quella del 1988, dedicata sì al porto di Civitanova Marche, ma il porto marittimo fa da scenografia anche ad altri temi. Un primo tema riguarda il porto marittimo dalle origine Picene e Romane, che nel passato viveva di pesca, mercato ittico e ambulanti che sostavano con le loro mercanzie e che oggi vive sì con la pesca, ma anche con fabbriche di vario tipo ad esso vicine.

Un secondo tema riguarda il vento d’estate, inteso dal poeta come un dolce e chimerico sospiro che ci conduce in fantasiosi universi, immersi nella pace e nella gioia.

Libro-na-Storia-na-Citta-Vicende-Civitanovesi.jpgUn terzo tema riguarda un intimo ricordo e, più nel dettaglio, quello legato alla figura di suo padre. La figura paterna è ricordata come un uomo colmo di nobiltà d’animo, profondo ossequio verso gli altri e, in una parola sola, come esempio virtuoso di vita.   

Nell’altra sua opera citata, pubblicata nel 2007, ritroviamo arcane sapienze marittime ormai dimenticate, arcaiche parole dialettali, il difficile e doloroso legame dell’Uomo con il mare e tanto altro ancora. In particolar modo leggiamo poesie in cui i marinai e i pescatori sono concepiti dal poeta civitanovese come dei moderni menestrelli e cantastorie che ricordano le loro avventurose battute di pesca con le loro lancette che, fra intemperie e tempeste, sfidavano dio Nettuno.

 Un’opera, infine, che tratta in versi anche la figura della donna, vista dal poeta come un’immensa Madre Universale che domina il mondo intero con la sua magica eloquenza dialogativa, il suo tenace spirito da guerriera, il suo amore dolce e la sua fraterna compassione.     

 STEFANO BARDI

Chiaravalle, lì 15/10/2018

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

Una società diversa: ricordi di una Trapani trascorsa, viva nel ricordo fulgido e costante. Recensione di “Spigolature” di Vittorio Sartarelli

A cura di Lorenzo Spurio

Vittorio Sartarelli è nato a Trapani nel 1937 da una modesta famiglia. Ha seguito studi umanistici e poi si è laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Palermo. Nel 1958 venne assunto dal settimanale politico trapanese “Il Faro” dove operò a diverso titolo per quattro anni. Nello stesso periodo collaborò anche con altre testate sino a che nel 1963 venne assunto in un istituto di credito dove è rimasto sino alla data del suo pensionamento.

Come autore ha esordito nel 2000; scrittore attento al dettaglio, insaziabile pittore di vicende vissute e nostalgico nel recupero di memorie che hanno contrassegnato i suoi anni passati, Sartarelli si mostra versatile per i suoi interessi verso la prosa autobiografica, memorialistica e descrittiva con particolare attenzione anche alla descrizione degli ambienti nei quali si percepisce l’attaccamento per Trapani e le affascinanti manifestazioni etno-culturali della sua terra.

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Uno scorcio della città di Trapani

Tra le varie pubblicazioni si segnalano “Territorio e motori” (2006), un volume tascabile, una sorta di guida con informazioni sugli aspetti storico-culturali, tradizionali della capoluogo siculo in cui è nato con particolare attenzione anche allo sport. Allo sport, in particolare, Sartarelli è stato legato, in modi e in età diverse sia con il ciclismo (di cui era molto affascinato in età giovanile rimanendo affascinato da Bartali) che dall’automobilismo, seguendo la capacità meccanica e creativa del padre, meccanico arguto, che nel 1951, dopo aver creato un auto da corsa fiammante, “vinse nella sua categoria la XXXVI Targa Florio, classificandosi anche sesto assoluto nella classifica generale” (90). Quest’ultima vicenda è contenuta in particolar modo nel volume “Francesco Sartarelli” (2000) da lui definita la “biografia di un campione trapanese degli anni ‘50” ma se ne parla abbondantemente anche nel racconto “Mio padre” presente in “Spigolature” nel quale l’autore traccia la vicenda esistenziale del genitore paterno ripercorrendo alcuni degli episodi d’affetto più incisivi che li hanno visti legati sino al sopraggiungere della malattia del padre che l’autore percepisce come una “mutilazione” (91) parlandone in questi termini: “Esisteva ancora, era vicino a me ma, era diventato un’altra persona, lontana anni luce da quella che mi aveva seguito con affetto paterno e condividente durante la mia vita, il faro che costituiva per me un punto di riferimento e di orientamento costante si era spento” (91).

