N.E. 02/2024 – “Poesia e spiritualità: la ricerca interiore tra fede e laicità”, saggio di Maria Grazia Ferraris

….Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura….

(Giacomo Leopardi)

Cercando  le definizioni di “spiritualità” nei dizionari  ci si trova immersi in affermazioni nebulose, ripetitive, generiche che concordano solo nell’eliminazione degli aggettivi  qualificativi, quali – interiore, religiosa, cattolica, laica, naturale, orientale… – e insistono sul tema della ricerca  interiore, introspettiva, presente e costante  in ogni essere umano, a prescindere dalla sua cultura, dalla sua confessione religiosa, dal suo “status” di persona e di valori, tensioni e aspirazioni, che fanno a meno  dal credere nel “Trascendente”. Si ipotizza una ricerca individuale, attingendo all’esperienza, ma anche al patrimonio di conoscenze e sapienza della società nella quale viviamo.

La spiritualità si caratterizza allora attraverso la valorizzazione del quotidiano perché nulla di quanto si vive è ‘profano’: cambia invece la condizione vitale che differenziandosi determina modalità diverse nel vivere la vita. Questa dimensione interpretativa è strettamente unita alla poesia e alle sue manifestazioni.

La spiritualità della poesia si innesta nella spiritualità del singolo e della sua vita, è ricerca che ha come fine la realizzazione di se stesso, o l’autocompimento esistenziale, la maturazione dell’esistenza, nel dialogo con gli altri e all’incontro con la dimensione religiosa, metafisica.

La filosofia del Novecento, ha rivalutato la funzione della letteratura e quindi della poesia anche ai fini del pensiero, di una riflessione radicata sulla verità e le sue ragioni.

L’affinità tra linguaggio religioso-spirituale e linguaggio poetico si rivela nel loro dimorare nelle profondità dell’esperienza umana, rasentando i confini del dicibile. La poesia restituisce, con assoluta evidenza, la complessità della vicenda umana alla ricerca dell’anima, del divino, in virtù di uno sguardo orientato oltre la successione del tempo e del visibile; uno sguardo che attraversa il silenzio, per attingere alla fonte della vita della parola.

Moltissimi i poeti che si sono espressi e confrontati sul tema. La spiritualità è il contatto con la propria umanità. La parola poetica riesce a toccare il nocciolo della verità ed è proprio questa sua capacità unica, senza eguali, che trasforma l’arte in una forma di umanesimo spirituale e, attraverso le parole, ci mostra il vero volto spoglio, duraturo e nitido delle cose. La poesia è la vera “lampada d’oro” che illumina il cammino di molti lettori che si accostano al canto di sirene delle parole. Per alcuni Autori che hanno fatto la scelta di coincidenza di spiritualità con fede religiosa, la poesia trova la sua strada maestra. È il caso di David Maria Turoldo.

La ricerca inquieta di Dio, Tenebra luminosa, l’invito alla preghiera, la natura, sono riflesso di Lui. Questi temi si intersecano nella sua poesia in un suo costume espressivo costituzionalmente severo, essenziale, garante dei valori di fondo di matrice evangelica e garantiti in qualche modo in un Friuli dalla civiltà contadina in condizioni di necessità più che di libertà. Una preghiera la sua che è un soliloquio, ma anche un dialogo col cielo. I luoghi, le persone (casa, paese, fiume, la terra, la vigna…) acquistano “il di più” di significato e valore da superare, la funzionalità contingente: “che io possa ancora vedere / il sole che sorge / una nuvola d’oro, / Espero che riluce la sera / in un limpido cielo.” È sempre sottinteso il fondo storico-sociale nella sua arpa, ma come larga cornice, di sapore biblico, come possiamo constatare in Preghiera: “…salutare il giorno/ e dare speranza agli umili / e dire insieme la preghiera….”, pur consapevole che la poesia, oltre che preghiera, vuol essere  invito gioioso al canto:

Svegliati, mia arpa,

che voglio destare l’aurora:

cantare i silenzi dell’alba

chiamare le genti sulle porte,

e salutare il giorno:

e dare speranza agli umili

e dire insieme la preghiera

del pane che basti per oggi:

allora anche i poveri ne avranno d’avanzo.