Il sentimento di comunione, il fascino e la completa sintonia con il contesto ambientale, sempre ben radicato nelle sue narrazioni, sono meglio esaltati in “Cara Trapani” (2007) che si configura come una sorta di almanacco dotto e utile, ricco di informazioni e nutrito di ricerca bibliografica, frutto della volontà di contenere in un libro elementi di storia, etnologia e tradizioni della sua magica città. Chiaramente non si tratta di una prosa fredda e clinica, atta a descrivere storicamente con un linguaggio critico e umanamente impassibile, al contrario nell’elencazione arguta delle nozioni storiche, geografiche, culturali è unita in maniera indissolubile una carica viva e spontanea che sgorga dal sentimento coinvolto.

Quella di Sartarelli è così sia una narrativa documentaristica (le branche del sapere che lo coinvolgono sono varie, dalla scienza all’enologia, dalla storia all’archeologia e mai coniugate tra loro con forza o in maniera improvvisa) e al contempo una prosa personale, intima, familiare, ricca di aneddoti personali, vicende proprie, memorie di momenti vissuti con parenti o di incontri, come quello con lo zio d’America, contenuto nel volume “Spigolature” (2017), una prosa che, per certi versi, fa ricordare il Sciascia narratore degli esordi.

Altre opere dell’autore sono “I racconti del cuore” (2008), un saggio di carattere sociologico “La famiglia, oggi” (2009) e un excursus dell’intero periodo lavorativo in “Memorie di un bancario” (2009).[1] Vittorio Sartarelli è anche blogger, recensore di critica letteraria, saggista. Nel volume antologico sulla poesia e cultura siciliana curato dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi che uscirà il prossimo anno l’autore ha collaborato con una recensione-documento all’opera nel dialetto locale “Petri senza tempu” del poeta trapanese Nino Barone. Collaboratore di vari giornali e riviste di cultura e letteratura tra cui “Il Salotto Letterario” (Torino), “Progetto Babele”, “Euterpe”, “Il Club degli Autori”, è risultato vincitore in numerosi premi letterari nazionali ottenendo premi da podio, premi speciali, menzioni e altri riconoscimenti che ne attestano le indiscusse capacità letterarie e comunicative. È accademico dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” di Catania e Socio ordinario dell’Ass. Culturale Euterpe di Jesi (AN).

A spiegare il titolo della raccolta “Spigolature” (Elison Publishing, Lecce, 2017) è lo stesso autore che, nella presentazione al libro, così scrive: “Spigolare chiarisce la sua definizione come un’azione antica […] di raccogliere ogni spiga rimasta sul terreno dopo la mietitura per cui ogni singola spiga di grano poteva fare la differenza; […] spigolare può avere anche un significato che ai più appare recondito, ma che è ormai entrato nel comune linguaggio culturale, come raccolta o scelta privilegiata di concetti” (3). Dunque un volume che raccoglie una crestomazia di testi, un florilegio particolare, una selezione particolarmente significativa per l’autore, dunque non un semplice compendio che agglutina la produzione, ma un testo che propone una scelta ponderata e motivata dei componenti che lo contraddistinguono, nella sua totalità, come opera unica e compatta.

9788869631405_p0_v1_s550x406.jpg“Spigolature” – “libro eclettico”[2] – si compone di una serie di racconti di diversa lunghezza nei quali l’autore rievoca momenti particolari della sua storia passata, spesso è una semplice immagine, come quella del mare nell’omonimo racconto, a riallacciare al passato: l’autore ci racconta del rapporto di amore-odio verso il mare e ce ne spiega le ragioni e, a seguire, con evidente orgoglio della sua sicilianità, passa in rassegna agli aspetti più tipicizzanti della città natìa di Trapani: da narrazione biografica[3] si passa così, senza cesure nette, a una prosa scientifica, di documentazione storica e sociale quando ci parla delle saline e delle tonnare, particolarmente presenti nella zona di Trapani (visitai qualche anno fa la Salina di Paceco e ne conservo uno splendido ricordo e, sull’isola di Favignana, la guida ci spiegò che la tonnara lì presente aveva smesso da anni di funzionare ma che una volta l’attività era frenetica e determinante per l’intera economia dell’isola). Respiriamo, leggendo queste pagine di Sartarelli, un’aria a noi diversa, che è quella calda e speziata della terra di Sicilia. Emanuela Riverso nella sua recensione a “Cara Trapani” dell’autore ha osservato questa capacità di Sartarelli di dar sapore e colore, anche sulla carta, ai suoi amati spazi toponomastici: “Il racconto della storia e dei luoghi di Trapani si fonde con le suggestioni personali dei mille ricordi legati alla città […] Il raccontare la città si identifica con il raccontare se stesso. […] Trapani nel corso della storia, dalle origini ai giorni nostri e destano molta attenzione anche le pagine più personali, lì dove ci si accorge che il racconto di una città non può essere disgiunto dal racconto della vita di chi la abita e la vive”.[4]

La narrazione si presta anche come fine documento storico nei tanti rimandi alle varie fasi di buio e di sviluppo della nostra nazione dall’età della Ricostruzione, che fa seguito al secondo conflitto bellico di cui Sartarelli parla nel racconto “La maestra della Scuola Elementare”, alla venuta dello “zio d’America” nel 1947 dopo un lungo periodo nel quale a causa delle “operazioni belliche non era stato possibile comunicare” (40) porta in Sicilia il progresso americano rappresentato dai nuovi beni di consumo quale la cioccolata, il chewing-gum e altri beni d’utilizzo per la famiglia. Dello zio d’America l’autore ha un ricordo duplice: grande gioia e aspettativa prima della sua venuta e curiosità di conoscere il parente che vive e ha costruito una sua famiglia dall’altra parte del mondo e, di contro, un uomo leggermente freddo, ormai avulso da quella realtà di provincia siciliana che, decenni prima, l’aveva visto nascere. L’autore così riflette: “Non riuscivo a comprendere, tuttavia, come mai uno zio che, per trenta anni era rimasto lontano dal suo Paese e dall’affetto dei suoi cari, una volta ritornato tra loro, non riuscisse a manifestare almeno esteriormente una maggiore affettuosità” (43).

Sempre a livello storico e proseguendo in forma cronologica, Sartarelli dedica un intero capitolo, o racconto, a “Quei favolosi anni ‘60” nei quali ci parla del rinato clima di benessere a seguito del boom economico che permetterà per un periodo una vita migliore, anche grazie a misure di sostegno giunte, a conclusione della seconda guerra mondiale, da parte degli Usa. È il periodo del cosiddetto “miracolo economico” nel quale l’Italia sembra incanalarsi verso una stagione diversa e, sulle ceneri di una ricostruzione lunga e non priva di un malcontento psicologico, si proietta verso un futuro pregno di nuova speranza. Arrivano così gli elettrodomestici quali il frigorifero e, per la prima volta viene introdotta la televisione, mezzo di comunicazione e svago, ma anche collante sociale che ha, tra le sue primarie funzioni, quella di permettere una standardizzazione della lingua ufficiale italiana incentivando, dunque, anche il sentimento di coesione nazionale. La televisione, come osserva l’autore, “avrebbe trasformato oltre che la cultura italica, anche le tendenze e il modo di pensare, avrebbe sicuramente modificato il sistema di vita delle famiglie” (55).

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L’autore, Vittorio Sartarelli

Ci sono pagine amare nel ricordo di vicende antipatiche come la rottura dell’amicizia con un ragazzo da sempre considerato un buon compagno, di vero dolore nell’apprensione che si nutre dinanzi al tremendo terremoto del Belice nel gennaio del 1968 dal nostro ricordato nel brano dal titolo “Quando la Terra trema” e dell’infarto subito in periodo più recente, qualche anno fa, del quale Sartarelli ci trasmette una cronaca puntualissima. C’è poi il mondo del lavoro, come funzionario in un istituto di credito, del quale si è accennato in precedenza e di cui ha avuto modo di parlare ampiamente in un’altra precedente pubblicazione. Nel racconto “L’Onorevole” contenuto in “Spigolature” ci narra, grazie a un sistema di consigli e raccomandazioni tra uomini influenti diffuso ancora oggi, della sua possibilità di accedere a un colloquio di lavoro che poi gli avrebbe consentito di lavorare in quella stessa sfera per molti anni sino al pensionamento. L’autore, senza riserbo alcuno con la finalità di non macchiare quel realismo onesto di cui è peculiare esponente, scrive: “La politica quindi, grazie alla raccomandazione, esercitava una nobile funzione sociale, favorendo il benessere e il miglioramento economico e sociale delle famiglie” (67) mettendoci al corrente di un sistema diffuso di mutuo sostegno e di ‘piaceri’, di collaborazione e influenze tra “poteri”, diffusa e consentita, ma che, com’è questo il caso, ha dato frutti preziosi rappresentato dall’encomiabile impegno professionale e dedizione di Sartarelli nel suo lavoro.