Amen.

(Poesia “Preghiera”)

Oppure il caso di Clemente Rebora, in Frammenti lirici, che Silvio Ramat definiva poesia “metafisica”, come se l’io fosse in attesa di una rivelazione vaga e indefinita, eppure aperta nel mondo religioso, nell’ora “divina” che prima o poi giungerà confortante: -spazio e tempo sospeso-, come se l’universo si fosse fermato improvvisamente e in tale condizione rivelasse il suo profondo essere permettendo di comprendere appieno il suo esistere. Allora, con l’inno alla vita, che si esprime sotto forma di inquieto fremente monologo, si scoprirà la malia del vivere, la profusione del sentimento che annulla il fastidio ripetitivo del giorno qualunque, sconfinando attraverso i palpiti fecondi nella vita profonda dell’universo:

Divina l’ora quando per le membra

Lene va il sangue, e vivere è malìa:

Nel vero effusa la persona sembra

Luce nell’aria; e ignora come sia.

Da fonti aperte nasce il sentimento

Che d’ogni cosa fa ruscello, e intorno

D’amorosa bontà freme anche il lento

Fastidio ch’erra nell’usato giorno.

Onde sconfina l’attimo irraggiato

Nel vasto palpitar che lo feconda,

E scopre il senso intenso in ciascun lato

dell’universo una vita profonda.

(Dalla poesia “Divina l’ora quando per le membra”)

La spiritualità laica o naturale che dir si voglia, attraversa il quotidiano, i nostri dubbi e limiti, come per Franco Loi in questa poesia carica di disincanto:

Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,

forse memoria siamo, un soffio d’aria,

ombra degli uomini che passano, i nostri parenti,

forse il ricordo d’una qualche vita perduta,

un tuono che da lontano ci richiama,

la forma che sarà di altra progenie…

Ma come facciamo pietà, quanto dolore,

e quanta vita se la porta il vento!

Andiamo senza sapere, cantando gli inni,

e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.

(Da Liber, 1988)

Loi medita sull’essere poeta oggi, sulle sue ambiguità e contraddizioni, sull’estraneità della poesia allo svagato mondo contemporaneo, sull’incertezza ed inquietudine che ne genera, coinvolgendoci nella malinconia del vivere.

Interessante ed originale l’itinerario compiuto dalle poetesse. Prima in assoluto mi sembra la poesia di Emily Dickinson, che ha un’anima grande, immensa, mai definibile una volta per tutte, perché rompe la quotidianità, le cornici, i quadri storici di riferimento che ogni critico si impegna a trovarle, inutilmente.  Sa immaginare la vita e la sua gioia, ma anche rasentare, frequentare l’assoluto, la “finita infinità”: il sovrumano, il divino, sa volare umilmente attenta nel suo giardino quotidiano, ma anche volare alto, più di un metafisico, sa vedere con occhi liberi: l’amore è assoluto, come la morte, come la poesia, “estatica nazione”.  Il quotidiano la sfiora, ma non la cattura, non l’impiglia, non la isola, non l’avvilisce. Lei sa uscire dalle sue strette, sa volare.

Non accostarti troppo alla dimora di una rosa:

se una brezza le preda

o rugiada le inonda

cadono con timore le sue mura.

E non voler legare la farfalla,

o scalare le sbarre dell’estasi:

garanzia della gioia

è il suo rischio perenne.

(c.1878)

E ancora: in se stessi bisogna cercare, camminare, scavare, unendo cuore e mente in un unico continente, inseguendo la bellezza, che “non ha causa”:

La bellezza non ha causa:/esiste.

Inseguila e sparisce.

Non inseguirla e appare.

Sai afferrare le crespe

Del prato quando il vento

Vi avvolge le sue dita?

Iddio provvederà

perché non ti riesca.

(c.186)

E conclude – le parole al minimo, lasciare parlare gli spazi bianchi – una lotta impari e improba ingaggiata con la forza della disperazione nei confronti della ultrapotente “parola”:

‘Ha una sua solitudine lo spazio

 solitudine il mare

e solitudine la morte- eppure

tutte queste son folla

in confronto a quel punto più profondo,

segretezza polare

che è un’anima al cospetto di se stessa –infinità finita 

Finita infinità.’

(c. 1695).

La più vicina al suo sentire mi sembra essere in Italia la poetessa milanese Antonia Pozzi, di cui ora è nota sia la storia umana che spirituale, rimanendo valido quello che di lei scriveva  la grande filologa Maria Corti: “Il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi”. Una vita brevissima, suicida a soli ventisei anni, ricca di interessi culturali, di incontri e di passioni contrastate, insopportabili nelle loro contraddizioni. Nel suo canzoniere, pubblicato postumo, vi è una continua ricerca dell’autenticità dell’esistenza nelle parole, e le parole della Pozzi, come ha scritto Montale, «sono asciutte e dure come i sassi», ridotte al «minimo di peso».

Tristezza di queste mie mani

troppo pesanti

per non aprire piaghe,

troppo leggere

per lasciare un’impronta.-

tristezza di questa mia bocca

che dice le stesse

parole tue

altre cose intendendo-

e questo è il modo

della più disperata

lontananza.

(PoesiaSfiducia”)

Eppure rimane il senso e il valore della ricerca, dell’approdo, la speranza di una risposta leggera e alla fine liberante:

[…] Ma giungerà una sera

a queste rive

l’anima liberata:

senza piegare i giunchi

senza muovere l’acqua o l’aria

salperà – con le case

dell’isola lontana,

per un’alta scogliera

di stelle – 

In Italia Alda Merini scrive poesie, specie religiose, che nascono dall’insistenza dolorosa e sincera sul tema dell’impossibilità per tutti di salvarsi dalle angosce…: “Quando l’angoscia spande il suo colore / dentro l’anima buia / come una pennellata di vendetta…”. L’angoscia è il senso refrattario di ciò che a noi è dovuto per diritto di vita. L’angoscia non nasce solo dalle frustrazioni che stimolano l’Es a procedere sul versante opposto a quello della follia. Il dualismo follia-ratio è un salto di qualità che viene molto spesso annullato dall’ambiente in cui si vive.… nel mio caso la poesia mi ha salvato la vita. Fatta a tentoni, fra mille burrasche e dimenticata da tutti… L’anima ha mille sentieri e soprattutto mille tentazioni nascoste. Se l’anima è franca, se ha conosciuto il valore e il peso della morte, conosce le radici della vita e sa che sono amare ma salutari. Non esiste una medicina né per l’anima né per il dolore, perché se il dolore è una vetta che sorge improvvisamente nel cuore, la morte cerca di renderlo eterno e di farne un languore umano. Ma la morte non è una nemica, è soltanto un grande filantropo che ama gli uomini e un grande filologo che conosce la natura delle parole. Ciò che vale nell’anima è la nudità…. L’anima ha la semplicità dell’acqua ed è la prima natura dell’uomo…”.

La raccolta Tu sei Pietro è del 1961. Nella chiusa della lirica Rinnovate ho per te, di questa raccolta, appare una straordinaria affermazione autobiografica: “Ché cristiana son io ma non ricordo/ dove e quando finì dentro il mio cuore/ tutto quel paganesimo ch’io vivo”. Nel 2002 ha pubblicato Magnificat da Frassinelli. Toccante e sincero il suo miserere:

Miserere di me,/ che sono caduta a terra/come una pietra di sogno.

Miserere di me, Signore,/ che sono un grumo di lacrime.

Miserere di me,/ che sono la tua pietà.

Mio figlio/ Grande quanto il cielo.

Mio figlio,/ che non è più vivo.

Miserere di me,/ o universo,

egli era la punta di uno spillo/l’ago supremo della mia paura.

Miserere di me/ Che sono morta con lui.

Miserere della mia grandezza,/miserere della mia stanchezza,

miserere della misericordia di Dio.

Ma il tema religioso non è mai frutto si sublimazione definitiva. Si sente infatti come “una piccola ape furibonda”, “una donna non addomesticabile”, costretta a dire la verità, pur essendo “piena di bugie”.