Se in “Spigolature” Sartarelli ha raccolto “il grano migliore” della sua produzione, i suoi progetti non terminano qui e, forse un po’ più ambiziosi, si spingono oltre nell’arrivare a pubblicare un volume unico, una sorta di opera-omnia o, comunque una pubblicazione che, ordinatamente e in forma completa, contenga tutta la sua intera attività scrittoria, di narrativa breve, romanzi, articoli, saggistica, recensioni e quant’altro. Così, in un’intervista rilasciata a “Recensione Libro.it” ha osservato: “Ho allo studio la realizzazione della raccolta di tutte le mie opere che vorrei lasciare come ultima testimonianza della mia attività letteraria, ma è ancora presto per poterne parlare e scrivere in modo definitivo”. Dette opere, la cui ideazione nasce da motivi sempre pregevoli che mostrano una grande concretezza dell’uomo che le propone, spesso sono poco attuative non perché tecnicamente difficili o azzardate ma semplicemente perché è preferibile scrivere all’istante, la vita d’oggi o ciò che essa riflette del passato, badando – nella stessa vividezza che sostiene l’autore – al dedicare attenzione a ciò che ha per noi senso. Difficile concepire un’opera completa e finale quando ancora – com’è il caso di Vittorio Sartarelli – c’è ancora tanto da raccontare ed esprimersi, narrare e studiare, affrontare indagini, ricercare il senso delle cose e di sé, in quell’ambiente folto di pensieri e custode di dolci melodie di età andate, nel materiale, eppure ancora così vive.

 

Lorenzo Spurio

Jesi, 15/10/2018

 

NOTE

[1] La recensionista Nicla Morletti sottolinea lo spettro meno felice di sentimenti provati dall’autore (sofferenza e delusione, finanche scoramento e insoddisfazione) in relazione ad alcune vicende accadute, nel corso degli anni, sul suo luogo di lavoro scrivendo che lì “Emergono la malvagità, la cattiveria, la superbia, la sete di denaro, l’arrivismo e la prevaricazione da parte di altre persone”, in Nicla Morletti, “Vittorio Sartarelli: 35 anni da bancario”, «Il Molinello».

[2]  Così viene definito nella breve recensione dal titolo “Di cosa parla il libro “Spigolature” di Vittorio Sartarelli” apparsa in internet sul sito «Recensione Libro». Lo stesso autore, in un’intervista concessa dallo stesso sito citato, ha definito “Spigolature” in questi termini: “uno Zibaldone, un revival, un vademècum”.

[3] L’autore in un’intervista rilasciata al sito «Il Giallista» ha confessato al riguardo: “Non ho bisogno di ispirazione artistiche per i miei scritti ma solo ricordi reali e i miei libri non hanno trame inventate o romanzate ma solo descrizioni di realtà avvenute, in un passato prossimo o purtroppo, ormai remoto ma vero e non inventato”, in “Intervista a Vittorio Sartarelli, autore di “Spigolature”, «Il Giallista», 9 Gennaio 2018.

[4]  Emanuela Riverso, “Vittorio Sartarelli e la sua cara Trapani…”, «Luoghi d’Autore», 8 Gennaio 2015.

 

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

Alla Chiesa Monumentale di S. Nicolò L’arena (Catania) sabato 23 giugno il reading dai profumi di zagara

La Chiesa Monumentale di S. Nicolò l’Arena (CATANIA) invasa dai profumi di zagara

L’iniziativa, condotta dall’Ass. Euterpe sarà sabto 23 giugno

 

L’Associazione Culturale Euterpe di Jesi (AN), presieduta dal poeta e critico letterario Lorenzo Spurio, propone per sabato 23 giugno nel pomeriggio un incontro poetico dal titolo “Parole tra i profumi di zagare”. L’Associazione Euterpe, che vanta di un considerevole numero di associati tra poeti siculi, da anni promuove un reading poetici in una città siciliana; in passato si sono tenuti a Palermo in sedi istituzionali quali la Real Fonderia Oretea e Villa Niscemi.

Il reading poetico si terrà presso la Chiesa Monumentale di San Nicolò L’arena sabato 23 giugno 2018 a partire dalle ore 17:30. Durante l’incontro, al quale parteciperanno una serie di poeti della zona e non, si terrà anche un intervento critico del poeta e saggista prof. Domenico Pisana, noto intellettuale e Presidente del Caffè Letterario “S. Quasimodo” di Modica (RG).

L’evento culturale è patrocinato dalla Regione Siciliana e dal Comune di Catania ed è reso possibile grazie alla collaborazione di alcune realtà culturali con l’Associazione Euterpe: l’Associazione Siciliana Arte e Scienza (ASAS) di Messina, presieduta dalla pittrice Flavia Vizzari, l’Associazione Culturale Caffè Convivio (CaLeCo) di Catagirone (CT), presieduta dalla poetessa Giusi Contrafatto, il Centro Studi “Maria Costa” di Messina, presieduto dal sig. Pippo Crea, la Libreria Spazio Cultura di Palermo, il Caffè Letterario “S. Quasimodo”di Modica (RG), la rivista culturale “Lu Papanzicu” di Ravanusa (AG), il Salotto Culturale H2 Donna di Gioiosa Marea (ME), presieduto da Giuliana Scaffidi, i blog letterari e culturali di Luigi Pio Carmina ed Emanuele Marcuccio.

Durante l’evento sarà inoltre presente l’artista performativo palermitano Toni Zanca (in arte “Acnaz”) con una realizzazione “a presa rapida”. L’arista si dedica a opere murales dove esprime l’arte concettuale non trascurando la bellezza e l’aspetto estetico. Nel 2017 a Roma ha partecipato al “Gau 2017” e a Centocelle è presente la realizzazione in urban art di una delle campane di raccolta vetro. Numerose le sue performance artistiche e applicazioni.

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Notevole sia nei numeri che per caratura la presenza dei poeti che interverranno per dar lettura alle proprie opere. Prenderanno parte (qui indicati in ordine alfabetico): Anastasi Giuseppe, Angeletti Elvio, Baglieri Giusi, Barcellona Giuseppe, Bongiorno Claudio, Bono Angela, Campi Luca, Carmina Luigi Pio, Chiarello Maria Salvatrice, Cinnirella Pasqualino, Cipresso Clemente, Contrafatto Giusi, De Marco Angelo, Di Giorgio Gianni, Di Mauro Giovanni, Di Salvatore Rosa Maria, Evoli Daniela Angela, Gemito Francesco, Greco Salvatore, Innocenzi Francesca, Interlandi Gaetano, Iudici Noemy, Lo Monaco Emanuele, Luzzio Francesca, Marcuccio Emanuele, Marzo Rosaria, Minnella Orazio, Moreal Liliana, Nicolosi Ada, Panebianco Alessandra, Rizza Giovanni, Rizzo Mario, Schiera Antonino, Sciuto Cinzia, Spurio Lorenzo, Vaira Marco, Valenti Agata Anna, Vinci Sciabò Melania.

 

L’evento è liberamente aperto al pubblico.

 

Info:

www.associazioneeuterpe.com

ass.culturale.euterpe@gmail.com

Tel. 327 5914963

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Un mare di versi”, il 22 giugno a Messina (Palazzo dei Leoni) il reading dell’Ass. Euterpe

A Palazzo dei Leoni il reading poetico “Un mare di versi”

 

L’appuntamento con l’iniziativa dell’Ass. Euterpe è venerdì 22 giugno

 

Con il patrocinio morale della Regione Siciliana, del Comune di Messina e della Città Metropolitana di Messina venerdì 22 giugno a partire dalle 16:45 presso il sontuoso Salone degli Specchi del Palazzo dei Leoni a Messina (ex sede della Provincia) si terrà l’atteso incontro poetico dal titolo “Un mare di versi” ideato, voluto e promosso dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi (AN).