L’angoscia è di una puntualità incredibile: ha fatto un corso accelerato di storia e ti ripete sempre le stesse cose, non ha la minima fantasia. E se tu chiedi all’angoscia: Dov’è tuo fratello? L’angoscia ti risponde puntualmente: sono io il custode di mio fratello. E finalmente, dopo queste parole auliche, tu entri profondamente nella Bibbia e scrivi il Magnificat.”

Tra le poetesse contemporanee riserverei un posto privilegiato a Louise Glück, premio Nobel per la letteratura 2020. È straordinaria per la sua originalità poetica la raccolta che l’ha resa famosa anche in Italia: L’Iris selvatico, un libro complesso e denso che è un dialogo tra i fiori del giardino, il giardiniere e Dio. La Glück non è particolarmente credente, ma sa trasformare il  vissuto soggettivo in una ‘metafisica del quotidiano’, come in questa straordinaria dolorante severa e spoglia preghiera-confessione:

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo

esiliati dal cielo, creasti

una replica, un luogo in un certo senso

diverso dal cielo, essendo

pensato per dare una lezione: altrimenti

uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza

senza alternativa… Solo che

non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,

ci esaurimmo a vicenda. Seguirono

anni di oscurità; facemmo a turno

a lavorare il giardino, le prime lacrime

ci riempivano gli occhi quando la terra

si appannò di petali, qui

rosso scuro, là color carne…

Non pensavamo mai a te

che stavamo imparando a venerare.

Sapevamo solo che non era natura umana amare

solo ciò che restituisce amore.

(Poesia “Mattutino”)


Bibliografia

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Dickinson Emily, Tutte le poesie, “I Meridiani”, Mondadori, Milano, 1997

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Glück Louise, Ricette per l’inverno dal collettivo, traduzione di M. Bacigalupo, Il Saggiatore, 2022

Loi Franco, Liber, Garzanti, 1988

Loi Franco, Poesie scelte e breve nota bibliografica, a cura di Nelvia Di Monte, 2021

Merini Alda, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, a cura di Ambrogio Borsani, Mondadori, 2009

Merini Alda, Magnificat. Un incontro con Maria, Ed. Sperling & Kupfer

Merini Alda, Tu sei Pietro, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, Milano, 1962

Pozzi Antonia, Parole. Tutte le poesie, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Milano 2015

Pozzi Antonia, Poesia che mi guardi. La più ampia raccolta di poesie finora pubblicata e altri scritti, a cura di G. Bernabò e O. Dino, con approfondimenti critici, Luca Sossella Editore, Bologna 2010

Rebora Clemente, Frammenti lirici, 1913

Rebora Clemente, Frammenti lirici, a cura di G. Mussini, Interlinea, 2008

Turoldo David Maria, Dialogo tra cielo e terra, a cura di E. Gandolfi Negrini, Piemme, 2000

Turoldo David Maria, Diario dell’anima, San Paolo, 2003.

Turoldo David Maria, Il dramma è Dio: il divino la fede la poesia, Milano, BUR, 2002

Turoldo David Maria, Nel lucido buio. Ultimi versi e prose liriche, Milano, 2002



Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 01/2023 – “I libri: lo specchio dell’Io. Guido Morselli e l’ultimo romanzo “Dissipatio H.G.””. Saggio di Maria Grazia Ferraris

“Hegel ha sognato una realtà in sé per sé, io sognavo una realtà con me e per me.

Dove gli altri non hanno luogo, perché non ci sono” (G. Morselli.)

I libri rispecchiano sempre l’autore, qualsiasi sia il genere letterario in cui si inseriscono. Giustamente C. Pavese affermava: “Ogni autentico scrittore è splendidamente monotono, in quanto nelle sue pagine vige uno stampo ricorrente, una legge formale di fantasia, che trasforma il più diverso materiale in figure e in situazioni che sono sempre press’a poco le stesse.”