Tale associazione, che vanta di un considerevole numero di associati proprio della regione siciliana, da anni promuove un reading poetico in una città siciliana; in passato si sono tenuti a Palermo in sedi istituzionali quali la Real Fonderia Oretea e Villa Niscemi. L’Associazione Culturale Euterpe sarà rappresentata dal suo presidente, il poeta e critico letterario Lorenzo Spurio e dal segretario il poeta Elvio Angeletti.

Il nuovo reading poetico, che approderà nella città di Messina, è reso possibile grazie alla collaborazione e sostegno di numerose realtà culturali con le quali l’Associazione Euterpe intrattiene rapporti di stima reciproca condividendo finalità sociali e di diffusione della cultura analoghe. Tra di esse l’Associazione Siciliana Arte e Scienza (ASAS) di Messina presieduta dalla pittrice Flavia Vizzari, l’Associazione Culturale Caffè Convivio (CaLeCo) di Catagirone (CT), presieduta dalla poetessa Giusi Contrafatto, il Centro Studi “Maria Costa” di Messina, presieduto dal sig. Pippo Crea. Tra i vari media-partner figurano anche la Libreria Spazio Cultura di Palermo, il Caffè Letterario “S. Quasimodo” di Modica (RG) presieduto dal poeta e saggista prof. Domenico Pisana, la rivista culturale “Lu Papanzicu” di Ravanusa (AG), il Salotto Culturale H2 Donna di Gioiosa Marea (ME), presieduto da Giuliana Scaffidi, i blog letterari e culturali di Luigi Pio Carmina ed Emanuele Marcuccio.

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Amplissima la partecipazione dei poeti che interverranno per dar lettura ai propri componimenti, che giungeranno non solo da Messina e provincia, ma da varie parti della Sicilia e non solo. Al reading prenderanno parte i poeti (qui indicati in ordine alfabetico): Albano Giovanni, Amico Gianni, Anastasi Giuseppe, Angeletti Elvio, Asaro Domenico, Barcellona Giuseppe, Bono Angela, Carmina Luigi Pio, Cavaliere Nicola, Costa Pasquale, Costa Vittorio, De Cicco Rosa Filomena, De Marco Angelo, Di Pane Renato, Dottore Grazia, Faillaci Filippo, Greco Salvatore, Gulino Giovanni, Gusmano Calogero, La Rocca Angelo, La Spina Pierpaolo, Mantineo Gambadauro Rosaria, Marcuccio Emanuele, Milici Anna, Moreal Liliana, Morganti Privitera Maria, Oteri Caterina, Pajno Annamaria, Pedullà Nicoletta, Plutino Sebastiano, Rigano Francesco, Rizzo Mario, Sanguedolce Sebastiano, Schiera Antonino, Scimone Domenica, Seidita Antonella, Sidoti Giulia Maria, Spurio Lorenzo, Tocci Marilena, Vaira Marco.

Durante l’evento sarà inoltre presente l’artista performativo palermitano Toni Zanca (in arte “Acnaz”) con una realizzazione “a presa rapida”. L’arista si dedica a opere murales dove esprime l’arte concettuale non trascurando la bellezza e l’aspetto estetico. Nel 2017 a Roma ha partecipato al “Gau 2017” e a Centocelle è presente la realizzazione in urban art di una delle campane di raccolta vetro. Numerose le sue performance artistiche e applicazioni.

L’evento è liberamente aperto al pubblico.

 

Info:

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L’antologia benefica sul mar Adriatico mercoledì 23 maggio a Pesaro

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Mercoledì 23 maggio alle ore 16:30 presso la Biblioteca Comunale “S. Giovanni” di Pesaro si terrà la presentazione al pubblico del progetto antologico contenente poesie e racconti a tema “il mar Adriatico” ideato e voluto dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi e il cui ricavato andrà a sostenere l’Istituto Oncologico Marchigiano (IOM). Il volume, curato da Stefano Vignaroli, Lorenzo Spurio e Bogdana Trivak, è già stato presentato a Jesi, Senigallia, San Benedetto del Tronto e Roseto degli Abruzzi e nel corso del 2018 sarà in tour in varie città italiane e non solo. Ad ottobre, infatti, l’antologia sarà presentata anche a Pola (Croazia). Infatti al volume hanno preso parte poeti e scrittori dei due lembi dell’Adriatico e significativa è la presenza di autori balcanici e albanesi. Nella parte iniziale figurano le note di premessa di Stefano Vignaroli e Lorenzo Spurio nonché una breve dissertazione filosofica di Valtero Curzi.