In modo esemplare questo avviene in un autore geniale come Guido Morselli[1]  che ne è autorevolmente consapevole (basta leggere le sue  prefazioni, i paratesti ai saggi e ai romanzi autoriali oltre che i suoi romanzi) in cui narratore e protagonista coincidono, facendo del narratore-protagonista, onnipresente nell’opera, il proprio alter-ego, in un dialogo dell’io con se stesso, che si costruisce  per mezzo della scrittura e la sfrutta mediandola, come un Giano bifronte, in una prospettiva drammaticamente solipsistica, dove l’autobiografia implicita non è solo solipsismo, ma io straripante, oggetto di una vera e propria narrazione che  assume una cifra del tutto particolare, di dialogo con personaggi scomparsi, specialmente nell’ultimo suo romanzo: Dissipatio H.G.( l’ultimo romanzo prima del suicidio dell’Autore). Tutta la produzione di Morselli del resto- dai saggi ai racconti, ai romanzi, al Diario- vanta una componente fortemente legata e condizionata al vissuto personale dell’autore varesino.

Dissipatio H.G. è un’opera originalmente e definitivamente autobiografica, che rispecchia l’Autore al punto tale che il suo protagonista, che parla in prima persona, finisce con l’indentificarsi con l’autore, e non lascia spazio a fraintendimenti.  È insieme una cronaca memorialistica e un denso resoconto di un passato incancellabile, fallimentare, che continua a riaffiorare ossessivamente.

Il romanzo  scritto tra il 1972 e ’73, ( Dissipatio Humani Generis, titolo desunto dal tardolatino  Giambico, è composto da 20 capitoli brevi  e composto nella forma di un quadernetto di appunti che occupano la durata di un mese (giugno)circa). Non ha trama. I vari personaggi vivono solo in correlazione con  l’autore. Non avendo genere non è etichettabile. È figlio di una mente alta e altra mai pacificamente catalogabile. Può essere questo il motivo principale  per il quale è stato clamorosamente rifiutato dagli editori, salvo essere ripetutamente omaggiato dopo la morte dell’Autore.

Due sono i tempi delle azioni. La prima è la scoperta che il mondo è vuoto dalla presenza degli umani, la seconda dalla scoperta devastante che il  vuoto dei altri è l’altra faccia del vuoto dentro il proprio io. In ognuno di questi tempi assisteremo al  tentativo del narratore di suicidarsi, il suicidio infatti, come per la storia umana di Morselli, è il centro dell’opera: “gli uomini ubbidiscono alla chiamata della morte. Io, per esempio, non ho ubbidito. Ero refrattario alle chiamate, evidentemente; virtù o viltà, sopravvivo” fa dire all’io narrante ancora indeciso.

Il protagonista di “Dissipatio H.G.”, uomo lucidissimo, ironico, ipocondriaco, e soprattutto ‘fobantropo’, attirato da un feroce solipsismo, decide-  già all’inizio del racconto-  di annegarsi in uno strano laghetto in fondo a una caverna, in montagna. Ma all’ultimo momento cambia idea e torna indietro. Il genere umano proprio in quel breve intervallo, è scomparso, volatilizzato. Per il resto tutto è rimasto intatto.

Così paradossalmente l’umanità è ora rappresentata da un singolo che era sul punto di abbandonarla e che comunque non si sente adatto a rappresentare alcunché; neppure a tratti se stesso.

La volontà di suicidio del protagonista  che desidera annegarsi in un laghetto è fortemente sociale ed è legata alla collettività, perché a sparire non sarà lui, che cambierà idea e non si getterà nel lago, ma l’intera umanità che evapora nel nulla, mentre lui rimane l’ultimo essere umano presente sulla faccia della terra, trovandosi un mondo silenziosamente mutato, senza nessun evento catastrofico. L’uomo che voleva morire è l’unico a sopravvivere.

È l’elaborazione narrativa di una fantasia di angoscia- la scomparsa del genere umano- “ Io sono ormai l’Umanità, io sono la Società”.. Nessuno dispone di me, io dispongo di tutto. ..Non c’è più che l’Io, e l’Io non è più che mio. Sono io.”

Morselli espone ed indaga  la triplice liberazione: dall’uomo, dal tempo e dalla proprietà. La scomparsa dell’uomo dalla faccia della terra si trascina dietro la scomparsa del concetto del tempo (chiaro elemento soggettivo) e della proprietà, con conseguente fine delle guerre e delle distruzioni. Cosa resta dunque dopo la scomparsa del genere umano? Rimane una natura che riavrà finalmente se stessa. La fine dell’uomo non è affatto la fine del mondo.

“La fine del mondo? Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi. […] Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro.”

Le caratteristiche del protagonista sono quelle di Morselli-uomo. Ama la solitudine, è in fuga da se stesso e dagli altri, vive, ecologista ante-litteram, appartato e solo  in una dimora alpina nel cuore privilegiato dei luoghi morselliani, la Svizzera, di cui pur disprezza l’opulenza borghese e i suoi rituali perbenistici, incapace di voli pindarici fantastici e dell’illusione del meraviglioso, consapevole  del suo lucido raziocinare nichilistico, autoironico, ma condannato alla mediocrità.

Comincia allora un appassionante monologo, sullo sfondo della solitudine assoluta e di un silenzio rotto soltanto da qualche voce di animale o dal ronzio di macchine che continuano a funzionare. Ed è un monologo che presto si trasforma in un dialogo con tutti i morti, tenuto da un unico vivo che a momenti pensa di essere anch’egli morto.

Riaffiorano spezzoni di ricordi, particolari sepolti riemergono come decisivi e, mentre i pensieri si affollano, cerca dappertutto un qualche altro sopravvissuto, vaga tra luoghi odiati e amati, tra le sue montagne e Crisopoli (chiaramente Zurigo). Tutto è uguale, eppure tutto è per sempre trasformato.

“Eppure  il  silenzio  gravava  e  io  lo  registravo  con  un  senso  diverso  da  quello  uditivo, forse  emozionale,  forse  riflesso  e  ragionante. Ciò  che  fa  il  silenzio  e  il  suo  contrario,  in  ultima  analisi  è  la  presenza umana,  gradita  o  sgradita;  e  la  sua  mancanza.  Nulla  le  sostituisce,  in questo  loro  effetto. E il  silenzio  da  assenza  umana,  mi  accorgevo, è  un  silenzio  che non scorre. Si  accumula.” Una summa di sé. Una continua ricerca e  ridefinizione che il narratore dà di se stesso e della relazione con gli altri che non ci sono più. “ Il pensiero  è stato quasi sempre solitario, fine a se stesso, asociale. Secreto da monadi senza finestre, o che non si curavano di mettersi alla finestra. L’idolatria della comunicazione era un vizio recente. E  la società, dopotutto,era semplicemente una cattiva abitudine”.

Non può comunicare, solo scrivere. Scrivere è diventato nella struttura che regge il romanzo la unica comunicazione con il proprio sé:  l’altro non esiste nel romanzo, come non è presente nella vita dell’autore.

“Lo faccio, e sono contento di farlo, soltanto per me. Io sono il destinatario, non il provvisorio consegnatario.” Lo spazio di scrittura quindi è senza interlocutori, come è avvenuto del resto nella vita di Morselli, in attesa di essere riconosciuto come romanziere, scrittore, l’unico superstite che attende che qualche fantasma si renda visibile.

 Eppure Morselli sa per esperienza  che narrare è una finzione, un falso, e che ormai non è rimasto più niente da narrare…, è consapevole che tutto ciò che un narratore narra non sono altro che preconcetti,  le proprie ubbie, le proprie emozioni, i propri ricordi, perché «l’esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza». “Oggi noi non possiamo narrare che tutto ciò che ci è «vicino» e quindi incomprensibile; ciò che è «lontano» ormai non fa più parte del demanio del «romanzo» è desiderio irrealizzabile.”

Morselli ci fa attraversare con mirabile sottigliezza tutte le reazioni del sopravvissuto, che vanno da una sinistra ironia e, quasi, euforia, alla «superbia solipsistica», finché a poco a poco si fa strada in lui la paura, un’angoscia senza confini.

“Io sopravvivo. Dunque sono stato prescelto, o sono stato escluso. Niente caso: volontà. Che spetta a me  interpretare, questo  sì. Concluderò che sono il  prescelto, se suppongo che nella notte del 2 giugno  l’umanità ha meritato di finire, e la dissipatio è stata un castigo. Concluderò che sono l’escluso se  suppongo che è stata un mistero glorioso, assunzione all’empireo, angelicazione della Specie, eccetera. È un’alternativa assoluta, ma mi si concede di scegliere. Io, l’eletto o il  dannato. Con la curiosa  caratteristica che sta in me eleggermi o dannarmi. E bisognerà che mi decida.”