Durante la presentazione del volume, con il Patrocinio del Comune di Pesaro e della Provincia di Pesaro-Urbino, si terrà anche un intervento di Alfredo Bussi (promotore territoriale e Vice Presidente dell’Associazione Culturale Kairòs di Pesaro) che vedrà come contenuti: “Giosuè Carducci, promotore delle Marche e dei “suoi mari”; “Marche Mediterranee: il caso Grottammare” e “Turismo odeporico nell’Adriatico”. Altri interventi, a cura dell’Associazione Culturale Euterpe, saranno fatti dalle Consigliere dell’Associazione Marinella Cimarelli e Alessandra Montali mentre la Consigliera Michela Tombi, poetessa, presterà la sua voce per la lettura di vari brani scelti dall’antologia, tra poesie e racconti.

 

Info:

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Pesaro accoglie i poeti e gli scrittori dell’Adriatico. L’incontro della Ass. Euterpe sabato 24 marzo all’Alexander

A seguire reading poetico dei dialetti della Provincia pesarese

Dopo i precedenti incontri tenutisi a Jesi, Senigallia e San Benedetto del Tronto, l’antologia benefica sul mar Adriatico promossa dall’Associazione Culturale Euterpe approda a Pesaro. Il nuovo incontro si terrà sabato 24 marzo alle 19 presso la sontuosa location del Salone degli Specchi del rinomato Alexander Museum Palace Hotel (Viale Trieste n°20) ospiti dell’anfitrione e polo culturale il conte Alessandro Nani Marcucci Pinoli.

Il volume antologico, curato da Stefano Vignaroli, Lorenzo Spurio e Bogdana Trivak, si compone di più di cento testi poetici e narrativi di autori italiani e stranieri con particolare attenzione a intellettuali dei paesi Balcanici. Spiccano anche testi di autori albanesi che da anni vivono in Italia tra cui la pluripremiata Irma Kurti, nonché Mardena Kelmendi e altri. L’Ambasciata della Repubblica di Albania a Roma, ritenuto di particolare valore l’intero progetto, ha concesso il suo patrocinio morale e segno distintivo. Stessa cosa è stata fatta da numerose amministrazioni locali (città, capoluoghi e province) che hanno riconosciuto il valore letterario e filantropico del progetto. I ricavi, infatti, andranno a sostenere l’Istituto Oncologico Marchigiano – sezione Jesi e Vallesina tanto che nel mese di Gennaio è stata già donata una prima consistente cifra (per i dettagli si rimanda al sito ufficiale della Associazione Culturale Euterpe: www.associazioneeuterpe.com)

L’Istituto Oncologico Marchigiano è nato nel 1996 con lo scopo di assistere gratuitamente a domicilio i pazienti oncologici e le loro famiglie in un momento di ampia difficoltà, soprattutto a livello psicologico. Grazie a un équipe specializzata fornisce assistenza 24 ore su 24. A completamento dell’assistenza prettamente medica offre un appoggio umano di gruppo per mezzo di volontari che vengono formati e istruiti per tale scopo.

La presentazione di Pesaro, introdotta dall’istrionico artista e poeta Alessandro Nani Marcucci Pinoli, vedrà gli interventi del poeta e critico letterario Lorenzo Spurio (Presidente Ass. Euterpe), dello scrittore Stefano Vignaroli (curatore del volume) e di alcuni membri del Consiglio Direttivo della Associazione tra cui Gioia Casale e Marinella Cimarelli. Le letture dei brani saranno eseguite dalla poetessa pesarese e consigliera Michela Tombi.

A latere si terrà un mini-reading tematico in dialetto avente per tematica il mare nelle sue varie accezioni. L’incontro, dal titolo “Sfumature dialettali in marine e poesie acquatiche” durante il quale prenderanno la parola alcuni dei maggiori dialetti della Provincia di Pesaro-Urbino appositamente invitati per l’occasione: l’urbinate di Germana Duca Ruggeri, il pesarese di Emilio Melchiorri, il fanese di Elvio Grilli e il marottese di Daniela Gregorini.

L’evento, liberamente aperto al pubblico, sarà seguito da una gustosa e sostanziosa cena a buffet al costo di 23,00€ per la quale è richiesta la prenotazione al numero: 0721-34441

 

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