“La memoria involontaria non ha altro, e questi ricordi vi fluttuano insistenti e vaghi. Relitti inconsistenti, e ormai reliquie. Un lungo panico, in principio. E poi, ma tramontata subito, incredulità, e poi di nuovo paura. Adesso l’adattamento.”

“Se c’è stata l’umanità e ora ci sono io, solo io, decido di assumermi i compiti che ‘loro’ hanno dovuto abbandonare. Che cosa facevano ‘loro’ in sostanza? Che cosa facevano? Beh, è abbastanza semplice: agivano in vista di utilità. Inoltre, ragionavano sulle cose che si vedevano intorno, o che credevano di vedersi dentro. Poi, le rappresentavano, parole, segni, suoni. Altro non facevano. Sarò un riduttivo (un semplificatore), ma ho idea di non avere tralasciato nulla. Continuarli, o sostituirli, non è un’impresa da farmi tremare, non farebbe tremare nessuno. In fin dei conti non avevano troppe pretese, né ambizioni”.

E, mentre il delirio corrompe ogni residua certezza, il protagonista si abbandona a cercare le improbabili tracce di un amico dimenticato, unico ricordo di rapporto reale che gli resti della sua vita precedente.

C’è qualcosa di disperato e, insieme di sereno in queste pagine, fra le più belle di tutto Morselli – e certo le sole in cui accetti di far trasparire la sua dura pena personale. E c’è, alla fine, una grande immagine in cui convivono, pacificati, tutto e il contrario di tutto: nelle strade deserte di Crisopoli-Zurigo, coperte ormai da uno strato leggero di terriccio, crescono piantine selvatiche. Nel Mercato dei Mercati spuntano, ignari, i ranuncoli e la cicoria. E l’ultimo uomo, che già era stato del tutto solitario fra gli uomini, siede e aspetta.

“Fatemi morire, nel bene o nel male li devo raggiungere. Non ero diverso da loro, mi assomigliavano tutti. Ignoranza e superbia incluse”. Dichiara il disagio personale del non-riconoscimento, del vuoto:

“È che sono solo. Il mondo sono io, e io sono stanco di questo mondo, di questo io”.

Il finale di questa opera colpisce profondamente, concentrato in una visione idillica e disperata contemporaneamente: “ Rivoli  d’acqua  piovana  (saranno  guasti  gli  scoli nella  parte  alta  della  città)  confluiscono  nel  viale,  e  hanno  steso sull’asfalto,  giorno  dopo  giorno,  uno  strato  leggero  di  terriccio.  Poco più di un  velo,  eppure  qualche  cosa  verdeggia  e  cresce,  e  non  la  solita erbetta  municipale;  sono  piantine  selvatiche. Il mercato dei Mercati si cambierà in campagna. Con i ranuncoli, la cicoria in fiore. In tasca tengo, per lui,(l’amico Karpinsky, di cui prova nostalgia, l’unico che rimpiange)  un pacchetto di gauloises”

BIBLIOGRAFIA

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[1] Morselli  (Guido), scrittore italiano (Bologna 1912 – Varese 1973). Trascurato in vita dall’attenzione degli editori, riuscì a pubblicare solo due saggi, Proust o del sentimento(1943) e Realismo e fantasia (1947); mentre, dopo la tragica morte per suicidio, scoppiò il suo “caso letterario”, che lo segnalò come romanziere di lucida ironia e disincantata intelligenza. Tra i suoi romanzi, qui elencati secondo la data di pubblicazione, Roma senza papa (1974), Contro passato prossimo (1975), Divertimento 1889 (1975), Il comunista (1976), Dissipatio H. G. (1977), Un dramma borghese (1978). A essi va aggiunto, tra i saggi, Fede e critica (1977), imperniato sull’inconciliabilità fra la perfezione di Dio e il male nel mondo. Nel 1987 è apparso, a cura di G. Pontiggia, il suo Diario.

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